18/12/13

Marx e la scienza | Come il pensiero scientifico ha dato forma alla teoria della società di Marx – I [Cap. 1, 2 & 3]

Karl Marx ✆ Etsy 
Franco Soldani  |  Lo stretto rapporto che Marx ha intrattenuto con la scienza del suo tempo è provato non solo da tutta la sua storia intellettuale privata e pubblica, ma soprattutto dal fatto che non si può conprendere a fondo nessuna categoria del Capitale senza riferirsi al complesso sostrato scientifico che esse implicano. Da questo punto di vista, diventa essenziale tanto capire quale sia stata la comprensione che Marx ed Engels hanno avuto della razionalità scientifica ottocentesca, quanto scoprire quale esito essa abbia poi avuto nel processo di formazione dei concetti marxiani e nel disegnare il loro contenuto conoscitivo specifico. 

Marx, ovviamente, aveva una conoscenza di prima mano della scienza del suo tempo. L'assidua frequentazione del British Museum, durante il suo esilio londinese, gli ha permesso di accedere ad una vasta mole di lavori scientifici che a loro volta rappresentano le fonti concettuali della sua sofisticata interpretazione del modo di produzione capitalistico. Naturalmente, non è che Marx mutui meccanicamente, o semplicemente copi, dalla scienza di allora le sue convinzioni. Al contrario. La sua relazione con dette fonti è complessa e multiversa, per niente lineare. Nel saggio vengono discusse quattro idee fondamentali della sua analisi sociale: a. La relazione cause-effetti; b. Il valore; c. Il metodo scientifico inglese; d. La presunta fine della metafisica. In tutti e quattro i casi, la rilettura del pensiero di Marx alla luce di quella genealogia specifica ha permesso di ricostruire sia i peculiari significati attribuiti dalla
ragione scientifica alle sue categorie, sia il significato specificamente sociale che Marx ha loro attribuito, sia infine le prepotenti, nuove tendenze epistemologiche che andavano prendendo forma in quegli anni all'interno della stessa comunità scientifica. Un nuovo paradigma epistemologico stava allora emergendo ad opera degli stessi scienziati direttamente letti da Marx o comunque a lui noti. Mentre questo inedito modello di ragione dà la sua impronta, per vie altamente mediate, a tutta la riflessione di Marx, questi non ha sempre avuto una chiara consapevolezza delle conseguenze teoriche che tale pensiero scientifico emergente aveva su alcuni suoi presupposti filosofici più generali, ed in particolare sulle basilari assunzioni del materialismo storico e del materialismo dialettico.

Se la scienza del suo tempo ci mette in grado di comprendere la sofisticata impalcatura concettuale delle categorie tramite cui Marx legge natura e struttura della società capitalistica, contestualmente essa ci permette anche di capire i punti deboli e talvolta le vere e proprie contraddizioni logiche in cui cade il suo discorso non appena esso viene messo a raffronto con quelle tendenze della razionalità scientitifica che gli sono sfuggite. In effetti, esiste nella concezione di Marx una dialettica profonda tra dati di fatto contrastanti. Da una parte, la scienza della sua epoca risulta essere indispensabile per poter capire la logica del capitale. D'altro canto, la comprensione della dinamica interna del modo di produzione capitalistico rende possibile una migliore delucidazione dei sottili legami che connettono capitale e pensiero scientifico. Infine, quella stessa, sofisticata conoscenza scientifica rappresenta, in specie con i suoi sviluppi novecenteschi, una delle confutazioni più radicali dei vecchi assunti marxiani - e di tutto il marxismo storicamente costituito, occorre dire - in merito alla realtà e al processo di pensiero.

Già con la scienza moderna è divenuto chiaro che non è più difendibile, al contrario di quanto erroneamente si crede ancor oggi, alcuna forma di realismo epistemologico, né la cognizione può più essere identificata con una qualsivoglia interpretazione di un oggetto storico. Se nello studio scientifico della natura l'osservatore riflette soltanto la propria attività concettuale, dando vita ad un processo ricorsivo di acquisizione delle conoscenze, a maggior ragione quando si occupa della società il soggetto non fa altro che confrontarsi con una moltitudine di altre interpretazioni ancora, entro una fitta rete d'interazioni sociali in cui ciò che conta è la solidità e la efficacia esplicativa del suo approccio convenzionalista, la capacità di quest'ultimo di resistere alle refutazioni e di promuovere analisi specifiche del mondo. Se in epoca contemporanea il dominio del capitale si è conficcato negli apparati di macchine che reggono l'organizzazione dell'attività lavorativa - che sono, è bene non scordarlo, scienza oggettivata -, del pari il sapere ha assunto oggi una forma costruttivista (in cui la conoscenza evolve a spirale all'interno della mente) talmente sofisticata che nessuno dei modelli marxisti attualmente esistenti è in grado di far fronte al suo enorme potere confutatorio.

Se le cose stanno così, e fine del saggio è dimostrare che stanno così, allora è ovvio che è oggi indispensabile abbandonare risolutamente tutti i concetti marxisti del passato, ormai datati. Se il marxismo odierno, in tutte le sue varianti, non può più avviare un'analisi soddisfacente della logica interna e più profonda della scienza (dovendo al contrario assumerla come sapere atemporale), del pari nemmeno esso è in grado di capire in che maniera tanto la razionalità scientifica ci obblighi a ripensare tutta la nostra storia pregressa, quanto essa sia assolutamente necessaria al capitale per assicurarne la riproduzione impersonale e virtualmente illimitata. Oggi è ormai improcrastinabile un radicale ripensamento e ridefinizione della concezione marxista della storia e della tradizionale interpretazione marxista della conoscenza. O lo si farà in maniera spregiudicata, vale a dire intellettualmente onesta e ferma, ma in pari tempo totalmente innovativa, oppure il grande patrimonio concettuale consegnatoci da Marx andrà di sicuro incontro, se ne può essere certi, alla sua definitiva uscita di scena.

1. Marx, il marxismo e la scienza
“Quand  on  suit  une mauvaise route, plus on marche vite,  plus on s’égare” | Diderot
Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta” | Spinoza
“A Marxism not based on science is obsolete” | N. Cameron

Si dice che Oscar Wilde, dal suo letto di morte nella camera d’albergo che l’ospitava, con impareggiabile humour britannico, abbia esclamato: “This wallpaper is killing me!”. Mi domando se per caso i marxisti di oggi, senza ovviamente il sarcastico aplomb di Wilde, non stiano facendo la stessa cosa. Dopo aver rivendicato lungo tutto un secolo ormai lo statuto scientifico dell’analisi marxista della società[1], attualmente non esiste, per quanto ne sa chi scrive, alcuno studio dedicato alla formazione scientifica di Marx[2]. Non esiste allo stato delle cose, per quanto è a mia conoscenza, alcuna ricerca dedicata alla comprensione dell’effettivo status epistemologico della scienza di allora, in tumultuoso cambiamento, né tanto meno alcuna indagine relativa al rapporto che lega la razionalità scientifica del tempo all’evoluzione interna del pensiero di Marx. Entrambi, invece, sono stati quasi sempre letti in modo tradizionale e aproblematico, come tramandava la vulgata, cosa che ha così vietato tanto la comprensione della natura pluriversa ed estremamente dinamica, in mutamento, della scienza ottocentesca, quanto la forma complessa ed altamente sofisticata della concezione più critica di Marx. Del resto, di quella presunta scientificità del marxismo storico, si potrebbe forse dire, vedremo perché, quello che Marx stesso diceva dell’economia politica: cioè che “essa non comincia affatto nel momento in cui se ne comincia a parlare come tale”[3].

Proprio per questo, probabilmente, l’attuale declino relativo del marxismo (molto simile ad una disintegrazione, per la verità) quale teoria sociale complessiva con tutto viene spiegato – in genere, con il collasso prima e la scomparsa poi dei paesi del cosiddetto “comunismo storicamente esistito”[4] – meno che con un’attenta analisi dell’impronta che la scienza dell’Ottocento ha lasciato nel sistema concettuale di Marx. Come cercherò di dimostrare, a parte questo problema cruciale, tutto il resto, per quanto importante possa apparire, è “wallpaper”.

A prima vista un’affermazione di questo tipo potrebbe sembrare provocatoria e persino arrogante. Spero tuttavia di poter dimostrare che non è così. Non si contano in effetti gli studi, recenti e meno recenti, dedicati da storici, economisti, filosofi, sociologi, ed in genere da tutta una schiera di studiosi sia ad una riconsiderazione dell’opera di Marx sia ad un nuovo utilizzo dei suoi concetti[5]. Tuttavia il limite di tutti questi studi sta nel fatto che essi ignorano un dato fondamentale, e cioè che il pensiero scientifico dell’Ottocento prima e poi soprattutto quello del Novecento tanto ha reso problematiche alcune rilevanti assunzioni di Marx (ripetute invece stancamente, ancor oggi, da quasi tutti gli studi citati), quanto ha completamente demolito tutte le categorie del marxismo storicamente costituito, vecchio e nuovo, rendendo definitivamente superato e desueto il suo sistema teorico complessivo, ciò che si potrebbe forse chiamare il suo paradigma sociale basilare. È allora necessario ripensare radicalmente tutto quanto, rimettendo in discussione anche le idee che a prima vista potevano sembrare ancora valide, in primis ovviamente quella di valore. Senza quest’opera di profonda revisione e potatura concettuale il marxismo, in tutte le sue mille varianti, diventa inutile e perfino fuorviante. Se dovesse rimanere com’è, secondo me è giusto che esso venga abbandonato e dimenticato dalle generazioni future. Penso che l’estinzione delle teorie in società debba considerarsi un evento naturale, alla stregua di quanto è già avvenuto nel passato per intere specie animali e vegetali. Se accadesse, non ci sarebbe niente di sorprendente. Caso mai sarebbe innaturale il contrario. D’altro canto, se noi stessi non prenderemo le distanze da quella vecchia concezione, a renderla un pezzo da museo di sicuro ci penserà lo sviluppo storico del capitalismo contemporaneo. Mi sembra francamente che a questa società davvero non manchino i “grandi mezzi” massmediatici – dalle istituzioni culturali (Università, Case editrici, ecc.) a quelle dell’informazione (Televisioni, Quotidiani, ecc.) - per poterlo fare oggi molto comodamente. Del resto, non è neanche escluso che nuovi sistemi di pensiero non marxisti possano un domani non molto lontano rimpiazzare il marxismo nella spiegazione e nella critica della società capitalistica[6], magari migliorando la nostra comprensione dei suoi meccanismi riproduttivi  più essenziali.

Per il momento sostengo che la scienza di metà Ottocento rappresenta per Marx tanto l’archetipo per eccellenza del pensare in maniera razionale, quanto gli fornisce una chiave interpretativa fondamentale per la spiegazione della natura e delle tendenze più tipiche del modo di produzione capitalistico. Il pensiero scientifico di cui Marx ha diretta conoscenza, in altre parole, costituisce la fonte teorica più importante di tutta la sua complessa analisi della società capitalistica. In un certo senso, è la matrice cognitiva di quell’articolato sistema di concetti – dal valore alla sussunzione reale, dal lavoro sostanza alla visione dei soggetti quali funzionari del capitale, per non citarne che alcuni tra i più importanti – dal quale in definitiva sono poi derivate le varie forme del marxismo storico fiorite nel Novecento. Sia l’interpretazione della riproduzione capitalistica, sia la multiversa natura del marxismo storicamente esistito (nonché, ovviamente, delle società in cui esso si è incarnato) dipendono dunque dalla preliminare rappresentazione del sapere scientifico che Marx si è data. Il sostrato scientifico della sua concezione può forse meglio spiegare, più di qualsiasi altro referente, l’interna evoluzione del marxismo novecentesco e le particolari sue varianti nazionali ed internazionali, giacché solo detto sostrato ci mette in grado di capire le deformazioni e gli errori in cui è incorsa la comprensione del pensiero di Marx da parte dei diversi scholar del movimento operaio moderno.

2. Le fonti scientifiche del pensiero di Marx
 “Ignoring the origins of things is always a risky matter” | G. Edelman
Naturalmente, ciò non vuol dire che Marx avesse una completa padronanza o un’esaustiva conoscenza dei paradigmi scientifici della sua epoca. Da quel gran divoratore di libri che era, certamente era molto informato. Del resto, a questo proposito, non si definiva egli stesso “eine Machine”?[7] Nondimeno, alcune cose della scienza moderna, come vedremo, gli sono comunque sfuggite. E forse, a giudicare dalle circostanze in cui Marx si è trovato, non poteva essere altrimenti.

Quali erano dunque, con ogni verosimiglianza, le sue principali fonti d’informazione e di documentazione? Qui conviene forse distinguere due periodi. Prima del suo esilio dal continente e durante il suo definitivo soggiorno a Londra e in Inghilterra. Diverse sono infatti nei due casi i testi consultati da Marx e le condizioni in cui avviene la conoscenza del pensiero scientifico dell’epoca. Nel primo periodo, diciamo dal 1842 al 1850, l’Illuminismo francese è forse il suo primo tramite con la scienza di allora[8]. Il sensismo materialista del Settecento sembra rappresentare il suo primo contatto effettivo con tematiche non più soltanto storico-giuridiche o filosofico-politiche, bensì squisitamente scientifiche. Nel corso di questi anni Marx consulta infatti diverse opere scientifiche in senso stretto nei più diversi campi della conoscenza: dalla chimica all’astronomia, dalla botanica alla biologia, dalla geologia alla fisica[9]. Solo man mano che cresce il suo interesse per l’economia politica, comincia a  leggere anche una gran quantità di libri sulla storia della tecnologia e la divisione del lavoro così come veniva allora interpretata dagli studiosi inglesi, tedeschi e francesi più noti, o che in ogni modo avevano attirato la sua attenzione[10].

Nel secondo, presumibilmente dal giugno 1850, non appena Marx riceve il suo pass al British Museum, al 1867, anno di pubblicazione del primo libro di Das Kapital, le fonti aumentano di numero e si diversificano[11]. In primo luogo, naturalmente, vi sono i volumi che la British Library gli mette a disposizione[12]. Nel più grande “Temple of knowledge” dell’Ottocento si può ragionevolmente pensare che Marx abbia avuto accesso a quasi tutte le pubblicazioni scientifiche del tempo, sicuramente alle più importanti. In secondo luogo, sembra ragionevole supporre che Marx abbia potuto prendere visione del dibattito scientifico e delle ricerche del tempo attraverso le riviste che allora in Gran Bretagna si occupavano espressamente di scienza[13]. Anche se erano poche e per un pubblico specializzato, è probabile che Marx le abbia usate per documentarsi sugli sviluppi del pensiero scientifico e magari per compilare una sua personale bibliografia scientifica.

Meno congetturali sono invece le opere degli scienziati, letti o comunque sicuramente conosciuti da Marx, desumibili dal suo Briefwechsel. Nel periodo in questione sembrano concentrarsi quasi tutte le opere relative alle scienze naturali – concernenti essenzialmente la biologia e la geologia, la fisica e la matematica, la mineralogia e l’astronomia, la chimica e la botanica – che poi confluiranno nel primo volume del Capitale[14]. Qui giocano certamente un ruolo di primo piano le letture consigliate da Engels, il quale trovandosi a Manchester usufruiva di un punto di osservazione privilegiato - anche se non sempre attendibile, come vedremo - per la conoscenza del pensiero scientifico europeo[15]. Fondamentale, a questo proposito, sono naturalmente i libri catalogati nella famosa biblioteca privata di Marx ed Engels, da poco pubblicata nella MEGA²[16]. Questa è la fonte primaria da cui si può avere una panoramica pressoché completa degli autori e delle opere scientifiche con certezza studiati dai due grandi tedeschi negli anni che qui interessano.[17] Infine, è necessario ricordare almeno due altre circostanze che di sicuro hanno permesso a Marx di approfondire la sua conoscenza del mondo scientifico di metà Ottocento. Da una parte, vi sono infatti i public meetings e le conferenze di scienziati inglesi tra i più influenti a cui Marx assisteva di persona[18]. Dall’altra, vi sono infine le lezioni di meccanica e anatomia, sia di Robert Willis sia di Henry Huxley ad esempio, che egli stesso seguiva per meglio documentarsi in merito alle più recenti acquisizioni della scienza dell’epoca[19].

Come si vede, il ventaglio delle fonti possibili, probabili e certe, attraverso cui Marx poteva prendere visione diretta della scienza del suo tempo, dell’interna struttura concettuale del pensiero scientifico in pieno sviluppo dell’Inghilterra Vittoriana, è davvero considerevole, tanto dal punto di vista quantitativo quanto da quello qualitativo[20]. Il quadro d’insieme da esse delineato ci fa meglio capire quanto debba essere stata varia e complessa l’influenza avuta dalla scienza nel determinare forma e contenuto delle idee marxiane. Vista l’ampiezza, la diversificazione e la qualità delle fonti, sicuramente Marx ha avuto modo di formarsi un’opinione precisa dello stato della scienza della sua epoca. Si tratta di vedere tuttavia se egli ne ha colto tutte le diverse anime e implicazioni. In quella intensa attività di documentazione e analisi, tre sembrano essere gli atteggiamenti tenuti da Marx a fronte dei concetti scientifici con i quali è venuto in contatto. In primo luogo, sostengo, Marx ha incorporato nel suo sistema teorico una buona parte delle idee scientifiche scoperte strada facendo nel corso dei suoi studi senza alterarne il significato. Semplicemente esse sono state assorbite tali e quali nel suo sistema teorico (anch’esso in statu nascendi in quegli anni). In secondo luogo, una serie invece di queste categorie ha subito alcune trasformazioni concettuali che hanno permesso a Marx di adattarle in maniera specifica alla (di accomodarle in un certo senso nella) propria problematica, cambiando almeno in parte il loro originario contenuto[21]. Infine, una parte non secondaria dei concetti che allora andavano prendendo forma all’interno del pensiero scientifico, e che avrebbero ben presto disegnato la nuova epistemologia emergente, è stata sostanzialmente fraintesa da Marx, sia perché a volte non ne vede la complessità, le molteplici tendenze, oppure perché non riesce a cogliere la duplicità e l’ambiguità di certe sue premesse.

Se le due prime assimilazioni rappresentano ciò che permette a Marx di dare la sua impronta tipica all’analisi della società, l’ultima esclusione rappresenta invece ciò che mette in discussione alcuni aspetti di rilievo della sua elaborazione, inficiandone l’efficacia esplicativa e persino l’attendibilità logica. Se da un lato la scienza serve a Marx sia per spiegare la natura altamente specifica del modo di produzione capitalistico rispetto alle epoche sociali passate sia per dare alla sua interpretazione della realtà capitalistica un imprimatur scientifico e quindi oggettivo (non meramente politico-ideologico, soggettivo o arbitrario), dall’altro l’evoluzione interna della razionalità scientifica dell’epoca e il suo carattere multiverso mettono in discussione alcuni di quei presupposti concettuali che invece Marx pensava di poter mutuare senza alcuna ulteriore indagine critica da quello stesso pensiero. L’aspetto paradossale della questione è che mentre la scienza ottocentesca li stava abbandonando, Marx li assume al contrario come suoi referenti epistemologici. La cosa, naturalmente, avrà ripercussioni profonde sulla sua concezione della conoscenza e del reale. Questo quadro è del resto complicato da due altre implicazioni. Se infatti la scienza consente a Marx di meglio e più a fondo penetrare negli intrinseci (e perciò segreti) meccanismi riproduttivi del capitale, per converso la sua sofisticata interpretazione del modo di produzione capitalistico ci mette in grado anche di diversamente impostare una virtuale critica della scienza stessa, dei suoi concetti e della sua pretesa avalutatività, della sua presunta indifferenza per i valori societari e per la storia delle classi nell’ambito della società attuale. Per suo conto, d’altro canto, la maniera in cui la razionalità scientifica ha trasformato i suoi paradigmi basilari tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo ci indica anche che cosa debba essere ridiscusso e  riformulato nell’analisi marxiana della scienza stessa, e per conseguenza nell’interpretazione della realtà sociale derivata da quest’ultima. Insomma, se nel pensiero scientifico è insita la logica riproduttiva del capitale, allo stesso modo la dinamica intrinseca di quest’ultimo viene meglio svelata, o resa per la prima volta intelligibile, proprio dal processo di formazione di quella razionalità scientifica che il capitale ha condizionato sin dall’inizio della sua epoca. A mio avviso è questa una dialettica infinitamente superiore a tutte quelle striminzite formulette sul divenire, l’emergere del nuovo, eccetera, da tutti ripetute nel corso dei decenni. Come si dice, no comparison! Per tentare di illustrare con esempi concreti queste ipotesi, prenderò in considerazione quattro idee basilari del pensiero di Marx, quattro punti cardine del suo intero paradigma teorico: 1. La convinzione che le cause esistano solo nei loro effetti; 2. La natura del valore; 3. Die plumpe englische Methode[22] attribuito a Darwin; 4. La fine della metafisica.

3. La relazione cause-effetti
“Un observateur qui ne voit les choses que du dehors, ne voit rien” | M. Proust 
Alcuni dei principi concettuali più importanti della concezione marxiana affondano la loro radice nel rapporto che nel modo di produzione capitalistico si stabilisce tra apparenza ed essenza delle cose. Come ci vien detto, “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”[23]. Oserei anzi dire che la distinzione in causa costituisce il fondamento epistemologico di tutta la complessa analisi sociale di Marx, il pillar che sostiene l’intera sua interpretazione del modo di produzione capitalistico, e senza il quale il suo impianto teorico complessivo crollerebbe senza meno. L’intero Capitaledovrebbe allora essere riscritto. Si tratta dunque di un passaggio estremamente delicato dal punto di vista teorico. In sostanza, è il punctum dolens di tutto il pensiero di Marx, la categoria tramite la quale tutto sta ed insieme cade. Per questo merita un’attenzione particolare. L’intrinseco significato dell’idea in questione è triplice. Vediamo, tout d’abord, i primi suoi due risvolti.

Innanzitutto, essa implica una distinzione concettuale di rilievo tra due ambiti fondamentali del mondo capitalistico: “Bisogna distinguere le tendenze generali e necessarie del capitale dalle forme nelle quali esse si presentano”[24] Le prime hanno il carattere di leggi causali, le seconde rappresentano invece i loro effetti tangibili, constatabili empiricamente e persino misurabili. Se le si confonde, o se si annulla il clivage che le separa, ci si vieta da soli la possibilità di rendersi intelligibile l’ambito di realtà che entrambe contribuiscono a creare. Se tale mondo è la società attuale, diventa allora impossibile poterne delucidare gli aspetti più complessi e meno visibili. Ascoltiamo come Marx spiega di nuovo il concetto in questione: “Se, come il lettore ha dovuto a sue spese convincersi, l’analisi dei reali rapporti interni del processo capitalistico di produzione è molto complicata ed impone un lavoro assai gravoso, se è compito della scienza ricondurre il movimento apparente, puramente fenomenico, al movimento reale interno, è facile comprendere come necessariamente gli agenti della produzione e della circolazione capitalistica si debbono fare delle idee sulle leggi della produzione che sono in assoluto contrasto con il reale significato delle leggi stesse, esprimendo unicamente il movimento apparente”[25]. Marx non si stanca di ripetere questa basilare avvertenza, aggiungendovi nel contempo nuove specificazioni: “La forma definitiva dei rapporti economici, quali si manifesta alla superficie, nella sua esistenza reale, e quindi l’idea che gli agenti attivi e passivi [die Träger und Agenten] di tali rapporti cercano di farsene per arrivare a comprenderli, differiscono considerevolmente dalla intima, essenziale, ma nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e dal concetto che ad essi corrisponde, anzi ne rappresentano addirittura il rovesciamento, l’opposto”[26].

La distinzione in oggetto è dunque di cruciale importanza tanto per poter tener conto della presenza dei due livelli di realtà (la superficie e il suo nucleo più profondo, altra metafora scientifica) quanto per poter così portare alla luce il meccanismo riproduttivo più interno del modo di produzione capitalistico, senza la comprensione del quale non resterebbe in piedi niente nell’analisi marxiana. Si pensi, in questo caso, all’ultima precisazione contenuta nel passo citato, e il cui sofisticato contenuto concettuale verrà chiarito più avanti.

In secondo luogo, tutte le forme d’espressione del capitale in quanto tale – dal salario al profitto, dalle rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti interindividuali tra soggetti, per non citare che le più rilevanti – si rapportano alla loro fonte in maniera altrettanto peculiare. Il capitale in quanto tale che si rende responsabile della loro esistenza  e del loro aspetto dinamico finisce infatti con l’esistere solo in e tramite esse. Questo significa che esso è conoscibile da parte dei diversi individui societari unicamente attraverso le conseguenze che induce nel mondo dei fenomeni, che anzi consta di tali effetti.  I singoli, in virtù di quel processo, hanno perciò accesso cognitivo e pratico soltanto a questi ultimi. Il capitale, in altre parole, può essere percepito e compreso dagli agenti sociali soltanto attraverso quelle forme che gli danno concreta esistenza empirica nel contesto della storia societaria in cui si sviluppa la realtà sensibile, quella di cui si può fare esperienza (diretta o indiretta). Vediamo come spiega la cosa Marx stesso: “Il borghese vede che il prodotto diventa costantemente condizione di produzione. Ma non vede che i rapporti stessi di produzione, le forme sociali in cui egli produce e che gli appaiono rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale”[27]. Il concetto, allo scopo evidente di metterne in rilievo l’importanza teorica, è chiarito più volte: “È quindi la costante riproduzione dei medesimi rapporti – dei rapporti che condizionano la produzione capitalistica – che li fa apparire non solo come forme sociali e risultati di questo processo, ma in pari tempo come suoi costanti presupposti. Essi però sono tali solo come presupposti che esso costantemente pone, crea, produce”[28].

Il capitale come tale, dunque, pone le sue forme di manifestazione o mette al mondo i suoi modi d’esistenza trasformandoli contemporaneamente in primi cominciamenti, o premesse infondate e non più problematizzabili, del suo interno sviluppo, della dinamica intrinseca tramite cui si realizza. Tutte queste categorie sono suoi risultati, ma esistono al mondo (e lo conformano in maniera complessa) in guisa di presupposti d’ogni cosa. Sono conseguenze di uno specifico sostrato e da questo dipendono, ma nello stesso tempo hanno un apparente status già dato o essente da cui tutto sembra cominciare. Noto tra parentesi che l’intero marxismo storico, compreso quello odierno, non ha mai avuto alcuna cognizione di queste complesse nozioni[29]. Tuttavia, da quale fonte specifica e attendibile mutua Marx questa sofisticata idea? Sostanzialmente dalla scienza del suo tempo. È infatti l’interpretazione della natura da parte del paradigma newtoniano di allora, dominante del resto in Gran Bretagna e in Europa, a fornirgli la base concettuale più autorevole per la sua argomentazione.

La congettura scientifica secondo la quale le cause naturali esistono solo nei loro effetti, e sono conoscibili soltanto tramite le conseguenze che esse – con la loro apparizione e manifestazione concreta – inducono nel mondo dei fenomeni percepibili e additabili, sensibili e misurabili, è stata sostenuta e apertamente argomentata precisamente da uno dei divulgatori più importanti di Newton, ben noto anche a Marx[30]: Colin MacLaurin. Nel volume dedicato proprio all’esposizione dei principi scientifici dell’opera newtoniana[31], il fisico e matematico scozzese enuncia la tesi in oggetto in maniera inequivocabile: “Our knowledge of things penetrates not into their substance: we perceive only their figure, colour, external surface, and the effects they have upon us, but no sense, or act of reflection, discovers to us their substance”[32].

Se la natura sicuramente possiede un ordine ed una regolarità invarianti, un’intrinseca struttura legisimile (universale e necessaria) che dà stabilità e relativa certezza al nostro mondo, consentendoci di poter  sottoporre al vaglio dell’esperienza e della previsione le nostre teorie[33], essa è tuttavia da noi comprensibile solo indirettamente e per il tramite dei meccanismi osservabili nell’ambito empirico. Questa convinzione riposa ovviamente sul fatto che l’intero sistema dell’universo deriva la sua esistenza in primo luogo dall’opera attiva del Divine Architect a cui ogni cosa deve la sua nascita[34]. Tuttavia, un altro motivo fondamentale che spiega l’idea in questione è il fatto che secondo MacLaurin sarebbe un errore logico capitale, oppure una spropositata e persino arrogante presunzione, pretendere di poter risalire all’inizio dell’infinita catena di cause – detto anche “Supreme or First Cause”[35] – che si è resa responsabile degli effetti constatabili nel mondo dell’esperienza[36]. Presumere di poterlo fare, rinchiuderebbe la nostra ragione in una gabbia dalla quale sarebbe poi impossibile uscire, giacché dovremmo presupporre l’illimitata capacità del nostro intelletto di affrontare la regressio ad infinitum implicita nella tesi di partenza. Il che è assurdo.

Entrambe le limitazioni in oggetto – derivanti tanto dalla teologia quanto dalla stessa complessità della natura – rendevano dunque all’epoca estremamente plausibile sostenere l’interpretazione descritta, che implicitamente contiene anche l’importantissima distinzione tra causalità e legalità dei fenomeni naturali, concetto su cui converrà tornare più avanti. Lo stesso divieto teologico, del resto, non rappresentava affatto un insuperabile “ostacolo epistemologico”, per dirla con Bachelard, alla incipiente trasformazione dell’epistemologia scientifica moderna[37]. Non appena diverrà chiaro che quel postulato rappresentava comunque un’assunzione dell’osservatore, la sua funzione concettuale subirà dei mutamenti significativi, divenendo persino più sottile, cosa che gli permetterà così di poter ancor meglio esplicare il suo potere vincolante in contrapposizione alla teorie rivali[38].

Si può sostenere, con fondate ragioni, che il manuale di MacLaurin rappresentava l’interpretazione standard di una teoria fisica universalmente condivisa dalla comunità scientifica del tempo? Ben difficilmente lo si potrebbe negare[39] E non solo perché ovviamente poggiava sull’allora indiscussa autorità di Newton. La concezione in oggetto era infatti predominante in tutto il milieu scientifico europeo ancora decenni dopo, a riprova sia della sua reale e duratura influenza sia della sua ampia diffusione presso le societés savantes dell’epoca (del resto MacLaurin era stato più volte insignito di diversi riconoscimenti da parte della “Académie Royale des Sciences” di Francia in seguito a suoi importanti lavori matematici sulla teoria del calcolo)[40].

Agli inizi dell’Ottocento, ad esempio, René Haüy, il fondatore della cristallografia, nel suo ponderoso Traité élémentaire de physique in quattro volumi[41], poteva nuovamente affermare che le forze della natura “ne se manifestent à notre égard que par leurs effets. Ce n’est que par les effets qu’elles sont capable de produire, que nous pouvons  les mesurer”[42]. A ulteriore conferma del credito che questo enunciato scientifico godeva  tra i fisici del tempo, Maurice Becquerel, padre del forse più famoso Henry, a cui si deve la scoperta della radioattività, poteva a sua volta riferirsi al medesimo principio per giustificare in un certo senso i limiti della scienza nello studio del mondo naturale: “Dans l’impossibilité de remonter à la cause des phénomènes produits, il faut se borner à étudier les effets et les lois qui les régissent”[43].

Il consenso degli scienziati del tempo intorno a questo principio era dunque pressoché unanime, anche dal punto di vista geografico. Johannes Müller, un importante fisico tedesco dell’epoca (da non confondere con l’altrettanto celebre fisiologo, suo contemporaneo), argomenta infatti in maniera pressoché identica la sua interpretazione della ricerca scientifica: “Das innere Wesen der Körper ist uns verschlossen, sie sind uns nur durch die aussere Erscheinung bekannt, d. h. wir wissen von ihnen unmittelbar nur das, was wir durch die Vermittlung unsrer Sinne von ihnen erfahren”[44]. Poiché le prime fonti della nostra conoscenza della natura sono l’osservazione e l’esperienza, che poi l’attività razionale del nostro intelletto trasforma in sapere scientifico delle cose, noi possiamo dire ben poco sull’ultimo fondamento della realtà. Al contrario: “Nur der aussere, nicht derinnere zusammenhang kann durch die Erfahrung gefunden werden. Über die inneren Ursachen der Erscheinungen, über das Wesen der Kräfte, welche sie hervorbringen, können wir nur Vermuthungen, Hypothesen, aufstellen”[45].

Si può dire che Marx avesse una familiarità di prima mano con l’opera di questi ultimi scienziati? La cosa infatti potrebbe sembrare dubbia visto che nessuno di loro, né in Das Kapital né altrove, viene espressamente citato quale referente dell’analisi. Si potrebbe forse pensare, a questo punto, che Marx ignorasse l’esistenza di queste tendenze[46]. E tuttavia niente sarebbe più errato. Non solo esse erano moneta corrente nella scienza del tempo, ma si ritrovano immutate anche nei volumi scientifici sicuramente letti da Marx. Si veda, ad esempio, l’ampio studio di Benjamin Witzschel dedicato all’esposizione delle acquisizioni più recenti della fisica alla metà dell’Ottocento[47], oppure i tre volumi dell’Encyclopädie curata da Matthias Schleiden e Erhard Schmid, opere che facevano parte entrambe della biblioteca di Marx[48] . Se tuttavia vi fossero ancora delle incertezze in merito, queste dovrebbero essere dissipate dalla lettura di almeno due altri autori ben noti, il secondo anche di persona, a Marx: John William Herschel e Thomas Henry Huxley.

Per il famoso astronomo e fisico inglese, nel volume che diverrà un influente manifesto dell’induttivismo ottocentesco e un autorevole trattato di metodologia scientifica[49], l’ordine legiforme della natura presuppone “the existence of causes acting under circumstances of such concealment as effectually to prevent their direct discovery”[50]. Certamente, diveniamo consapevoli della struttura causale del mondo fisico attraverso l’esperienza e l’osservazione, e in genere avvertiamo o crediamo in questo ordinamento razionale di eventi per mezzo di un atto intuitivo[51]. Come ci vien detto, la nostra credenza nelle leggi di natura è “an internal feeling” e rappresenta “the practical ground” di tutta la nostra esistenza, compresa ovviamente la nostra attività logica e conoscitiva. Nondimeno, la nostra comprensione della causalità naturale non può avvenire in forma diretta né può aspirare alla completezza. Il perché, a parte ogni altra considerazione relativa alla costitutiva imperfezione dei nostri mezzi d’indagine ed ai loro limiti[52], è presto detto: “In general we must observe that motion, whenever produced or changed, invariably points out the existence of force as its cause; and thus the forces of nature become known and measured by the motions they produce “[53].

Logicamente, anche per Herschel la pretesa di poter comprendere la regolarità causale della natura senza alcun temine intermedio è del tutto priva di fondamento. La natura legiforme del mondo fisico, anzi, spiega ancora Herschel con insolita ed inintenzionale enfasi convenzionale, “it is an axiom”[54] del nostro intelletto che solo rende possibile lo studio razionale dei fenomeni e la ricerca di invarianti nella loro infinita e multiversa interdipendenza. È precisamente questo “human belief”[55] a rendere possibile l’interpretazione concettuale delle cose, delle relazioni e dei processi empirici un’impresa razionale[56]. Esso è dunque un presupposto della scoperta scientifica e non il fine verso cui questa tenderebbe o dovrebbe tendere. In sintesi, allora, la conoscenza scientifica della natura non può che passare attraverso la mediazione delle conseguenze indotte dalla “struttura intima” dell’universo nel mondo sensibile della nostra esperienza empirica: “The agents employed by nature to act on material structures are invisible, and only to be traced by the effects they produce”[57].

L’argomentazione di Huxley non segue strade molto diverse. Per certi versi, anzi, ne è persino uno sviluppo più radicale, come avremo modo di vedere nel paragrafo successivo. Anche per il famoso evoluzionista, “Darwin’s Rottweiler” come verrà poi chiamato[58], la natura possiede un odine fisso e invariabile di cui facciamo esperienza ogni giorno osservando la regolare successione e ripetizione degli eventi e dei processi che ci circondano[59]. Tuttavia quando postuliamo “the objective existence of a material world”[60] noi non ammettiamo di poterne conoscere senz’altro l’intrinseco carattere legiforme, necessario e universale, giacché allora, a parte che diverrebbe impossibile poterne verificare la verità, dovremmo anche presuppore di poter disporre di una ragione onnisciente in grado di ricostruire “the endless procession of phenomena”[61], l’intera e complessa catena degli accadimenti, il che è assurdo e manifestamente contrario alla realtà[62].

Al contrario, quello che noi possiamo aspirare a comprendere e a rappresentare nei nostri sistemi d’idee è la regolarità degli effetti che si susseguono nel mondo fisico e ci confermano la presenza di un “underlyng substratum”[63] dal quale deriva la relativa stabilità delle condizioni fisiche in cui viviamo. In ogni caso, quando descriviamo il mondo fisico noi non facciamo altro che ordinare e dare razionalità al complesso dei fenomeni che la natura ci pone davanti quali differenti forme di manifestazione della materia. Come dice Huxley, “natural lawsespress the general course of nature […] and they remain laws only so long as they can be shown to express that order”[64].

Non occorre, penso, risalire fino a Laplace[65] per capire che la distinzione tra cause e leggi, tra ordine interno della materia e interdipendenza complessa dei fenomeni, costituisce una delle categorie epistemologiche fondamentali della scienza dell’epoca. Per tutta la comunità scientifica del tempo la differenza tra i due livelli rappresentava un assunto indispensabile per poter tener conto della ineliminabile forma finita e limitata della ragione umana[66]. Da questo punto di vista,  poco importa che all’origine di questa  convinzione vi fosse una “Supernatural Intelligence”[67] o “the rational order that pervade the universe”[68]. Sta di fatto che, o per motivi religiosi o per ragioni scientifiche, noi possiamo aspirare a conoscere solo gli effetti e le conseguenze tangibili, osservabili e misurabili, della causalità necessaria operante in natura[69]. È solo in questo contesto che noi possiamo costruire un’interpretazione razionale, decidibile e rettificabile, rivedibile e controllabile, confutabile e assoggettabile a esperimento, dei fatti d’esperienza.

Francamente penso che non siano necessarie altre prove testuali a conforto della tesi che ho cercato di illustrare. Quella concezione era talmente radicata nel pensiero scientifico di allora che essa è rintracciabile un po’ in tutti gli scienziati letti di sicuro da Marx[70]. Se poi si pensa al fatto che essa attraversa indenne la transizione di fine secolo[71] per giungere intatta fino ai nostri giorni[72], si dovrebbe avere un’idea più chiara credo in merito alla sua effettiva validità epistemologica. La scienza moderna corrobora dunque in pieno la distinzione fatta da Marx tra causa più interna e sua manifestazione di superficie negli effetti visibili e apparentemente più concreti o reali, i soli di cui si possa fare esperienza.

Tuttavia una domanda sorge a questo punto spontanea. Le due distinzioni in oggetto si ricalcano completamente? Hanno cioè entrambe lo stesso contenuto concettuale, un identico status teorico? Penso proprio di no. Tra le due corre anche infatti una sottile linea di demarcazione che ci dà la misura integrale dell’estrema originalità del pensiero di Marx. La loro differenza dovrebbe gettare una nuova luce anche sulle sue famose affermazioni relative all’interpretazione della società attuale in termini di “processo di storia naturale”, come un organismo il cui sviluppo segue una “legge di natura”[73]. L’idea di Marx deve la sua diversità rispetto a quella d’impronta scientifica al fatto che essa interpreta un differente oggetto, un modo di produzione e una formazione sociale storicamente determinati, che debbono possedere caratteristiche del tutto originali se è vero che “ilcapitale annuncia sin da principio un’epoca del processo sociale di produzione”[74]. Qual è allora la specificità della categoria di Marx? Si son già visti i primi suoi due livelli. Essi sono però completati da un ultimo, e dirimente, significato che dà tutto il suo peculiare finish (e la sua complessa struttura cognitiva interiore) al concetto in questione. Vediamo.

Perché è importante considerare in maniera differente i due piani di cui consta la realtà sociale istituita dal modo di produzione capitalistico? Su che cosa si basa la loro diversità? Su una caratteristica peculiare delleErscheinungsformen: “È cosa abbastanza nota in tutte le scienze, tranne nell’economia politica, che nella loroapparenza spesso le cose si presentano invertite” [75]. Secondo Marx, dunque, le forme sociali che danno espressione alle tendenze più intrinseche del capitale - dal salario al profitto, dalla rendita all’interesse, dal mercato ai rapporti interindividuali tra soggetti - posseggono una natura opposta a quella che effettivamente spetta loro. Tipica a questo proposito, precisa ancora Marx, è la “forma di salario”: “Su questa  forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare”[76].

Le forme di manifestazione, i modi d’apparizione del capitale, e ricordo che sono tutte categorie sociali storicamente determinate - vale a dire, insisto, tutte quelle istanze che danno corpo di sistema alla realtà societaria, che producono la sua struttura istituzionale e la sua storia variabile nel tempo (dalla politica al diritto, dall’agire economico al mondo dei valori e del simbolico, dalla razionalità individuale alle molteplici agenzie ideologiche che ingabbiano gli individui nelle loro specifiche funzioni sociali: in una parola, dalla mind dei soggetti alle loro differenziate pratiche comunitarie) –, si presentano dunque all’intelletto dei soggetti societari, secondo Marx, come istanze che tanto esprimono il contrario della loro più interna natura preformata quanto finiscono col rendere invisibile il fondamento da cui pure dipendono. Questi due tratti delle categorie in oggetto sono contestuali e coevolvono insieme. Entrambi rappresentano quanto di più specifico mai sia stato prodotto dal processo di formazione del capitale. Al fine di chiarire in maniera inequivocabile questo fondamentale concetto di Marx, ignorato del resto da tutto il marxismo storicamente esistito, conviene citare un passo dirimente: “Gli agenti della produzione capitalistica vivono in un mondo stregato, e le loro stesse relazioni appaiono loro come proprietà delle cose, degli elementi naturali della produzione. Ma è nelle forme estreme, le più mediate – in forme in cui allo stesso tempo non solo è diventata invisibile la mediazione, ma anzi è espresso il suo diretto contrario -, che le figure del capitale appaiono come veri agenti e portatori immediati della produzione. Il capitale produttivo d’interesse è personificato nel moneyed capitalist, quello industriale nell’industrial capitalist, il capitale produttivo di rendita nel landlord come proprietario della terra e infine il lavoro nell’operaio salariato”[77]. All’intelletto e alla ragione formale di questi variegati soggetti, qualunque ruolo essi occupino nel sistema complessivo della riproduzione sociale, è dunque fatto divieto di poter mai comprendere l’originaria forma derivata della loro condizione sociale, che ad essi appare invece come una premessa del loro agire. Poiché il processo che li ha posti in esistenza è divenuto irrappresentabile e si è persino realizzato nel suo opposto, per tutti questi individui può avere senso logico solo la loro razionalità infondata e senza  causa alcuna, se si esclude ovviamente la natura autoreferente dei singoli e la loro apparentemente innata capacità decisionale. “Das Prinzip der Politik – spiega del resto Marx - ist derWille[78]. Questo meccanismo riproduttivo è istituito dal capitale sin dai suoi inizi, e costituisce precisamente ciò che lo demarca da tutte le formazioni sociali precedenti[79]. Chiaramente, degli individui simili mai e poi mai potranno avere accesso alla comprensione della intrinseca natura preformata delle loro funzioni sociali. Poiché nemmeno possono pensare la loro ragion d’essere, questa per essi non  ha significato alcuno. La cosa è chiarita in maniera esemplare dallo stesso Marx: “In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi sono anzi immutabili, ma del loro contenuto”[80]. Mi sembra superfluo commentare ulteriormente il pensiero di Marx. I famosi effetti sociali della dinamica capitalistica innescati dalla sussunzione reale[81] – di nuovo: i diversi soggetti intenzionali e più in generale tutte le categorie più importanti del modo di produzione  e della formazione sociale attuale - sono infatti “presupposti”, “forme naturali e immutabili”, del tutto prive di “contenuto” specifico, del sistema sociale che esse istituiscono e a cui danno la loro impronta determinata, precisamente come le “forme estreme e più mediate” dell’economico descritte in precedenza, quelle che rendevano invisibile la loro causa e ne mostravano l’inverso.

In sintesi, dunque, il principio metodologico di Marx si articola in tre complessi livelli di significato che riassumo qui per comodità espositiva e per poterli mettere a confronto con l’equivalente nozione scientifica. Prima di tutto, è necessario distinguere le cause sociali dai loro effetti sensibili, visibili e misurabili. In secondo luogo, bisogna farlo perché nell’ambito della società detti risultati si presentano come presupposti d’ogni cosa, come istanze già date da cui l’intera vita sociale deve avere inizio (visto che nient’altro, oltre ad esse, sembra esistere). Infine, e questo rafforza la prima avvertenza, gli effetti esistenti come entità incondizionate rendono invisibile il loro fondamento e si rappresentano agli occhi dei soggetti in guisa di enti naturali, preesistenti e autoidentici, senza origine né causa genetica, addirittura senza alcun contenuto differente dal loro puro e semplice esserci (o being there).

Benché la categoria epistemologica basilare di Marx trovi una sua legittimazione teorica nel pensiero scientifico della sua epoca, è tuttavia anche evidente che essa possiede caratteristiche aggiuntive e specifiche rispetto all’equivalente nozione scientifica. Se la scienza può supporre che la natura costituisca un contesto sensorio diverso dalla razionalità umana, la stessa cosa non può essere detta per la società. La cornice societaria dei soggetti non può essere considerata, in alcun modo, un sistema d’istituzioni e rapporti differente dagli (o peggio ancora esterna agli) agenti sociali che l’istituiscono e di cui esso in definitiva consta. L’identica natura dei due ambiti esige anzi che la loro distinzione, dovuta al peculiare modo di riprodursi del capitale, venga spiegata in maniera originale. Precisamente ciò che Marx ha fatto con la sofisticata spiegazione che ci ha dato, e che rende conto del modo in cui si correlano in maniera complessa, fino ad entrare l’uno nell’altro, i due livelli di realtà che all’inizio venivano distinti. La distinzione tra cause ed effetti ha insomma, e deve avere, in società un suo status teorico differente da quello ch’essa possiede nelle scienze naturali, giacché essa deve interpretare un oggetto storico definito e del tutto particolare, completamente dissimile da quello della scienza. Questa idea è stata enunciata da Marx sin dai tempi dell’Ideologia tedesca ed era allora condivisa anche dagli scienziati dell’epoca[82]. Del resto, mentre per l’intelletto scientifico il principio di causalità può rimanere sullo sfondo in guisa di idea regolativa per lo studio legisimile dei fenomeni naturali, per l’interpretazione della società capitalistica era indispensabile a Marx correlare i due livelli attraverso una mediazione capace di spiegare come si passasse dall’uno all’altro e come agisse la determinazione da parte della causa più profonda. Senza questa delicata, e ripeto altamente sofisticata, dimostrazione sarebbe stato impossibile spiegare attraverso quali caratteri specifici la tendenza interna si rappresenta poi nel suo mondo di superficie, imprimendovi il suo marchio. La maniera in cui si passa dal sostrato fondamentale della realtà sociale al pluriarticolato sistema degli effetti restava per Marx una condizione essenziale da soddisfare per poter sperare di dare alla sua interpretazione delle cose una forma razionale e convincente, in cui quel contesto di cose, rapporti e processi vedesse infine svelata la sua intima natura preformata, derivata e dipendente. Proprio ciò che la complessa categoria discussa, con i suoi molteplici piani concettuali interni, gli ha permesso di fare. Anche di tutto ciò il marxismo storico non ha mai saputo nulla. Se la scienza della natura, come diceva Bachelard, è interessata a conoscere soltanto i fenomeni[83], e al limite può porre la loro origine nell’ignoto e nell’inconoscibile[84], una teoria critica della società non può fare a meno di spiegare anche il motore interno che li produce. Altrimenti non potrebbe mai contrastare quella logica della fatticità oggi come ieri dominante nelle scienze sociali e così essenziale per il capitale

Note

[1] Da Marx stesso, come è noto, ad Engels, via Kautsky, alla 3ª Internazionale e oltre, in pratica fino ai giorni nostri. Cfr. ad es. R. Young, Marxism and the history of science, in Varii Auctores, Companion to the history of science, Routledge, London, 1996, pp.77-86.
[2] Unica nobile eccezione gli studi di Annelise Griese, che però non si occupa delle origini dell’interpretazione marxiana della scienza né studia le opere degli scienziati letti da Marx. Cfr. ad es. a cura di A. Griese e  H. J. Sandkühler, Karl Marx – zwischen Philosophie und Naturwissenschaften, Petere Lang, Berlin, 1997. Si veda anche lo studio di S. Han, Marx in epistemischen Contexten. Eine Dialektik der Philosophie und der ‘positiven Wissenschaften’, Peter Lang, Berlin, 1995.
[3] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p.34  (Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie, Dietz Verlag, Berlin, 1974, p.27).
[4] Cfr. ad es. il libro di D. Schweickart, Against capitalism, Chicago U. P., 1993.
[5] Cfr. ad es. i seguenti volumi: Varii Auctores, Un siècle de marxisme, Presses Universitaire du Québec, 1990; P. Souyri, Le marxisme après Marx, Flammarion, Paris, 1992; Varii Auctores, Marxism beyond Marxism, Routledge, London, 1996;  L. Cillario, L’economia degli spettri. Forme del capitalismo contemporaneo, Manifestolibri, Roma, 1996; M Vakaloulis - J. P. Vincent, Marx après le marxismes, 2 Tomes, L’Harmattan, Paris, 1997;  M. Sylvers, Gli Stati Uniti tra dominio e declino. Politica interna, rapporti internazionali e capitalismo globale, Editori Riuniti, Roma, 1999.
[6] C’è già chi lo sostiene da tempo, magari proponendo un bricolage tra tradizioni diverse, impresa in cui “there is no reason to believe that the outcome will be recognizably Marxist”: cfr. ad es. P. Van Parijs, Marxism recycled, Cambridge U.P., 1993 (la citazione è tratta da ibid., p.1); I Mészáros, Beyond Capital. Towards a theory of transition, Merlin Press, London, 1995; Fr. Laruelle, Introduction au non-marxisme, PUF, Paris, 2000.
[7] Cfr. la lettera a sua figlia Laura dell’11 aprile 1868, in Werke, 32, p.545:  ”Du wirst Dir sicher einbilden, mein liebes Kind, daß ich Bücher sehr liebe, weil ich Dich zu einer so ungelegenen Zeit damit belästige. Aber Du wärst sehr im Irrtum. Ich bin eine Machine, dazu verdammt, sie zu verschlingen und sie dann in veränderter Form auf den Dunghaufen der Geschichte zu werfen”. Il paragone di Marx con il “letamaio della storia” si spiega col fatto che per lui “dans l’histoire, comme dans la nature, la pourriture est le laboratoire de la vie” (Cito dalla traduzione francese di J. Roy: Le Capital, Editions Sociales, Paris, 1960, Tome II, p.168).
[8] Cfr. a cura di B. Kaiser, Ex libris Karl Marx und Friedrich Engels, Dietz Verlag, Berlin, 1967, in particolare la parte che contiene l’elenco dei volumi posseduti da Marx fino al 1850: Bestandsverzeichnis der Bibliothek von Karl Marx. Verfaßt von Roland Daniels (1850), pp.209-228. Si tratta di 400 libri che Marx era stato costretto a lasciare sul continente quando fu espulso da Colonia nel 1949. D’altro canto, basta leggere le sue prime opere – dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 fino alla Miseria della filosofia - per rendersi conto di questo fatto. Sul “ruolo dominante” della cultura scientifica francese a cavallo tra 700 e 800 cfr. F. Mondella, La scienza tedesca nel periodo romantico e la Naturphilosophie, in L. Geymonat, Storia del pensiero filsofico e scientifico, vol. IV, Garzanti, Milano, 1971, pp.264 e sgg. Cfr. anche J. Witt-Hansen, Marx’s method in social science, and its relationship to classical and modern physics and mathematics, in “Poznan Studies”, n.3, 1977.
[9] Cfr. i volumi censiti in B. Kaiser, Ex libris, cit., pp.23-208. Cfr. anche S. Han, Die Metapher der Zelle. Zur Rekonstruktion Marxscher epistemischer Kontexte, in Griese-Sandkühler, Karl Marx, cit., p.106, secondo il quale “im Jahr 1845 konzentrierte sich Marx noch intensiver als früher auf das Studium der positiven Wissenschaften”.
[10] I volumi che Marx legge durante questo periodo si possono vedere in Mega², II, 3.6, Dietz Verlag, Berlin, 1982, Apparat: Literaturregister, pp.3123-3150. I nomi più noti sono quelli di A. Ure, C. Babbage, J. H. Poppe, J. Beckmann, E. Boileau, W. Grove, F. W. Johnston, J. Liebig.
[11] Per le letture dell’epoca successiva cfr. Mega², IV, 31, Mitte 1877 bis Anfang 1883, Akademie Verlag, Berlin, 1999, con una esauriente Einführung di Anneliese Griese.
[12] Cfr. Werke, 13, pp.10-11.
[13] Su questi journals in lingua inglese – i più importanti dei quali, insieme naturalmente ai Proceedings della Royal Society, erano la Edinburgh Review (dal 1802) e la Quarterly Review (dal 1809) - cfr. R. Yeo, Defining science. William Whewell, natural knowledge and public debate in early Victorian Britain, Cambridge U. P., 1993, pp.77-82; J. Don Vann-R. Van Arsdel, Victorian periodicals, New York, 1978, p.77. Non bisogna dimenticare tuttavia che Marx aveva accesso anche a tutte le altre pubblicazioni europeee, presumibilmente tedesche e francesi in testa.
[14] Cfr. P. Jäckel-P. Krüger, Aktualisierte Übersicht über die naturwissenschaftlichen Exzerpte von Karl Marx (1846 bis 1882), in  A. Griese-J. Sandkühler, Karl Marx, cit., pp.93-104.
[15] Cfr. A. Briggs, Marx in London, BBC, London, 1982. Sui rapporti di Engels col mondo scientifico di Manchester, ed in particolare con Carl Schorlemmer, si veda  il volume Carl Schorlemmer. Chemiker und Kommunist, Merseburg, 1974. Ovviamente è importante la biografia di G. Mayer, Friedrich Engels. La vita e l’opera, Einaudi, Torino, 1969. Sull’importanza delle istituzioni scientifiche di Manchester già alla fine del Settecento cfr. D. S. L. Cardwell, The organisation of science in England, Heinemann, London, 1957, pp.17 e sgg. Gli studi dedicati al pensiero e all’opera di Engels sono naturalmente copiosi. Qui di seguito qualche titolo più recente: S. H. Rigby, Engels and the formation of Marxism. History, dialectics and revolution, Manchester U. P., 1992; S. Garroni (a cura di), Engels cento anni dopo, La Città del Sole, Napoli, 1995; C. J. Arthur (ed.), Engels today. A centenary appreciation, Macmillan, London, 1996; Varii Auctores, Zwischen Utopie und Kritik. Friedrich Engels – ein “Klassiker” nach 100Jahren, VSA Verlag, Hamburg, 1997; M. Cingoli (a cura di),Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico, Teti Editore, 1998.
[16] Cfr. Die Bibliotheken von Karl Marx und Friedrich Engels, Akademie Verlag, 1999.
[17] V’è da dire tuttavia che la Biblioteca, benché sia comprensiva di 1450 titoli per più di 2100 libri, non comprende i numerosi e importanti lavori scientifici – concernenti la tecnologia, la fisiologia, l’istologia, l’anatomia, la frenologia - letti da Marx durante il suo soggiorno in Belgio e soprattutto al British Museum, e di cui usava fare quaderni e quaderni di estratti.
[18] Cfr. Werke, 31, pp.586-587. I nomi più famosi citati –  ”Die ersten Männer der Wissenschaft”, come li definisce in questa lettera del gennaio 1866 la moglie di Marx – sono quelli di J. Tyndall, C. Lyell, W. Boyd Carpenter e naturalmente Thomas Huxley.
[19] Cfr. Werke, 30, p.320 (lettera ad Engels del 28 gennaio 1863), p.418 (lettera ad Engels del 4 luglio 1864).
[20] Per Marx ed Engels un ruolo di primo piano è stato probabilmente svolto, sul piano della documentazione e informazione scientifiche quanto meno, anche da Carl Schorlemmer e Edwin Ray Lankester, il famoso biologo e paleontologo darwinista amico di famiglia. Sembra però che i due scienziati siano entrati in contatto con Marx ed Engels o alla metà circa del periodo che qui interessa o molto dopo. Vero è che Engels ci spiega di aver conosciuto Schorlemmer nei primi anni del decennio 1860-1870 (cfr. Carl Schorlemmer. Chemiker und Kommunist, cit., pp.11-12), mentre egli viene citato da Marx per la prima volta solo nel giugno 1867 (Werke, 31, p.301). Lankester, “il mio amico Prof. Ray Lankester” dice Marx, viene citato per la prima in una sua lettera ad Engels del maggio 1882 (Werke, 35, p.64).
[21] Su queste questioni mi permetto di rinviare a due miei scritti: Marx and the scientific thought of his time, in  ”Beiträge zur Marx-Engels-Forschung”, Neue Folge, 1997, pp.87-99; Review di A. Griese-H. J. Sandkühler, Karl Marx – zwischen Philosophie und Naturwissenschaften, Peter Lang, Berlin, 1997, in “Beiträge zur Marx-Engels-Forschung”, Neue Folge, 1998, pp.239-250.
[22] Cfr. Werke, 29, p.524.
[23] K. Marx, Il Capitale, vol. 3°, Einaudi, Torino, 1975, p.1099 (Werke, 25, p.825).
[24] ibid., vol. 1°, p.386 (Werke, 23, p.335).
[25] ibid., vol. 3°, p.435 (Werke, 25, p.324).
[26] ibid., p.296 (ibid., p.219).
[27] K. Marx, Teorie sul plusvalore, vol. 3°, Editori Riuniti, Roma, 1979, p.549; corsivo mio (Werke, 26.3, p.503).
[28] ibid.
[29] Ho dato numerosi esempi di questa omissione nel mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica. Realtà e razionalità da Spinoza al costruttivismo radicale, Pellicani Editore, Roma, 1997.
[30] Cfr. Lettres sur les sciences de la nature, Editions Sociales, Paris, 1973, pp.134-135, p.150.
[31] Cfr. C. MacLaurin, An account of Sir Isaac Newton’s philosophical discoveries, London, 1775 (Johnson Reprint, New York, 1968).
[32] ibid., p.385.
[33] Cfr. ibid., p.387.
[34] Cfr. ibid., pp.386-388. Da questo punto di vista, l’opposizione a Descartes e a ogni Deismo era solo fittizia e con pochi riscontri nella realtà. Se l’avversione per ogni “false schemes of natural phiilosophy” derivava dal fatto che essi ragionavano “by feigning philosophical systems, by supposing instead of enquiring, and by imagining systems instead of learning from observation and experience the true constitution of things” (iibid., pp.7-8), allora l’intera disputa è priva di qualsiasi fondamento. Tutta l’analisi di MacLaurin, lo studio dei fatti e dei fenomeni d’esperienza attraverso il metodo induttivo, si basa infatti su un altro presupposto metafisico indimostrabile: il governo del mondo da parte di Dio (ibid., pp.377 e sgg.). Tutti i “labyrinths” dell’universo, “the most secret operations of Nature” - i cui processi “lie so deep” -, le sue “subtle and hidden works”, sono infatti assoggettabili a studio e riflessione solo perché si può presupporre a monte la presenza di “an All-governing Deity” che ne assicura la razionalità, la forma discernibile e comprensibile dalla mente umana. I due paradigmi, al contrario di come si tendeva a presentarli, non erano dunque alternativi, e la loro controversia va spiegata con altri motivi.
[35] Cfr. ibid., pp.20-23.
[36] Cfr. ibid., pp.15-19.
[37] A questo proposito è esemplare l’evoluzione interna del pensiero di Kant, sulla quale mi permetto di rinviare al mio Sistemi di conoscenza, cit., in particolare al Capitolo quarto: Kant: critica dell’ontologia e pensiero infondato, filosofia ed epistemologia, pp.287-327.
[38] Per una delucidazione di questo argomento non mi resta che rinviare il lettore al 6° Paragrafo di questo saggio.
[39] Cfr. ad es. la Introduction di Laudan al volume di MacLaurin, p.XI, in cui ci si precisa che “Newton’s influence on eighteenth-century intellectual history was both profound and widespread”. D’altro canto, proprio in questo periodo “books on scientific subjects began to proliferate, particularly volumes which expounded the Newtonian position”. In una sola nota, Laudan indica ben 13 trattati di fisica, sia per “Young Gentlemen” sia per adulti, che popolarizzavano la concezione newtoniana. Su questa “age of Newton” cfr. anche a cura di I. Bernard Cohen, Isaac Newton’s papers & letters on Natural Philosophy, Cambridge U. P., 1958, in particolare laGeneral Introduction dello stesso Cohen, pp.3-23.
[40] Cfr. L. Laudan, Introduction, cit., p.X.
[41] Paris, 1806.
[42] Ibid., vol. 1°, p.8. A questo proposito, come chiarisce Laudan, “it should be recalled that mechanics, since the time of Aristotle, had been considered the science of forces. These forces were not merely mathematical entities but were, instead, thought to be the basic causal agent, the source of all change” (Introduction, cit., pp.xxi e sgg.).
[43] M. Becquerel, Traité de physique, Paris, 1842, Tome I, p.189. Cfr. anche Tome II, p.44, p.128, p.199, p.530.
[44] J. Müller, Lehrbuch der Physik, Braunschweig, 1844, p.2.
[45] ibid., p.4.
[46] Il volume di Müller non compare né nella Biblioteca di Marx ed Engels, né in Ex libris. Eppure tra i 400 libri del lascito ereditario del suo amico Wolff, libri che ancora nell’agosto 1865 dichiara essere in suo “possesso” (Werke, 31, p.147), Marx stesso elenca, tra i vari titoli, un certo “Müller, “Physik”“ (ibid., p.27) che sembra essere proprio il fisico in questione.
[47] B Witzschel, Die Physik faßlich dargestellt nach ihrem neuesten Standpunkte, Leipzig, Wigand, 1858. In particolare si veda la Einleitung, pp.1-6.
[48] Cfr. Die Bibliotheken von Karl Marx und Friedrich Engels, cit., p.685, p.585.
[49] Cfr. R. Yeo, Defining science, cit., pp.93 e sgg.; R. Olson, Scottish philosophy and British physics 1750-1880. A study in the foundations of the Victorian scientific style, Princeton U. P., 1975, p.6.
[50] J. W. Herschel, A preliminary discourse on the study of natural philosophy, Chicago U. P., 1987, p.149 (A facsimile of the 1830 edition).
[51] Id., Essays from the Edinburgh and Quarterly Reviews, London, 1857, pp.365-367.
[52] Come diceva Thomas Huxley, “intellectually we stand on an islet in the midst of  an illimitable ocean of inexplicability”, in The life and letters of Charles Darwin, New York, 1887, vol. I, p.557.
[53] J. W. Herschel, A preliminary discourse, cit., pp.149-150.
[54] Id., Essays, cit., p.366.
[55] ibid., pp.668-669.
[56] L’idea in oggetto era stata difesa a suo tempo anche da Locke e Hume: cfr. C. Wilson, The invisible world. Philosophy and the invention of the microscope, Princeton U. P., 1995, pp.219-255. D’altro canto, lo “intellectual and social background” degli anatomisti e fisiologi “belonging to medical schools” - vale a dire, “natural magic, magnetism, alchemy” - tra il 16° e il 17° secolo ruotava intorno ad un unico principio: “the common idea of discovering the hidden powers of nature that could be harnessed to produce astonishing, theatrical, and useful effects”, in S. Bradbury- G. Turner, Historical aspects of microscopy, Cambridge, Heffer, 1967, p.4.
[57] Cfr. J. Herschel, A preliminary discourse, cit., p.193; corsivo mio. Si consideri anche il seguente passo: “The immediate object we propose to ourselves in physical theories is the analysis of phenomena, and the knowledge of the hidden processes of nature in their production, so far as they can be traced by us. An important part of this knowledge consists in a discovery of the actual structure or mechanism of the universe and its parts, through which, and by which, those processes are executed; and of the agents which are concerned in their performance. Now, the mechanism of nature is for the most part either on too large or too small a scale to be immediately cognizable by our senses; and her agents in like manner elude direct observation, and become known to us only by their effects” (ibid., p.191; corsivo mio).
[58] Cfr. A. Desmond, Huxley. From devil’s disciple to evolution’s high priest, Perseus Book, Reading (Mass.), 1997, p.XIII.
[59] T. Huxley, Science primers, London, 1895, pp.10-19.
[60] id., Method and results, London, 1893, p.60.
[61] id., Darwiniana, London, 1899, p.449.
[62] Cfr. id., Science primers, cit., p.7, p.10.
[63] id., Method and results, cit., p.60.
[64] id., Science primers, cit., p.14; corsivo mio.
[65] Cfr. P.-S. Laplace, Exposition du système du monde, Fayard, Paris, 1984, pp.185-194. Del resto, decenni dopo Charles Lyell, il geologo così apprezzato e seguito da Marx, continuerà ad affermare la medesima tesi nel suo famoso L’ancienneté de l’homme prouvé par la géologie, Paris, 1870: “C’est l’ordre des phénomènes et non leur cause que nous pouvons rapporter au cours habituel de la nature” (ibid., p.538).
[66] Cfr. T. Huxley, Darwiniana, cit., p.449.
[67] ibid., p.57.
[68] id., Method and results, cit., p.60.
[69] Quanto sia antica questa credenza lo dimostra Mario Bunge nel suo Causality and modern science, Dover Publications, New York, 1979, pp.225 e sgg.
[70] Cfr. ad esempio J. P. Nichol, Thoughts on some important points relating to the system of the world, Edinburgh, 1846; W. Boyd Carpenter, Principles of physiology, London, 1851; W. Whewell, History of the inductive sciences, London, 1837.
[71] Cfr. ad esempio J. Stallo, The concepts and theories of modern physics, London, 1890, pp.166 e sgg.; P. Duhem, Prémices philosophiques, Brill, Leiden, 1987 (Collazione di articoli dal 1892 al 1896), pp.84-97, pp.150 e sgg.; M. Schlick, Philosophical papers, 2 vols. (1909-1936), Reidel, Dordrecht, 1979.
[72] Cfr. i seguenti volumi: J. Barrow, The artful universe, Clarendon Press, London, 1995; P. Davies, The mind of God, Simon & Schuster, New York, 1991; id., The matter myth. Beyond cahos and complexity, Penguin, London, 1991.
[73] Il Capitale, cit., vol.1°, pp.4-7, pp.15-19 (Werke, 23, pp.11-16).
[74] Ibid., p.205 (ibid., p.184).
[75] ibid., p.657 (ibid., p.559).
[76] ibid., p.661 (ibid., p.562). Cfr. ancora ibid., pp.663-664 (ibid., p.564).
[77] id., Teorie sul plusvalore,cit., vol.3°, pp.449-450 (Werke, 26.3, pp.503-504).
[78] id., Werke, 1, p.402.
[79] Cfr. id., Lineamenti, cit., II, p.69, pp.79-82 (Grundrisse, cit., p.354, pp.363-366).
[80] Id., Il Capitale, cit., vol. 1°, p.92 (Werke, 23, pp.89-90). È davvero paradossale che proprio Althusser, l’intellettuale che forse più di tutti si è battuto per rinnovare l’interpretazione marxista del modo di produzione capitalistico e dello stesso pensiero di Marx abbia letto alla rovescia il passo citato, come se esso provasse la natura già data o presupposta del reale. Cfr. Lire le Capital, PUF, Paris, 1996, pp.313-314. Se anche la lettura apparentemente più innovativa ed in un certo senso, per l’epoca in cui fu formulata, più radicale della concezione di Marx incorre in simili eclatanti fraintendimenti, facendo dire a certi suoi cruciali enunciati precisamente l’opposto del loro sofisticato contenuto logico, ci si può poi sorprendere del fatto che tutte le altre varianti del marxismo storico siano del tutto incapaci di ripensare le categorie di Marx e tramite esse le specifiche modalità riproduttive del capitalismo contemporaneo?
[81] Ho tentato di spiegare il complesso significato di questo concetto, invero basilare per una piena comprensione di tutto il pensiero di Marx e per rendere conto anche della differenza tra processo di riproduzione del capitale e agire intenzionale dei soggetti sociali, in un mio scritto: Il cristallo e l’organismo. Struttura e  dinamica del modo di produzione capitalistico, Edizioni Punto Rosso, Milano, 1994, che di fatto è un unico, lungo e complesso ragionamento intorno a quel concetto marxiano
[82] Cfr. ad es. T. Huxley, Science primers, cit., p.14: “While there is much analogy between human and natural laws, however, certain essential differences between the two must not be overlooked”.
[83] G. Bachelard, La philosophie du non, PUF, Paris, 1981, pp.109-110.
[84] Cfr. P.-S. Laplace, Exposition du système du monde, cit., p.19.