- Può chi si schiera a favore della classe lavoratrice determinare un corto circuito tale da ostacolare lo stesso processo di emancipazione per cui si batte? Purtroppo sì. Come ripete insistentemente Marx, prendendosela con le lotte fallimentari dei suoi contemporanei, una cosa è essere depositari della volontà di cambiare le cose, un’altra è aver sviluppato la capacità di farlo.
Giovanni Mazzetti |
Nel corso del ristagno quarantennale che stiamo attraversando il
movimento ha ignorato questa differenza essenziale, commettendo un errore del
tutto analogo a quello dei precedenti rivolgimenti storici. Marx definisce
questo errore come un processo di “naturalizzazione” della propria condizione e
dei propri bisogni. E’ evidente, infatti, che se nei bisogni che si cerca di
soddisfare non c’è alcun problema, e cioè se le condizioni e il significato
della loro soddisfazione sono immediatamente intelligibili, la volontà così
com’è appare senz’altro un forza adeguata al perseguimento dello scopo. Uno sa
quello che vuole e come può ottenerlo, cosicché tutto si riduce ad un “fare”
corrispondente, e se le cose non vengono fatte ciò accade per la mancanza di
“una volontà politica” di agire. Se invece lo stesso prender corpo del bisogno
e le implicazioni della sua eventuale soddisfazione non sono immediatamente
trasparenti, perché conseguenza di
svolgimenti contraddittori dello sviluppo, che hanno fatto emergere condizioni nuove, che bisogna ancora imparare a metabolizzare, tutto cambia. Come sottolinea Marx nella III tesi su Feuerbach, la modificazione delle circostanze, che si vuole realizzare per soddisfare il bisogno, “coincide”, in questo caso, con un processo di autotrasformazione dell’individualità sociale che solo se interviene può renderla realizzabile.
svolgimenti contraddittori dello sviluppo, che hanno fatto emergere condizioni nuove, che bisogna ancora imparare a metabolizzare, tutto cambia. Come sottolinea Marx nella III tesi su Feuerbach, la modificazione delle circostanze, che si vuole realizzare per soddisfare il bisogno, “coincide”, in questo caso, con un processo di autotrasformazione dell’individualità sociale che solo se interviene può renderla realizzabile.
Il senso comune contro la storia
A partire dalla metà degli anni Settanta è iniziato un
processo di logoramento di un potere dei lavoratori che, nei due decenni
precedenti, era scaturito dalle lotte di classe (che si concretizzava nel pieno
impiego, in salari elevati e in condizioni di lavoro ragionevoli).
La conclusione di quel processo è oggi davanti ai nostri
occhi, col sopravvenire di una quasi totale impotenza dei lavoratori.
Parafrasando il Marx del Diciotto Brumaio, si può dire che “pare quasi che la
società sia tornata indietro oltre il suo punto di partenza; e infatti perché
la rivoluzione moderna seriamente riesca, essa deve innanzi tutto creare il
punto di partenza; e prepararne la situazione, le condizioni e i rapporti”
(Karl Marx, Il Diciotto Brumaio di
Luigi Bonaparte). In termini semplici, affinché le conquiste sociali si
consolidino è necessario che esse diano corpo ad una cultura, che le sostanzia
come manifestazione irrinunciabile di una nuova condizione umana e le ponga a
fondamento di una nuova formazione sociale.
La tesi che qui cercherò di sviluppare è che quando sono
iniziate le difficoltà del welfare, le precedenti conquiste hanno dimostrato di
non essersi affatto consolidate, fino al punto di rappresentare almeno
l’embrione di una nuova cultura. Alla prima fase di sgretolamento delle nuove
istituzioni è poi subentrata una vera e propria rotta, che ci costringe a
ricominciare dal punto di partenza, ciò che investe direttamente le forme della
lotta di classe. Per chiarire quanto sto cercando di dire prenderò spunto da un
articolo di Galli Della Loggia sul Corriere
della Sera del 17 gennaio 2010. Scrive Della Loggia, “la vulgata secondo la
quale la democrazia è tale perché riconosce eguale valore ai diritti politici e
ai diritti sociali – che però sarebbero in sostanza quelli del ‘lavoro’ – è
sbagliata. Questa equiparazione si presta a molte obiezioni: la più importante
è che mentre per essere riconosciuti ed esercitati i diritti politici
(eguaglianza di fronte alla legge, elettorato attivo e passivo, diritto alla
libertà personale, di parola, diritto di sciopero, ecc. ecc.) non necessitano
di alcun contesto esterno particolarmente favorevole, viceversa il godimento
dei diritti cosiddetti sociali e del lavoro in specie è perlopiù possibile solo
se vi è un contesto economico esterno favorevole … Non poggiano, né possono mai
poggiare su alcuna base solida definitiva”. Ora, a parte la stupidaggine di
sostenere che, per essere goduti, i diritti politici non avrebbero bisogno di
condizioni che permettano di esercitarli, sta di fatto che nella società è
senz’altro diffusa la convinzione che i diritti sociali dipendano dalla
“disponibilità di risorse”, e in periodi di “vacche magre” possano e debbano
essere drasticamente ridimensionati: il “nuovo Welfare” di cui molti
vagheggiano in evidente malafede.
Ciò che si cerca di reintrodurre con questa rappresentazione
è la convinzione che debba esserci una dipendenza dei diritti sociali dal
casuale procedere del processo riproduttivo. Se questo va bene “c’è trippa per
gatti”, se va male bisogna fare digiuno. Ma questa argomentazione poteva avere
un senso molto tempo fa, quando gli esseri umani non si erano ancora emancipati
da una totale subordinazione alla natura, mentre oggi i disordini riproduttivi
di cui soffriamo non sono in alcun modo collegati ai capricci della natura, e
si presentano piuttosto come fenomeni connessi all’inadeguatezza dei rapporti
sociali prevalenti (che includono quelli con la natura). La lenta conquista dei
diritti sociali, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – e qui è
dove Della Loggia sbaglia - è conseguita all’acquisizione di questa
consapevolezza.
Se le cose stessero nel modo indicato da Della Loggia, il
Welfare keynesiano non si distinguerebbe dallo Stato sociale bismarckiano, e
cioè nel corso del Novecento non ci sarebbe stato uno sviluppo economico e
sociale. Quello bismarckiano era, appunto, uno stato compassionevole che doveva
limitarsi a “soccorrere i poveri”. Il principio dell’azione pubblica era
caritatevole, e puntava solo a mitigare i fenomeni negativi, senza cercare di
spiegarli o di prevenirli. Come suol dirsi aveva un ruolo solo redistributivo.
Il keynesismo interviene su una base completamente diversa. Scrive infatti
Keynes nel 1933: “se la nostra povertà fosse dovuta a terremoti, carestie o
guerre – se ci mancassero i mezzi materiali e le risorse per produrli, non
potremmo sperare di trovare la via per la prosperità altrimenti che con il duro
lavoro, l’austerità e l’innovazione tecnologica. Tuttavia le nostre difficoltà
sono evidentemente d’altra natura. Scaturiscono da qualche fallimento nelle
costruzioni immateriali della mente, dal funzionamento dei motivi che
sottostanno alle decisioni e alle azioni volontarie che sono necessarie a
mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo” (John M.
Keynes, The means to prosperity).
Detto a chiare lettere, i rapporti capitalistici non sono più in grado, da
inizio Novecento, di mediare uno sviluppo e lasciano andare sprecata una
quantità enorme di risorse disponibili. Nel corso delle crisi e delle fasi di
ristagno “non è dunque ragionevole immaginare che la soluzione del problema
possa scaturire dall’azione individuale.” Non c’è cioè da aspettarsi che gli
individui siano in grado di elaborare una soluzione col loro approccio privato.
“E’ la comunità organizzata che deve trovare modi saggi per spendere ed avviare
il processo di sviluppo. Ecco perché”, scrive in conclusione, “pongo così tanto
l’accento sull’intervento pubblico”, che viene chiamato a svolgere un ruolo
produttivo (in L’assurdità dei
sacrifici, Manifestolibri).
All’epoca Keynes non fu ascoltato e ovunque, in Europa, si
procedette a drastici tagli della spesa pubblica e privata, che aggravarono
ulteriormente la situazione. Quando finalmente in piena guerra mondiale, nel 1942,
si cominciò a recepire il keynesismo (il New
Deal roosveltiano, come spiega bene Ester Fano, fu un’esperienza molto
confusa e contraddittoria) la base concettuale della politica economica fu
esattamente opposta rispetto a quella che, insieme al senso comune oggi
prevalente, Della Loggia propugna. Il suo fulcro stava nel riconoscimento del
fatto che i diritti sociali permettevano di godere coerentemente di un contesto
economico favorevole, mentre i tagli e i sacrifici non facevano altro che
aggravare la situazione. La loro soddisfazione era dunque necessaria, per
sostenere una razionale utilizzazione delle risorse esistenti e per mediare lo
sviluppo. Vediamo di che cosa si tratta.
Capire il nesso tra spesa e creazione di lavoro
Secondo Keynes la soddisfazione dei diritti sociali è
necessaria in quanto comporta una spesa. Infatti, a suo avviso, senza spesa il
rapporto tra i bisogni e l’attività produttiva non potrebbe instaurarsi e il
sistema precipiterebbe in un ristagno strutturale. Da questo punto di vista, il
keynesismo è stato ampiamente frainteso lungo due direttrici. Con la prima si è
vagamente convenuto che la disoccupazione costituisse un problema di domanda
aggregata, ma si è pensato anche che, poiché i bisogni sono inevitabilmente
destinati ad espandersi, l’inadeguatezza della domanda aggregata avrebbe
costituito solo un problema transitorio. Quello che possiamo considerare come
il senso comune prevalente in merito è stato ben espresso a suo tempo da
Luciano Lama, quando assunse la responsabilità della redazione del Programma
del PCI e, senza neppure saperlo, fece proprio la teoria dello spendi e
risparmia (stop and go) di Harrod: “se la tecnologia moderna risparmia lavoro
nella soddisfazione dei bisogni materiali di oggi,” sostenne, “non potrà
farlo altrettanto celermente per quelli di domani. I bisogni corrono sempre
davanti a noi, cambiano e si modificano man mano che quelli vecchi vengono
soddisfatti, per soddisfare i nuovi bisogni materiali, sociali e culturali,
occorrerà anche in futuro lavoro” (Luciano Lama, Sul programma del PCI).
Ora, che per soddisfare bisogni occorra sempre un’attività
produttiva è cosa ovvia e indiscutibile. Ma il sostenere che l’unica attività
produttiva immaginabile sia quella del lavoro salariato testimonia solo
dell’incapacità di prendere atto del nuovo nel quale, nei paesi sviluppati,
siamo immersi. Qui è dove ci vengono in aiuto le tesi critiche sia di Marx che
di Keynes: il lavoro salariato è stato un rapporto produttivo, cioè favorevole allo
sviluppo delle capacità umane solo fintanto che ha dominato la penuria. Non
appena la società ha cominciato a godere di una condizione materiale di
relativa abbondanza, quel rapporto è diventato contraddittorio e non può più
espandersi senza determinare effetti distruttivi. Quando Marx nei Grundrisse sostiene
che, al sopravvenire dell’abbondanza, “la produzione basata sul valore di
scambio crolla” si riferisce proprio ad una situazione nella quale lo sviluppo
delle capacità umane ha raggiunto un livello talmente elevato, da sfociare
nella “scomparsa delle differenze di classe” (Il manifesto). Ma la scomparsa
delle differenze di classe non comporta anche un automatico superamento delle
relazioni di classe. Queste relazioni possono infatti continuare a trascinarsi
inerzialmente ed anacronisticamente nel nuovo contesto, determinando un
impoverimento non necessario e impedendo uno sviluppo alternativo.
Quando i rapporti di classe rendono ciechi
Non entrerò in questa sede nel merito del perché ciò accada.
Mi limiterò solo a sottolineare che si tratta di un fenomeno ampiamente
comprovato, visto che la disoccupazione media nei paesi dell’Unione Europea
negli ultimitrent’anni si è attestata strutturalmente attorno al 10/15%. Mi
soffermerò invece brevemente sulle ragioni che spiegano perché le forze
critiche dei rapporti dominanti sembrano incapaci di accettare il sopravvenire
di questo fenomeno.
Come dicevo all’inizio, una tendenza prevalente
nell’evoluzione sociale è quella di naturalizzare i rapporti nei quali gli
individui si trovano di volta in volta immersi. Keynes descrive in maniera
colorita la difficoltà che noi, suoi nipoti, preda del “vecchio Adamo”, avremmo
avuto nel prendere atto che l’innovazione tecnologica avrebbe ben presto
attuato un continuo risparmio di lavoro tale da sopravanzare la capacità di
creare lavoro salariato sostitutivo in misura adeguata (John M. Keynes, Prospettive
economiche per i nostri nipoti). Facendoci precipitare in una situazione con la
quale non avremmo saputo far subito i conti. A suo avviso né la persona
ordinaria né i leader politica sarebbero stati, infatti, in grado di concepire
una situazione nella quale la riproduzione del rapporto di lavoro salariato si
sarebbe scontrata con difficoltà strutturali a causa dell’abbondanza. Questo
anche se la disoccupazione e la precarietà dilaganti avrebbero dimostrato il
contrario. Ciò ci porta alla seconda direttrice di fraintendimento delle
conquiste keynesiane. Se si crede, come molti fanno a sinistra, che la
disoccupazione sia spiegabile con “un dato strutturale abbastanza chiaro, e
cioè che siamo davanti ad uno scenario futuro dominato dalla scarsità delle
risorse”, una scarsità che vincolerebbe le nostre possibilità di scelta, si
finisce col praticare il conflitto di classe nelle forme proprie
dell’Ottocento, quando esso investiva la spartizione del necessario, che era
insufficiente per soddisfare i bisogni.
Con questo errore si resta enormemente indietro rispetto
alle conquiste rese possibili dal keynesismo, che sono molto più rivoluzionarie
delle idee di molti politici radicali di oggi. La tesi di Keynes è infatti
molto chiara: i bisogni ci sono, così come le risorse per soddisfarli, ma la
forma capitalistica dell’organizzazione sociale impedisce di dare ai primi una
veste sociale efficace e di percepire l’esistenza delle seconde. Lo stato può
favorire l’uso di quelle risorse attraverso la spesa pubblica, ma solo fintanto
che si tratta di provvedere al soddisfacimento dei grandi bisogni sociali. Nel
giro di due o tre generazioni, però, anche questa soluzione mostrerà i suoi
limiti, perché l’espansione della ricchezza disponibile avrà nel frattempo
rivoluzionato il mondo.
Se questa previsione ha trovato conferma, come io credo, è
sbagliato puntare a “rovesciare il rapporto di forza tra le classi sociali”.
Bisogna piuttosto agire in maniera tale da “preparare la situazione, le
condizioni e i rapporti” corrispondenti al superamento della divisione della
società in classi. Sfrondato del misticismo politico nel quale è stato sin qui
avvolto, questo obiettivo può essere l’unico che permette di sperare e di
operare per un futuro migliore.