Daniela Palma &
Francesco Sylos Labini | Il 5 novembre del 2008 la
regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa London School of Economics e durante
la cerimonia fece una domanda passata alla storia come “la domanda della
regina”. Ci sono delle versioni discordanti sulle parole esatte che ha utilizzato,
ma il senso è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto
la crisi finanziaria del 2008?” Ricordiamo, infatti, che il fallimento della
Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più grande crisi
finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che ancora dura, e che
economisti di fama mondiale non sono stati capaci né di prevedere la crisi
né di interpretare quello che stava avvenendo dopo che la bolla era già
scoppiata.
Dieci
autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera,
spiegando che una delle ragioni principali dell’incapacità della professione di
dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è la formazione
inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così
che “l’economia – l’economics – è diventata una
branca delle matematiche applicate.”
Sono passati da quei giorni più di quattro anni e la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere cambiato delle posizioni assunte sulla crisi dagli economisti che hanno voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel governo degli stati. Qualcuno direbbe che, ultimamente, un numero crescente di attori della crisi sta maturando una riflessione sugli sbagli fatti e sulle possibili correzioni da mettere in pratica per cominciare almeno a invertire la direzione del declino economico che si è inesorabilmente affermata.
Sono passati da quei giorni più di quattro anni e la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere cambiato delle posizioni assunte sulla crisi dagli economisti che hanno voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel governo degli stati. Qualcuno direbbe che, ultimamente, un numero crescente di attori della crisi sta maturando una riflessione sugli sbagli fatti e sulle possibili correzioni da mettere in pratica per cominciare almeno a invertire la direzione del declino economico che si è inesorabilmente affermata.
Molti dubbi hanno cominciato, infatti, ad addensarsi intorno alla tesi
della cosiddetta “austerità espansiva”, che ha tratto la sua ragion
d’essere nel ritenere responsabile della crisi la “finanza allegra” degli
stati, ignorando (o facendo finta di ignorare) che il dissesto dei bilanci
pubblici è derivato dal salvataggio pubblico di un sistema finanziario al
collasso e collocato ormai a una distanza siderale dalle questioni
dell’economia reale. Ma i ripensamenti sull’erroneità dell’ “austerità
espansiva” sembrano soprattutto aver riguardato gli effetti depressivi
immediati che le politiche di austerità hanno impresso al ciclo economico. Le
valutazioni prevalenti sull’origine della crisi sono ancora per lo più
collegate all’idea che l’economia possa subire degli shock, ma che sia poi in
grado di tornare allo stato della piena occupazione delle risorse, e che sia
sufficiente mantenere il controllo sulle turbolenze dei mercati finanziari
sotto il profilo della loro regolamentazione. Non fa invece parte di queste
valutazioni l’idea che la crisi finanziaria sia l’epifenomeno di una profonda
crisi dell’economia reale, una crisi di domanda che la finanza ha drogato
drogando sempre più se stessa. E’ evidente che la diversa interpretazione della
crisi condiziona le terapie che vengono messe in atto per un suo superamento e
che, naturalmente, gli esiti delle terapie saranno tanto migliori quanto più il
“modello” interpretativo della crisi ne catturi reali caratteristiche e
fondamenti.
Ed è qui che sorge il problema cruciale.
Quando si parla di economia non è possibile infatti rapportarvisi alla
stregua di una disciplina delle scienze naturali, poiché l’oggetto del suo
studio è la società con caratteristiche storicamente determinate. Guardare a un
“modello” piuttosto che a un altro nell’interpretazione fondamentale dei fatti
economici, non significa quindi semplicemente introdurre assunzioni alternative
rispondenti ad uno statuto epistemologico in grado di testarne la validità –
così come accade nelle scienze naturali-, ma significa sposare delle vere e
proprie weltanschauung diverse, visioni alternative del mondo
in cui la componente egemonica della cultura dominante in ogni dato periodo
svolge un ruolo determinante. In questo senso è possibile affermare che la
genesi della crisi, il suo svolgimento, le possibilità di uscirne nonché gli
effetti sulle economie che la attraversano, sono intrinsecamente collegati ad
un problema di egemonia culturale.
Il
modo con cui la riflessione economica prevalente si è rapportata alla crisi fin
dal suo nascere è tipico della visione mainstream, che affonda le sue radici
nei riferimenti principali della cosiddetta teoria neoclassica: l’economia è
concepita come una scienza che studia le scelte alternative tra risorse scarse,
e il mercato è il luogo di allocazione ottima delle risorse, garantita da
soggetti razionali in grado di utilizzare tutta l’informazione disponibile
veicolata dai prezzi che di tali risorse misurano la scarsità. Nel mercato si
determina “naturalmente” un equilibrio che è il punto di incontro tra domanda e
offerta, secondo un processo che è di tipo esclusivamente logico e che quindi
prescinde totalmente dalle diversità tra economie nel tempo e nello spazio.
Eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato, hanno solo natura temporanea
perché il sistema economico è destinato a convergere verso l’equilibrio. In tale
contesto la crisi non può essere prevista semplicemente perché non è neppure
concepita. Ed anche di fronte al suo manifestarsi è possibile attribuirle il
carattere della momentanea accidentalità, oppure individuare imperfezioni del
mercato che non consentono il raggiungimento dell’equilibrio.
Molti economisti hanno infatti interpretato la crisi del
2008 attraverso il pregiudizio ideologico secondo cui la crisi
finanziaria è stata innescata da cause del tutto imprevedibili, il fallimento
della Lehman Brothers, ma, giacché, i mercati liberi tendono alla
stabilità, non ci sarebbero state ripercussioni sull’economia reale. Questa
interpretazione, che ha influenzato l’opinione pubblica e le successive scelte
politiche, è originata da convinzioni teoriche secondo cui i mercati deregolati dovrebbero
essere efficienti e gli agenti razionali dovrebbero aggiustare velocemente ogni
prezzo non completamente corretto e ogni errore di valutazione. Il prezzo
dovrebbe dunque fedelmente riflettere la sottostante realtà e assicurare
l’allocazione ottimale delle risorse. Questi mercati “equilibrati” dovrebbero
essere stabili: perciò le crisi possono essere innescate solo da grandi perturbazioni esogene
come gli uragani, i terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate
dal mercato stesso.
Questi pregiudizi teorici sono originati da un’eccessiva semplificazione del
problema in cui l’idealizzazione non è solo dissimile dalla realtà, ma, in
effetti, è completamente irrilevante alla sua comprensione. I fisici che si occupano
di complessità studiano da una ventina d’anni sistemi che mostrano comportamenti
intermittenti molto simili a quelli dei mercati finanziari, in cui la
natura non banale delle dinamiche si origina da effetti collettivi. Le singole
parti hanno un comportamento relativamente semplice, ma le interazioni portano
a nuovi fenomeni emergenti così che il comportamento
dell’insieme è fondamentalmente diverso da quello dei suoi costituenti
elementari. Anche se uno stato di equilibrio esiste in teoria, questo può
essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è
troppo lungo e perché questi sistemi possono essere intrinsecamente fragili
rispetto all’azione delle piccole perturbazioni evolvendo in modo intermittente
con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e
imprevedibili. Per questo finché non s’interverrà sulle cause endogene delle
crisi, e sui preconcetti teorici alla base dell’ineffabile equilibrio dei
mercati liberi, altre crisi come quella di cinque anni fa si potranno ripetere
senza alcun preavviso.
Secondo
la visione che ha segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si
afferma all’indomani della prima Rivoluzione Industriale con il pensiero di
Adam Smith, l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società, tesa
a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di
riproducibilità ed eventualmente di sviluppo in base a criteri di divisione del
lavoro, in un contesto sociale, istituzionale e normativo che condiziona nel
tempo e nello spazio ruolo e azione dei soggetti. Non a caso si parla di
economia politica, guardando al mercato come a un complesso sistema
istituzionale di norme storicamente determinato e privo di qualsiasi connotato
di naturalità, che non è detto che assicuri il pieno impiego delle risorse.
L’approccio
dell’economia politica è dunque intrinsecamente predisposto a concepire il
prodursi di crisi e la necessità di operare nel mercato quei correttivi che
assicurino almeno la riproducibilità del sistema economico. Al di là delle
diverse versioni ed approfondimenti che si sono succeduti passando per Ricardo,
Marx per arrivare fino a Keynes, la visione dell’economia politica resta
ancorata a una rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione
delle classi sociali e la diversità di interessi che a queste si associano ne
determinano un assetto fondamentalmente instabile[1].
Alla luce di ciò, è facilmente comprensibile come nella visione neoclassica mainstream
sia assente un qualsiasi ruolo della politica, e che questa sia anzi
subordinata ai mercati, agendo in una forma tutt’al più tecnocratica al fine di
facilitarne il funzionamento. La predominanza trentennale di questa visione ha
tuttavia prodotto una specifica egemonia culturale che, nonostante il perdurare
della crisi, è dura a morire. E, in effetti la visione neoclassica mainstream
appare dotata di una intrinseca capacità di sopravvivenza: la dimensione del
sistema economico come dato di natura suscettibile di essere studiato secondo
un metodo che si confà alle leggi delle scienze naturali, è un aspetto di fondo
che la caratterizza e che porta ad escludere l’esistenza di qualunque
dimensione ideologica alternativa con la quale confrontarsi. In questo modo la
visione neoclassica mainstream ha goduto (e tuttora gode) della possibilità di
blindarsi attraverso il portato assiomatico dei suoi assunti. E così facendo
lascia trasparire che le uniche discussioni ammissibili siano quelle condotte
entro la propria cinta concettuale.
Questa situazione si traduce in un predominio degli economisti
mainstream nell’ambito accademico in ragione del quale vi è una maggioranza di
economisti di scuola liberista sia nell’ambito dei media, che gioca un ruolo di
orientamento dell’opinione pubblica, che nell’ambito più propriamente politico:
dalle istituzioni internazionali ai governi stessi. E’ dunque interessante discutere
più in dettaglio il legame tra la ruolo accademico e politico degli economisti,
ed in particolare degli economisti mainstream. Mentre
la “domanda della regina” è stata la cartina di tornasole per mostrare che
ci fosse un problema fondamentale nell’attuale ricerca economica, nello stesso
periodo i cui questa domanda è stata posta è stato reso pubblico il
risultato della valutazione per le discipline economiche in Inghilterra.
Il risultato è stato sorprendente: l’economia come disciplina non ha ottenuto
solo un buon piazzamento, ma ha avuto la migliore valutazione accademica di
tutte le discipline in Inghilterra.
La domanda che si pone Donald Gillies, filosofo
della scienza e studioso dei sistemi di valutazione della ricerca, è la
seguente: “Com’è possibile che una valutazione così errata sia potuta
accadere?” E’ chiaro infatti che ci sia un problema fondamentale con l’attuale
corso della disciplina economica se la più grande crisi globale mai avvenuta
dal 1929 è esplosa lasciando la maggior parte degli economisti sorpresi. Per
capire la sua interpretazione è necessario fare un piccolo excursus
nell’epistemologia della scienza, perché è proprio in quest’ambito che la
(apparente) veste tecnico-scientifica e depoliticizzata dell’economia gioca un
ruolo chiave.
Thomas Kuhn nel
suo magistrale La struttura delle
rivoluzioni scientifiche ha sviluppato una
visione della scienze naturali che è diventata molto nota e ampiamente
accettata. Secondo Kuhn, le scienze naturali mature si sviluppano per la
maggior parte nel modo che egli descrive come “scienza normale”. Durante il
periodo di scienza normale, tutti i ricercatori che lavorano nel campo
accettano la stessa struttura d’assunzioni, che Kuhn chiama “paradigma”.
Tuttavia, questi periodi di scienza normale sono, di volta in volta, interrotti
da rivoluzioni scientifiche in cui è rovesciato il paradigma dominante del
campo e sostituito da un nuovo paradigma. La differenza fondamentale tra le
scienze naturali e le scienze sociali è generalmente che nelle scienze
naturali, fuori dei periodi rivoluzionari, tutti gli scienziati accettano lo
stesso paradigma, mentre nelle scienze sociali i ricercatori si dividono
in scuole concorrenti. Ogni scuola ha il suo paradigma, ma questi paradigmi
sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Il contrasto è dunque tra una
situazione con un paradigma singolo e una multi-paradigma.
Ad
esempio, tutti i fisici teorici accettano il paradigma il cui nucleo è
costituito dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica. Questo
non significa che i fisici teorici contemporanei sono eccessivamente dogmatici:
piuttosto pensano che, in qualche momento nel futuro, ci sarà un’altra
rivoluzione nel campo, originata da qualche nuova scoperta sperimentale, che
sostituirà la relatività e la meccanica quantistica con alcune nuove, e forse
ancora più strane, teorie. Tuttavia, essi sostengono, la relatività e la
meccanica quantistica funzionano molto bene, nel senso che spiegano i fenomeni
naturali, e quindi è ragionevole accettarle per il momento.
Se guardiamo all’economia troviamo una situazione molto diversa: la
comunità è, infatti, divisa in diverse scuole. I membri di ciascuna di
queste scuole condividono lo stesso paradigma, ma il paradigma di una scuola
può essere molto diverso da quello di un altro. Inoltre, i membri di una scuola
sono spesso molto critici verso i membri di un’altra scuola. Le diverse scuole,
che per semplicità possiamo identificare in quella neoclassica, che ha il
numero più elevato d’aderenti al momento, nelle varie versioni del keynesismo e
nella scuola marxista, sono associate a ideologie politiche: in particolare
queste scuole sono disposte su uno spettro politico che va dalla destra alla
sinistra. Dunque, secondo Gillies, l’esame della comunità dei ricercatori in
economia ha portato alla seguente immagine: questa comunità è divisa in una
serie di diverse scuole di pensiero A, B, C…, ognuna con il proprio paradigma.
I membri d’ogni scuola hanno una pessima opinione del lavoro di ricerca
prodotto da altre scuole. Ora, se un sistema di valutazione della ricerca è
applicato a questo tipo di comunità, quale risultato darà? La tesi di Gillies,
che deriva dallo studio di quello che è avvenuto in Inghilterra negli ultimi
venti anni, è che i lavori di ricerca dei membri di qualsiasi scuola che abbia
il maggior numero d’iscritti riceveranno la massima valutazione. Nel caso
specifico, la scuola dominate è quella dei neoclassici. In questa situazione,
con l’affermazione di una scuola di mainstream, le altre
scuole vengono marginalizzate.
Mentre nell’ambito delle scienze sociali questo è un fenomeno noto,
nell’economia questo aspetto si lega ad un altro che riguarda appunto la
matematizzazione dell’economia: l’uso di tecniche matematiche e statistiche
proprie delle scienze dure che fornisce all’economia una apparente veste
tecnico-scientifico così che il problema economico sembra che ammetta, come ad
esempio nella fisica, una soluzione derivata secondo il metodo scientifico.
Questa situazione è suggellata dal “premio Nobel per l’economia” che, al pari
di quello nelle scienze esatte, sembra mettere un marchio di qualità alle
scoperte nel campo. In realtà è bene ricordare che Alfred Nobel nel suo
testamento non scrisse d’istituire un premio per l’economia. Il “Premio in
Scienze Economiche della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel” è
istituito 70 anni dopo il premio Nobel vero e proprio e coloro che lo
hanno promosso, conoscendo i principi basilari del marketing, sono riusciti,
con la “violazione di un marchio di successo” a conferire un’aurea di prestigio
alla scienza economica: è indubbio infatti che ogni anno su tutti i quotidiani
del mondo appaiono commenti sui vincitori del Nobel e l’attenzione dei media, e
dunque dell’opinione pubblica, ai premiati, e conseguentemente a quello che
dicono e pensano, è altissima e certamente maggiore rispetto a qualsiasi altro
premio grazie al prestigio di un marchio di successo.
La combinazione tra veste matematica dell’economia, con la sua apparenza
tecnico-scientifica, e la sua apparente depoliticizzazione ha dato luogo alla
falsa rappresentazione che l’economia sia una scienza al pari della fisica, per
cui le soluzioni che vengono proposte sono soluzioni tecniche risultato di
analisi scientifiche. Gli economisti mainstream hanno utilizzato questa
ideologia. Ad esempio Milton Friedman, sosteneva che
l’unica cosa che contava nell’economia era il suo potere predittivo proprio
come la fisica. Più recentemente Luigi Zingales scrive nel suo
Manifesto Capitalista: “La storia della fisica nella prima metà del XX secolo è
stata una straordinaria avventura intellettuale: dall’intuizione di Einstein
del 1905 sull’equivalenza tra massa e energia alla prima reazione nucleare
controllata del 1942. Lo sviluppo della finanza nella seconda metà del
Novecento ha caratteristiche simili”. La finanza come la teoria relatività, la
meccanica quantistica e la fisica nucleare: dunque una visione dell’economia
molto pretenziosa.
Da questo atteggiamento è nata quello che si chiama “l’invidia per la
fisica”, disciplina quest’ultima che basa il suo sviluppo su di un
confronto serrato tra teoria e esperimento. Anche gli economisti neoliberisti
dichiarano di procedere ad una verifica empirica delle loro teorie: ma quando
gli economisti “si sporcano le mani con i dati” (come alcuni dichiarano di fare)
siamo sicuri che il risultato alla fine non sia quello di “sporcare i dati con
le ideologie”, con quelle ideologie (preconcetti considerati veri a prescindere
dall’osservazione empirica) che invece guidano molte delle ricette che sono
propinate come soluzioni scientifiche? Certo è che la falsificazione di una
teoria scientifica è altra cosa dall’utilizzare alcuni dati opportunamente
selezionati o accuratamente manipolati per portare acqua al proprio mulino.
Sembra che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca: il prestigio di una
scienza dura senza pagare il dazio della falsificabilità, che è la vera e unica
chiave di volta d’ogni scienza dura. Queste sono questioni fondamentali che
vanno poste perché se non si ammette che la crisi economica ha prodotto una
chiara crisi nei modelli economici dominanti, e se sono sempre i soliti,
indipendentemente dalla bontà delle loro previsioni, a suggerire scelte
cruciali in campo economico (ovvero in qualsiasi campo della vita pubblica)
avendo a disposizione l’intero universo mediatico come accade in Italia, con
ogni probabilità si continueranno a fare scelte sbagliate che peggioreranno le
cose, mascherandole però da scelte dettate da una scienza naturale.
Per
spiegare meglio il punto possiamo fare un parallelo con quella che è considerata
la “regina” delle scienze dure, la fisica. I fisici hanno imparato a
considerare criticamente ogni teoria entro dei limiti ben precisi che sono
dettati dalle assunzioni usate e dagli esperimenti disponibili: hanno perciò da
tempo appreso a non scambiare ciò che avviene nel modello con ciò che invece
accade nella realtà. In fisica i modelli si confrontano con le osservazioni per
provare se sono in grado di fornire spiegazioni precise, come ad esempio la
processione del perielio di Mercurio che con la Teoria della Relatività
Generale può essere calcolata di circa 0,019 gradi per secolo in accordo entro
0,0005 gradi per secolo con le misure sperimentali, oppure di fornire
previsioni di successo, come ad esempio le onde elettromagnetiche postulate da Maxwell
nel 1873 e generate da Hertz nel 1887. Similmente, si può asserire che l’uso
della matematica nell’economia (neoclassica) serva ad un tale scopo? Oppure
questo uso si riduce ad un puro esercizio retorico in cui si fa sfoggio di
usare uno strumento (relativamente) sofisticato per calcolare precisamente cose
irrilevanti come capita in astrologia? Ad esempio, secondo il filosofo della
scienza Donald Gillies, “l’uso della matematica in economia neoclassica non ha
prodotto alcun spiegazione precisa o previsione di successo”.
Per
dipanare la questione si deve rispondere a questa domanda: gli assiomi
fondamentali usati in economia sono sottoposti a test empirici? Ad esempio: i
mercati liberi sono efficienti o sono selvaggi? La risposta a questa domanda
viene dalle osservazioni o è un’assunzione indiscutibile? Questo è un punto
cruciale in quanto chi pensa che i mercati liberi siano efficienti e si
auto-regolino verso una situazione di equilibrio stabile sarà portato a
proporre un ruolo dei mercati sempre più importante e ad “affamare la bestia”,
lo Stato corrotto e clientelare. Chi pensa che i mercati liberi siano invece
dominati da fluttuazioni selvagge e intrinsecamente lontani da un equilibrio
stabile, generando invece pericolosi squilibri e disuguaglianze, sarà indotto a
proporre un maggiore intervento dello Stato, cercando di migliorare
l’efficienza di quest’ultimo.
Dunque il successo all’interno dell’università dell’economia mainstream, oltre a delle implicazioni puramente
accademiche, pur importanti, come il fatto che le posizioni in ambito
accademico vengono assegnate soprattutto ai membri della scuola dominante,
comporta una implicazione politica fondamentale: quando è il momento di chiedere
una consulenza all’“esperto” su un tema specifico, a chi si rivolgerà il
politico di turno se non all’accademico? E, nel nostro tempo, quale
categoria di accademici è la più ascoltata dai politici?
A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi ed altri hanno
recentemente scritto una lettera in cui denunciano quella che è, a loro avviso,
una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media di questo
paese: “La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi
economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a
nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla
della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e
un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le
scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un
attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle
popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate
… come comportamenti obbligati … immediatamente determinati da una crisi a sua
volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli
retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica
che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di
vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di
severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi
sostenitori.”
I promotori di questa lettera non sono gli unici a denunciare un certo
monopolio dell’informazione in tema economico. Ma c’è davvero un monopolio
d’informazione? Per rispondere a questa domanda in maniera quantitativa abbiamo
cercato di identificare chi tra i professori universitari d’economia ha
maggiore spazio nei più diffusi quotidiani italiani. Abbiamo dunque considerato
la lista dei professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per
ognuno abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su La Repubblica, Il
Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e
precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo
utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati). il
risultato di questo studio è molto chiaro: c’è una netta predominanza d’economisti
di scuola liberista a cui sono affidati i commenti economici sui principali
quotidiani nazionali. E’, infatti, possibile identificare gruppi connessi di
editorialisti che sono anche coautori di articoli scientifici e che dunque
hanno la stessa visione del problema economico. E’ interessante notare che il
gruppo connesso principale è formato da Francesco Giavazzi, Tito Boeri, Alberto
Alesina, Luigi Zingales, Roberto Perotti, Luigi Guiso, Andrea Ichino e Guido
Tabellini, tutti docenti o ex studenti dell’università Bocconi, la gran parte
dei quali si è avventurata nel fallimentare lancio del partito “Fermare il
declino” scegliendo come leader Oscar Giannino che ha poi abbandonato la
partita in quanto ha millantato falsi titoli di studio proprio in economia.
Si potrebbe però argomentare: scrivono più articoli perché sono i migliori. Tuttavia,
come abbiamo discusso in precedenza, nell’economia ci sono diversi paradigmi e,
a differenza di quanto accade nelle scienze esatte in cui è possibile una
verifica sperimentale delle diverse teorie, coesistono in maniera conflittuale
e per questo il pluralismo di posizioni è particolarmente
importante. Ha oggi dunque ottime ragioni chi denuncia che la crisi economica è
presentata quasi esclusivamente come una crisi del debito pubblico e non crisi
delle banche, che hanno accumulato quintali di prodotti finanziari tossici. Il
megafono di questa visione sono i soliti cultori del dio mercato e i seguaci
delle le dottrine neoliberali che, facendo passare per soluzioni tecniche
scelte ideologiche, “hanno goduto di un monopolio dei cervelli che non ha precedenti
nella storia”
“Il
nuovo e vincente personaggio che sta attraversando la scena del mondo è
l’estrema destra economica che ormai comanda con forza brutale e che ha
finalmente rimpiazzato il vuoto lasciato nella storia dall’estrema
destra politica, ormai ridotta a poche caricature. L’estrema destra economica
ha visto il vuoto culturale e politico che si è creato e si è inserita cercando
di sovvertire la Costituzione solidaristica italiana nei tre punti
fondamentali del rimuovere ogni controllo alle decisioni del settore privato,
nel togliere al governo dei cittadini il controllo e la responsabilità della
spesa pubblica (il cosiddetto vincolo di pareggio del bilancio) e nel mettere i
lavoratori in condizione di ubbidire senza parlare, se hanno la fortuna di
essere accolti dentro le mura di una delle fabbriche superstiti”. Nella
confusione politica generale che stiamo vivendo, le idee dell’estrema destra
economica hanno permeato i partiti di centrosinistra in tutta Europa. In Italia
il Partito Democratico, porta avanti anche idee che altrove sono dell’estrema
destra politica ed è non di rado in balìa di gruppi di pressione molto ben
organizzati. Gli stessi che, presenti su tutti i media nazionali, come un sol
uomo continuano propugnare le stesse tesi appoggiati anche da riviste e
quotidiani di riferimento per i riformisti di questo paese, che danno ampio
spazio a queste idee. Nel vuoto generale questa lobby di pensieri
prefabbricati cerca di vendere a una politica ormai priva d’idee e di contenuti
la soluzione liberista come l’unica possibile, falsando i dati e
deformando la realtà. Per questo la battaglia culturale è intrinsecamente
legata a quella politica: senza un punto di riferimento culturale l’azione
politica rimane alla mercé di chi è più organizzato per manipolare l’opinione
pubblica.
* Tratto dal numero 0 della rivista “La Costituente” dal
titolo Egemonia e controegemonia, Anno I, 2013
Per approfondimenti questi aspetti rimandiamo a Giorgio Lunghini http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/1332-giorgio-lunghini-la-teoria-economica-dominante-e-le-teorie-alternative.html;
Alessandro Roncaglia http://www.syloslabini.info/online/le-origini-culturali-della-crisi/