1. La crisi
capitalistica come “crisi generale” Alexander Höbel
La crisi capitalistica in corso ormai da diversi anni –
crisi economica ma anche sociale, politica e ideale – va connotandosi sempre di
più come una “crisi generale” del sistema1. Affiancandosi a una degradazione
costante dell’ambiente e del clima, frutto degli stessi meccanismi economici,
essa si delinea ormai come una vera e propria “crisi di civiltà”, con rischi
molto pesanti per i popoli e per l’umanità intera 2. Per il geografo marxista
David Harvey, sono molte le contraddizioni strutturali che rendono necessario e
possibile andare oltre il capitalismo, sulla base di un “umanesimo
rivoluzionario” che “unifica il Marx del Capitale con quello dei Manoscritti
economici e filosofici del 1844”3. Dal canto suo Thomas Piketty, pur muovendo da presupposti
non marxisti, ha confermato con una notevole mole di dati che negli ultimi
decenni le diseguaglianze di reddito e nella distribuzione delle ricchezze si
sono enormemente ampliate4. Ne risulta dunque smentita la tesi, propria anche
di diversi premi Nobel per l’economia, di una tendenza alla “convergenza” dei
redditi frutto dei meccanismi del mercato; al contrario, è ampliamente
confermata l’analisi di Marx sul capitalismo come sistema polarizzante, ossia
come sistema che tende ad allargare le differenze sul piano economico e
sociale, ponendo sempre di più ristrette e potentissime oligarchie – la “classe
capitalistica transnazionale”5 – in contraddizione violenta con gli
interessi e la vita di masse sterminate di donne e uomini.
In Europa il decentramento della produzione e lo
smantellamento di gran parte dell’apparato industriale, avviati negli anni ’80,
hanno frammentato la classe operaia – alla quale intanto si sono aggiunti
strati sempre più vasti di tecnici, informatici, “lavoratori della conoscenza”
ecc. – rendendo estremamente difficile l’organizzazione dei lavoratori sul
piano sindacale e politico, e più in generale rendendo la maggior parte dei
paesi europei più poveri, più deboli e meno autonomi nel mercato mondiale.
Questo declino dell’autonomia e sovranità nazionale si è
accentuato col processo di unificazione monetaria europea e col Trattato di
Maastricht (1992). La centralizzazione della sola politica monetaria, mentre ha
imposto seri vincoli all’iniziativa politica di governi e Stati, colpendo il
meccanismo keynesiano fondato sulla spesa pubblica (fino a renderlo addirittura
“illegale”)6 e contribuendo alla distruzione dello Stato sociale, ha
provocato una perdita di sovranità che non si è accompagnata a nessuna vera
unificazione politica, nemmeno sul piano delle politiche economiche o fiscali.
L’impatto sull’Italia, come per tutti i paesi deboli dell’Unione europea, è
stato tra i più pesanti7. Ma in generale è l’intero continente – come ha argomentato
Vladimiro Giacché – a essere ormai avviato sulla rotta del Titanic; e
l’applicazione ai paesi dell’Europa meridionale di ricette simili a quelle
usate verso la ex Ddr dopo la riunificazione tedesca così osannata dai media
lascia presagire risultati altrettanto catastrofici8.
L’indebolimento degli Stati nazionali (sui quali aveva
inciso positivamente il compromesso sociale del 1945-75) ha dunque coinciso con
la crisi del Welfare, e la retorica anti-statuale – forte anche a sinistra, tra
movimentismo “libertario” e culto della “società civile” – ha favorito questo
processo. Molti paesi, anche delle aree centrali del sistema, sono ormai in una
condizione “semi-coloniale” rispetto al grande capitale transnazionale, con
margini di autonomia e sovranità (sovranità nazionale e sovranità popolare)
sempre più ridotti9.
2. Il contesto
italiano, la crisi democratica, la necessità di un Partito comunista adeguato
ai tempi
In Italia questi fenomeni sono particolarmente gravi, e si
accompagnano a una disoccupazione di massa, alla diffusissima precarizzazione
del lavoro, al fenomeno del lavoro gratuito (molto forte ad esempio tra i
lavoratori della conoscenza10), alla crescita del peso anche economico dei
poteri criminali.
Al tempo stesso c’è una crisi politica ormai conclamata, una
crisi della democrazia così grave che lo studioso inglese Colin Crouch proprio
guardando all’Italia ha coniato il termine “postdemocrazia”11. La crisi del
capitalismo democratico, insomma, è andata di pari passo col venir meno del
compromesso sociale keynesiano. Il Parlamento è sempre più ridotto a una
funzione di mera ratifica di decisioni prese altrove, e dalle province al
Senato si sostituisce l’elezione popolare con elezioni di secondo grado, tutte
giocate all’interno del “ceto politico”. Leggi elettorali truffaldine hanno
ridotto notevolmente la rappresentanza, per cui milioni di persone non hanno
più voce sul piano istituzionale, e ovviamente queste persone sono soprattutto
lavoratori, disoccupati e precari12.
Proprio l’Italia, dove è esistito il maggiore partito
comunista dell’Occidente nel quadro di una democrazia dei partiti radicata e
diffusa, la tendenza dominante è quella che va verso strutture politiche sempre
più personali o espressioni di gruppi ristretti, partiti azienda o partiti del
capo, in ogni caso cose che somigliano a dei “non partiti” ben più che alle
organizzazioni di massa che abbiamo conosciuto nel Novecento.
Questa crisi democratica, che non è solo del nostro paese,
impone ai comunisti di riprendere con forza e in modo nuovo la bandiera della
democrazia, riaffermando il suo senso più profondo, quello della partecipazione
di massa e del “potere del popolo”. La crisi del partito politico danneggia i
lavoratori, i subalterni, che nel secolo scorso proprio nel partito di massa
avevano trovato lo strumento essenziale della loro ascesa: è urgente dunque
lavorare per porre rimedio a un deficit di organizzazione e di rappresentanza
di cui si avverte tutta la gravità.
A fronte di una sinistra “assente” per subalternità
culturale e ansia di omologazione, va ricostruita un’autonomia ideale e
politica delle classi subalterne e del movimento dei lavoratori, e in questo
quadro degli stessi comunisti13. D’altra parte, lo spostamento al centro del
Partito democratico, l’idea inquietante di un “partito della nazione”, ma anche
il disagio e il malcontento diffuso nel “popolo di sinistra” e le prime
risposte che sono state date in queste settimane sul piano sociale e di massa,
dimostrano che una reazione positiva è necessaria e al tempo stesso possibile.
Certo, il problema non può essere risolto dai comunisti
soltanto. Bisogna contribuire a un vasto processo di ricomposizione del lavoro
salariato (tra lavoratori di vario tipo, stabili e precari, italiani e
immigrati, giovani e anziani, uomini e donne), e anche sul piano politico
occorre ricostruire un fronte ampio di classe, di forze popolari e di sinistra.
Tuttavia questo schieramento – per sua natura variegato e plurale – non può
identificarsi in un “partito-calderone”, che sarebbe destinato a diventare un
agglomerato di gruppi, “capi” e militanti impegnati in una lotta interna
costante, ma dovrebbe, appunto, connotarsi come un fronte di
organizzazioni diverse (oggi si parla molto di una nuova “coalizione”) capaci
di coordinare i loro sforzi.
In questo schieramento e in questo percorso, i comunisti non
possono essere solo una “tendenza culturale”. Sarebbe davvero paradossale se,
di fronte a una crisi capitalistica così grave, rimanessero disorganizzati,
frammentati, dispersi; o se affidassero le loro speranze a esponenti del ceto
politico di “centro-sinistra” pienamente corresponsabili del disastro attuale.
I comunisti hanno bisogno di una loro organizzazione per andare avanti nella
lotta, e oggi come in altre fasi della storia italiana il loro ruolo – quello
di prendere l’iniziativa senza isolarsi, ma al tempo stesso superando
attendismi ed esitazioni – è più che mai necessario. Come ha scritto Gianni
Fresu, “porre su basi nuove, in termini positivi e finalmente unitari, la
questione comunista nel nostro Paese” e lavorare alla costruzione di un più
vasto fronte della sinistra politica e sociale sono “due termini della stessa
azione”14.
In Italia peraltro è ancora viva la memoria del Pci e di ciò
che esso ha rappresentato, ed esiste ancora un “popolo comunista”, sia pure
disperso, deluso, disorientato. Vi sono poi nuove generazioni che non hanno
conosciuto quella esperienza, ma in qualche modo ne avvertono la mancanza, e
comunque mostrano una volontà di lotta evidente e istanze tendenzialmente
anticapitalistiche. Occorre dare qualche risposta a questa situazione, sapendo
che se non lo si farà in tempi brevi uno straordinario patrimonio di esperienze
e di elaborazione – che naturalmente va aggiornato e reso adeguato alla realtà
di oggi – rischia di andare disperso in modo definitivo.
Il Partito dei comunisti italiani, che ha cercato di tenere
vivo un legame di continuità con quella storia e con l’esperienza del comunismo
novecentesco nel suo insieme, consapevole di non essere sufficiente, di non
bastare da solo e così com’è, si è messo a disposizione di questo processo,
aderendo all’appello per la ricostruzione del Partito comunista. Il dibattito e
l’iniziativa politica per questo obiettivo, peraltro, sono in corso ormai da
qualche anno. E diversi passi sono stati fatti, nell’analisi del contesto e nel
definire l’obiettivo di “un partito di quadri e di militanti con influenza di
massa”15. È giunto il momento di dare un primo sbocco a questo percorso,
di ricostruire una presenza autonoma dei comunisti, unitaria, radicata tra i
lavoratori, in grado di darsi un profilo politico e teorico adeguato.
Ma c’è anche un altro motivo che rende necessario che anche
in Italia vi sia un partito comunista. Di fronte allo stato di crisi esistente,
va rilanciata l’idea di un’alternativa di sistema e occorrono risposte
radicali, che solo i comunisti possono dare. Va rimesso al centro del dibattito
pubblico il tema della proprietà dei mezzi di produzione; la nostra
Costituzione prevede la possibilità di esproprio di aziende private “che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni
di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, e la loro
gestione da parte dello Stato o anche di “comunità di lavoratori o di utenti”.
Forse è arrivato il momento di ricordarsi di questo articolo.
Un discorso simile vale per il problema del lavoro: di
fronte allo sviluppo straordinario dei mezzi di produzione, alla soluzione
capitalistica (disoccupazione di massa) dobbiamo tornare a contrapporre la
vecchia parola d’ordine dellavorare meno, lavorare tutti, ossia della riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Così come vanno
rivendicati un reddito di cittadinanza per i lavoratori precari, gli
“intermittenti”, nei periodi di non lavoro; un nuovo ruolo dello Stato
nell’economia e una programmazione democratica dell’economia che
rimetta al centro il problema del governo dello sviluppo, il “perché e cosa
produrre”; un grande piano pubblico di riassetto del territorio che crei lavoro
e impedisca i ricorrenti “disastri naturali” che colpiscono il nostro paese; il
rispetto fermo dell’articolo 11 della Costituzione, per il quale “l’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; la radicale
rimessa in discussione dei trattati europei; una politica di cooperazione e di
scambi economici ad ampio raggio, con una interlocuzione privilegiata coi paesi
mediterranei e coi Brics. Sono elementi di una piattaforma che molto
difficilmente una formazione di sinistra generica potrebbe portare avanti.
Occorre dunque difendere la sovranità nazionale e la
sovranità popolare, e al tempo stesso rilanciare l’internazionalismo. La stessa
crisi capitalistica, l’insostenibilità del sistema, ma soprattutto l’esistenza
di partiti comunisti, “fronti ampli” e anche di interi paesi che, in altri
continenti, stanno realizzando esperienze di grande importanza, ponendo al
centro proprio un nuovo rapporto tra Stato e mercato, non rinunciando alla
proprietà pubblica e al governo politico dello sviluppo, con risultati ben
diversi da quelli di un Occidente capitalistico in netto declino, danno anche a
noi – comunisti italiani che operiamo in un quadro di forte difficoltà – grande
fiducia in una possibilità di ripresa. Se ci sarà un esito positivo, dipende
anche da noi. Sostenere questo appello, dare ai comunisti un luogo di confronto
e azione comune per favorire il processo unitario, mi sembra un passo avanti
nella giusta direzione.
Note
1 Cfr. A. Minucci, La crisi generale tra economia e
politica. Una previsione di Marx e la realtà di oggi, Roma, Voland, 2008.
2 G. Chiesa, Invece della catastrofe. Perché costruire
un’alternativa è ormai indispensabile, Milano, Piemme, 2013.
3 D. Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del
capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 284.
4 T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani,
2014.
5 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe,
intervista a cura di P. Borgna, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 12 e passim.
6 Si veda il commento di V. Giacchè all’approvazione del
pareggio di bilancio in Costituzione: http://temi.repubblica.it/micromega-online/approvato-il-vincolo-di-bilancio-vladimiro-giacche-da-oggi-keynes-e-fuorilegge-impossibile-investire/.
7 M. Pivetti, Le strategie dell’integrazione europea e il
loro impatto sull’Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e
interesse nazionale, a cura di L. Paggi, Roma, Carocci, 2011, pp. 45-59.
8 V. Giacché, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno
raccontato, Roma, Aliberti, 2012; Id., Anschluss. L’Annessione. L’unificazione
della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013.
9 Si vedano le riflessioni dello storico L. Paggi in http://materialismostorico.blogspot.it/2014/10/il-progetto-americano-di-uneuropa-come.html; e
l’articolo di M. Porcaro, http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2013/3/19/32031-che-fare-delleuro/.
10 Tra questi ultimi è molto diffusa quella descritta da M.
Bascetta nel suo articolo Economia politica della promessa, “il manifesto”, 22
ottobre 2014.
11 C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.
12 P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza. La
privatizzazione della politica, Roma, manifestolibri, 2004.
13 D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello
spettacolo, guerra, Roma, Carocci, 2014.
14 G. Fresu, Due termini della stessa azione, http://www.ricostruirepc.it/due-termini-della-stessa-azione/.
15 Si veda il volume di O. Diliberto, V. Giacché, F. Sorini,
Ricostruire il partito comunista, appunti per una discussione, Macerata,
Edizioni Simple, 2011. Ma cfr. anche i nn. 1 e 2-3 del 2009 della rivista
“Marxismo Oggi” dedicati a La crisi del capitale e il ruolo dei comunisti.