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Buon compleanno al Manifesto di Marx e Engels

  • Il 21 febbraio 1848 a Londra viene pubblicata la prima edizione del "Manifesto del partito comunista" di Marx e Engels. Nel fare gli auguri di buon compleanno vi proponiamo l'introduzione di David Harvey all'edizione americana del 2008
Estatua de Marx y Engels
en el Parque Fuxing,
Shanghai, China
David Harvey  |  Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?

Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo.

Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”. Ci troviamo
certamente, come nel 2008, nel mezzo di uno di quelle periodiche crisi commerciali “che sottopongono a processo”, come nota ilManifesto, “ogni volta più minacciosamente l’esistenza dell’intera società borghese”. E le rivolte del cibo scoppiano dappertutto, in particolare in molte nazioni povere, con l’innalzamento incontrollato dei prezzi del cibo. Dunque le condizioni sembrano propizie per una rivalutazione della pertinenza del Manifesto. E’ interessante come una sua modesta proposta di riforma – la centralizzazione del credito nelle mani dello stato – sembra essere sulla buona strada per la sua realizzazione, grazie alle azioni collettive della Riserva Federale statunitense (FED), della Banca Centrale Europea (BCE), e delle banche centrali delle altre principali potenze capitaliste, nel salvataggio del sistema finanziario mondiale (i britannici finirono col nazionalizzare la loro principale banca in difficoltà, la Northern Rock). Dunque perché non impegnare altre proposte ugualmente modeste ma del tutto ragionevoli – come l’educazione gratuita (e di qualità) per tutti i bambini nelle scuole pubbliche, la parità di diritti e doveri per tutti i lavori, e una pesante e progressiva o graduata imposta sul reddito per sbarazzarci delle spaventose diseguaglianze sociali ed economiche che oggi ci circondano? E forse, se seguissimo la proposta di frenare l’eredità della ricchezza personale, allora potremmo prestare molta più attenzione all’eredità collettiva che trasmettiamo ai nostri figli in un’esistenza e un ambiente di lavoro decente così come una natura che mantenga sia la sua fecondità sia il suo fascino.

Dunque consideriamo questo testo, modellato nei tetri giorni del gennaio 1848 a Bruxelles e concentriamo il suo sguardo più largo sopra la nostra situazione effettivamente esistente a Londra e Leeds, Los Angeles e New Orleans, Shanghai e Shenzhen, Buenos Aires e Cordoba, Johannesburg e Durban… Eccomi in una New York illuminata il 31 gennaio 2008 – quasi 160 anni dal giorno in cui Marx pose gli ultimi tocchi al Manifesto – seduto per scrivere una nuova introduzione a questo testo ben rilegato. Lo faccio sapendo che ci sono molte altre passate e presenti splendide introduzioni in giro. Ma troppe introduzioni recenti a mio parere vedono il Manifesto solamente come un documento storico il cui tempo è passato, la cui visione fu difettosa o almeno profondamente discutibile, da farlo irrilevante rispetto ai nostri tempi più complicati se non sofisticati. Il meglio che possiamo fare, se non cavillare sulle ovvie omissioni del testo ed i suoi ugualmente ovvi elementi superati rispetto a quello che è oggi considerato politicamente corretto, è ammirare la prosa, annotare i riferimenti, tracciare le influenze incapsulate e progettate, e seppellire il messaggio politico centrale sotto un lenzuolo di malinconica nostalgia di sinistra oppure sotto una massa di note accademiche. Il collasso post-1989 dei comunismi effettivamente esistenti e la conversione dei partiti comunisti che rimangono al potere, come in Cina e in Bengala Occidentale, in agenti di uno spietato capitalismo sfruttatore, hanno in effetti gettato una cappa pesante sopra la tradizione politica generata dal Manifesto. Chi ha bisogno di un manifesto comunista dopo tutta questa storia gravata?

Ma guardatevi intorno, cosa vediamo? Qui a New York i premi di Wall Street sono appena stati distribuiti – un niente male 33,2 miliardi di dollari (solo poco meno dell’anno precedente) per i banchieri d’investimento che hanno pasticciato il sistema finanziario mondiale e accumulato perdite finanziarie stimate almeno a 200 miliardi di dollari e crescenti di giorno in giorno (alcuni, come il Fondo Monetario Internazionale, dicono che supererà i mille miliardi di dollari prima che tutto sarà passato). Quando i banchieri (nomi venerabili come Merrill Lynch, Citicorp e l’ora defunto Bear Sterns) si confrontarono con le proprie difficoltà nell’estate del 2007, le banche centrali mondiali (guidate dalla FED) si affrettarono a distribuire massicci crediti a breve termine e poi tagliato i tassi d’interesse per salvarle. Nel frattempo all’origine del problema si trova la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti nella quale quasi 2 milioni di persone hanno già perso per pignoramento le loro case (con molti altri in attesa) senza nessun aiuto imminente (a parte alcuni gesti di supporto tardivi e in gran parte simbolici da parte del parlamento e alcuni cerotti dalle istituzioni finanziarie e dai governi locali comprensibilmente interessati). I pignoramenti iniziali furono pesantemente concentrati tra gli afroamericani a basso reddito e le donne (in particolare singles) nei settori più poveri delle città statunitensi dove lasciano una scia di case sbarrate e vandalizzate in quartieri totalmente devastati. Comincia ad apparire come se una “Katrina finanziaria” abbia tempestato più città negli Stati Uniti. La società del “troppo”, della “sovrapproduzione” e della speculazione eccessiva, è palesemente crollata e regredita, come sempre accade, a “uno stato di barbarie momentaneo”. Alcuni dirigenti corporativi che ci hanno innovato in questa confusione hanno perso il lavoro. Ma non hanno dovuto rimborsare nulla dei molti milioni che hanno guadagnato negli anni felici e alcuni hanno ricevuto incredibilmente generose strette di mano dorate alle dimissioni – 161 milioni di dollari per Stan O’Neal di Merrill Lynch e 40 milioni per Charles Prince di Citicorp (il dirigente della fallita banca britannica Northern Rock partì con 750 mila sterline). Gli sfrattati ricevono soltanto una tassa aggiuntiva, perché il perdono del debito è valutato come reddito. E per aggiungere l’insulto alla ferita di classe, quelle aziende e quegli avvocati impiegati nel “mulino dei pignoramenti”, come viene oggi chiamato, stanno raccogliendo i maggiori profitti. Chi ha detto che le differenze di classe (ben intrecciate, come troppo spesso accade, con l’etnia e il genere) sono irrilevanti alla socievolezza dei nostri tempi postmoderni?

Questo è ciò che rende una lettura contemporanea del Manifesto così sorprendente, perché il mondo che il Manifesto descrive non è affatto scomparso. Non viviamo dopo tutto in un mondo turbo-capitalista in cui l'avidità, l'egoismo, l'individualismo competitivo e la brama di saccheggiare per ogni profitto a breve termine indipendentemente di chi o che cosa va a scapito, ci circonda ad ogni svolta? Il capitalismo, notano Marx ed Engels, "non può esistere senza rivoluzionare perpetuamente gli strumenti della produzione, e in tal modo le relazioni di produzione, e con loro le intere relazioni sociali" (incluse quelle del consumo). Il risultante perpetuo “disturbo ininterrotto delle condizioni sociali”, accompagnato dalla “costante incertezza e agitazione”, genera un'incredibile volatilità nelle fortune economiche personali e locali (per non parlare delle crisi finanziarie endemiche e le oscillazioni vertiginose nei valori azionari). Con i salari "sempre più fluttuanti" e i mezzi di sostentamento "sempre più precari", il proliferare delle insicurezze personali (riguardo al lavoro, prestazione sociale, pensioni) e le ansie collettive (riguardo agli altri che sembrano minacciarci), la militanza contro il trattamento civilizzato degli immigrati, dei dissidenti e di tutti coloro che appaiono o si comportano in modo diverso. Non c’è da stupirsi che il "tutto è solido" sembra perpetuamente "sciogliersi nell'aria". E non è forse vero che il potere pervasivo e l'influenza del capitale multinazionale continua a spogliare "del suo alone ogni occupazione" finora affidabile di dirci la verità - "il fisico, l'avvocato, il prete, il poeta, lo scienziato" come anche i professori, gli esperti e i guru mediatici senza parlare di tutti quei politici comprati che eseguono gli ordini degli interessi dei ricchi? Non è forse triste notare quanto di ciò che chiamiamo cultura è "un mero addestramento per agire" (o attaccarsi a) "una macchina" (o nei nostri tempi ad un dispositivo elettronico), e che la famiglia, sostenuta dai sentimentalisti come la roccia viva della società civilizzata, sia "ridotta a mera relazione monetaria", anche quando non è impantanata in miriadi di ipocrisie? Non ci sentiamo noi stessi più che un poco alienati in un mondo in cui "nessun altro nesso tra uomo e uomo" esiste "tranne il nudo interesse personale, tranne l’insensibile pagamento in contanti", in cui le persone sono viste meramente come oggetti e beni nel mercato, e dove la maggior parte di noi lavora per creare la ricchezza di altri? Cosa possiamo dire di un mondo nel quale la maggior parte del lavoro ha "perso il suo fascino" e le relazioni di produzione sono diventate meramente "dispotiche", e dove tutti noi, dal bidello al banchiere, sono sempre più posizionati come mere appendici ad una accumulazione capitalista sempre più espansiva e costantemente in accelerazione, e che continua ciecamente per la sua strada senza la minima preoccupazione per le conseguenze sociali ed ambientali? Non rende forse perplessi che tutto ciò esiste nel mezzo della maggiore capacità produttiva, meravigliosa potenza di trasporto e comunicazione, e conoscenze tecniche-scientifiche che potrebbero sicuramente venir sfruttate per permettere una vita decente ed un futuro più sicuro per tutti? E non è forse, infine, profondamente preoccupante rendersi contro che la libertà promessa in continuazione dagli apologeti e politici significhi niente più che la libertà del mercato e delle sue scelte (dipendenti dalle capacità di pagare) abbinata con quella "libertà singola, eccessiva - il libero scambio"?

Il comunismo può venir dichiarato morto, ma un capitalismo violento, brutale, e perpetuamente rivoluzionario prospera ancora. Marx ed Engels nel Manifesto trovarono un modo brillante per rivelarci quel che il capitalismo era e fondamentalmente è, e come è apparso. Facendo così trovarono un linguaggio inspiratorio con il quale non solo resistere alle oppressioni di classe di un capitalismo inclinato alla distruzione creativa, ma anche illuminare la via per trasformare il capitalismo, con tutti i suoi risultato notevoli (risultati che Marx ed Engels riconobbero liberamente al loro tempo e come noi dobbiamo riconoscere ancora più nel nostro), in qualcosa di radicalmente differente e di gran lunga più umano. Dato il carattere di classe di questo sistema mostruoso, hanno anche fatto il passo chiaro, logico e ovvio di insistere che l'unico modo di impegnarsi in questo progetto trasformativo era di intraprendere una politica di lotta di classe. Nella misura in cui le circostanze del loro resoconto distopico sono state migliorate negli anni, e le condizioni che descrivono non riguardano pienamente, allora è alla grandiosa storia di resistenza popolare e lotta di classe dal 1848 a cui dobbiamo inginocchiarci.

Immaginiamo, inoltre, gli effetti violenti del riconoscimento con il quale i lavoratori delle acciaierie licenziati a Pittsburgh, Sheffield ed Essen, o gli un tempo solidamente impiegati lavoratori tessili nei mulini di Manchester, Mumbai, Mulhouse e South Carolina, avrebbero letto il seguente passaggio:
Tutte le industrie nazionali consolidate sono state distrutte o vengono distrutte quotidianamente. Vengono sostituite da nuove industrie, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civilizzate, dalle industrie che non lavorano più le materie prime locali, ma materie prime tratte dalle le zone più remote; industrie i cui prodotti vengono consumati non solo in casa ma in ogni parte del globo. Al posto dei vecchi desideri, soddisfatti dalla produzione del paese, troviamo nuovi desideri, il soddisfacimento dei quali abbisogna dei prodotti di terre e climi distanti. Al posto del vecchio isolamento e autosufficienza locale e nazionale, abbiamo rapporti in ogni direzione, interdipendenza universale delle nazioni...
La borghesia, per mezzo del rapido sviluppo di tutti gli strumenti produttivi, dell'immensa facilitazione dei mezzi di comunicazione, attira tutte le nazioni, anche le più barbariche, nella civilizzazione. Il basso costo dei beni sono l'artiglieria pesante con la quale abbatte tutte le Muraglie Cinesi, con la quale forza l'ostinato odio dei barbari per gli stranieri a capitolare. Costringe tutte le nazioni, sotto pena d'estinzione, ad adottare il modo di produzione borghese; le costringe ad introdurre quello che chiama la civilizzazione in mezzo a loro. In altre parole, di farle diventare loro stesse borghesi. In una parola, crea un mondo a sua immagine e somiglianza.

Oggigiorno naturalmente sono i beni della Cina che stanno abbattendo i nostri muri, mentre noi andiamo a fare acquisti nei negozi Wal-Mart (dove il "Made in China" predomina) per cercare di soddisfare tutti quei nuovi desideri per i prodotti tratti da terre e climi distanti. La descrizione preveggente del Manifesto di quel che ora chiamiamo globalizzazione (con i suoi affini di delocalizzazione e deindustrializzazione e interdipendenza globale) indica una certa continuità all'interno della geografia storica del capitalismo dal 1848 ad oggi. Nel frattempo gli stati-nazione, di fronte una crescente centralizzazione del potere capitalista corporativo e l'espansione delle popolazioni, diventano ancora più invischiati nelle regole del gioco capitalista attraverso accordi internazionali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio, il NAFTA e l'UE, spalleggiati da potenti istituzioni internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale). Queste forze tramano tutte ad abbattere le barriere commerciali e contemporaneamente consolidando una stato di diritto nella quale i diritti della proprietà privata e il saggio di profitto batte tutte le altre forme di diritti umani che uno può immaginarsi. La competizione tra stati e regioni industriali (Baviera, Silicon Valley, il delta del Pearl River, Bangalore) rinforzano la logica capitalista di sfruttamento e imprime valori capitalisti ed in questo periodo distintamente neoliberali, sempre più in fondo nelle nostre psiche. Con il fallimento di tutto ciò, le potenze degli stati imperialisti guida sono schierate a infliggere violentemente l'agenda corporativa (date un occhio alla costituzione imposta all'Iraq nelle prime fasi dell'occupazione statunitense) sul mondo. E affinché pensiamo che questa violenza è nuova o idiosincratica a George W. Bush ed il suo non-così allegro equipaggio di teorici neoconservatori disonorati, consideriamo ciò che quel archetipico liberale Presidente degli Stati Uniti Wilson ebbe da dire nel 1919:
“Siccome il commercio ignora i confini nazionali e il manifatturiere insiste ad avere il mondo come mercato, la bandiera della sua nazione deve seguirlo, e le porte delle nazioni che sono chiuse contro di lui devono venir abbattute. Le concessioni ottenute dai finanzieri devono essere salvaguardate dai ministri dello stato, anche se la sovranità delle nazioni riluttanti vengono violate nel processo. Le colonie devono venir ottenute o collocate, per far sì che nessun utile angolo della terra possa venir trascurato o lasciato inutilizzato.” (1)
Quanto lontano era avanzato il capitalismo lungo la via della globalizzazione e la costruzione del mercato mondiale al 1848 era naturalmente minuscolo comparato agli enormi passi avanti fatte da allora. Com'è stato possibile dunque che Marx ed Engels abbiano potuto produrre un documento tanto profetico? Essendo fin troppo coscienti delle bufere della crisi capitalista e della rivoluzione sociale allora raccolta attraverso l'Europa, furono incaricati di scrivere un manifesto per il movimento pan-europeo e principalmente clandestino di quelli che si definivano comunisti. Siccome nessuno all'epoca aveva alcuna idea chiara di ciò che comunismo potesse significare, la porta era aperta per uno scatto creativo per definire la missione del nascente movimento comunista. Gli studi critici di Marx dell'economia politica (principalmente britannica) e gli scritti rivelatori dei socialisti utopici (principalmente francesi anche se Robert Owen era pure importante) lo avevano allertato sulla natura delle forze trainanti fondamentali dietro allo sviluppo capitalista, e questo, sommato alla conoscenza di prima mano dell'industrialismo di Manchester da parte di Engels (stabilito nel 1844 in The Condition of the Working Classes in England), permise ad entrambi di intravedere una visione di quel che il mondo sarebbe apparso se fosse tutto diventato come Manchester, il che sarebbe certamente accaduto in assenza di resistenza.

Marx (fu lui che, a detta di Engels, ha composto la stesura finale) produsse una brillante sintesi di intuizioni, una succinta descrizione, in termini immediatamente riconoscibili e dei più semplici, di ciò che il capitalismo era e ancora fondamentalmente è, da dove è venuto, quali le sue potenzialità, e dove era probabile andasse in assenza di opposizione coerente da parte di quelli che creavano la ricchezza, le classi lavoratrici. Andate al delta del Pearl River (dove le fabbriche assumono fino a 40 mila lavoratori), alle maquilladoras del Messico, alle fabbriche tessili nel Bangladesh, ai negozi di cucitura delle Filippine, ai produttori di scarpe nel Vietnam, alle miniere del Brasile e dell'Orissa, ed osate di dire che avevano torto!! Due miliardi di proletari sono stati aggiunti alla forza lavoro salariata globale negli ultimi vent’anni -l'apertura della Cina, il collasso dell’ex Blocco Comunista e l'incorporazione delle ex popolazioni contadine indipendenti in India ed Indonesia come anche in tutta l'America Latina e l'Africa aventi un ruolo cruciale. Un capitalismo corporativo senza esclusione di colpi è riemerso negli ultimi 30 anni per trarre vantaggio da questa situazione. In Cina, Bangladesh, Indonesia, Guatemala e Vietnam, descrizioni delle odierne condizioni catastrofiche del lavoro potrebbero venir inserite nel capitolo di Marx sulla "Giornata Lavorativa" nel Capitale senza che nessuno sia in grado di notare la differenza. E la più rabbiosa forma di sfruttamento posa, com'è così spesso il caso, sulle spalle delle donne e delle genti di colore. Allo stesso tempo nei paesi capitalisti avanzati, quelli che un tempo avevano una posizione onorevole da lavoratori sindacalizzati in potenti fabbriche si trovano a vivere nel mezzo delle macerie dei processi di deindustrializzazione che hanno distrutto intere comunità e lasciato a città come Detroit, Baltimore, Sheffield ed Essen, ma come anche una un tempo fiorente industria tessile a Mumbai, un'eredità di fabbriche vuote e capannoni in attesa di una sperata conversione in condomini, casinò, o centri commerciali con forse un museo di storia industriale per alloggiare le memorie, sia brutali che trionfali, della lotta di classe un tempo intrapresa con quella particolare forma di capitalismo industriale.

Dunque cosa ce ne facciamo oggi dell'ovvia deduzione che l'unico modo per resistere queste depredazioni è di intraprendere la lotta di classe e che per far ciò i lavoratori del mondo debbano unirsi? La "lotta di classe" è, dichiaratamente, un termine che cela una miriade di variazioni. Pappagallare semplicemente l'espressione senza fare le analisi necessarie riguardo a ciò che significa nei diversi spazi e tempi è mancanza di rispetto per la tradizione analitica del materialismo storico che Marx ed Engels ci hanno lasciato in eredità. Le classi sono sempre nel processo di formazione e ri-formazione e mentre da un lato Marx ed Engels pensarono di aver individuato l'emersione di una tendenza verso una grande polarizzazione tra la borghesia ed il proletariato, hanno anche riconosciuto forze di frammentazione e lenta dissoluzione delle forme di classe passate. I marxisti occidentali odierni, naturalmente, sono soliti lamentarsi che la classe lavoratrice è scomparsa. Ma quel che è semplicemente accaduto è che le modificazioni tecnologiche, il passaggio verso un'economia dei servizi ed estesa deindustrializzazione hanno severamente indebolito le istituzioni tradizionali della classe lavoratrice in quei paesi in cui il marxismo occidentale risiede, mentre massicci processi di proletarizzazione sono continuati altrove. Perciò per il nostro tempo diventa necessario prestare attenzione a quei processi di formazione di classe e ri-formazione che si verificano con forza così drammatica in Cina, Indonesia, India, Vietnam, l'ex Blocco Sovietico come anche attraverso l'America Latina, il Medio Oriente e l'Africa. E nemmeno dovremmo presumere in questi giorni, se mai lo avremmo dovuto, che la formazione di classe è confinata all'interno degli stati-nazione, siccome le relazioni transnazionali tra i lavoratori spostantisi all'interno delle flussi migratori e formanti diaspore sono tanto intricate come quelle all'interno di una classe capitalista che molti ora considerano essere quasi per definizione transnazionale. Questi sono i tipi di situazione e processi che dobbiamo analizzare con la maggior cura se vogliamo accuratamente valutare la situazione economica e calcolare le possibilità politiche del nostro tempo.

A Marx ed Engels piaceva anche sostenere che le classi lavoratrici potrebbero (o dovrebbero?) reclamare nessun paese siccome sono stati da lungo tempo privati dell'accesso e controllo sui mezzi di produzione. Ma pure al loro tempo, come ammisero verso la fine del Manifesto, le differenze nazionali importavano chiaramente. Hanno riconosciuto che lo sviluppo geografico sbilanciato sia della borghesia che della classe lavoratrice stavano creando condizioni differenti di lotta politica in, ad esempio, Inghilterra, Francia, Polonia, Svizzera e Germania. E oggi è lo stesso. Nazioni sono contrapposte contro nazioni, regioni contro regioni, città contro città, anche solo nella lotta competitiva per attrarre investimenti, e i lavoratori, disperati per avere lavoro, sono recintati in supporto di alleanze locali per promuovere piani di sviluppo e progetti che offrono dolci sussidi al capitale multinazionale altamente mobile per farlo arrivare e rimanere in città. Al grado in cui i capitalisti possono sviare l'attenzione dal proprio perfido ruolo nello sfruttamento spietato della forza lavoro nelle officine della produzione, accusando gli immigrati, la competizione estera e le abitudini "incivili" di altri odiati per tutti i problemi che affrontano i lavoratori locali, e dunque la prospettata unità delle classi lavoratrici è resa molto più difficile. Le tattiche del divide et impera di sfruttare non solo le differenze nazionali ma anche quelle etniche, di genere e religiose all'interno delle classi lavoratrici pagano un inevitabile dazio e troppo spesso finiscono per fomentare ed addirittura radicare una politica di esclusione piuttosto che di incorporazione nella dinamica globale della lotta di classe.

Inoltre, come dimostra l'esempio dei premi di Wall Street e i pignoramenti con cui ho iniziato, il campo della lotta di classe si estende molto al di là della fabbrica e negli angoli inferiori della vita quotidiana di tutti. La violenza di classe (articolata attraverso il razzismo e sessismo) comportata nell'ondata dei pignoramenti non poteva essere più chiara. Come riconosce il Manifesto, i lavoratori, avendo auspicabilmente guadagnato uno salario di sussistenza, sono poi "impostati sulle altre porzioni della borghesia, il proprietario di casa, il negoziante, l'usuraio e, dovremmo aggiungere, i padroni del credito, per un'altra serie di sfruttamento. Le attività predatorie di questo tipo hanno giocato, tuttavia, un ruolo primario nell'emergenza storica del capitalismo. Sono stati i capitalisti commercianti che hanno saccheggiato la maggior parte del mondo non solo di argento e minerali preziosi ma anche dei prodotti del lavoro prodotti sotto tutti i tipi delle altre condizioni sociali in "terre e climi distanti". Sono stati gli usurai che hanno aiutato a minare il potere feudale e rilasciato così un enorme esercito di servi nella forza lavoro salariata. Questa "accumulazione primitiva" non si è fermata, tuttavia, con la crescita del capitalismo industriale. I predatori dell'imperialismo, colonialismo e neocolonialismo continuano ad oggi a saccheggiare il grosso della ricchezza del resto del mondo, delle risorse culturali e naturali per supportare con affluenza sempre più crescente la classe capitalista, in particolare nei centri del capitalismo globale (anche se nuovi paesi come il Messico, la Cina, la Russia e l'India hanno le loro quote di miliardari). Non contenti del saccheggio nelle regioni inferiori del mondo, i capitalisti corporativi e i finanzieri, come l'esempio dei pignoramenti dimostra, sono tutti più che disposti a cannibalizzare la ricchezza dall'interno del loro territorio (basti guardare a cosa accade quando i lavoratori perdono non solo le loro case ma anche le loro pensioni faticosamente conquistate e i diritti alla sanità negli USA ed in Europa). Queste pratiche predatorie in atto che chiamo "accumulazione per espropriazione" appaiono ovunque e provocano un'enorme varietà di lotte contro la perdita di beni qui, degrado ambientale e di risorse lì, e furti diretti, frodi e saccheggio violento da un'altra parte. (2)

Mentre le differenze e la varietà delle lotte sono palpabili, dobbiamo necessariamente riconoscere, insistono Marx ed Engels, le affinità alla base dei nostri destini e fortune diversi. E' cruciale diventare politicamente coscienti riguardo alla natura fondamentale del capitalismo e le possibilità per la trasformazione latente al suo interno. Questo è il compito politico a cui il Manifesto si concentra così persuasivamente. E se Marx ed Engels ritornano al proletariato continuamente come l'agente centrale del cambiamento radicale e trasformativo è per due ragioni analitiche molto specifiche che rimangono oggi potenti come lo furono nel 1848. La prima sta nel semplice fatto che il profitto che i capitalisti cercano perpetuamente in definitiva risiede nella produzione di un plusprodotto e di un plusvalore (profitto) attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo nell'atto di produzione. Ma in virtù di questa posizione centrale, i lavoratori hanno anche la forza potenziale di portare il sistema capitalista ad un blocco e con ciò trasformarlo radicalmente perché è il loro lavoro e il loro lavoro soltanto che aziona il sistema in avanti.

A dire il vero, ci sono tanti altri tipi di lotta in corso attorno a noi che distraggono l'attenzione da questo punto centrale della lotta. Ci sono tensioni persistenti all'interno della classe capitalista rispetto a come l’eccedenza possa essere distribuita, ad esempio, attraverso i finanzieri, mercanti, industriali, proprietari di immobili, distributori di servizi, lo stato, e simili. Ogni tanto importanti riforme devono venir instaurate per frenare gli eccessi di questa o quella fazione (ad esempio i finanzieri nella congiuntura presente hanno chiaramente bisogno di venir limitati dalla regolamentazione). E ci sono lotte simili attraverso fazioni all'interno delle classi lavoratrici, impiegati industriali, agricoli, dei servizi e statali gli uni contro gli altri, per non parlare delle differenze nazionaliste ed etniche che contrappongono, ad esempio, i lavoratori statunitensi contro quelli cinesi alla disperata ricerca per procurare e proteggere l’occupazione. Conflitti geoeconomici e geopolitici tra diverse regioni geografiche dell'accumulazione capitalista (tutto dalla competizione interurbana alle alleanze di classe regionali e raggruppamenti transnazionali come l'Unione Europea, l'Asia Orientale, il NAFTA ed il Mercosur) anch'esse scoppiano periodicamente per oscurare le altre dimensioni della lotta. Ma alla fine, concludono Marx ed Engels, l'unica forma di lotta di classe che può cambiare radicalmente il sistema è quella guidata da tutti coloro che producono la ricchezza degli altri in generale e della classe capitalista in particolare, e che è definito come il proletariato.

Questo poi pone una questione organizzativa difficile: come possono tutti questi proletari localizzati attorno al mondo e che lavorano sotto le più disparate circostanze mettersi insieme per cambiare il mondo? Su questo punto il Manifesto ha qualche idea interessante. La lotta, suggeriscono Marx ed Engels, inizia con l'individuo alienato che capisce precisamente come, per citare lo slogan reso famoso dalle femministe odierne, il personale è politico. La passività di fronte al furto, la dominazione e lo sfruttamento non è un'opzione. Riuniti nelle fabbriche, nei campi, negli uffici e istituzioni, gli individui si mettono insieme e sviluppano una comprensione collettiva delle origini comuni del loro malcontento e frustrazioni. Da ciò iniziano a percepire l'identità di classe implicita nelle loro varie esperienze, e su questa base comune iniziano ad articolare argomenti collettivi e richieste. E mentre costruiscono organizzazioni collettive per agitare per la soddisfazione dei loro desideri, bisogni e richieste creative, costruiscono raggruppamenti territoriali - nei quartieri, città, regioni metropolitane distintive - all'interno e dai quali una comunanza politica e culturale più larga emerge. Questa nuova socialità, quando collegata ad altre regioni distintive dai sempre più sofisticati mezzi di trasporto e comunicazione che il capitalismo costruisce per facilitare lo scambio dei beni e la circolazione del capitale, apre la prospettiva della conquista dello stato-nazione come il contenitore principale del potere. Ma l'agitazione politica non può fermarsi nemmeno a quella scala geografica, perché solo quando i lavoratori del mondo si possono unire attorno una visione comune (anche se ad una che poggia su differenze enormi) può il capitalismo venir domato e la visione comunista di un'alternativa viene a fruire. La forma organizzativa della lotta di classe dev'essere preparata, in breve, a "saltare scale geografiche" e muovere regolarmente dal locale al globale e viceversa.

La storia dei movimenti comunisti dimostra fin troppo tragicamente cosa accade quanto il movimento dimentica che questi momenti e piani geografici differenti della lotta politica sono dialetticamente integrati e mutualmente costitutivi. Se il modo nel quale il personale è politico fallisce nella costruzione di un'aperta dinamica formativa di coscienza regionale culturale, allora lo schema organizzativo proposto nel Manifesto fallisce. Ancora più importante, se le azioni prese nel nome dello stato-nazione, una volta catturato dalle forze proletarie, non risolve le alienazioni e frustrazioni degli individui, allora le forme organizzative locali e regionali accuratamente e amorevolmente costruite in uno spirito di speranza rivoluzionaria diventano conchiglie burocratiche incavate, statiche e indifferenti. La necessità sia di rivoluzioni progressiste che permanenti (del tipo che il capitalismo persegue con tanto successo e vigore attraverso il suo stesso dinamismo) non può essere trascurata. In mancanza di questo, il movimento rivoluzionario ricade in stasi (come lo fece nella ex Unione Sovietica) e diventa un bersaglio troppo facile per la controrivoluzione capitalista. La dialettica della forma organizzativa delineata nel Manifesto abbisogna un'attenta elaborazione e applicazione se il movimento rivoluzionario vuole avere successo.

Ma c'è un'ulteriore lezione da imparare dalla forma di analisi del Manifesto. Consideriamo, ad esempio, come la borghesia venne al potere. Il capitale mercantile uscì dai vincoli del potere feudale nelle sue esplorazioni e nello sfruttamento del mercato mondiale. In effetti questa fu una strategia geografica che acquisì potere dall'esterno dei bastioni del feudalismo e poi, avendolo circondato, lo forzò ad arrendersi al potere borghese. Lo stato che protesse gli interessi feudali fu catturato e trasformato e posto all'uso borghese (non è lo stato statunitense nella sua odierna costituzione altro che un comitato esecutivo per la protezione degli interessi corporativi?). La lezione che ogni movimento rivoluzionario è che la territorializzazione della lotta politica, l'occupazione di questa o quella regione o stato-nazione come uno "staging ground" per assalti più ampi al potere politico delle elite capitaliste, è importante. Mentre il socialismo in un paese (per non parlare di città) può essere impossibile, questo non vuol dire che la territorializzazione della lotta politica, l'occupazione di questa o quella città, regione o stato-nazione come un punto di partenza per assalti più ampi al potere politico delle elite capitaliste sia irrilevante. Ma ci furono molti altri elementi nella situazione che permise la scalata al potere della borghesia -l'esistenza di una forza lavoro senza terra, una crescente domanda di mercato, un influsso di denaro e oro - e fu in questa situazione che quelli armati di un certo potere economico poterono avanzare e posizionarsi come capitalisti a tutti gli effetti. Come Marx nota altrove, le trasformazioni sociali radicali come l'ascesa del capitalismo o la transizione al comunismo, non avviene in spazi vuoti ma dipende in modo decisivo dalla precedente costruzione delle condizioni che rendono una tale trasformazione possibile. Mentre Marx ed Engels non continuano a specificare questo punto, i vantaggi che la Gran Bretagna possedette in tutti questi aspetti giocò indubbiamente un ruolo cruciale nello spiegare perché un capitalismo nascente dovunque possa radicarsi con la maggior facilità in quella particolare parte del mondo dal XVI secolo in avanti. Inoltre i capitalisti, quando colpiti con le crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione, come esse inevitabilmente sono, ancora una volta "diventano geografiche" nell'espandere l’estensione geografica del mercato e le possibilità d'investimento. La tendenza per cercare ciò che chiamo "un guaio spaziale" per i problemi della sovrapproduzione ha giocato un ruolo incredibilmente importante nella perpetuazione dei processi di globalizzazione che Marx ed Engels hanno descritto così concisamente nel 1848. (3)

L'implicazione è che il comunismo deve emergere dall'interno del nesso delle possibilità che il capitalismo inevitabilmente crea. Deve essere allertato da quelle mosse che la borghesia fa per affrontare la crisi che fomenta - come le correnti mosse di centralizzare il credito negli apparati dello stato per controllare la crisi finanziaria - e trattare queste mosse come opportunità politiche di impadronirsi di nuovi poteri e di definire nuove traiettorie di cambiamento sociale. Inoltre, il comunismo deve radicarsi in quelle regioni nelle quali le condizioni sono maggiormente favorevoli per il suo sviluppo. Deve poi perseguire una strategia territoriale e geografica per circondare e minare i luoghi centrali del potere capitalista. Purtroppo nelle lotte di classe condotte nel mondo in questi ultimi 200 anni, i capitalisti hanno usato in continuazione il loro superiore comando sullo spazio in modo da abbattere i movimenti rivoluzionari in luoghi particolari (Cile, Portogallo e Mozambico negli anni '70 vengono immediatamente in mente). I lavoratori del mondo devono non solo unirsi per perseguire le loro richieste rivoluzionarie: devono anche escogitare strategie politiche e geopolitiche sofisticate per vincere il diritto a costruire un altro tipo di ordine mondiale.

Ma a cosa esattamente il movimento dei lavoratori dovrebbe posare richiesta? Guardiamo in modo più ravvicinato quel che fanno i capitalisti. Iniziano la giornata con una certa quantità di denaro, poi vanno nel mercato e comprano forza lavoro e i mezzi di produzione, scelgono (comprano) una tecnologia, mettono tutte queste a lavorare per produrre un nuovo bene e poi vendono quel bene per il denaro originale più un profitto (un plusvalore). Il giorno dopo si svegliano e devono decidere che fare con il denaro in eccedenza che hanno ottenuto il giorno prima. Affrontano un dilemma faustiano: reinvestire per ricevere ancora più denaro o consumare la loro eccedenza in piaceri. Le leggi coercitive della competizione li forzano a reinvestire perché se uno non reinveste allora un altro di sicuro lo farà. Per rimanere un capitalista, una certo eccedenza deve essere reinvestito per creare ancora più eccedenza. I capitalisti di successo di solito fanno eccedenze più che sufficienti per reinvestirli in espansione e soddisfare il loro desiderio di piacere. Ma il risultato del reinvestimento perpetuo è l'espansione di plusprodotto ad un tasso composto -dunque di tutte le curve di crescita logistiche (denaro, capitale, output e popolazione) allegate alla storia dell'accumulazione capitalista.

Le politiche del capitalismo sono influenzate dal bisogno perpetuo di trovare terreni profittevoli per la produzione e assorbimento del capitale in eccedenza. In questo il capitalista affronta un numero di ostacoli alle espansioni continue e senza inconvenienti. Se c'è una scarsità di lavoro e i salari sono troppo alti allora o il lavoro esistente deve venir disciplinato (disoccupazione indotta tecnologicamente oppure un assalto al potere della classe lavoratrice organizzata - come quello messo in moto dalla Thatcher e da Reagan negli anni '80 - sono due metodi primari) o forza lavoro fresca dev'essere trovata (attraverso l'immigrazione, l'esportazione del capitale o la proletarizzazione dei fin qui elementi indipendenti nella popolazione). Nuovi mezzi di produzione in generale e nuove risorse naturali in particolare devono venir trovate. Questo pone pressione crescente sullo sviluppo naturale per produrre le materie prime ed assorbire gli inevitabili sprechi. Le leggi coercitive della competizione inoltre forzano a portare continuamente in linea nuove tecnologie e forme organizzative, siccome i capitalisti con una superiore produttività possono mettere fuori competizione quelli che utilizzano metodi inferiori. Le rivoluzioni perpetue nelle tecnologie che il Manifesto descrive sono destabilizzanti al punto in cui possono minacciare la profittabilità. Le innovazioni definiscono anche nuovi desideri e bisogni, riducono il tempo di rotazione del capitale e la frizione della distanza. Quest'ultimo effetto estende la gamma geografica sul quale il capitalista è libero di cercare "expanded supplies" di lavoro e materie prime. Se non c'è abbastanza potere d'acquisto nel mercato allora nuovi mercati devono venir trovati espandendo il commercio estero, promuovendo nuovi prodotti e stili di vita, creando nuovi strumenti di credito finanziati dal debito statale e spese personali. Se, infine, il saggio di profitto è troppo basso, allora la regolazione statale della "competizione rovinosa", monopolizzazione (fusioni e acquisizioni) e esportazioni di capitale a freschi pascoli forniscono vie d'uscita.

Se ognuna delle suddette barriere alla continua circolazione ed espansione di capitale diventa impossibile ad eludere, allora l'accumulazione di capitale è bloccata e i capitalisti affrontano una crisi: il capitale non può venir reinvestito profittevolmente, l'accumulazione ristagna o cessa e il capitale viene svalutato (perso) ed in alcuni casi persino fisicamente distrutto. Non essere riusciti a superare le barriere lavorative produce una crisi di compressione dei profitti perché gli salari più alti tagliano i profitti; non riuscire a trovare vie per superare gli ostacoli alle risorse naturali e allo smaltimento dei rifiuti produce crisi ambientali (a volte definite come "la seconda contraddizione del capitalismo"); cambiamenti tecnologici rapidi producono una caduta del saggio di profitto; la mancanza di (solitamente alimentate dal credito) richieste effettive genera una crisi di sottoconsumo. Non c'è una singola teoria della formazione delle crisi all'interno del capitalismo, solo una serie di barriere che vomitano possibilità multiple per diversi tipi di crisi. Ad un particolare momento storico le condizioni possono portare al dominio di un tipo di crisi, ma ad altre occasioni varie forme possono combinarsi e su altre ancora le tendenze per le crisi diventano spostate spazialmente (in crisi geopolitiche e geoeconomiche) o temporalmente (come le crisi finanziarie), L'effetto, tuttavia, è sempre una svalutazione di capitale. La svalutazione può prendere numerose forme. I beni in eccesso possono venir svalutate o distrutte, le capacità produttive e i capitali possono venir svalutati e lasciati inutilizzati, o il denaro stesso può venir svalutato attraverso l'inflazione. E in una crisi maggiore, naturalmente, il lavoro viene svalutato attraverso massiccia disoccupazione.

Una volta che le barriere vengono aggirate o dissolte, l'accumulazione tipicamente rivive al suo saggio composto. Siamo arrivati ad accettare senza riflettere che un'economia sana cresce e che la crescita è dunque normale e buona, indipendentemente dalle le conseguenze sociali, politiche o ambientali. Ma fa sobbalzare le menti immaginare come sarà il mondo dopo altri cent'anni di crescita composta, diciamo a 2-3% all'anno. Semplicemente devono venir trovati altri modi per organizzare l'ordine sociale se l'umanità vuole sopravvivere.

Cosa deve richiedere dunque un movimento rivoluzionario? La risposta è in principio abbastanza semplice: maggior controllo collettivo e democratico su cosa, da chi e come viene prodotto, e un forte controllo sopra l'utilizzo di qualsiasi eccedenza viene prodotta. Avere un plusprodotto non è una cosa cattiva: infatti, in molte situazioni un’eccedenza è cruciale per adeguare la sopravvivenza ed è solo con un’adeguata eccedenza che molte buone cose nella vita possono venir migliorate (le città, ad esempio, non potrebbero esistere senza la mobilizzazione e la concentrazione di un plusprodotto). Lungo la storia del capitalismo, una parte del plusvalore creato è stato tassato dallo stato e in fasi socialdemocratiche questa proporzione incrementò significativamente mettendo una grande fetta dell’eccedenza sotto controllo statale. Almeno una parte di esso andò per fini (come la sanità universale, l'abitazione sociale e l'educazione) di cui hanno beneficiato popolazioni fino ad allora oppresse, marginalizzate ed escluse. L'intero progetto neoliberale lungo gli ultimi 30 anni è stato orientato verso l’arretramento di quei benefici ed istituire il controllo privato sopra l'utilizzo dell’eccedenza. I dati per i paesi OCSE mostrano, tuttavia, che la parte del prodotto lordo preso dallo stato è stato grosso modo costante a partire dagli anni '70. Il principale risultato dell'assalto neoliberale è stato allora di prevenire l'espansione della quota statale nel modo in cui lo fece negli anni '50 e '60 nei principali paesi capitalisti (addirittura gli Stati Uniti). Una risposta aggiuntiva da parte delle classi capitaliste è stato creare nuovi sistemi di dominio che integrino gli interessi statali e corporativi e, attraverso l'applicazione del potere economico, assicurano che il controllo sopra il l’esborso dell’eccedenza attraverso l'apparato statale favorisca il capitale corporativo (come Halliburton e le compagnie farmaceutiche) e le classi abbienti. Incrementando la quota dell’eccedenza sotto controllo statale funzionerà solo se l'apparato statale stesso viene riportato sotto controllo democratico collettivo.

Come viene distribuita ed usata l’eccedenza è solo una delle tante pressanti questioni politiche del nostro tempo. Viviamo in un pianeta di fiorenti baraccopoli, siti di brulicanti possibilità umane ed attività innovative nel mezzo di totale violenza, criminalità e disperazione, accanto ad un crescente ondata di consumerismo incontrollato ed in alcuni casi criminalmente sregolato che apparentemente non conosce frontiere. Le sorprendenti diseguaglianze che oggi esistono hanno chiaramente bisogno di venir corrette. Ma le frammentazioni incontrate fanno sempre più difficile immaginare politiche collettive di speranza per non parlare di una lotta di classe ben organizzata. Nel mondo rapidamente urbanizzante in particolare, la città si sta dividendo in diverse parti separate, con l'apparente formazione di molti "microstati". I quartieri ricchi provvisti di ogni servizio, come scuole esclusive, campi da golf e da tennis, e polizia privata pattugliante l'area attorno, s’intrecciano con gli insediamenti illegali dove l'acqua è disponibile solo alle fontane pubbliche, dove non esiste alcun sistema sanitario, l'elettricità è piratata da una minoranza privilegiata, le strade diventano ruscelli di fango ogni volta che piove, e dove la condivisione della casa è la norma. Ogni frammento sembra vivere e funzionare autonomamente, attaccandosi fermamente a quel che è stato capace di afferrare nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. (4)

Ma per quanto le politiche di redistribuzione della ricchezza possano essere importanti, nel giudizio di Marx ed Engels sono troppo limitanti per un progetto politico. Ciò che distingue il socialismo ridistributivo dal comunismo è che i comunisti si concentrano sull'organizzazione e sulle politiche di produzione in generale per mezzo di una critica del modo di produzione capitalista del plusvalore e del plusprodotto in particolare. Al tempo di Marx ed Engels, la semplice conoscenza di quella che era la vita nelle fabbriche, campi ed officine del mondo, come anche negli spazi abitativi di una classe lavoratrice inadeguatamente remunerata, fu abbastanza per provocare l’indignazione della fabbrica borghese e degli ispettori della salute pubblica come del pubblico generale una volta che queste condizioni furono visibili a tutti. E questa è la condizione fondamentale che i comunisti cercano di cambiare. Quelli che controllarono e usarono i mezzi di produzione per il loro esclusivo beneficio furono palesemente colpevoli e fu dunque missione del movimento comunista di sradicare quel privilegio di classe ed organizzare la produzione attraverso l'associazione dei lavoratori sostenuta dal controllo democratico dell'apparato statale (questo è fin dove si spinge il Manifesto). Oggi sappiamo che un tale piano alternativo generale non fu e non è così facile da escogitare ed implementare. Ma le condizioni lavorative e di vita nella maggior parte del mondo si trovano ora in uno stato così periglioso che proporre che l'imperativo comunista sia di rivoluzionare l'organizzazione della produzione e del consumo su linee non capitaliste è oggi più cruciale che nel 1848. Ma a ciò c'è oggi un'urgenza aggiuntiva. I saggi composti della crescita implicano che il requisito capitalista di produrre plusvalore all'infinito attraverso la produzione di un plusprodotto, stanno diventando quotidianamente più minacciosi per gli ecosistemi planetari e per l'approvvigionamento dei requisiti di base per energia, acqua ed aria pulite. I saggi composti della crescita capitalista non possono durare in eterno e qualcosa di nuovo - una stabile economia di stato, ad esempio, totalmente incompatibile con il capitalismo - dev'essere escogitato e questo richiederà, sia se ci reputiamo o meno comunisti, affrontando la questione fondamentale di come organizzare sia la produzione che il consumo su linee più razionali, eque e sane. I segnali d'allarme dei problemi della costruzione borghese del paradiso sono tutti attorno a noi. Pure una lettura casuale di questi suggerisce che Marx ed Engels avevano ragione a sottolineare allora come dovremmo farlo ancora più noi oggi, che è tempo che il capitalismo se ne vada, per fare posto ad un modo di produzione superiore.

E' imperante quindi riaccendere le passioni politiche che soffuse il Manifesto del Partito Comunista. I comunisti, affermano Marx ed Engels, non hanno partito politico. Essi semplicemente costituiscono se stessi in ogni tempo e in ogni luogo come quelli che comprendono i limiti, i fallimenti e le tendenze distruttive dell'ordine capitalista come anche delle innumerevoli maschere ideologiche e false legittimazioni che i capitalisti e i loro apologeti producono per perpetuare il loro particolare potere di classe. I comunisti sono tutti quelli che lavorano incessantemente per produrre un futuro diverso da quello che il capitalismo lascia presagire. Mentre il comunismo istituzionale può essere morto, ci sono milioni di comunisti tra noi, volenterosi di agire sopra le loro incomprensioni, pronti a perseguire creativamente gli imperativi politici che definisce il Manifesto e soprattutto pronti ad aprire i propri cuori e le proprie menti a questo messaggio ispirativo che echeggia fino a noi dai dolenti giorni del 1848. Noi comunisti siamo l’insistente presenza spettrale, evocata dalla borghesia fuori dal mondo inferiore, gli stregoni che possono tessere la nostra stessa magia distintiva, il nostro senso di destino di classe, nella trama e ordito della nostra geografia storica. "Cambiare il mondo", disse Marx; "Cambiare la Vita", disse Rimbaud; "per noi", disse André Breton, "questi due progetti sono lo stesso". La lotta continua.
Note

(1) Citato in N. Chomsky, On Power and Ideology, Boston, South End Press, 1990, p.
(2) D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford, Oxford University Press, 2005.
(3) D. Harvey, Spaces of Global Capitalism: Towards a Theory of Uneven Geographical Development, London, Verso, 2006.
(4) M. Balbo citato in National Research Council, Cities Transformed: Demographic Change and Its Implications in the Developing World, Washington, DC, The National Academies Press, 2003, p. 379; M. Davis, Planet of Slums, London, Verso, 2006