Karl Marx ✆ Etsy |
Franco Soldani | Lo
stretto rapporto che Marx ha intrattenuto con la scienza del suo tempo è
provato non solo da tutta la sua storia intellettuale privata e pubblica, ma
soprattutto dal fatto che non si può conprendere a fondo nessuna categoria del
Capitale senza riferirsi al complesso sostrato scientifico che esse implicano.
Da questo punto di vista, diventa essenziale tanto capire quale sia stata la
comprensione che Marx ed Engels hanno avuto della razionalità scientifica
ottocentesca, quanto scoprire quale esito essa abbia poi avuto nel processo di
formazione dei concetti marxiani e nel disegnare il loro contenuto conoscitivo
specifico.
Marx, ovviamente, aveva una conoscenza
di prima mano della scienza del suo tempo. L'assidua frequentazione del British
Museum, durante il suo esilio londinese, gli ha permesso di accedere ad una
vasta mole di lavori scientifici che a loro volta rappresentano le fonti
concettuali della sua sofisticata interpretazione del modo di produzione
capitalistico. Naturalmente, non è che Marx mutui meccanicamente, o
semplicemente copi, dalla scienza di allora le sue convinzioni. Al contrario.
La sua relazione con dette fonti è complessa e multiversa, per niente lineare.
Nel saggio vengono discusse quattro idee fondamentali della sua analisi
sociale: a. La relazione cause-effetti; b. Il valore; c. Il metodo scientifico
inglese; d. La presunta fine della metafisica. In tutti e quattro i casi, la rilettura
del pensiero di Marx alla luce di quella genealogia specifica ha permesso di
ricostruire sia i peculiari significati attribuiti dalla
ragione scientifica
alle sue categorie, sia il significato specificamente sociale che Marx ha loro
attribuito, sia infine le prepotenti, nuove tendenze epistemologiche che
andavano prendendo forma in quegli anni all'interno della stessa comunità
scientifica. Un nuovo paradigma epistemologico stava allora emergendo ad opera
degli stessi scienziati direttamente letti da Marx o comunque a lui noti.
Mentre questo inedito modello di ragione dà la sua impronta, per vie altamente
mediate, a tutta la riflessione di Marx, questi non ha sempre avuto una chiara
consapevolezza delle conseguenze teoriche che tale pensiero scientifico
emergente aveva su alcuni suoi presupposti filosofici più generali, ed in
particolare sulle basilari assunzioni del materialismo storico e del
materialismo dialettico.
Se la scienza del suo tempo ci mette in
grado di comprendere la sofisticata impalcatura concettuale delle categorie
tramite cui Marx legge natura e struttura della società capitalistica,
contestualmente essa ci permette anche di capire i punti deboli e talvolta le
vere e proprie contraddizioni logiche in cui cade il suo discorso non appena
esso viene messo a raffronto con quelle tendenze della razionalità
scientitifica che gli sono sfuggite. In effetti, esiste nella concezione di
Marx una dialettica profonda tra dati di fatto contrastanti. Da una parte, la scienza
della sua epoca risulta essere indispensabile per poter capire la logica del
capitale. D'altro canto, la comprensione della dinamica interna del modo di
produzione capitalistico rende possibile una migliore delucidazione dei sottili
legami che connettono capitale e pensiero scientifico. Infine, quella stessa,
sofisticata conoscenza scientifica rappresenta, in specie con i suoi sviluppi
novecenteschi, una delle confutazioni più radicali dei vecchi assunti marxiani
- e di tutto il marxismo storicamente costituito, occorre dire - in merito alla
realtà e al processo di pensiero.
Già con la scienza moderna è divenuto
chiaro che non è più difendibile, al contrario di quanto erroneamente si crede
ancor oggi, alcuna forma di realismo epistemologico, né la cognizione può più
essere identificata con una qualsivoglia interpretazione di un oggetto storico.
Se nello studio scientifico della natura l'osservatore riflette soltanto la
propria attività concettuale, dando vita ad un processo ricorsivo di
acquisizione delle conoscenze, a maggior ragione quando si occupa della società
il soggetto non fa altro che confrontarsi con una moltitudine di altre
interpretazioni ancora, entro una fitta rete d'interazioni sociali in cui ciò
che conta è la solidità e la efficacia esplicativa del suo approccio
convenzionalista, la capacità di quest'ultimo di resistere alle refutazioni e
di promuovere analisi specifiche del mondo. Se in epoca contemporanea il
dominio del capitale si è conficcato negli apparati di macchine che reggono l'organizzazione
dell'attività lavorativa - che sono, è bene non scordarlo, scienza oggettivata
-, del pari il sapere ha assunto oggi una forma costruttivista (in cui la
conoscenza evolve a spirale all'interno della mente) talmente sofisticata che
nessuno dei modelli marxisti attualmente esistenti è in grado di far fronte al
suo enorme potere confutatorio.
Se le cose stanno così, e fine del
saggio è dimostrare che stanno così, allora è ovvio che è oggi indispensabile
abbandonare risolutamente tutti i concetti marxisti del passato, ormai datati.
Se il marxismo odierno, in tutte le sue varianti, non può più avviare
un'analisi soddisfacente della logica interna e più profonda della scienza
(dovendo al contrario assumerla come sapere atemporale), del pari nemmeno esso
è in grado di capire in che maniera tanto la razionalità scientifica ci
obblighi a ripensare tutta la nostra storia pregressa, quanto essa sia
assolutamente necessaria al capitale per assicurarne la riproduzione
impersonale e virtualmente illimitata. Oggi è ormai improcrastinabile un
radicale ripensamento e ridefinizione della concezione marxista della storia e
della tradizionale interpretazione marxista della conoscenza. O lo si farà in
maniera spregiudicata, vale a dire intellettualmente onesta e ferma, ma in pari
tempo totalmente innovativa, oppure il grande patrimonio concettuale
consegnatoci da Marx andrà di sicuro incontro, se ne può essere certi, alla sua
definitiva uscita di scena.
1. Marx, il
marxismo e la scienza
“Quand on suit une mauvaise route, plus on marche vite, plus on s’égare” | Diderot
“Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta” | Spinoza
“A Marxism not based on science is obsolete” | N. Cameron
Si dice che Oscar Wilde, dal suo letto di morte nella camera d’albergo che
l’ospitava, con impareggiabile humour britannico, abbia esclamato: “This
wallpaper is killing me!”. Mi domando se per caso i marxisti di oggi, senza
ovviamente il sarcastico aplomb di Wilde, non stiano facendo la stessa cosa.
Dopo aver rivendicato lungo tutto un secolo ormai lo statuto scientifico
dell’analisi marxista della società[1], attualmente
non esiste, per quanto ne sa chi scrive, alcuno studio dedicato alla formazione
scientifica di Marx[2]. Non esiste allo stato delle cose, per
quanto è a mia conoscenza, alcuna ricerca dedicata alla comprensione
dell’effettivo status epistemologico della scienza di allora, in tumultuoso
cambiamento, né tanto meno alcuna indagine relativa al rapporto che lega la
razionalità scientifica del tempo all’evoluzione interna del pensiero di Marx.
Entrambi, invece, sono stati quasi sempre letti in modo tradizionale e aproblematico,
come tramandava la vulgata, cosa che ha così vietato tanto la comprensione
della natura pluriversa ed estremamente dinamica, in mutamento, della scienza
ottocentesca, quanto la forma complessa ed altamente sofisticata della
concezione più critica di Marx. Del resto, di quella presunta scientificità del
marxismo storico, si potrebbe forse dire, vedremo perché, quello che Marx
stesso diceva dell’economia politica: cioè che “essa non comincia affatto nel
momento in cui se ne comincia a parlare come tale”[3].
Proprio
per questo, probabilmente, l’attuale declino relativo del marxismo (molto
simile ad una disintegrazione, per la verità) quale teoria sociale complessiva
con tutto viene spiegato – in genere, con il collasso prima e la scomparsa poi
dei paesi del cosiddetto “comunismo storicamente esistito”[4] – meno che con un’attenta analisi
dell’impronta che la scienza dell’Ottocento ha lasciato nel sistema concettuale
di Marx. Come cercherò di dimostrare, a parte questo problema cruciale, tutto
il resto, per quanto importante possa apparire, è “wallpaper”.
A
prima vista un’affermazione di questo tipo potrebbe sembrare provocatoria e
persino arrogante. Spero tuttavia di poter dimostrare che non è così. Non si
contano in effetti gli studi, recenti e meno recenti, dedicati da storici,
economisti, filosofi, sociologi, ed in genere da tutta una schiera di studiosi
sia ad una riconsiderazione dell’opera di Marx sia ad un nuovo utilizzo dei
suoi concetti[5]. Tuttavia il limite di tutti questi studi
sta nel fatto che essi ignorano un dato fondamentale, e cioè che il pensiero
scientifico dell’Ottocento prima e poi soprattutto quello del Novecento tanto
ha reso problematiche alcune rilevanti assunzioni di Marx (ripetute invece
stancamente, ancor oggi, da quasi tutti gli studi citati), quanto ha
completamente demolito tutte le categorie del marxismo storicamente costituito,
vecchio e nuovo, rendendo definitivamente superato e desueto il suo sistema
teorico complessivo, ciò che si potrebbe forse chiamare il suo paradigma
sociale basilare. È allora necessario ripensare radicalmente tutto quanto,
rimettendo in discussione anche le idee che a prima vista potevano sembrare
ancora valide, in primis ovviamente quella di valore. Senza quest’opera di
profonda revisione e potatura concettuale il marxismo, in tutte le sue mille
varianti, diventa inutile e perfino fuorviante. Se dovesse rimanere com’è,
secondo me è giusto che esso venga abbandonato e dimenticato dalle generazioni
future. Penso che l’estinzione delle teorie in società debba considerarsi un evento
naturale, alla stregua di quanto è già avvenuto nel passato per intere specie
animali e vegetali. Se accadesse, non ci sarebbe niente di sorprendente. Caso
mai sarebbe innaturale il contrario. D’altro canto, se noi stessi non
prenderemo le distanze da quella vecchia concezione, a renderla un pezzo da
museo di sicuro ci penserà lo sviluppo storico del capitalismo contemporaneo.
Mi sembra francamente che a questa società davvero non manchino i “grandi
mezzi” massmediatici – dalle istituzioni culturali (Università, Case editrici,
ecc.) a quelle dell’informazione (Televisioni, Quotidiani, ecc.) - per poterlo
fare oggi molto comodamente. Del resto, non è neanche escluso che nuovi sistemi
di pensiero non marxisti possano un domani non molto lontano rimpiazzare il
marxismo nella spiegazione e nella critica della società capitalistica[6], magari
migliorando la nostra comprensione dei suoi meccanismi
riproduttivi più essenziali.
Per
il momento sostengo che la scienza di metà Ottocento rappresenta per Marx tanto
l’archetipo per eccellenza del pensare in maniera razionale, quanto gli
fornisce una chiave interpretativa fondamentale per la spiegazione della natura
e delle tendenze più tipiche del modo di produzione capitalistico. Il pensiero
scientifico di cui Marx ha diretta conoscenza, in altre parole, costituisce la
fonte teorica più importante di tutta la sua complessa analisi della società
capitalistica. In un certo senso, è la matrice cognitiva di quell’articolato
sistema di concetti – dal valore alla sussunzione reale, dal lavoro sostanza
alla visione dei soggetti quali funzionari del capitale, per non citarne che
alcuni tra i più importanti – dal quale in definitiva sono poi derivate le
varie forme del marxismo storico fiorite nel Novecento. Sia l’interpretazione
della riproduzione capitalistica, sia la multiversa natura del marxismo
storicamente esistito (nonché, ovviamente, delle società in cui esso si è
incarnato) dipendono dunque dalla preliminare rappresentazione del sapere
scientifico che Marx si è data. Il sostrato scientifico della sua concezione
può forse meglio spiegare, più di qualsiasi altro referente, l’interna
evoluzione del marxismo novecentesco e le particolari sue varianti nazionali ed
internazionali, giacché solo detto sostrato ci mette in grado di capire le
deformazioni e gli errori in cui è incorsa la comprensione del pensiero di Marx
da parte dei diversi scholar del movimento operaio moderno.
2. Le fonti scientifiche del
pensiero di Marx
“Ignoring the origins of things is always a risky matter” | G. Edelman
Naturalmente,
ciò non vuol dire che Marx avesse una completa padronanza o un’esaustiva
conoscenza dei paradigmi scientifici della sua epoca. Da quel gran divoratore
di libri che era, certamente era molto informato. Del resto, a questo
proposito, non si definiva egli stesso “eine Machine”?[7] Nondimeno, alcune cose della scienza
moderna, come vedremo, gli sono comunque sfuggite. E forse, a giudicare dalle
circostanze in cui Marx si è trovato, non poteva essere altrimenti.
Quali
erano dunque, con ogni verosimiglianza, le sue principali fonti d’informazione
e di documentazione? Qui conviene forse distinguere due
periodi. Prima del suo esilio dal continente e durante il
suo definitivo soggiorno a Londra e in Inghilterra. Diverse sono infatti nei
due casi i testi consultati da Marx e le condizioni in cui avviene la conoscenza
del pensiero scientifico dell’epoca. Nel primo periodo, diciamo dal 1842 al
1850, l’Illuminismo francese è forse il suo primo tramite con la scienza di
allora[8]. Il sensismo materialista del Settecento
sembra rappresentare il suo primo contatto effettivo con tematiche non più
soltanto storico-giuridiche o filosofico-politiche, bensì squisitamente
scientifiche. Nel corso di questi anni Marx consulta infatti diverse opere
scientifiche in senso stretto nei più diversi campi della conoscenza: dalla
chimica all’astronomia, dalla botanica alla biologia, dalla geologia alla
fisica[9]. Solo man mano che cresce il suo
interesse per l’economia politica, comincia a leggere anche una gran
quantità di libri sulla storia della tecnologia e la divisione del lavoro così
come veniva allora interpretata dagli studiosi inglesi, tedeschi e francesi più
noti, o che in ogni modo avevano attirato la sua attenzione[10].
Nel
secondo, presumibilmente dal giugno 1850, non appena Marx riceve il suo pass al
British Museum, al 1867, anno di pubblicazione del primo libro di Das Kapital,
le fonti aumentano di numero e si diversificano[11]. In primo luogo, naturalmente, vi sono i
volumi che la British Library gli mette a disposizione[12]. Nel più grande “Temple of knowledge”
dell’Ottocento si può ragionevolmente pensare che Marx abbia avuto accesso a
quasi tutte le pubblicazioni scientifiche del tempo, sicuramente alle più
importanti. In secondo luogo, sembra ragionevole supporre che Marx abbia potuto
prendere visione del dibattito scientifico e delle ricerche del tempo
attraverso le riviste che allora in Gran Bretagna si occupavano espressamente
di scienza[13]. Anche se erano poche e per un pubblico
specializzato, è probabile che Marx le abbia usate per documentarsi sugli
sviluppi del pensiero scientifico e magari per compilare una sua personale
bibliografia scientifica.
Meno
congetturali sono invece le opere degli scienziati, letti o comunque
sicuramente conosciuti da Marx, desumibili dal suo Briefwechsel. Nel
periodo in questione sembrano concentrarsi quasi tutte le opere relative alle
scienze naturali – concernenti essenzialmente la biologia e la geologia, la
fisica e la matematica, la mineralogia e l’astronomia, la chimica e la botanica
– che poi confluiranno nel primo volume del Capitale[14].
Qui giocano certamente un ruolo di primo piano le letture consigliate da
Engels, il quale trovandosi a Manchester usufruiva di un punto di osservazione
privilegiato - anche se non sempre attendibile, come vedremo - per la
conoscenza del pensiero scientifico europeo[15]. Fondamentale, a questo proposito, sono
naturalmente i libri catalogati nella famosa biblioteca privata di Marx ed
Engels, da poco pubblicata nella MEGA²[16]. Questa è la fonte primaria da cui si
può avere una panoramica pressoché completa degli autori e delle opere
scientifiche con certezza studiati dai due grandi tedeschi negli anni che qui
interessano.[17] Infine, è necessario ricordare
almeno due altre circostanze che di sicuro hanno permesso a Marx di
approfondire la sua conoscenza del mondo scientifico di metà Ottocento. Da una
parte, vi sono infatti i public meetings e le conferenze di scienziati inglesi
tra i più influenti a cui Marx assisteva di persona[18]. Dall’altra, vi sono infine le lezioni
di meccanica e anatomia, sia di Robert Willis sia di Henry Huxley ad esempio,
che egli stesso seguiva per meglio documentarsi in merito alle più recenti
acquisizioni della scienza dell’epoca[19].
Come
si vede, il ventaglio delle fonti possibili, probabili e certe, attraverso cui
Marx poteva prendere visione diretta della scienza del suo tempo, dell’interna
struttura concettuale del pensiero scientifico in pieno sviluppo
dell’Inghilterra Vittoriana, è davvero considerevole, tanto dal punto di vista
quantitativo quanto da quello qualitativo[20]. Il quadro d’insieme da esse delineato
ci fa meglio capire quanto debba essere stata varia e complessa l’influenza
avuta dalla scienza nel determinare forma e contenuto delle idee marxiane.
Vista l’ampiezza, la diversificazione e la qualità delle fonti, sicuramente
Marx ha avuto modo di formarsi un’opinione precisa dello stato della scienza
della sua epoca. Si tratta di vedere tuttavia se egli ne ha colto tutte le
diverse anime e implicazioni. In quella intensa attività di documentazione e
analisi, tre sembrano essere gli atteggiamenti tenuti da Marx a fronte dei
concetti scientifici con i quali è venuto in contatto. In primo luogo,
sostengo, Marx ha incorporato nel suo sistema teorico una buona parte
delle idee scientifiche scoperte strada facendo nel corso dei suoi studi senza
alterarne il significato. Semplicemente esse sono state assorbite tali e quali
nel suo sistema teorico (anch’esso in statu nascendi in quegli anni). In
secondo luogo, una serie invece di queste categorie ha subito alcune
trasformazioni concettuali che hanno permesso a Marx di adattarle in maniera
specifica alla (di accomodarle in un certo senso nella) propria problematica,
cambiando almeno in parte il loro originario contenuto[21]. Infine, una parte non secondaria
dei concetti che allora andavano prendendo forma all’interno del pensiero
scientifico, e che avrebbero ben presto disegnato la nuova epistemologia
emergente, è stata sostanzialmente fraintesa da Marx, sia perché a volte non ne
vede la complessità, le molteplici tendenze, oppure perché non riesce a
cogliere la duplicità e l’ambiguità di certe sue premesse.
Se
le due prime assimilazioni rappresentano ciò che permette a Marx di dare la sua
impronta tipica all’analisi della società, l’ultima esclusione rappresenta
invece ciò che mette in discussione alcuni aspetti di rilievo della sua
elaborazione, inficiandone l’efficacia esplicativa e persino l’attendibilità
logica. Se da un lato la scienza serve a Marx sia per spiegare la natura
altamente specifica del modo di produzione capitalistico rispetto alle epoche
sociali passate sia per dare alla sua interpretazione della realtà
capitalistica un imprimatur scientifico e quindi oggettivo (non meramente
politico-ideologico, soggettivo o arbitrario), dall’altro l’evoluzione interna
della razionalità scientifica dell’epoca e il suo carattere multiverso mettono
in discussione alcuni di quei presupposti concettuali che invece Marx pensava
di poter mutuare senza alcuna ulteriore indagine critica da quello stesso
pensiero. L’aspetto paradossale della questione è che mentre la scienza
ottocentesca li stava abbandonando, Marx li assume al contrario come suoi
referenti epistemologici. La cosa, naturalmente, avrà ripercussioni profonde
sulla sua concezione della conoscenza e del reale. Questo quadro è del resto
complicato da due altre implicazioni. Se infatti la scienza consente a Marx di
meglio e più a fondo penetrare negli intrinseci (e perciò segreti) meccanismi
riproduttivi del capitale, per converso la sua sofisticata interpretazione del
modo di produzione capitalistico ci mette in grado anche di diversamente
impostare una virtuale critica della scienza stessa, dei suoi concetti e della
sua pretesa avalutatività, della sua presunta indifferenza per i valori societari
e per la storia delle classi nell’ambito della società attuale. Per suo conto,
d’altro canto, la maniera in cui la razionalità scientifica ha trasformato i
suoi paradigmi basilari tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo
successivo ci indica anche che cosa debba essere ridiscusso
e riformulato nell’analisi marxiana della scienza stessa, e per
conseguenza nell’interpretazione della realtà sociale derivata da quest’ultima.
Insomma, se nel pensiero scientifico è insita la logica riproduttiva del
capitale, allo stesso modo la dinamica intrinseca di quest’ultimo
viene meglio svelata, o resa per la prima volta intelligibile, proprio dal
processo di formazione di quella razionalità scientifica che il capitale ha
condizionato sin dall’inizio della sua epoca. A mio avviso è questa una
dialettica infinitamente superiore a tutte quelle striminzite formulette sul
divenire, l’emergere del nuovo, eccetera, da tutti ripetute nel corso dei
decenni. Come si dice, no comparison! Per tentare di illustrare con esempi
concreti queste ipotesi, prenderò in considerazione quattro idee basilari del
pensiero di Marx, quattro punti cardine del suo intero paradigma teorico: 1. La
convinzione che le cause esistano solo nei loro effetti; 2. La natura del
valore; 3. Die plumpe englische Methode[22] attribuito a Darwin; 4. La fine
della metafisica.
3. La relazione cause-effetti
“Un observateur qui ne voit les choses que du dehors, ne voit rien” | M. Proust
Alcuni
dei principi concettuali più importanti della concezione marxiana affondano la
loro radice nel rapporto che nel modo di produzione capitalistico si stabilisce
tra apparenza ed essenza delle cose. Come ci vien detto, “ogni scienza sarebbe
superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente
coincidessero”[23]. Oserei anzi dire che la distinzione in
causa costituisce il fondamento epistemologico di tutta la complessa analisi
sociale di Marx, il pillar che sostiene l’intera sua interpretazione del modo
di produzione capitalistico, e senza il quale il suo impianto teorico
complessivo crollerebbe senza meno. L’intero Capitaledovrebbe
allora essere riscritto. Si tratta dunque di un passaggio estremamente delicato
dal punto di vista teorico. In sostanza, è il punctum dolens di tutto
il pensiero di Marx, la categoria tramite la quale tutto sta ed insieme cade.
Per questo merita un’attenzione particolare. L’intrinseco significato dell’idea
in questione è triplice. Vediamo, tout d’abord, i primi suoi due risvolti.
Innanzitutto,
essa implica una distinzione concettuale di rilievo tra due ambiti
fondamentali del mondo capitalistico: “Bisogna distinguere le tendenze generali
e necessarie del capitale dalle forme nelle quali esse si presentano”[24] Le
prime hanno il carattere di leggi causali, le seconde rappresentano invece i
loro effetti tangibili, constatabili empiricamente e persino misurabili. Se le
si confonde, o se si annulla il clivage che le separa, ci si vieta da soli la
possibilità di rendersi intelligibile l’ambito di realtà che entrambe
contribuiscono a creare. Se tale mondo è la società attuale, diventa allora
impossibile poterne delucidare gli aspetti più complessi e meno visibili.
Ascoltiamo come Marx spiega di nuovo il concetto in questione: “Se, come il
lettore ha dovuto a sue spese convincersi, l’analisi dei reali rapporti interni
del processo capitalistico di produzione è molto complicata ed impone un lavoro
assai gravoso, se è compito della scienza ricondurre il movimento apparente,
puramente fenomenico, al movimento reale interno, è facile comprendere come
necessariamente gli agenti della produzione e della circolazione capitalistica
si debbono fare delle idee sulle leggi della produzione che sono in assoluto
contrasto con il reale significato delle leggi stesse, esprimendo unicamente il
movimento apparente”[25]. Marx non si stanca di ripetere questa
basilare avvertenza, aggiungendovi nel contempo nuove specificazioni: “La forma
definitiva dei rapporti economici, quali si manifesta alla superficie, nella
sua esistenza reale, e quindi l’idea che gli agenti attivi e passivi [die
Träger und Agenten] di tali rapporti cercano di farsene per arrivare a
comprenderli, differiscono considerevolmente dalla intima, essenziale, ma
nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e dal concetto che ad essi
corrisponde, anzi ne rappresentano addirittura il rovesciamento, l’opposto”[26].
La
distinzione in oggetto è dunque di cruciale importanza tanto per poter tener
conto della presenza dei due livelli di realtà (la superficie e il suo nucleo
più profondo, altra metafora scientifica) quanto per poter così portare alla
luce il meccanismo riproduttivo più interno del modo di produzione
capitalistico, senza la comprensione del quale non resterebbe in piedi niente
nell’analisi marxiana. Si pensi, in questo caso, all’ultima precisazione
contenuta nel passo citato, e il cui sofisticato contenuto concettuale verrà
chiarito più avanti.
In
secondo luogo, tutte le forme d’espressione del capitale in quanto tale – dal
salario al profitto, dalle rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti
interindividuali tra soggetti, per non citare che le più rilevanti – si
rapportano alla loro fonte in maniera altrettanto peculiare. Il capitale in
quanto tale che si rende responsabile della loro esistenza e del
loro aspetto dinamico finisce infatti con l’esistere solo in e tramite esse.
Questo significa che esso è conoscibile da parte dei diversi individui
societari unicamente attraverso le conseguenze che induce nel mondo dei
fenomeni, che anzi consta di tali effetti. I singoli, in
virtù di quel processo, hanno perciò accesso cognitivo e pratico soltanto a
questi ultimi. Il capitale, in altre parole, può essere percepito e compreso
dagli agenti sociali soltanto attraverso quelle forme che gli danno concreta
esistenza empirica nel contesto della storia societaria in cui si sviluppa la
realtà sensibile, quella di cui si può fare esperienza (diretta o indiretta).
Vediamo come spiega la cosa Marx stesso: “Il borghese vede che il prodotto
diventa costantemente condizione di produzione. Ma non vede che i rapporti
stessi di produzione, le forme sociali in cui egli produce e che gli appaiono
rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il
costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale”[27].
Il concetto, allo scopo evidente di metterne in rilievo l’importanza teorica, è
chiarito più volte: “È quindi la costante riproduzione dei medesimi rapporti –
dei rapporti che condizionano la produzione capitalistica – che li fa apparire
non solo come forme sociali e risultati di questo processo, ma in pari tempo
come suoi costanti presupposti. Essi però sono tali solo come presupposti
che esso costantemente pone, crea, produce”[28].
Il
capitale come tale, dunque, pone le sue forme di manifestazione o mette al
mondo i suoi modi d’esistenza trasformandoli contemporaneamente in primi
cominciamenti, o premesse infondate e non più problematizzabili, del suo
interno sviluppo, della dinamica intrinseca tramite cui si realizza. Tutte
queste categorie sono suoi risultati, ma esistono al mondo (e lo conformano in
maniera complessa) in guisa di presupposti d’ogni cosa.
Sono conseguenze di uno specifico sostrato e da questo dipendono, ma
nello stesso tempo hanno un apparente status già dato o essente da
cui tutto sembra cominciare. Noto tra parentesi che l’intero marxismo storico,
compreso quello odierno, non ha mai avuto alcuna cognizione di queste complesse
nozioni[29]. Tuttavia, da quale fonte specifica e
attendibile mutua Marx questa sofisticata idea? Sostanzialmente dalla scienza
del suo tempo. È infatti l’interpretazione della natura da parte del paradigma
newtoniano di allora, dominante del resto in Gran Bretagna e in Europa, a
fornirgli la base concettuale più autorevole per la sua argomentazione.
La
congettura scientifica secondo la quale le cause naturali esistono solo nei
loro effetti, e sono conoscibili soltanto tramite le conseguenze che esse – con
la loro apparizione e manifestazione concreta – inducono nel mondo dei fenomeni
percepibili e additabili, sensibili e misurabili, è stata sostenuta e
apertamente argomentata precisamente da uno dei divulgatori più importanti di
Newton, ben noto anche a Marx[30]: Colin MacLaurin. Nel volume dedicato
proprio all’esposizione dei principi scientifici dell’opera newtoniana[31],
il fisico e matematico scozzese enuncia la tesi in oggetto in maniera
inequivocabile: “Our knowledge of things penetrates not into their substance:
we perceive only their figure, colour, external surface, and the effects they
have upon us, but no sense, or act of reflection, discovers to us their
substance”[32].
Se
la natura sicuramente possiede un ordine ed una regolarità invarianti,
un’intrinseca struttura legisimile (universale e necessaria) che dà stabilità e
relativa certezza al nostro mondo, consentendoci di poter sottoporre
al vaglio dell’esperienza e della previsione le nostre teorie[33], essa è tuttavia da noi comprensibile
solo indirettamente e per il tramite dei meccanismi osservabili nell’ambito
empirico. Questa convinzione riposa ovviamente sul fatto che l’intero sistema
dell’universo deriva la sua esistenza in primo luogo dall’opera attiva del
Divine Architect a cui ogni cosa deve la sua nascita[34]. Tuttavia, un altro motivo fondamentale
che spiega l’idea in questione è il fatto che secondo MacLaurin sarebbe un
errore logico capitale, oppure una spropositata e persino arrogante
presunzione, pretendere di poter risalire all’inizio dell’infinita catena di
cause – detto anche “Supreme or First Cause”[35] – che si è resa responsabile degli
effetti constatabili nel mondo dell’esperienza[36]. Presumere di poterlo fare,
rinchiuderebbe la nostra ragione in una gabbia dalla quale sarebbe poi
impossibile uscire, giacché dovremmo presupporre l’illimitata capacità del
nostro intelletto di affrontare la regressio ad infinitum implicita nella tesi
di partenza. Il che è assurdo.
Entrambe
le limitazioni in oggetto – derivanti tanto dalla teologia quanto dalla stessa
complessità della natura – rendevano dunque all’epoca estremamente plausibile
sostenere l’interpretazione descritta, che implicitamente contiene anche
l’importantissima distinzione tra causalità e legalità dei fenomeni naturali,
concetto su cui converrà tornare più avanti. Lo stesso divieto teologico, del
resto, non rappresentava affatto un insuperabile “ostacolo epistemologico”, per
dirla con Bachelard, alla incipiente trasformazione dell’epistemologia scientifica
moderna[37]. Non appena diverrà chiaro che quel
postulato rappresentava comunque un’assunzione dell’osservatore, la sua
funzione concettuale subirà dei mutamenti significativi, divenendo persino più
sottile, cosa che gli permetterà così di poter ancor meglio esplicare il suo
potere vincolante in contrapposizione alla teorie rivali[38].
Si
può sostenere, con fondate ragioni, che il manuale di MacLaurin rappresentava
l’interpretazione standard di una teoria fisica universalmente condivisa dalla
comunità scientifica del tempo? Ben difficilmente lo si potrebbe negare[39] E
non solo perché ovviamente poggiava sull’allora indiscussa autorità di Newton.
La concezione in oggetto era infatti predominante in tutto il milieu
scientifico europeo ancora decenni dopo, a riprova sia della sua reale e
duratura influenza sia della sua ampia diffusione presso le societés
savantes dell’epoca (del resto MacLaurin era stato più volte insignito di
diversi riconoscimenti da parte della “Académie Royale des Sciences” di Francia
in seguito a suoi importanti lavori matematici sulla teoria del calcolo)[40].
Agli
inizi dell’Ottocento, ad esempio, René Haüy, il fondatore della
cristallografia, nel suo ponderoso Traité élémentaire de physique in
quattro volumi[41], poteva nuovamente affermare che le
forze della natura “ne se manifestent à notre égard que par leurs effets. Ce
n’est que par les effets qu’elles sont capable de produire, que nous
pouvons les mesurer”[42]. A ulteriore conferma del credito che
questo enunciato scientifico godeva tra i fisici del tempo, Maurice
Becquerel, padre del forse più famoso Henry, a cui si deve la scoperta della
radioattività, poteva a sua volta riferirsi al medesimo principio per
giustificare in un certo senso i limiti della scienza nello studio del mondo
naturale: “Dans l’impossibilité de remonter à la cause des phénomènes produits,
il faut se borner à étudier les effets et les lois qui les régissent”[43].
Il
consenso degli scienziati del tempo intorno a questo principio era dunque
pressoché unanime, anche dal punto di vista geografico. Johannes Müller, un
importante fisico tedesco dell’epoca (da non confondere con l’altrettanto
celebre fisiologo, suo contemporaneo), argomenta infatti in maniera pressoché
identica la sua interpretazione della ricerca scientifica: “Das innere Wesen
der Körper ist uns verschlossen, sie sind uns nur durch die aussere Erscheinung
bekannt, d. h. wir wissen von ihnen unmittelbar nur das, was wir durch die
Vermittlung unsrer Sinne von ihnen erfahren”[44]. Poiché le prime fonti della nostra
conoscenza della natura sono l’osservazione e l’esperienza, che poi l’attività
razionale del nostro intelletto trasforma in sapere scientifico delle cose, noi
possiamo dire ben poco sull’ultimo fondamento della realtà. Al contrario: “Nur
der aussere, nicht derinnere zusammenhang kann durch die Erfahrung
gefunden werden. Über die inneren Ursachen der Erscheinungen, über das Wesen
der Kräfte, welche sie hervorbringen, können wir nur Vermuthungen, Hypothesen,
aufstellen”[45].
Si
può dire che Marx avesse una familiarità di prima mano con l’opera di questi
ultimi scienziati? La cosa infatti potrebbe sembrare dubbia visto che nessuno
di loro, né in Das Kapital né altrove, viene espressamente citato
quale referente dell’analisi. Si potrebbe forse pensare, a questo punto, che
Marx ignorasse l’esistenza di queste tendenze[46]. E tuttavia niente sarebbe più errato.
Non solo esse erano moneta corrente nella scienza del tempo, ma si ritrovano
immutate anche nei volumi scientifici sicuramente letti da Marx. Si veda, ad
esempio, l’ampio studio di Benjamin Witzschel dedicato all’esposizione delle
acquisizioni più recenti della fisica alla metà dell’Ottocento[47],
oppure i tre volumi dell’Encyclopädie curata da Matthias Schleiden e
Erhard Schmid, opere che facevano parte entrambe della biblioteca di Marx[48] .
Se tuttavia vi fossero ancora delle incertezze in merito, queste dovrebbero
essere dissipate dalla lettura di almeno due altri autori ben noti, il secondo
anche di persona, a Marx: John William Herschel e Thomas Henry Huxley.
Per
il famoso astronomo e fisico inglese, nel volume che diverrà un influente
manifesto dell’induttivismo ottocentesco e un autorevole trattato di
metodologia scientifica[49], l’ordine legiforme della natura
presuppone “the existence of causes acting under circumstances of such
concealment as effectually to prevent their direct discovery”[50]. Certamente, diveniamo consapevoli della
struttura causale del mondo fisico attraverso l’esperienza e l’osservazione, e
in genere avvertiamo o crediamo in questo ordinamento razionale di eventi per
mezzo di un atto intuitivo[51]. Come ci vien detto, la nostra credenza
nelle leggi di natura è “an internal feeling” e rappresenta “the practical
ground” di tutta la nostra esistenza, compresa ovviamente la nostra attività
logica e conoscitiva. Nondimeno, la nostra comprensione della causalità
naturale non può avvenire in forma diretta né può aspirare alla completezza. Il
perché, a parte ogni altra considerazione relativa alla costitutiva
imperfezione dei nostri mezzi d’indagine ed ai loro limiti[52], è presto detto: “In general we must
observe that motion, whenever produced or changed, invariably points out the
existence of force as its cause; and thus the forces of nature become
known and measured by the motions they produce “[53].
Logicamente,
anche per Herschel la pretesa di poter comprendere la regolarità causale della
natura senza alcun temine intermedio è del tutto priva di fondamento. La natura
legiforme del mondo fisico, anzi, spiega ancora Herschel con insolita ed
inintenzionale enfasi convenzionale, “it is an axiom”[54] del nostro intelletto che solo
rende possibile lo studio razionale dei fenomeni e la ricerca di invarianti
nella loro infinita e multiversa interdipendenza. È precisamente questo “human
belief”[55] a rendere possibile
l’interpretazione concettuale delle cose, delle relazioni e dei processi
empirici un’impresa razionale[56]. Esso è dunque un presupposto della
scoperta scientifica e non il fine verso cui questa tenderebbe o dovrebbe
tendere. In sintesi, allora, la conoscenza scientifica della natura non può che
passare attraverso la mediazione delle conseguenze indotte dalla “struttura
intima” dell’universo nel mondo sensibile della nostra esperienza empirica: “The
agents employed by nature to act on material structures are invisible, and
only to be traced by the effects they produce”[57].
L’argomentazione
di Huxley non segue strade molto diverse. Per certi versi, anzi, ne è persino
uno sviluppo più radicale, come avremo modo di vedere nel paragrafo successivo.
Anche per il famoso evoluzionista, “Darwin’s Rottweiler” come verrà poi
chiamato[58], la natura possiede un odine fisso e
invariabile di cui facciamo esperienza ogni giorno osservando la regolare
successione e ripetizione degli eventi e dei processi che ci circondano[59].
Tuttavia quando postuliamo “the objective existence of a material world”[60] noi
non ammettiamo di poterne conoscere senz’altro l’intrinseco carattere
legiforme, necessario e universale, giacché allora, a parte che diverrebbe
impossibile poterne verificare la verità, dovremmo anche presuppore di poter
disporre di una ragione onnisciente in grado di ricostruire “the endless
procession of phenomena”[61], l’intera e complessa catena degli
accadimenti, il che è assurdo e manifestamente contrario alla realtà[62].
Al
contrario, quello che noi possiamo aspirare a comprendere e a rappresentare nei
nostri sistemi d’idee è la regolarità degli effetti che si susseguono nel mondo
fisico e ci confermano la presenza di un “underlyng substratum”[63] dal
quale deriva la relativa stabilità delle condizioni fisiche in cui viviamo. In
ogni caso, quando descriviamo il mondo fisico noi non facciamo altro che
ordinare e dare razionalità al complesso dei fenomeni che la natura ci pone
davanti quali differenti forme di manifestazione della materia. Come dice
Huxley, “natural lawsespress the general course of nature […] and they
remain laws only so long as they can be shown to express that order”[64].
Non
occorre, penso, risalire fino a Laplace[65] per capire che la distinzione tra
cause e leggi, tra ordine interno della materia e interdipendenza complessa dei
fenomeni, costituisce una delle categorie epistemologiche fondamentali della
scienza dell’epoca. Per tutta la comunità scientifica del tempo la differenza
tra i due livelli rappresentava un assunto indispensabile per poter tener conto
della ineliminabile forma finita e limitata della ragione umana[66].
Da questo punto di vista, poco importa che all’origine di
questa convinzione vi fosse una “Supernatural Intelligence”[67] o
“the rational order that pervade the universe”[68]. Sta di fatto che, o per motivi
religiosi o per ragioni scientifiche, noi possiamo aspirare a conoscere solo
gli effetti e le conseguenze tangibili, osservabili e misurabili, della
causalità necessaria operante in natura[69]. È solo in questo contesto che noi
possiamo costruire un’interpretazione razionale, decidibile e rettificabile,
rivedibile e controllabile, confutabile e assoggettabile a esperimento, dei
fatti d’esperienza.
Francamente
penso che non siano necessarie altre prove testuali a conforto della tesi che
ho cercato di illustrare. Quella concezione era talmente radicata nel pensiero
scientifico di allora che essa è rintracciabile un po’ in tutti gli scienziati
letti di sicuro da Marx[70]. Se poi si pensa al fatto che essa
attraversa indenne la transizione di fine secolo[71] per giungere intatta fino ai nostri
giorni[72], si dovrebbe avere un’idea più chiara
credo in merito alla sua effettiva validità epistemologica. La scienza moderna
corrobora dunque in pieno la distinzione fatta da Marx tra causa più interna e
sua manifestazione di superficie negli effetti visibili e apparentemente più
concreti o reali, i soli di cui si possa fare esperienza.
Tuttavia
una domanda sorge a questo punto spontanea. Le due distinzioni in oggetto si
ricalcano completamente? Hanno cioè entrambe lo stesso contenuto concettuale,
un identico status teorico? Penso proprio di no. Tra le due corre anche infatti
una sottile linea di demarcazione che ci dà la misura integrale dell’estrema
originalità del pensiero di Marx. La loro differenza dovrebbe gettare una nuova
luce anche sulle sue famose affermazioni relative all’interpretazione della
società attuale in termini di “processo di storia naturale”, come un organismo
il cui sviluppo segue una “legge di natura”[73]. L’idea di Marx deve la sua diversità
rispetto a quella d’impronta scientifica al fatto che essa interpreta un
differente oggetto, un modo di produzione e una formazione sociale storicamente
determinati, che debbono possedere caratteristiche del tutto originali se è
vero che “ilcapitale annuncia sin da principio un’epoca del processo
sociale di produzione”[74]. Qual è allora la specificità della
categoria di Marx? Si son già visti i primi suoi due livelli. Essi sono però
completati da un ultimo, e dirimente, significato che dà tutto il suo
peculiare finish (e la sua complessa struttura cognitiva interiore)
al concetto in questione. Vediamo.
Perché
è importante considerare in maniera differente i due piani di cui consta la
realtà sociale istituita dal modo di produzione capitalistico? Su che cosa si
basa la loro diversità? Su una caratteristica peculiare
delleErscheinungsformen: “È cosa abbastanza nota in tutte le scienze, tranne
nell’economia politica, che nella loroapparenza spesso le cose si
presentano invertite” [75]. Secondo Marx, dunque, le forme sociali
che danno espressione alle tendenze più intrinseche del capitale - dal salario
al profitto, dalla rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti
interindividuali tra soggetti - posseggono una natura opposta a quella che
effettivamente spetta loro. Tipica a questo proposito, precisa ancora Marx, è
la “forma di salario”: “Su questa forma fenomenica che
rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si
fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le
mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni
sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare”[76].
Le
forme di manifestazione, i modi d’apparizione del capitale, e ricordo che sono
tutte categorie sociali storicamente determinate - vale a dire, insisto, tutte
quelle istanze che danno corpo di sistema alla realtà societaria, che producono
la sua struttura istituzionale e la sua storia variabile nel tempo (dalla
politica al diritto, dall’agire economico al mondo dei valori e del simbolico,
dalla razionalità individuale alle molteplici agenzie ideologiche che ingabbiano
gli individui nelle loro specifiche funzioni sociali: in una parola, dalla mind
dei soggetti alle loro differenziate pratiche comunitarie) –, si presentano
dunque all’intelletto dei soggetti societari, secondo Marx, come istanze che
tanto esprimono il contrario della loro più interna natura preformata
quanto finiscono col rendere invisibile il fondamento da cui pure
dipendono. Questi due tratti delle categorie in oggetto sono contestuali e
coevolvono insieme. Entrambi rappresentano quanto di più specifico mai sia
stato prodotto dal processo di formazione del capitale. Al fine di chiarire in
maniera inequivocabile questo fondamentale concetto di Marx, ignorato del resto
da tutto il marxismo storicamente esistito, conviene citare un passo dirimente:
“Gli agenti della produzione capitalistica vivono in un mondo stregato, e le
loro stesse relazioni appaiono loro come proprietà delle cose, degli elementi
naturali della produzione. Ma è nelle forme estreme, le più mediate – in
forme in cui allo stesso tempo non solo è diventata invisibile la mediazione,
ma anzi è espresso il suo diretto contrario -, che le figure del capitale
appaiono come veri agenti e portatori immediati della produzione. Il capitale
produttivo d’interesse è personificato nel moneyed capitalist, quello
industriale nell’industrial capitalist, il capitale produttivo di rendita nel
landlord come proprietario della terra e infine il lavoro nell’operaio
salariato”[77]. All’intelletto e alla ragione formale
di questi variegati soggetti, qualunque ruolo essi occupino nel sistema
complessivo della riproduzione sociale, è dunque fatto divieto di poter mai
comprendere l’originaria forma derivata della loro condizione
sociale, che ad essi appare invece come una premessa del loro agire. Poiché il
processo che li ha posti in esistenza è divenuto irrappresentabile e si è
persino realizzato nel suo opposto, per tutti questi individui può avere senso
logico solo la loro razionalità infondata e senza causa alcuna, se
si esclude ovviamente la natura autoreferente dei singoli e la loro
apparentemente innata capacità decisionale. “Das Prinzip der Politik –
spiega del resto Marx - ist derWille”[78]. Questo meccanismo riproduttivo è
istituito dal capitale sin dai suoi inizi, e costituisce precisamente ciò che
lo demarca da tutte le formazioni sociali precedenti[79]. Chiaramente, degli individui simili mai
e poi mai potranno avere accesso alla comprensione della intrinseca
natura preformata delle loro funzioni sociali. Poiché nemmeno possono
pensare la loro ragion d’essere, questa per essi non ha significato
alcuno. La cosa è chiarita in maniera esemplare dallo stesso Marx: “In genere,
la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi
scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale.
Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del
processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta
di merci, e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno
già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini
cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che
per essi sono anzi immutabili, ma del loro contenuto”[80]. Mi sembra superfluo commentare
ulteriormente il pensiero di Marx. I famosi effetti sociali della dinamica
capitalistica innescati dalla sussunzione reale[81] – di nuovo: i diversi soggetti
intenzionali e più in generale tutte le categorie più importanti del modo di
produzione e della formazione sociale attuale - sono infatti “presupposti”,
“forme naturali e immutabili”, del tutto prive di “contenuto” specifico, del
sistema sociale che esse istituiscono e a cui danno la loro impronta
determinata, precisamente come le “forme estreme e più mediate” dell’economico
descritte in precedenza, quelle che rendevano invisibile la loro causa e ne
mostravano l’inverso.
In
sintesi, dunque, il principio metodologico di Marx si articola in tre complessi
livelli di significato che riassumo qui per comodità espositiva e per poterli
mettere a confronto con l’equivalente nozione scientifica. Prima di tutto, è
necessario distinguere le cause sociali dai loro effetti sensibili,
visibili e misurabili. In secondo luogo, bisogna farlo perché nell’ambito della
società detti risultati si presentano come presupposti d’ogni cosa,
come istanze già date da cui l’intera vita sociale deve avere inizio
(visto che nient’altro, oltre ad esse, sembra esistere). Infine, e questo
rafforza la prima avvertenza, gli effetti esistenti come entità incondizionate
rendono invisibile il loro fondamento e si rappresentano agli occhi
dei soggetti in guisa di enti naturali, preesistenti e autoidentici, senza
origine né causa genetica, addirittura senza alcun contenuto differente dal
loro puro e semplice esserci (o being there).
Benché
la categoria epistemologica basilare di Marx trovi una sua legittimazione
teorica nel pensiero scientifico della sua epoca, è tuttavia anche evidente che
essa possiede caratteristiche aggiuntive e specifiche rispetto all’equivalente
nozione scientifica. Se la scienza può supporre che la natura costituisca un
contesto sensorio diverso dalla razionalità umana, la stessa cosa non può
essere detta per la società. La cornice societaria dei soggetti non può essere
considerata, in alcun modo, un sistema d’istituzioni e rapporti differente
dagli (o peggio ancora esterna agli) agenti sociali che l’istituiscono e di cui
esso in definitiva consta. L’identica natura dei due ambiti esige anzi che
la loro distinzione, dovuta al peculiare modo di riprodursi del capitale, venga
spiegata in maniera originale. Precisamente ciò che Marx ha fatto con la
sofisticata spiegazione che ci ha dato, e che rende conto del modo in cui si
correlano in maniera complessa, fino ad entrare l’uno nell’altro, i due livelli
di realtà che all’inizio venivano distinti. La distinzione tra cause ed effetti
ha insomma, e deve avere, in società un suo status teorico differente da quello
ch’essa possiede nelle scienze naturali, giacché essa deve interpretare un
oggetto storico definito e del tutto particolare, completamente dissimile da
quello della scienza. Questa idea è stata enunciata da Marx sin dai tempi dell’Ideologia
tedesca ed era allora condivisa anche dagli scienziati dell’epoca[82].
Del resto, mentre per l’intelletto scientifico il principio di causalità può
rimanere sullo sfondo in guisa di idea regolativa per lo studio legisimile dei
fenomeni naturali, per l’interpretazione della società capitalistica era
indispensabile a Marx correlare i due livelli attraverso una mediazione capace
di spiegare come si passasse dall’uno all’altro e come agisse la determinazione
da parte della causa più profonda. Senza questa delicata, e ripeto altamente
sofisticata, dimostrazione sarebbe stato impossibile spiegare attraverso quali
caratteri specifici la tendenza interna si rappresenta poi nel suo mondo di
superficie, imprimendovi il suo marchio. La maniera in cui si passa dal
sostrato fondamentale della realtà sociale al pluriarticolato sistema degli
effetti restava per Marx una condizione essenziale da soddisfare per poter
sperare di dare alla sua interpretazione delle cose una forma razionale e
convincente, in cui quel contesto di cose, rapporti e processi vedesse infine
svelata la sua intima natura preformata, derivata e dipendente. Proprio ciò che
la complessa categoria discussa, con i suoi molteplici piani concettuali
interni, gli ha permesso di fare. Anche di tutto ciò il marxismo storico non ha
mai saputo nulla. Se la scienza della natura, come diceva Bachelard, è
interessata a conoscere soltanto i fenomeni[83], e al limite può porre la loro origine
nell’ignoto e nell’inconoscibile[84], una teoria critica della società non
può fare a meno di spiegare anche il motore interno che li produce. Altrimenti
non potrebbe mai contrastare quella logica della fatticità oggi come ieri
dominante nelle scienze sociali e così essenziale per il capitale
Note
[1] Da Marx stesso, come è noto, ad Engels,
via Kautsky, alla 3ª Internazionale e oltre, in pratica fino ai giorni nostri. Cfr. ad es. R. Young, Marxism
and the history of science, in Varii Auctores, Companion to the history of
science, Routledge, London, 1996, pp.77-86.
[2] Unica nobile eccezione gli studi di
Annelise Griese, che però non si occupa delle origini dell’interpretazione
marxiana della scienza né studia le opere degli scienziati letti da Marx. Cfr. ad es. a cura di A. Griese
e H. J. Sandkühler, Karl Marx – zwischen Philosophie und
Naturwissenschaften, Petere Lang, Berlin, 1997. Si veda anche lo studio
di S. Han, Marx in epistemischen Contexten. Eine Dialektik der Philosophie und der
‘positiven Wissenschaften’, Peter Lang, Berlin, 1995.
[3] K. Marx, Lineamenti fondamentali
della critica dell’economia politica, I, Firenze, La Nuova Italia, 1970,
p.34 (Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie, Dietz Verlag,
Berlin, 1974, p.27).
[5] Cfr. ad es. i seguenti volumi:
Varii Auctores, Un siècle de marxisme, Presses Universitaire du Québec,
1990; P. Souyri, Le marxisme après Marx, Flammarion, Paris, 1992; Varii
Auctores, Marxism beyond Marxism, Routledge, London, 1996; L.
Cillario, L’economia degli spettri. Forme del capitalismo
contemporaneo, Manifestolibri, Roma, 1996; M Vakaloulis - J. P.
Vincent, Marx après le marxismes, 2 Tomes, L’Harmattan, Paris,
1997; M. Sylvers, Gli Stati Uniti tra dominio e declino.
Politica interna, rapporti internazionali e capitalismo globale, Editori
Riuniti, Roma, 1999.
[6] C’è già chi lo sostiene da
tempo, magari proponendo un bricolage tra tradizioni diverse, impresa
in cui “there is no reason to believe that the outcome will be recognizably
Marxist”: cfr. ad es. P. Van Parijs, Marxism recycled, Cambridge U.P.,
1993 (la citazione è tratta da ibid., p.1); I Mészáros, Beyond Capital.
Towards a theory of transition, Merlin Press, London, 1995; Fr.
Laruelle, Introduction au non-marxisme, PUF, Paris, 2000.
[7] Cfr. la lettera a sua figlia
Laura dell’11 aprile 1868, in Werke, 32, p.545: ”Du wirst Dir
sicher einbilden, mein liebes Kind, daß ich Bücher sehr liebe, weil ich Dich zu
einer so ungelegenen Zeit damit belästige. Aber Du wärst sehr im Irrtum. Ich
bin eine Machine, dazu verdammt, sie zu verschlingen und sie dann in
veränderter Form auf den Dunghaufen der Geschichte zu werfen”. Il
paragone di Marx con il “letamaio della storia” si spiega col fatto che per lui
“dans l’histoire, comme dans la nature, la pourriture est le laboratoire
de la vie” (Cito dalla traduzione francese di J. Roy: Le Capital, Editions
Sociales, Paris, 1960, Tome II, p.168).
[8] Cfr. a cura di B. Kaiser, Ex
libris Karl Marx und Friedrich Engels, Dietz Verlag, Berlin, 1967, in
particolare la parte che contiene l’elenco dei volumi posseduti da Marx fino al
1850: Bestandsverzeichnis der Bibliothek von Karl Marx. Verfaßt von Roland
Daniels (1850), pp.209-228. Si tratta di 400 libri che Marx era stato costretto
a lasciare sul continente quando fu espulso da Colonia nel 1949. D’altro canto,
basta leggere le sue prime opere – dai Manoscritti economico-filosofici
del 1844 fino alla Miseria della filosofia - per rendersi conto
di questo fatto. Sul “ruolo dominante” della cultura scientifica francese a
cavallo tra 700 e 800 cfr. F. Mondella, La scienza tedesca nel periodo
romantico e la Naturphilosophie, in L. Geymonat, Storia del pensiero
filsofico e scientifico, vol. IV,
Garzanti, Milano, 1971, pp.264 e sgg. Cfr. anche J. Witt-Hansen, Marx’s
method in social science, and its relationship to classical and modern physics
and mathematics, in “Poznan Studies”, n.3, 1977.
[9] Cfr. i volumi censiti in B.
Kaiser, Ex libris, cit., pp.23-208. Cfr. anche S. Han, Die Metapher
der Zelle. Zur Rekonstruktion Marxscher epistemischer Kontexte, in
Griese-Sandkühler, Karl Marx, cit., p.106, secondo il quale “im Jahr 1845
konzentrierte sich Marx noch intensiver als früher auf das Studium der
positiven Wissenschaften”.
[10] I volumi che Marx legge durante questo
periodo si possono vedere in Mega², II, 3.6, Dietz Verlag, Berlin,
1982, Apparat: Literaturregister, pp.3123-3150. I nomi più noti sono quelli di A. Ure, C.
Babbage, J. H. Poppe, J. Beckmann, E. Boileau, W. Grove, F. W. Johnston, J.
Liebig.
[11] Per le letture dell’epoca successiva
cfr. Mega², IV, 31, Mitte 1877 bis Anfang 1883, Akademie Verlag, Berlin,
1999, con una esauriente Einführung di Anneliese Griese.
[13] Su
questi journals in lingua inglese – i più importanti dei quali,
insieme naturalmente ai Proceedings della Royal Society, erano
la Edinburgh Review (dal 1802) e la Quarterly Review (dal
1809) - cfr. R. Yeo, Defining science. William Whewell, natural
knowledge and public debate in early Victorian Britain, Cambridge U. P., 1993,
pp.77-82; J. Don Vann-R. Van Arsdel, Victorian periodicals, New York,
1978, p.77. Non bisogna dimenticare tuttavia che Marx aveva accesso anche a
tutte le altre pubblicazioni europeee, presumibilmente tedesche e francesi in
testa.
[14] Cfr. P. Jäckel-P.
Krüger, Aktualisierte Übersicht über die naturwissenschaftlichen Exzerpte
von Karl Marx (1846 bis 1882), in A. Griese-J. Sandkühler, Karl
Marx, cit., pp.93-104.
[15] Cfr. A. Briggs, Marx in
London, BBC, London, 1982. Sui rapporti di Engels col mondo scientifico di
Manchester, ed in particolare con Carl Schorlemmer, si veda il
volume Carl Schorlemmer. Chemiker und Kommunist, Merseburg, 1974.
Ovviamente è importante la biografia di G. Mayer, Friedrich Engels. La
vita e l’opera, Einaudi, Torino, 1969. Sull’importanza delle istituzioni scientifiche di Manchester già alla
fine del Settecento cfr. D. S. L. Cardwell, The organisation of science in
England, Heinemann, London, 1957, pp.17 e sgg. Gli studi dedicati al
pensiero e all’opera di Engels sono naturalmente copiosi. Qui di seguito qualche titolo più recente: S.
H. Rigby, Engels and the formation of Marxism. History, dialectics and
revolution, Manchester U. P., 1992; S. Garroni (a cura di), Engels cento
anni dopo, La Città del Sole, Napoli, 1995; C. J. Arthur (ed.), Engels
today. A centenary appreciation, Macmillan, London, 1996; Varii Auctores, Zwischen
Utopie und Kritik. Friedrich Engels – ein “Klassiker” nach 100Jahren, VSA
Verlag, Hamburg, 1997; M. Cingoli (a cura di),Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi
per un bilancio critico, Teti Editore, 1998.
[17] V’è da dire tuttavia che la
Biblioteca, benché sia comprensiva di 1450 titoli per più di 2100 libri, non
comprende i numerosi e importanti lavori scientifici – concernenti la
tecnologia, la fisiologia, l’istologia, l’anatomia, la frenologia - letti da
Marx durante il suo soggiorno in Belgio e soprattutto al British Museum, e di
cui usava fare quaderni e quaderni di estratti.
[18] Cfr. Werke, 31, pp.586-587. I
nomi più famosi citati – ”Die ersten Männer der Wissenschaft”, come
li definisce in questa lettera del gennaio 1866 la moglie di Marx – sono quelli
di J. Tyndall, C. Lyell, W. Boyd Carpenter e naturalmente Thomas Huxley.
[19] Cfr. Werke, 30, p.320 (lettera ad
Engels del 28 gennaio 1863), p.418 (lettera ad Engels del 4 luglio 1864).
[20] Per Marx ed Engels un ruolo di primo
piano è stato probabilmente svolto, sul piano della documentazione e
informazione scientifiche quanto meno, anche da Carl Schorlemmer e Edwin Ray
Lankester, il famoso biologo e paleontologo darwinista amico di famiglia.
Sembra però che i due scienziati siano entrati in contatto con Marx ed Engels o
alla metà circa del periodo che qui interessa o molto dopo. Vero è che Engels
ci spiega di aver conosciuto Schorlemmer nei primi anni del decennio 1860-1870
(cfr. Carl Schorlemmer. Chemiker und Kommunist, cit., pp.11-12), mentre
egli viene citato da Marx per la prima volta solo nel giugno 1867
(Werke, 31, p.301). Lankester, “il mio amico Prof. Ray Lankester” dice
Marx, viene citato per la prima in una sua lettera ad Engels del maggio 1882
(Werke, 35, p.64).
[21] Su queste questioni mi
permetto di rinviare a due miei scritti: Marx and the scientific thought
of his time, in ”Beiträge zur Marx-Engels-Forschung”, Neue Folge,
1997, pp.87-99; Review di A. Griese-H. J. Sandkühler, Karl Marx
– zwischen Philosophie und Naturwissenschaften, Peter Lang, Berlin, 1997, in “Beiträge
zur Marx-Engels-Forschung”, Neue Folge, 1998, pp.239-250.
[26] ibid., p.296 (ibid., p.219).
[27] K. Marx, Teorie sul plusvalore,
vol. 3°, Editori Riuniti, Roma, 1979, p.549; corsivo mio (Werke, 26.3,
p.503).
[28] ibid.
[29] Ho dato numerosi esempi di questa
omissione nel mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società
capitalistica. Realtà e razionalità da Spinoza al costruttivismo radicale,
Pellicani Editore, Roma, 1997.
[30] Cfr. Lettres sur les sciences de
la nature, Editions Sociales, Paris, 1973, pp.134-135, p.150.
[31] Cfr. C. MacLaurin, An
account of Sir Isaac Newton’s philosophical discoveries, London, 1775 (Johnson
Reprint, New York, 1968).
[34] Cfr. ibid., pp.386-388. Da
questo punto di vista, l’opposizione a Descartes e a ogni Deismo era solo
fittizia e con pochi riscontri nella realtà. Se l’avversione per ogni “false schemes of natural phiilosophy” derivava
dal fatto che essi ragionavano “by feigning philosophical systems,
by supposing instead of enquiring, and by imagining systems
instead of learning from observation and experience the true constitution of
things” (iibid., pp.7-8), allora l’intera disputa è priva di qualsiasi
fondamento. Tutta l’analisi di MacLaurin, lo studio dei fatti e dei
fenomeni d’esperienza attraverso il metodo induttivo, si basa infatti su un
altro presupposto metafisico indimostrabile: il governo del mondo da parte di
Dio (ibid., pp.377 e sgg.). Tutti
i “labyrinths” dell’universo, “the most secret operations of Nature” - i cui
processi “lie so deep” -, le sue “subtle and hidden works”, sono infatti
assoggettabili a studio e riflessione solo perché si può presupporre a monte la
presenza di “an All-governing Deity” che ne assicura la razionalità, la forma
discernibile e comprensibile dalla mente umana. I due paradigmi, al
contrario di come si tendeva a presentarli, non erano dunque alternativi, e la
loro controversia va spiegata con altri motivi.
[37] A questo proposito è esemplare
l’evoluzione interna del pensiero di Kant, sulla quale mi permetto di rinviare
al mio Sistemi di conoscenza, cit., in particolare al Capitolo
quarto: Kant: critica dell’ontologia e pensiero infondato, filosofia ed
epistemologia, pp.287-327.
[38] Per una delucidazione di questo
argomento non mi resta che rinviare il lettore al 6° Paragrafo di questo
saggio.
[39] Cfr. ad es.
la Introduction di Laudan al volume di MacLaurin, p.XI, in cui ci si
precisa che “Newton’s influence on eighteenth-century intellectual history was
both profound and widespread”. D’altro canto, proprio in questo periodo “books
on scientific subjects began to proliferate, particularly volumes which
expounded the Newtonian position”. In una sola nota, Laudan indica ben
13 trattati di fisica, sia per “Young Gentlemen” sia per adulti, che
popolarizzavano la concezione newtoniana. Su questa “age of Newton” cfr. anche a cura di I. Bernard
Cohen, Isaac Newton’s papers & letters on Natural Philosophy,
Cambridge U. P., 1958, in particolare laGeneral Introduction dello stesso Cohen,
pp.3-23.
[42] Ibid., vol. 1°, p.8. A questo
proposito, come chiarisce Laudan, “it should be recalled that mechanics, since
the time of Aristotle, had been considered the science of forces. These forces
were not merely mathematical entities but were, instead, thought to be the
basic causal agent, the source of all change” (Introduction, cit., pp.xxi e
sgg.).
[43] M. Becquerel, Traité de
physique, Paris, 1842, Tome I, p.189. Cfr. anche Tome II, p.44, p.128,
p.199, p.530.
[45] ibid., p.4.
[46] Il volume di Müller non compare né
nella Biblioteca di Marx ed Engels, né in Ex libris. Eppure tra i 400
libri del lascito ereditario del suo amico Wolff, libri che ancora nell’agosto
1865 dichiara essere in suo “possesso” (Werke, 31, p.147), Marx stesso
elenca, tra i vari titoli, un certo “Müller, “Physik”“ (ibid., p.27) che sembra
essere proprio il fisico in questione.
[47] B Witzschel, Die Physik
faßlich dargestellt nach ihrem neuesten Standpunkte, Leipzig, Wigand, 1858. In
particolare si veda la Einleitung, pp.1-6.
[49] Cfr. R. Yeo, Defining
science, cit., pp.93 e sgg.; R. Olson, Scottish philosophy and British
physics 1750-1880. A study in the foundations of the Victorian scientific
style, Princeton U. P., 1975, p.6.
[50] J. W. Herschel, A
preliminary discourse on the study of natural philosophy, Chicago U. P., 1987,
p.149 (A facsimile of the 1830 edition).
[52] Come diceva Thomas Huxley, “intellectually
we stand on an islet in the midst of an illimitable ocean of
inexplicability”, in The life and letters of Charles Darwin, New York,
1887, vol. I, p.557.
[56] L’idea in oggetto era stata
difesa a suo tempo anche da Locke e Hume: cfr. C. Wilson, The invisible
world. Philosophy and the invention of the microscope, Princeton U. P., 1995,
pp.219-255. D’altro canto, lo “intellectual and social background” degli
anatomisti e fisiologi “belonging to medical schools” - vale a dire, “natural
magic, magnetism, alchemy” - tra il 16° e il 17° secolo ruotava intorno ad un
unico principio: “the common idea of discovering the hidden powers of nature
that could be harnessed to produce astonishing, theatrical, and useful effects”,
in S. Bradbury- G. Turner, Historical aspects of microscopy, Cambridge,
Heffer, 1967, p.4.
[57] Cfr. J. Herschel, A
preliminary discourse, cit., p.193; corsivo mio. Si consideri anche il seguente
passo: “The immediate object we propose to ourselves in physical theories is
the analysis of phenomena, and the knowledge of the hidden processes of
nature in their production, so far as they can be traced by us. An important
part of this knowledge consists in a discovery of the actual structure or
mechanism of the universe and its parts, through which, and by which, those
processes are executed; and of the agents which are concerned in their
performance. Now, the mechanism of nature is for the most part either on too
large or too small a scale to be immediately cognizable by our senses; and her
agents in like manner elude direct observation, and become known to us
only by their effects” (ibid., p.191; corsivo mio).
[58] Cfr. A. Desmond, Huxley.
From devil’s disciple to evolution’s high priest, Perseus Book, Reading
(Mass.), 1997, p.XIII.
[64] id., Science primers, cit., p.14;
corsivo mio.
[65] Cfr. P.-S. Laplace, Exposition du
système du monde, Fayard, Paris, 1984, pp.185-194. Del resto, decenni dopo
Charles Lyell, il geologo così apprezzato e seguito da Marx, continuerà ad
affermare la medesima tesi nel suo famoso L’ancienneté de l’homme prouvé
par la géologie, Paris, 1870: “C’est l’ordre des phénomènes et non leur cause
que nous pouvons rapporter au cours habituel de la nature” (ibid., p.538).
[66] Cfr. T. Huxley, Darwiniana, cit.,
p.449.
[69] Quanto sia antica questa
credenza lo dimostra Mario Bunge nel suo Causality and modern science,
Dover Publications, New York, 1979, pp.225 e sgg.
[70] Cfr. ad esempio J. P.
Nichol, Thoughts on some important points relating to the system of the
world, Edinburgh, 1846; W. Boyd Carpenter, Principles of physiology,
London, 1851; W. Whewell, History of the inductive sciences, London, 1837.
[71] Cfr. ad esempio J. Stallo, The
concepts and theories of modern physics, London, 1890, pp.166 e sgg.; P.
Duhem, Prémices philosophiques, Brill, Leiden, 1987 (Collazione di
articoli dal 1892 al 1896), pp.84-97, pp.150 e sgg.; M.
Schlick, Philosophical papers, 2 vols. (1909-1936), Reidel,
Dordrecht, 1979.
[72] Cfr. i seguenti volumi: J.
Barrow, The artful universe, Clarendon Press, London, 1995; P.
Davies, The mind of God, Simon & Schuster, New York, 1991;
id., The matter myth. Beyond cahos and complexity, Penguin, London,
1991.
[76] ibid., p.661 (ibid., p.562). Cfr.
ancora ibid., pp.663-664 (ibid., p.564).
[80] Id., Il Capitale, cit.,
vol. 1°, p.92 (Werke, 23, pp.89-90). È davvero paradossale che
proprio Althusser, l’intellettuale che forse più di tutti si è battuto per
rinnovare l’interpretazione marxista del modo di produzione capitalistico e
dello stesso pensiero di Marx abbia letto alla rovescia il passo
citato, come se esso provasse la natura già data o presupposta del reale. Cfr. Lire
le Capital, PUF, Paris, 1996, pp.313-314. Se anche la lettura apparentemente
più innovativa ed in un certo senso, per l’epoca in cui fu formulata, più
radicale della concezione di Marx incorre in simili eclatanti fraintendimenti,
facendo dire a certi suoi cruciali enunciati precisamente l’opposto del loro
sofisticato contenuto logico, ci si può poi sorprendere del fatto che tutte le
altre varianti del marxismo storico siano del tutto incapaci di ripensare le
categorie di Marx e tramite esse le specifiche modalità riproduttive del
capitalismo contemporaneo?
[81] Ho tentato di spiegare il complesso
significato di questo concetto, invero basilare per una piena comprensione di
tutto il pensiero di Marx e per rendere conto anche della differenza tra
processo di riproduzione del capitale e agire intenzionale dei soggetti
sociali, in un mio scritto: Il cristallo e l’organismo. Struttura
e dinamica del modo di produzione capitalistico, Edizioni Punto
Rosso, Milano, 1994, che di fatto è un unico, lungo e complesso ragionamento
intorno a quel concetto marxiano
[82] Cfr. ad es. T.
Huxley, Science primers, cit., p.14: “While there is much analogy between
human and natural laws, however, certain essential differences between the two
must not be overlooked”.
[84] Cfr. P.-S. Laplace, Exposition du
système du monde, cit., p.19.