18/12/13

Marx e la scienza | Come il pensiero scientifico ha dato forma alla teoria della società di Marx – II [Cap. 4 & 5]

Karl Marx ✆ Etsy
Franco Soldani

4. Il valore e i suoi modi d’espressione
“Think first, compute later” |  I. A. Stewart
Lo stretto legame della problematica più sofisticata di Marx con la scienza del suo tempo, così come l’interno carattere complesso del suo pensiero, vengono ancora meglio in luce nell’analisi del valore. D’altro canto, il nocciolo scientifico di questa categoria dimostrerà anche, credo, la completa incomprensione del suo interno e stratificato significato concettuale da parte di quel pensiero economico, marxista e no, che si è occupato della sua natura logica, pretendendo di confutarla. In realtà, come vedremo, la razionalità economica ignora completamente l’effettivo status cognitivo della conoscenza scientifica e della sua epistemologia, cosa che poi la porta del tutto fuori strada quando deve prendere in considerazione teorie fondate su queste ultime. Per Marx, come è noto, la quantità di lavoro astratto rappresa nella merce rappresenta il suo valore. Il lavoro sans phrase, mera spesa fisiologica di energia mentale e fisica, costituisce la “sostanza sociale” del valore e le differenti merci non sono altro che “cristallizzazioni” di questo “contenuto”[85]. Il lavoro umano indistinto è dunque l’elemento comune che nello scambio generalizzato dei beni permette l’onnilaterale confronto dei differenti valori d’uso, altrimenti incommensurabili a causa delle loro diverse proprietà merceologiche. Quando due oggetti differenti che soddisfano bisogni umani vengono scambiati, il loro commercio è regolato dal “rapporto quantitativo” o “proporzione” nella quale i diversi valori d’uso vengono valutati. La quantità determinata in proporzione della quale i diversi valori d’uso si scambiano reciprocamente è il loro “valore di scambio” e questo non è altro che “il modo di espressione necessario” o la “forma fenomenica” di quel lavoro incorporato. La grandezza di valore di ogni merce sarà dunque misurata dalla quantità di tempo di lavoro socialmente necessario per produrre quel determinato bene.

Il rapporto tra la sostanza e le sue forme o modi di espressione sembre dunque, a prima vista, privo di difficoltà. Il valore è un coagulo di lavoro umano indifferenziato e questo “cristallo” si rappresenta o si manifesta[86] nell’interscambio delle merci attraverso dati rapporti numerici perfettamente misurabili dal loro valore di scambio. Uguaglianza qualitativa e comparazione quantitativa[87] sembrano andare così di pari passo. Come mai, allora, Marx definisce la natura del valore un “arcano”[88], una forma “metafisica”, una “proprietà sovrannaturale”, un sostrato “nascosto”[89], una “proprietà occulta”[90], “una qualità metafisica e insostanziale”[91], addirittura un “qualcosa di immateriale”[92]? Se questo è il punto  ”intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica”[93], in che cosa consiste il suo carattere problematico e persino irriconoscibile?
            
Apparentemente non v’è nulla di cabalistico nel fatto che le diverse attività lavorative, producenti valori d’uso distinti corrispondenti a determinati lavori concreti, possano essere considerate pure e semplici forme di realizzazione o incarnazioni di lavoro astrattamente umano. Eppure, spiega ancora Marx, “nell’espressione di valore della merce la cosa è stravolta”[94]. Di qui “il carattere mistico della merce”, il suo “carattere enigmatico” e “misterioso”, la sua “forma fantasmagorica”. Tutti questi attributi finiscono col trasformare dunque la merce stessa in una “cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, in una “cosa sensibilmente sovrasensibile”, che è allora indispensabile sottoporre ad una più fine analisi. Infatti, “il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale”[95].
            
Per capire l’intrinseca natura complessa del valore è allora indispensabile decifrare questo enigma. Il punto di partenza più appropriato a questo fine è senz’altro l’osservazione e lo studio del rapporto semplice di valore fra due merci, giacché “l’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di essa”[96], poiché non appena essa si svilupperà attraverso le sue interne metamorfosi tutte le sue nuove forme superiori dissolveranno quella semplicità iniziale[97]. Cosa c’è da capire, sostanzialmente, in questa relazione che possa dischiuderci la comprensione del problema? Due cose soprattutto.

Innanzitutto, il fatto che nel rapporto di scambio tra una merce A ed una merce B, tra forma relativa di valore e forma di equivalente in altre parole, l’oggetto che svolge la funzione dell’equivalente dà “una propria espressione autonoma” ed una presentazione “esterna” [98] al valore dell’altra merce. La “opposizone interna” tra valore d’uso e valore racchiusa nella singola merce ha trovato modo di uscire dal corpo ospite attraverso il rapporto tra due merci. Ed in effetti questo processo può svilupparsi solo nell’ambito del rapporto tra grandezze di valore diverse[99], vale a dire solo all’interno del processo di scambio, del confronto quantitativo tra merci distinte. La cosa importante, tuttavia, è che questo svolgimento ha permesso al valore di trovare una sua via d’uscita dal regno delle ipotesi, delle condizioni soltanto pensate[100], e di rappresentarsi attraverso una mediazione reale, come un’entità tangibile e misurabile. 

 In secondo luogo, tuttavia, questo passaggio o “trapasso” all’esterno della sostanza della merce, in una forma di valore (l’equivalente) differente e indipendente dalla sua veste materiale[101], dà luogo anche ad un altro eclatante effetto, inseparabile del resto dal primo, mediante il quale si può spiegare l’enigma del valore, cioè perché esso appaia all’intelletto degli individui in guisa di mistero inesplicabile. La chiave di accesso alla comprensione di tutta la faccenda è la forma di equivalente. La merce che nel rapporto di valore rappresenta la “parte passiva” si presenta infatti di fronte a coloro che scambiano come un oggetto che “così com’è, tale e quale, esprime valore, cioè possiede per natura [von Natur] forma di valore”. Il bene che all’interno della relazione di scambio funziona come equivalente “sembra possedere per natura [von Natur] la sua forma di equivalente, la sua proprietà di immediata scambiabilità”, così come ad esempio sono ad esso connaturate le sue proprietà fisico-chimiche.

“Di qui – spiega Marx – viene il carattere enigmatico della forma di equivalente”, e di conseguenza della merce in generale. Insomma, la forma più elementare di espressione del valore (ad es. due m² di tela = un abito) ci fa “risolvere l’enigma della forma di equivalente”[102], nella misura in cui almeno ci fa capire quale sia l’apparente caratteristica che sembra rendere i beni universalmente scambiabili tra loro entro determinati rapporti quantitativi. La merce, in altri termini, non deriva le sue proprietà intrinseche (forma e grandezza di valore) da una determinata formazione sociale, bensì sembra possedere le sue virtù in maniera naturale, in quanto bene utilizzabile per dati bisogni umani. Già la forma semplice di valore realizza dunque la virtuale cancellazione della specificità sociale dei prodotti del lavoro umano, la derivazione della merce da una società storicamente determinata (con i suoi rapporti sociali peculiari, le sue istituzioni, le sue forme di pensiero, e così via). Ascoltiamo a questo proposito di nuovo Marx: “L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire comecaratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose”[103]. Che questo sia il primo significato del concetto in causa e la via privilegiata d’accesso alla comprensione della natura “occulta” del valore è provato dal fatto che Marx ripete senza sosta, in contesti diversi e con formulazioni sempre più pregnanti, l’interpretazione succitata. Nel processo di scambio infatti domina “la parvenza che il carattere sociale del lavoro appartenga agli oggetti”, giacché i rapporti numerici entro i quali essi vengono permutati “sembrano sgorgare dalla natura dei prodotti del lavoro”[104] e non da un circostanziato e identificabile sistema di relazioni tra individui specifici, appartenenti ad una società determinata[105]. Tutto il contrario. Infatti, l’intera razionalità dei soggetti dipende dal “feticismo inerente al mondo delle merci”: “ossia – spiega in maniera inequivocabile Marx – dalla parvenza che le determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti”[106].

Il meccanismo di rappresentazione del valore mette in moto dunque degli effetti sociali assai complessi e difficilmente intelligibili da parte di coloro che li osservano, effetti tanto più sottili poi se si considera il fatto che nel rapporto semplice di scambio tra due beni, paradossalmente, l’aspetto enigmatico della merce “sembra ancora relativamente facile da penetrare”, mentre “in forme più concrete scompare perfino questa parvenza di semplicità”[107]. Si può capire agilmente, penso, la potenza di questa mediazione. Se infatti sin dall’inizio, nel comune interscambio tra due merci, s’instaura la logica fattuale che si è vista, ci si può facilmente immaginare cosa possa accadere non appena si passi a livelli ulteriori di sviluppo della forma di valore. A che cosa dunque si riferisce precisamente Marx quando parla delle sue “forme più concrete”? In primo luogo ai prezzi e al denaro (anche se di certo non solo ad essi).

Se “la forma semplice di merce è il germe della forma di denaro”[108], la “forma germinale che matura fino alla forma di prezzo solo passando attraverso una serie di metamorfosi”[109], allora è ovvio che l’analisi dello svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci deve proseguire “dalla sua figura semplice e inappariscente, fino all’abbagliante forma del denaro”, un’impresa questa “che non è neppure stata tentata dall’economia politica borghese” (anzi, precisa Marx, “la duplice forma del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta”). Non appena questo passo sarà compiuto, “scomparirà anche l’enigma del denaro”[110], al quale spetta del resto una funzione determinante nel velare materialmente[111] il processo di realizzazione del valore. In che modo il denaro adempie a questa sua funzione?

L’equivalente generale, consentendo la comunicazione universale e senza limiti delle merci, funzionando come misura generale dei valori e scala dei prezzi[112], si presenta agli occhi degli attori sociali come un mezzo in cui “scompare ogni traccia del rapporto di valore”[113]. Poiché il denaro rappresenta soltanto il massimo sviluppo della forma di valore, anch’esso, al pari del processo di scambio delle merci da cui deriva, appare al raziocinio comune, intelletto degli economisti compreso, come un puro e semplice artificio, a volte intenzionale a volte strumentale, avente lo scopo di oliare la circolazione mercantile[114]. A causa del fatto che, per sua essenza, il valore  è “invisibile”[115] nei corpi delle merci, esso deve trovare il modo di manifestarsi in una forma adeguata al suo concetto[116], e ci riesce precisamente nel denaro che è perciò da considerarsi come “la prima forma fenomenica del capitale”[117].

Si consideri a questo proposito l’esemplare spiegazione di Marx: “Come soggetto predominante ed unificante [als übergreifende Subjekt] di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo neldenaro”[118]. Ecco perché “è necessario che il valore si evolva, a differenza dei variopinti corpi del mondo delle merci, fino a raggiungere tale forma non concettuale e di cosa, ma anche semplicemente sociale”[119].

A questo punto, è chiaro che il “potere trascendentale del denaro”[120] non è altro che l’originaria identificazione del rapporto di valore delle merci con le loro proprietà materiali, non differisce in nulla, per l’essenziale, dalla mediazione del naturale in precedenza considerata: “l’enigma del feticcio denaro è soltantol’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio”[121]. Solo che nel denaro quella prima mediazione ha trovato modo di raggiungere livelli di sviluppo enormemente superiori, molto più complessi. Se, come si è visto, già nella più semplice espressione di valore la merce B ”sembra possedere come qualità sociale di natura la propria forma di equivalente, indipendentemente da tale rapporto”, il denaro porta a compimento questa errata ma reale parvenza non “appena la forma generale di equivalente finisce con il connaturarsi alla forma naturale d’un particolare genere di merce, ossia è cristallizzata nella forma di denaro”.

Al culmine di questo processo di svolgimento, l’equivalente generale ha ormai assunto il suo carattere definitivo e la sua specifica connotazione sociale. Nel denaro, infatti, “il movimento mediatore scompare nel proprio risultato senza lasciar traccia. Le merci trovano la loro propria figura di valore davanti a sé, bell’e pronta, senza che esse c’entrino, come un corpo di merce esistente fuori di esse e accanto a loro”[122].

Valore di scambio, merci, prezzi e denaro sono allora da considerarsi tutte forme di manifestazione locali per così dire[123] del valore la cui funzione sociale, mano a mano che le sue metamorfosi danno luogo alla nascita di nuove determinazioni, diventa sempre più sottile e dal contenuto concettuale vieppiù sofisticato. La complessità interna del loro significato logico evolve praticamente in parallelo ai compiti di mediazione che esse devono svolgere in ambito economico-sociale. D’altro canto, se già nel denaro, giacché esso nella sua esistenza infondata e autoidentica o fattuale non reca alcuna traccia delle sue origini, diventa praticamente impossibile per i soggetti comprendere da dove esso nasca, nelle altre sue ancor più sviluppate forme economiche quel suo profilo apparentemente già dato ed esistente come presupposto raggiunge il suo apice parossistico.

Se già salario, profitto e rendita fondiaria rappresentano delle categorie che “rendono invisibile il rapporto reale e mostrano precisamente il loro opposto”[124], con l’interesse si raggiungono livelli inimmaginabili di sovvertimento  dell’effettivo stato delle cose, il culmine vero e proprio dell’intero e discontinuo processo di sviluppo del valore. Cos’è che fa di questa rubrica economica un fattore così radicale? Il fatto è che nell’interesse, nella formula D-D', tanto “è cancellata ogni mediazione”, ogni e qualsivoglia relazione con la produzione, il plusvalore e le classi sociali: esso è “la forma aconcettuale del capitale, la distorsione e reificazione del rapporto di produzione alla massima potenza”[125], quanto i tratti più tipici e specifici del capitale, quelli che avrebbero dovuto connotarlo come un tipo storicamente determinato di società, sono “rovesciati nel loro contrario”, in “una inversione di causa ed effetto”[126], vale a dire in un sistema di istanze e di rapporti da cui tutto sembra dover cominciare visto che oltre ad essi nient’altro apparentemente sussiste. Mentre all’inizio il denaro pareva avere ancora qualche remoto legame con la circolazione delle merci e le persone in carne ed ossa, nel capitale produttivo d’interesse sparisce anche questo residuo riferimento ed esso diventa “il rapporto di D con se stesso e misurato su se stesso”[127]. Ecco perché, secondo Marx, in queste circostanze “anche l’ossificazione dei rapporti, la loro rappresentazione come un rapporto tra uomini e cose, dotato di un determinato carattere sociale, è ben diversa che nella semplice mistificazione della merce e in quella, già più complicata, del denaro. La transustanziazione, il feticismo è compiuto”[128].

Mi sembra inutile commentare l’impressionante analogia di questa spiegazione con l’interpretazione marxiana delle forme illustrata precedentemente[129]. Sta di fatto che Marx considera tutti i più importanti concetti del pensiero economico e del mondo sociale – valore di scambio, merci, prezzi, denaro, salario, rendita, profitto ed infine interesse – come delle entità che, pur essendo derivate e dipendenti dal processo di riproduzione del capitale, esistono ed agiscono come dei presupposti, come delle figure autonome e a prima vista senza alcun altro fondamento che il loro monolitico esserci. Sono effetti posti dalla loro ragion d’essere (l’autovalorizzazione del valore-capitale)[130], ma esistono nella realtà e le danno una struttura d’insieme complessa e mutevole in guisa dicause. La dinamica intrinseca del valore tiene insieme questi due aspetti della cosa: il mondo di superficie delle “forme naturali” in cui e tramite le quali si mediano le leggi riproduttive del capitale e il motore più interno che ne determina l’affiorare attraverso la loro autoreferenza.

Dovrebbe essere più chiaro adesso, spero, perché secondo Marx “nel concetto di valore si svela il segreto del capitale”[131]. Nella complessa dimostrazione che ne ha dato Marx, il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei valori d’uso è infatti il fondamento causale che mette in moto tutto il processo di rappresentazione che si è visto, processo che costituisce l’aspetto più sofisticato di tutta l’interna evoluzione discontinua, per scatti di significato e salti di livello, del valore. D’altra parte, si è visto anche che tutti i soggetti che personificano quelle categorie agiscono intenzionalmente, con volontà e coscienza, come rappresentanti e incarnazioni della suddetta dinamica. Il loro intelletto decisionale non può che prendere le mosse dalla loro razionalità preformata e funzionare unicamente nell’ambito della fattualità in cui soltanto possono vivere ed esplicare il loro ruolo. Nella circolazione e nella concorrenza intercapitalistica, dunque, vigono gli stessi principi che si son visti all’opera nella metamorfosi delle merci[132]. Se il valore rappresenta “la legge naturaleregolatrice”[133] di queste ultime, la stessa funzione la svolgerà dunque entro la competizione e l’azione reciproca tra i differenti capitali(sti), che del resto per Marx eseguono soltanto “le leggi interne del capitale” (infatti “è nella concorrenza che le leggi immanenti al capitale, le sue tendenze, giungono a realizzarsi”)[134].

Dunque per Marx il valore sarebbe “la regola interna”[135] dell’intero sistema concorrenziale, delle oscillazioni dei prezzi di mercato, e naturalmente anche dei prezzi di produzione intorno ai quali ruotano del resto i primi[136]. Il problema principe ovviamente è qui quello di capire come il valore possa essere identico, qualitativamente e quantitativamente, a tali prezzi e come esso possa determinare il saggio del profitto incamerato per così dire dai singoli capitali. Attraverso quali meccanismi si attua questa regolazione? Vediamo la spiegazione che ne dà Marx. Nell’ambito della concorrenza “la legge del valore agisce solo come legge interna, come cieca legge di natura nei confronti dei singolo agenti e impone l’equilibrio sociale della produzione in mezzo alla sue fluttuazioni accidentali”[137]. All’interno di questo meccanismo, in cui si intrecciano e si scontrano le “azioni casuali” e molto spesso divergenti - guidate da un fine comune ma non da un unica mente o strategia  - dei differenti “produttori”, il valore funziona come una sorta di anonima  “centrale di controllo” alla quale spetta il compito di smistare e coordinare tutto il sovrastante traffico, dandogli una certa qual razionalità. Solo che esso non lo fa in maniera diretta né imperativa. Al contrario: “In tutta la produzione capitalistica la legge generale si afferma come tendenza predominante, sotto forma d’una media, che non è mai possibile determinare, di oscillazioni incessanti”[138].

La realtà determinata dal valore, in quell’ambiente altamente turbolento, dinamico e imprevedibile che è il mercato, si afferma dunque in maniera specifica: “la sfera della concorrenza, considerata nei suoi singoli avvenimenti, è dominata dal caso; in cui dunque la legge interna che si attua in questi casi, e che li regola, è vsibile solo quando questi casi sono riuniti in gran numero; in cui dunque questa legge rimane invisibile e incomprensibile ai singoli agenti della produzione stessa”[139].

La legge del valore, come si può evincere dalla descrizione che ne ha fatto Marx, possiede dunque almeno tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto, è una “cieca legge di natura”, regola in modo oggettivo e impersonale i fenomeni economici così come la legge di gravità, ad esempio attrae tutti i corpi verso il centro della Terra[140]. In secondo luogo, la funzione regolatrice del valore “rimane invisibile e incomprensibile” all’intelletto dei soggetti, sia perché essa si esprime attraverso gli effetti che induce nel mondo empirico, sia perché la razionalità autoreferente degli individui vieta loro ogni possibilità di poter capire ciò che non risulta o è indipendente dal loro agire intenzionale (l’unica cosa che per essi possa esistere)[141]. Infine, essa si fa valere nei confronti dei singoli attori sociali solo come una “tendenza predominante [beherrschende Tendenz]” avente la “forma d’una media” statistica e approssimata, giacché la concorrenza “è dominata dal caso” ed al suo interno non è possibile determinare con precisione assoluta alcun calcolo numerico né tanto meno una perfetta coincidenza, matematicamente certa, di valori e prezzi o plusvalore e profitti complessivi.

La sinergia e la cooperazione di questi tre caratteri spiegano dunque, secondo Marx, perché la legge del valore debba essere considerata la causa “razionale e naturale” - “das Rationelle, das natürliche Gesetz”, dice Marx[142] - dello scambio delle merci sulla base del tempo di lavoro socialmente necessario in esse incorporato. In qualsiasi modo i prezzi delle merci vengano fissati o regolati, compresa l’addizione di un profitto medio ai vari capitali impegnati nelle diverse sfere della produzione sociale[143], “il loro movimento è determinato dalla legge del valore”[144], che agisce come “il centro di gravità”[145] attorno al quale fluttuano i prezzi di mercato e quelli di produzione. In sintesi: “Quando si afferma che le merci vengono vendute ai loro valori, si vuole naturalmente dire che il loro valore costituisce il punto intorno al quale gravitano i prezzi di queste merci, e verso il quale si ristabilisce l’equilibrio delle loro incessanti oscillazioni sopra e sotto tale valore”[146].
           
Ogni eventuale scarto quantitativo o differente ammontare tra valori e prezzi, tra plusvalore complessivo e profitti[147], deve allora essere spiegato sulla base del fatto che la estrema complessità, l’infinità varietà e quantità di atti di scambio che avvengono entro la circolazione complessiva rappresentano “una serie senza inizio né fine”, un intrico di compere e vendite “frammischiate alla cieca” in una “giustapposizione e successione infinitamente casuale”[148]. Entro un simile ambiente caotico, “già per la loro indeterminata numerosità, questi cicli si sottraggono ad ogni controllo, ad ogni misura e ad ogni calcolo”[149]. Non avrebbe dunque alcun senso pretendere di poter riscontrare nell’”infinito frazionamento circolatorio”[150] una corrispondenza matematica esatta o biunivoca tra valori e prezzi.
            
Nello specifico modo capitalistico di regolare le variazioni dei prezzi il suddetto processo di compensazione manifesta soltanto “la tendenza al livellamento” delle periodiche sperequazioni nei livelli dei prezzi, giacché l’effettivo raggiungimento di una “posizione media ideale non trova riscontro nella realtà”[151]. Se infatti “in teoria si postula che le leggi del modo di produzione capitalistico si sviluppino senza interferenze”, nel mondo concreto le cose vanno diversamente: “Nella vita reale c’è solo approssimazione, e questa approssimazione è tanto maggiore quanto maggiore è il grado di sviluppo del modo capitalistico di produzione”[152].
            
Potrebbe sembrare a prima vista che l’argomentazione di Marx abbia qui fatto ricorso ad una circostanza di fatto per spiegare la maniera in cui il valore determina e regola la formazione dei prezzi di produzione, e quindi anche il pari ammontare dei due. Potrebbe sembrare infatti che la loro identità numerica, la concordanza della loro somma, sia stata solo perturbata e per così dire solo temporaneamente squilibrata o alterata dai fenomeni della concorrenza, dai movimenti irregolari e altalenanti delle merci. E nondimeno niente sarebbe più errato. Il discostarsi quantitativo dei prezzi dai valori è anzi una conseguenza della loro unità. Come dice Marx, anche in questo caso “è su di essa che bisogna fondarsi per spiegare le eccezioni, e non sulle eccezioni per spiegare la legge stessa”[153].
            
Prima di tutto, logicamente, il presupposto secondo il quale valori e prezzi coincidono[154] deriva dal fatto che i secondi sono una forma d’espressione del primo, sono i modi d’esistenza tramite i quali il tempo di lavoro necessario si dà una sua realtà empirica e tangibilmente comparabile. Da questo punto di vista tra i due elementi non può esservi alcuna differenza di natura. Come spiega Marx, “un prezzo che differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda”[155]. D’altro canto, come si è visto sia il prezzo sia il denaro sono forme autonome ed esterne del valore[156], rappresentano le categorie mediante le quali il valore viene ad esistenza uscendo fuori dal corpo della merce ed incarnandosi in entità reali, additabili, divisibili in parti aliquote determinate e misurabili. È insita dunque in questa loro funzione la possibilità che esse possano distinguersi quantitativamentedai valori. Poiché non sono più immediatamente uniti ad esso, ed anzi costituiscono delle entità presupposte, prezzo e denaro vengono a dipendere da meccanismi particolari propri e in genere da “un complicato processo sociale”[157] tramite il quale possono dunque assumere grandezze diverse dalla loro fonte[158]. Poiché adesso tra il tempo di lavoro necessario e i prezzi di produzione vi stanno le complesse metamorfosi della merce nella circolazione, che innescano la redistribuzione del plusvalore estratto dalla forza lavoro tra i singoli capitali impegnati nei diversi rami della produzione, ecco che un certo divario quantitativo tra le due istanze può prendere forma senza annullare tuttavia la loro identità di genere, la loro sostanziale uguaglianza.

Da questo punto di vista, spiega Marx, è la stessa “forma di prezzo” a generare lo scarto numerico tra prezzi di mercato e valori: “La possibilità di un’incogruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore, ossia la possibilità che il prezzo diverga dalla grandezza di valore, sta dunque nella forma stessa di prezzo”[159]. Oltretutto, questo divario potenziale non rappresenta affatto “un difetto di tale forma, anzi, al contrario, ne fa la forma adeguata d’un modo di produzione nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca”[160] .

Il differente ammontare di prezzi e valore, se “i prezzi sono un’espressione quantitativamente incongruentedel valore della merce”[161], non deriva tuttavia soltanto dal fatto che nella concorrenza, come si sa, a causa della ripartizione del plusvalore complessivo tra i vari capitali in conseguenza della loro differente composizione organica, i prezzi ora stanno sotto ora stanno sopra il valore delle merci prodotte nei vari rami della produzione sociale. In effetti, “si deve soltanto al caso se il plusvalore, e quindi il profitto, effettivamente prodotto in una particolare sfera di produzione, coincide col profitto contenuto nel prezzo di vendita della merce”[162]. Il fondamento primo di tale divario discende invece prima di tutto dal fatto che una precisa, matematica, concordanza di cifre tra valori e prezzi (di produzione e di mercato), nel pensiero di Marx, non è possibile per ragioni di principio. Non esiste alcuna aporia logica, a differenza di quanto il dibattito ormai centenario sul valore ha sempre affermato (o per confermarla o per tentare di risolverla), nell’impostazione marxiana della trasformazione dei valori in prezzi. Al contrario, essa è estremamente coerente con tutti i più importanti principi  epistemologici di Marx e da questi ultimi in definitiva dipende. Se la si volesse confutare, o se si volesse dimostrare il suo presunto fallimento, si dovrebbe prima di tutto dimostrare l’infondatezza di quei presupposti, cosa che gli economisti (ed in genere tutti quanti) nemmeno si sono sognati di pensare naturalmente. Poiché ignorano completamente la complessa natura interna del pensiero scientifico e dei suoi paradigmi epistemologici, neanche potevano immaginarsi di dover prima riferire il problema in oggetto alla sua fonte concettuale per poterlo capire.

Nella spiegazione che Marx ci ha presentato, infatti, i prezzi e il denaro rappresentano le uniche istituzioni mediante le quali effettuare il calcolo dei profitti e della ripartizione del plusvalore tra i vari segmenti del capitale complessivo sociale. Se queste forme costituiscono degli effetti tangibili del valore, è ovvio, discende in linea retta da questa premessa, che il loro ammontare possa essere determinato soltanto tramite grafici ed algoritmi matematici in cui il tempo di lavoro sociale direttamente non può figurare. Poiché nella realtà di superficie, quella visibile ed additabile determinata dal processo di sviluppo del valore, esistono soltanto denaro e prezzi, ecco che ogni quantificazione e computazione non potrà che essere fatta mediante queste due unità di misura, giacché nel mondo della concorrenza non v’è alcun’altra entità (se non quantità fisiche di merci) mediante cui poter affettuare dei calcoli. Pretendere di poter mettere in parallelo valori e prezzi per controllare la loro concordanza quantitativa sarebbe come voler rendere direttamente commensurabili lo stato termico di un sistema e la sua temperatura. Vale a dire, diventerebbe del tutto inutile misurarne la temperatura. L’operazione, anzi, verrebbe resa impossibile. L’illogicità del problema, come si vede, sta nella sua stessa formulazione[163].

In realtà, dunque, come Marx ha sempre precisato prendendo come punto di partenza del suo discorso lo scambio di equivalenti, i suoi calcoli basati sull’identità di valori e prezzi “valgono solo come illustrazione”[164], giacché neanche i “prezzi medi coincidono direttamente con le grandezze di valore delle merci”[165]. Inutile dire che questo divieto deriva dalla natura stessa del valore. Se dalla sua dinamica intrinseca discendono i fenomeni della concorrenza, se questi ultimi sono le sue mediate forme d’espressione, in pari tempo tali suoi modi d’esistenza empirici rendono impossibile poter vedere la loro causa, il meccanismo interno da cui pure sono prodotti. Se nella concorrenza “tutto appare invertito”[166], è ovvio, è insito in questo stesso carattere della realtà, che sia impossibile poter toccare con mano, o computare attraverso formule matematiche, la funzione regolativa del valore nel determinare i movimenti dei prezzi. Se i valori rappresentano la causa genetica dei prezzi che rende possibile il calcolo delle loro grandezze relative, essi possono tuttavia determinarli solo “in ultima analisi”[167], giacché “la trasformazione dei valori in prezzi di produzione impedisce di vedere la base su cui si fonda la determinazione del valore”[168].

In sintesi, nella misura in cui Marx spiega la nascita dei prezzi e del denaro dal valore, egli può considerarli o supporli identici. D’altro canto, nella misura in cui il valore si distingue dai prezzi e dal denaro, ecco che essi tanto possono quantitativamente divergere in conseguenza della ridistribuzione del plusvalore tra i diversi capitali operata dalla concorrenza, quanto il valore può svolgere la sua funzione di “centro di gravità” di tutto il meccanismo senza alcun bisogno di dover comparire sul davanti della scena. Anzi, proprio perché, come dice Marx, è scomparso nei suoi risultati “senza lasciar traccia”, esso può funzionare come una sorta d’attrattore invisibile dei prezzi. Da questo punto di vista, la discrepanza numerica tra valori e prezzi, in altre parole, non può avere alcuna rilevanza concettuale nel pensiero di Marx, giacché mentre i valori sono una categoria della mente - “un schema symbolique”, come l’ha definito Duhem -, i prezzi rappresentano delle entità e dei criteri di calcolo appartenenti ad un diverso livello di realtà. Si può correlare tramite grandezze matematiche, che so, il volume di un’idea a priori e quello del suo oggetto d’esperienza? D’altro canto, come dice Marx, o potete spiegare la cosa su quella base, o non potete spiegarvela affatto[169]. La trasformazione quantitativa dei valori in prezzi, così com’è stata impostata dalla ferrea logica positivistica degli economisti, marxisti e no, secondo la quale è razionale solo ciò che si può misurare[170], non ha senso alcuno nel pensiero di Marx, semplicemente perché, dovendo correlare su base numerica un concetto e delle forme empiriche, risulterebbe assurda[171]. Oltretutto, come bene ha chiarito Feyerabend, “an agreement of numbers does not tell us anything about the entities to which the numbers belong”[172].

L’interpretazione del valore come “cieca legge di natura” determinante le oscillazioni e le fluttuazioni tanto dei prezzi di produzione quanto dei cicli economici nel loro complesso trova invece una sua legittimazione concettuale ed una più sofisticata spiegazione nel pensiero scientifico del suo tempo. Se la legge del valore ha le complesse caratteristiche teoriche che ha – sostanzialmente: identità/distinzione contestuali coi prezzi e il denaro (con tutti i corollari insiti in questa coppia: dall’autoreferenza delle forme alla natura della concorrenza) + punto d’attrazione intorno a cui gravitano i prezzi – ciò è dovuto in primo luogo alla maniera in cui la scienza dell’epoca si rappresentava il rapporto tra le cause dei fenomeni naturali e i loro effetti visibili e quantificabili. Che interpretazione davano di questa relazione gli scienziati, primo tra tutti ovviamente Laplace, sicuramente letti da Marx? Secondo il celebre astronomo e matematico francese “tous les événements, ceux même qui par leur petitesse, semblent ne pas tenir aux grandes lois de la nature, en sont une suite aussi nécessaire que les révolutions du soleil”. Da questo punto di vista, le “causes finales”, lo “hasard” e in genere tutte le “causes imaginaires” dei fenomeni non sono altro che “l’expression de l’ignorance où nous sommes des véritable causes”[173].

Nel mondo fisico e nell’intero sistema dell’universo agiscono soltanto le “lois immuables de la nature”[174] che però vengono da noi conosciute in modo probabilistico in ragione prima di tutto del nostro intelletto finito e limitato. Benché la nostra comprensione degli eventi non possa essere che relativa e sempre meglio approssimata, essa può però tendere alla certezza in conseguenza del fatto che, dato “l’ordre de la nature”, una certa regolarità  costante finisce sempre per imporsi tra i fenomeni osservati e “au milieu des oscillations du hasard” [175]. Se “les rapports des effets de la nature, sont à peu près constans, quand ces effets sont considérés en grand nombre”, allora è evidente, sostiene Laplace, che “dans une série d’événemens, indéfiniment prolongée, l’action des causes régulières et constantes doit l’emporter à la longue, sur celle des causes irrégulières”[176].

Anche se talvolta si è tentati di attribuire a delle “circostances accidentelles” variabili e imprevedibili lo sviluppo apparentemente erratico e aleatorio degli avvenimenti empirici e dei fatti osservabili, in realtà esistono sempre delle costanti in tale divenire, per quanto complesso e intricato esso possa apparire a prima vista. Infatti, in “toutes les combinaisons de la nature, dans lequelles les forces constantes qui animent les êtres dont elles sont formées, établissent des modes réguliers d’action et de changement”. Questo spiega dunque anche perché “les phénomènes qui semblent le plus dépendre du hasard, présentent donc en se multipliant, une tendance à se rapprocher sans cesse, de rapport fixes”. In conclusione, al di là del corso apparentemente casuale delle cose, in cui una serie infinita di variabili sembra rendere impossibile ogni ricerca di leggi, un certo ordine costante finisce comunque con lo stabilirsi in mezzo alle fluttuazioni irregolari dei fenomeni. Se “les phénomènes de la nature sont les plus souvent enveloppés de tant de circostances étrangères” e se “un grand nombre de causes perturbatrices y mêlent leur influence”[177], tuttavia attraverso la moltiplicazione delle osservazioni e l’analisi di un numero indefinito di casi sarebbe possibile riconoscere l’esistenza nel reale di un principio legisimile. Chiaramente si tratta di un ideale di ragione, giacché ci è impossibile prendere in considerazione un numero infinito di eventi. D’altro canto, quanto più grande è il numero dei fenomeni osservati, tanto più alta è la probabilità che essi, mediamente, si comportino seguendo un certo ordine: “Au milieu des causes variables et inconnues que nous comprenons sous le nom de hasard, et qui rendent incertaine et irrégulière, la marche des événements, on voit naître à mesure qu’ils se multiplient, une regularité frappante qui semble tenir à un dessin”[178]. Essa non è altro invece che uno sviluppo delle possibilità inerenti agli avvenimenti stessi. In un certo senso, essa è intrinseca al mondo reale, affiora dall’interno stesso dell’apparente susseguirsi disordinato e senza regole dei fenomeni: “la régularité finit par s’établir dans les choses même, les plus subordonnées à ce que nous nommons hasard”[179].

La spiegazione di Laplace si estende naturalmente ad ogni caso osservabile ed è perciò finalizzata all’interpretazione anche dei fenomeni sociali. Che si tratti di fenomeni demografici, delle lotterie, dell’economia politica, della storia o dell’astronomia[180], la concezione in causa ritiene che sia sempre possibile rinvenire nell’apparente distribuzione caotica degli eventi e nelle loro anomalie un ordinamento razionale di forma causale, responsabile del loro sviluppo secondo leggi[181].

L’argomentazione di Laplace non rappresentava certo un modello a sé stante nella comunità scientifica del tempo né esso è rimasto confinato, come si sa[182], nel Settecento. Condorcet, D’Alembert, Jacques e Nicolas Bernouilli, Borda, de Moivre, persino Fermat[183], ed insieme ad essi Hume, Locke, Smith[184], in genere tutta l’economia politica classica, con scopi differenti ovviamente, avevano cercato di applicare la logica delle scienze naturali allo studio della società. Lo stesso John Stuart Mill, “the Victorian philosopher of induction” come è stato definito[185], nel suo monumentale System of logic[186] aveva largamente attinto alla letteratura scientifica del periodo per argomentare e difendere la sua interpretazione della conoscenza e perorare così l’uso dello “Scientific Method” anche nell’interpretazione delle “Moral Sciences” cioè della società[187]. D’altro canto, è nota l’ammirazione e l’ampio utilizzo fatto da Marx delle opere di William Petty, il “fondatore dell’economia politica moderna”, ed in particolare della sua Political Arithmetick del 1691, un’opera che come è stato detto “founded the modern science of statistics”[188]. Inoltre, spiegando come i prezzi di mercato aumentino o cadano rispetto ai “prezzi di produzione regolatori” e come le loro fluttuazioni siano soggette alla “regolarità della loro reciproca compensazione”, Marx cita espressamente un altro importante autore dell’epoca: “Troveremo qui dominanti le medie regolatrici di cui Quételet ha dimostrato l’esistenza nei fenomeni sociali”[189]. Cosa sosteneva il famoso sociologo e matematico belga? Cose in sostanza non molto diverse da quelle di Laplace. Secondo Quételet, infatti, v’è uno stretto rapporto tra le leggi dominanti nel mondo fisico e certe costanti riscontrabili nei fenomeni sociali. Infatti a suo avviso “l’homme se trouve sous l’influence de causes dont la plupart sont régulières et périodiques; et ont des effets également réguliers et périodiques”[190], di modo che è possibile stabilire un parallelo significativo tra ciò che accade in natura e le dinamiche che prendono forma in società. Così, “l’analogie porterait à croire que, dans l’état social, on peut s’attendre à retrouver, en général, tous les principes de conservation qu’on observe dans les phénomènes naturels”[191].

Se per studiare e comprendere questa legiformità risulta indispensabile, quando si considerano grandi masse di dati, usare “le calcul des probabilités afin d’éliminer des observations tout ce qui n’est que fortuit et individuel”[192], questo accorgimento è a sua volta basato su un’altra convinzione di Quételet: “L’homme que je considère ici est, dans la societé, l’analogue du centre de gravité dans le corps; il est la moyenne autour de laquelle oscillent les élémens sociaux”[193]. In società esisterebbe dunque un “centre de gravité du système”, che tra l’altro “demeure invariablement  en équilibre”, al quale tutti i comportamenti individuali si rapporterebbero come ad una sorta di meccanismo impersonale in grado di regolare il loro agire razionale. Oltretutto, l’esistenza di questo “attrattore” può essere controllata solo in modo indiretto e mediato, giacché per Quételet “il est des élémens relatifs à l’homme qui ne peuvent être mesurés directment, et qui ne sont appréciables que par leurs effets”[194], cioè per le conseguenze che l’agire volontario e cosciente dei soggetti induce nel sistema complessivo dei rapporti sociali[195].

Il nesso strettissimo tra teoria del valore e pensiero scientifico del tempo risalta ancor più, oltre che attraverso i concetti considerati finora e persino tramite il linguaggio usato[196], se si considera il fatto che le tesi di Quételet, che aveva del resto frequenti contatti e scambi con l’élite intellettuale inglese di allora, venivano discusse anche nelle riviste scientifiche dell’epoca, sicuramente conosciute da Marx.

John Herschel, in particolare, nella Edinburgh Review del 1850 dedica un lungo saggio al commento dell’interpretazione di Quételet che costituisce un altro prezioso documento a riprova dell’origine scientifica dei significati attribuiti da Marx alla teoria del valore. Cosa sostiene Herschel in questo scritto? Secondo lo scienziato inglese la scienza ha come suo principale scopo quello di analizzare “the complicated web of phenomena and superimposed uniformities, to which we assign the name of inductive theorems, or laws of nature “[197]. Il corso degli eventi naturali, per quanto rispondente al principio di causalità[198], presenta dunque irregolarità e casi fortuiti, la presenza di una miriade di concause accidentali e persino secondarie che danno allo sviluppo legiforme dei fenomeni osservabili un aspetto estremamente complicato e soggetto all’influenza di fattori contingenti. Poiché, d’altra parte, il caso e l’aleatorio sono riconducubili ad una nostra limitata conoscenza delle cause[199], la nostra comprensione delle cose deve per forza di cose fare affidamento sulla “law of probability”, il cui fine è proprio quello di mettere in evidenza le regolarità emergenti all’interno di avvenimenti apparentemente casuali e caotici.

Così, spiega Herschel, “all experience tell us, that where efficient causes are known, but from the complication of circumstances cannot be followed out into their results, we may yet often discern plainly enough their tendencies, and that these tendencies do result, in the long run, in roducing a preponderance of events in their favour”[200]. In mezzo alle irregolarità, casualità e anomalie dei fenomeni è dunque possibile discernere quanto meno certe loro direzioni emergenti di cui è poi possibile calcolare le probabilità di realizzazione. La cosa importante da sottolineare è che questo tipo di ricerca “discloses not causes, but tendencies, working through opportunities”[201].

Se la dinamica intricata e a prima vista irrazionale degli eventi, anche in società, viene studiata prendendo in considerazione un numero molto elevato di casi, su larga scala, allora si può osservare, afferma Herschel, la “mutual destruction of accidental deviations from the regular results of permanent causes which always take place when very numerous instances are brought into comparison”[202]. Date quelle condizioni, “the irregularities disappear by mutual destruction, and the result exhibits the tendency in question in its full prominence”. Questa è la migliore dimostrazione, conclude Herschel, “that we have here arrived at a proof of a tendency which must be taken as a law of human nature under the circumstances in which it exists”[203].

Il comportamento apparentemente  casuale e contingente dei fenomeni naturali evidenzia dunque per Herschel delle tendenze e delle medie legisimili che sono precisamente la maniera in cui le leggi più intime del mondo reale (fisico e sociale) vengono da noi conosciute. Le cause interne e spesso “concealed” della natura (materiale o umana), insomma, quelle che correlano i fenomeni “in that invariable manner which is one of the characters of efficient causation”[204], si impogono - tramite l’eliminazione delle irregolarità, delle fluttuazioni, delle deviazioni accidentali e transitorie - attraverso i loro effetti[205], che le fanno venire alla luce, o “to emerge to view”[206], in maniera percepibile e calcolabile, assoggettabile alla computazione e quantificabile.

Può essere ritenuto un caso il fatto che un simile modello teorico fosse tematizzato anche da William Whewell, cioè da uno studioso che lo stesso Herschel indicava come il più eminente esponente di quella scuola filosofica “almost diametrically opposite”[207] al metodo induttivo? Evidentemente no. Il problema è che tutti questi diversi orientamenti in merito alla natura della conoscenza, a volte pensati e presentati come contrapposti, in realtà condividono uno stesso paradigma epistemologico, rinvenibile proprio in una più attenta analisi degli oggetti e dei concetti che essi tematizzano. La questione in causa – l’esistenza nella “machinery” dell’Universo di “an invariable average of most variable quantities”[208], di una “regular recurrence accompanying constant change”[209] - è proprio una delle migliori dimostrazioni di questa implicita e sottile (non meno che sotterranea e poco visibile) complementarità.

Ovviamente sarebbe possibile addurre altre prove della intima parentela concettuale della legge del valore con il pensiero scientifico dei tempi di Marx. Mi sembra tuttavia superfluo insistere oltre su tale evidente concordanza. È un fatto che Marx ha elaborato la sua interpretazione del valore e del suo modus operandi pensando sicuramente alla contemporanea rappresentazione che la scienza dell’epoca dava delle leggi di natura e della maniera in cui queste potevano da noi essere riconosciute e comprese in mezzo all’apparente caoticità e irregolarità di eventi a prima vista occasionali, intricati e contingenti. Questa concezione scientifica, insieme alla sua applicazione, a fini di conoscenza, anche ai fenomeni sociali da parte degli stessi scienziati, è il nocciolo concettuale che probabilmente corroborava per Marx la sua spiegazione delle cose, che conferiva alla sua dimostrazione tutta l'autorità di un sistema di pensiero oggettivo allora in grande sviluppo e pressoché indiscusso sul piano della interpretazione razionale dei fenomeni. D’altro canto, il prestigio cognitivo della scienza è di certo apparso a Marx pari al carattere sofisticato delle complesse categorie che essa aveva formato nel corso della sua millenaria storia per rendersi intelligibili gli eventi naturali, e che egli riteneva di poter finalizzare anche alla spiegazione delle leggi riproduttive del modo di produzione capitalistico.

È comunque chiaro che la teoria del valore di Marx, così come le altre idee scientifiche che ha usato nel corso della sua analisi, e alle quali dà spesso un nuovo significato specificamente sociale, non è né confutabile né tanto meno comprensibile al di fuori del contesto in cui è nata e all’interno del quale ha fatto fiorire tutti i suoi complessi significati concettuali. Se la si volesse invalidare definitivamente si dovrebbe essere capaci anche di confutare quella razionalità scientifica dalla quale essa sostanzialmente deriva il suo contenuto esplicativo[210]. Inutile dire che la logica economica nemmeno è capace di concepire una simile impresa (e anche i filosofi marxisti hanno qualche difficoltà a capire la cosa)[211]. Caso mai essa, come ci è noto, ha sempre cercato nelle scienze naturali una legittimazione del suo discorso. La cosa diventa tuttavia paradossale quando si pensa alla mole dell’apparato matematico a volte usato nel corso della disputa, soprattutto dagli economisti, per dimostrare l’incorenza formale del valore. Una particolare disciplina scientifica viene così usata, tra l’altro da non matematici, per confutare un’interpretazione inferita in sostanza dalla scienza moderna. Detta in altri temini, gli economisti usano un singolo dipartimento del pensiero scientifico di cui ignorano la complessità interna per refutare una concezione inferita in ultima istanza proprio da tale pensiero. Non è surreale? Non è comico che chi imputa una mortale aporia logica ad un dato discorso prenda le mosse proprio da un presupposto contraddittorio? Non è incredibile che nelle centinaia di volumi – di taglio filosofico, più strettamente economico, politico-ideologico, persino epistemologico (Sohn-Rethel ad esempio)[212] – dedicati in un modo o nell’altro alla teoria del valore, o per refutarla o per convalidarla, nemmeno uno abbia studiato o preso in considerazione le radici scientifiche dell’idea di Marx?[213] È proprio vero quello che diceva Bachelard (che pensasse dentro di sé a certi economisti?): “Quand on commence à calculer l’incalculable, on ne sait pas ou l’on s’arrêtera”[214]. La mia impressione, a parte ogni altra considerazione sui reali obiettivi della controversia, è che a queste interpretazioni ben si attagli un vecchio aforisma scientifico dell’Ottocento: “Ce qui veut trop prouver ne prouve rien”[215].

5. Engels: Die plumpe englische Methode
“Les premiers aperçus trompent souvent  et  le  vrai  n’est  pas toujours vraisemblable” | P.-S. Laplace
Come è noto, uno dei difetti del volume di Darwin, la cui importanza fu del resto subito rilevata da Engels ben prima di Marx[216], sarebbe stato un certo empirismo insito nel suo modo di trattare la materia d’indagine, empirismo che d’altra parte Marx ed Engels ritenevano tipico, anche se non esclusivo, dell’intera cultura anglosassone ed in specie degli economisti cosiddetti “volgari”[217]. Ovviamente, lo studio della natura juxta sua principia rappresentava uno dei capisaldi della concezione materialista e dialettica del mondo sin dai suoi esordi. Insieme a questa fondamentale premessa pari importanza veniva però data all’attività concettuale avente il fine di scoprire le leggi di movimento e di trasformazione della materia organizzata. Se la conoscenza scientifica si occupava esclusivamente del mondo oggettivo fuori di noi, in pari tempo essa sviluppava l’analisi di tale contesto attraverso il processo di pensiero a cui veniva affidata una funzione attiva, tramite la formulazione di ipotesi e congetture, nella comprensione dei dati d’esperienza. Grosso modo questo era il modello epistemologico prevalente nelle scienze della natura secondo Marx ed Engels[218]. La natura ontologica, primordiale e a tutto anteriore, della materia rappresentava l’oggetto per eccellenza della razionalità scientifica, mentre questa ne rendeva intelligibile (sempre meglio e più in profondità) la forma dinamica e legisimile attraverso l’attività riflessiva, emendabile e modificabile, del pensiero sistematico e formale. L’avversione per l’empirismo, induttivo o no, derivava dunque sostanzialmente da questa interpretazione attiva del processo di conoscenza.

Ammettiamo che tale impostazione, secondo Marx ed Engels, rappresentasse il vero approccio induttivo allo studio della natura, che il sapere scientifico non fosse riducibile ad una mera generalizzazione di dati empirici. Bene. Un problema cruciale sorge immediatamente. Era davvero quello il metodo per eccellenza della scienza dell’epoca? Dominava davvero “l’induzione baconiana-newtoniana” all’interno della comunità scientifica del tempo? In altre parole, è mai esistito nella cultura scientifica europea un paradigma cognitivo saldamente basato su quei due presupposti? La risposta, come ora vedremo, non può che essere negativa. Caso mai è vero l’opposto.

Per dimostrare quanto sia errata e fuorviante la tesi in questione, quanto poco essa corrisponda alla realtà, non c’è bisogno di risalire a Newton e neppure a Francis Bacon. È sufficiente considerare con la dovuta attenzione gli stessi scienziati conosciuti, letti e studiati da Marx ed Engels. Il panorama delle tendenze epistemologiche allora presenti in campo scientifico, esplicite oppure latenti, apparirà subito differente. Innanzitutto, però, è bene precisare che lo stesso Darwin non professava affatto alcun metodo induttivo poi applicato alle sue ricerche naturalistiche, né tanto meno può definirsi un convinto assertore dell’empirismo (hard o soft che dir si voglia). Come hanno dimostrato gli studi più recenti[219], i supposti “Baconian principles”[220] del pensiero darwiniano hanno poco a che vedere con l’induzione o con mere generalizzazioni di fatti d’esperienza. Benché lo stesso Darwin abbia cercato di accreditare l’idea di se stesso quale scrupoloso “collector of facts”[221], la realtà risulta essere diversa. Come bene ha chiarito Ospovat, “the formation and trasformation of Darwin’s theory represent not so much the results of an interaction between the creative scientist and nature as between the scientist and socially costructed conceptions of nature”. Persino quando Darwin era a più stretto contatto con la materia di studio, come durante il suo viaggio intorno al mondo sul famoso brigantino “Beagle”, “his interaction with nature was mediated by assumptions and ways of perceiving nature that he derived from other naturalists, both his predecessors and his contemporaries”[222]. Da questo punto di vista, più che con il mondo naturale l’intera attività di Darwin era in rapporto soprattutto con le idee e le concezioni biologiche, evoluzionistiche e no, del suo milieu culturale[223].

Tutto si può dunque dire di Darwin meno che egli fosse un empirista o che il suo metodo fosse “rozzo” e “goffo” come credevano, nonostante la loro ammirazione per il grande naturalista, Marx ed Engels. Secondo Ospovat, perfino quando parla di “facts”  Darwin ha in mente soprattutto “the product of considerable effort and creative thought of his contemporaries”[224].

Del resto, l’ambiente intellettuale frequentato da Darwin, con il quale egli era in contatto epistolare, personale o per il tramite dei volumi letti, pullulava di orientamenti teorici innovativi avversi in larga parte all’induttivismo fino ad allora dominante nelle scienze naturali[225]. Se per tutto il Settecento la “natural theology”, con intenti descrittivi e catalogatori nonché di apologia del Creatore, aveva rappresentato l’unica fonte per lo studio della storia naturale, con l’inizio dell’Ottocento la fioritura e la diversificazione degli indirizzi di ricerca nei più vari campi del sapere ad opera di scienziati come Charles Lyell, Richard Owen, William B. Carpenter, Edward Forbes, Robert Knox, Peter Mark Roget, John Goodsir – in larga parte conosciuti da Marx ed Engels -, determineranno l’affiorare d’interpretazioni non strettamente empiriche della natura. Sia che fossero intenzionate a riformulare su nuove basi la vecchia impostazione teologica[226], sia che volessero opporsi ad essa in nome di un differente modello di conoscenza[227], tutte le nuove tendenze scientifiche mettevano comunque l’accento sull’attività congetturale della mente – gli “ideal patterns” dell’osservatore e le sue assunzioni teoriche, dette anche “regulative principles”[228] - per la spiegazione dei fenomeni naturali. Una nuova funzione esplicativa veniva dunque assegnata al ragionamento ipotetico-deduttivo e al ruolo della ragione nel produrre convincenti spiegazioni della complessità della natura. Tutti quei diversi scienziati, si noti, avevano legami molto stretti sia tra di loro sia con lo stesso Darwin, e ne influenzeranno profondamente il pensiero, William Whewell compreso[229].     

È possibile tuttavia vedere all’opera le nuove tendenze anche in altri ambiti scientifici e altri noti studiosi dell’epoca di Marx, ad esempio in John Herschel, sulla carta uno dei rappresentanti più autorevoli ed in vista dell’induttivismo inglese. Cosa sostiene in campo epistemologico il celebre astronomo? Herschel è convinto che nella spiegazione dei fenomeni fisici e più in generale naturali un ruolo fondamentale spetti alla ragione soggettiva, che rende intelligibile le illusioni dell’apparenza (consentendoci di evitare “the grossest errors”[230] che possono derivarne) e ci permette di organizzare in un sistema razionale l’ambiguità  e l’ambivalenza dell’esperienza empirica [231]. Se da una parte i sensi sono “the only inlets by which we receive impressions of facts”[232] e prendiamo coscienza dell’esistenza del mondo esterno, dall’altra tuttavia, giacché le nostre percezioni sensoriali non sono completamente affidabili a causa dei loro ineliminabili limiti, la funzione dell’attività cognitiva del soggetto diventa decisiva per inquadrare in un ordine concettuale esplicativo le regolarità naturali, l’ordinamento legisimile delle cose[233].

La sola induzione non è in grado di poter produrre la conoscenza delle leggi fisiche e la connessione regolare dei fenomeni. Da questo punto di vista, anzi,  gli “axioms of nature” debbono piuttosto essere considerati come delle nostre “mental conventions”, nostri “statements”[234] aventi lo scopo di esprimere la continuità dell’intero “frame of nature”[235] nella “form of a general proposition”[236]. Nonostante l’impegno profuso da Herschel per argomentare una sostanziale differenza tra vera causa dei fenomeni e il carattere arbitrario del ragionamento ipotetico[237], è evidente la tendenza convenzionale del suo pensiero. Anche se i nostri sistemi d’interpretazione devono essere confermati e convalidati dal loro “agreement with facts” e dalla loro verifica empirica[238], resta il fatto che la comprensione della natura dipende dall’attività razionale della mente attiva che escogita congetture e avanza spiegazioni ipotetiche del suo oggetto. Il controllo delle nostre teorie è solo a posteriori, e avviene attraverso l’uso della natura quale cartina di tornasole dei nostri processi di pensiero, delle “rational speculations”[239] da noi formulate per renderci intelligibile il mondo fisico[240].

D’altro canto, l’enfasi induttiva affiorante talvolta dal discorso di Herschel[241] è solo in realtà la foglia di fico sotto la quale egli tenta di nascondere, coscientemente o meno poca importa, le propensioni costruttiviste implicite nella sua argomentazione. Infatti, se “the principle of discovery”[242] si basa sulla rigorosa connessione e concatenazione di singoli ed individuali fatti d’esperienza dai quali possono esser dedotte, tramite la nostra “active mind”, delle leggi generali[243], si è anche visto che l’ordine oggettivo della natura, sul quale si fonda l’intera procedura concettuale succitata, rappresenta un postulato di ragione, un’idea regolativa dell’osservatore. Da questo punto di vista, l’intero ideale induttivo si rivela essere anch’esso soltanto un enunciato del soggetto scientifico e dei processi di conoscenza attivati da quest’ultimo per spiegare il proprio contesto sensibile. La concezione di Herschel, che con le sue parole “refers all our knowledge to experience”[244], non è affatto alternativa ad, né diversa in sostanza da, un’impostazione convenzionale del sapere, giacché come questa ha a suo presupposto epistemologico un assunto stipulativo del tutto arbitrario che le fa da sostrato e rende possibile tutte le sue più tipiche inferenze.

Al contrario di quanto credeva Herschel, la teoria della conoscenza di William Whewell, il cui pensiero avrà del resto grande influenza sull’intero ambiente dei naturalisti inglesi dell’età vittoriana[245], tanto si rivelerà alla lunga vincente rispetto all’induttivismo empirista quanto possiede una sua intrinseca complessità epistemologica del tutto superiore a quella rivale. Avendone già descritto il modello epistemologico[246], faccio a meno di ripetermi e posso nello stesso tempo rinviare il lettore a quel mio lavoro. La cosa paradossale, tuttavia, è il fatto che una concezione parallela a quella di Whewell sia stata sviluppata da Thomas Huxley, che forse per il suo dichiarato realismo scientifico[247], parimente avverso tanto al materialismo di Cabanis quanto all’idealismo di Berkeley, avrebbe potuto essere considerato caso mai un avversario del grande Master del Trinity College[248]. In ogni modo, la concezione di Huxley è altamente interessante sia per il suo privilegiato legame con Darwin, sia perché è molto probabile che egli sia stato per Marx uno degli scienziati più importanti tramite cui ha avuto accesso alla comprensione della razionalità scientifica dell’epoca. Huxley, insomma, si configura come un vero e proprio case-study mediante il quale illustrare il rapporto di Marx col processo di formazione del nuovo paradigma allora in corso di definizione.

Cosa sostiene, in sostanza, Huxley in merito al carattere distintivo del processo di conoscenza rispetto ad ogni forma di empirismo (induttivo o meno)? Secondo il grande naturalista il metodo scientifico è fondamentalmente basato sulla procedura che egli chiama “the “anticipation of nature”“[249]. Essa consiste in una “invention of hypotehsis” - una “invention of verifiable hypothesis” - mediante la quale “to go beyond fact”[250]. A causa del carattere finito, imperfetto, limitato e persino ingannevole delle nostre osservazioni, che non potranno mai essere esatte e rigorose, il ricorso alla natura razionale e alle congetture della nostra ragione sembra a Huxley l’unica via percorribile per poter arrivare ad una spiegazione dei fenomeni naturali in qualche modo intelligibile al nostro intelletto. Infatti, spiega Huxley, “all human inquiry must stop somewhere; all our knowledge and all our investigation cannot take us beyond the limits set by the finite and restricted character of our faculties, or destroy the endless unknown, which accompanies, like its shadow, the endless procession of phenomena”[251].

Anticipando un’impostazione che sarebbe poi divenuta celebre, grazie a Feyerabend, in pieno Novecento, Huxley sostiene che il progresso della conoscenza scientifica si è avuto proprio grazie a congetture che, benché controllabili, avevano “very little foundation to start with”. Anzi, paradossalmente i passi in avanti fatti dalla scienza almeno dai tempi di Keplero si sono realizzati “by the help of scientific errors”[252], nella misura in cui questi ultimi hanno comunque permesso l’acquisizione di date conoscenze e hanno preparato il campo per nuove scoperte. Da questo punto di vista, “to guide observation and experiment by verifiable hypothesis” non è “only permissible, but is one of the conditions of progress” del sapere scientifico[253].

Si capisce meglio adesso perché Huxley polemizzasse apertamente con la cosiddetta “Baconian philosophy” e ritenesse opposto ai suoi “pseudoscientific canons” il vero metodo della ricerca scientifica[254]. Se certamente per Huxley “the prime sources of knowledge” sono “the facts of Nature”[255], in pari tempo egli si ritiene “incapable of conceiving the existence of matter if there is no mind in which to picture that existence”[256]. Mondo reale e pensiero sono due termini coesistenti e in coevoluzione entro un rapporto però in cui una funzione dominante è svolta dalla nostra attività razionale e dalle congetture da noi volta a volta formulate per interpretare il mondo empirico[257]. Come spiega lo stesso Huxley in un sintetico enunciato: “the supremacy of reason, is Science”[258].

Le conseguenze epistemologiche di queste sottili considerazioni controcorrente, in largo anticipo sui tempi del resto, sono davvero notevoli. Dalla loro enunciazione infatti ne consegue che persino “the dominant idea of modern thought”, quella che “underlies every process of reasoning” ed è “the foundation of every act of the will” – vale a dire: “the constancy of the order of Nature”[259] e la “universality of the law of causation”[260] -, non rappresenta altro che un assunto concettuale dell’osservatore (per la precisione: “a symbolic conception of the universe”) funzionante “as a chart for the guidance of his practical affairs”[261]. Se le cose stanno così, secondo Huxley, allora si può persino dire che tutti i principi più importanti della scienza fisica – dalla causalità all’esistenza di un mondo oggettivo esterno – rappresentano nostre “assumptions” o “axioms” senza alcun fondamento reale in fenomeni materiali: “The validity of these postulates is a problem of metaphysics; they are neither self-evident nor are, strictlly speaking, demonstrable”[262].

La natura convenzionale di tutte queste assunzioni - Huxley lo ripete a più riprese: esse sono “mere unverified or unverifiable speculations”[263] -, non pone tuttavia nessun insormontabile ostacolo alla nostra conoscenza degli oggetti e degli eventi tangibili, constatabili e misurabili, giacché tramite esse siamo comunque in grado di formulare previsioni interpretative che possiamo poi sottoporre ad accertamento sperimentale (che, ci ricorda Huxley prefigurando la concezione di Bachelard, è in ogni caso “observation under artificial conditions”)[264].

In fin dei conti, sostiene Huxley, “the reconciliation of physics and metaphysics”[265] è possibile sotto il segno della ragione scientifica e della sua impalcatura ipotetico-simbolica. Dopo tutto, “their differences are complementary, not antagonistic”, ed è dunque possibile che esse possano sin da adesso fondersi in un’unica forma di razionalità. Anzi, secondo Huxley, “thought will never be completely fruitful until the one unites with the other”[266]. È in ogni modo evidente che il modello epistemologico di Huxley non ha niente di materialistico[267], se con questo ultimo termine si vuol designare una concezione non idealista della realtà. Certamente, Huxley è convinto, “with the Materialist, that the human body, like all living bodies, is a machine, all the opetaions of which will, sooner or later, be explained on physical principles”[268]. Tuttavia, quando i materialisti e la loro scuola[269]“begin to talk about there being nothing else in the universe but Matter and Force”, allora egli non può più concordare con tale posizione: “I decline – spiega Huxley – to follow them”[270].

Al contrario, afferma Huxley esplicitando fino in fondo il suo pensiero, tutto quello che di sensato possiamo dire intorno alla costituzione del mondo fisico, ai suoi fenomeni e alle regolarità che ne governano la proliferazione e lo sviluppo complesso ha natura esclusivamente congetturale e discende dall’attività concettuale della nostra mente. Ecco come Huxley sintetizza la sua concezione: “It is an indisputable truth that what we call the material world is only known to us under the forms of the ideal world” (idea che in fisica verrà ripresa in pieno Novecento anche da Arthur S. Eddington).

Se ciò è vero, allora un’altra fondamentale proposizione segue da questo primo asserto: “by physics all the phænomena of Nature are, in their ultimate analysis, known to us only as facts of consciousness”. Da questo punto di vista, chiarisce in conclusione ed in maniera inequivoca Huxley, si può persino sostenere una tesi più generale, che tra l’altro precorre il Novecento e la scuola epistemologica dell’autopoiesi: “all our knowledge is a knowledge of states of consciousness”[271].

Il costruttivismo radicale di Huxley, oltre a rappresentare per i suoi tempi una tendenza eterodossa altamente originale, è stato da lui stesso definito “a sort of shorthand Idealism” [272] per l’enfasi portata sul processo di pensiero quale essenziale e predominante componente del conoscere razionale, di fatto quale l’unica fonte di tutto il nostro sapere. Se Descartes e Kant sono per Huxley i precursori storici di questa impostazione epistemologica[273], la sua interpretazione tende tuttavia a ibridare i due modelli cognitivi per i motivi già spiegati. Se infatti il suo “Idealism declare the ultimate fact of all knowledge to be consciousness, or, in other words, a mental phenomenon”, contestualmente non va dimenticato che esso si riferisce anche “to that correlation of all the phænomena of the universe with matter and motion, which lies at the heart of modern physical thought, and which most people call Materialism”[274].

Così, se ad avviso di Huxley “matter may be regarded as a form of thought, thought may be regarded as a property of matter”, in quanto “each statement has a certain relative truth”, quando si studia “the progress of science, the materialistic terminology is in every way to be preferred”. Il perché è molto semplice: “For it connects thought with the other phænomena of the universe, and suggests inquiry into the nature of those physical conditions”[275].

Huxley non rappresentava certo un punto di vista isolato e solitario nel panorama della cultura scientifica del tempo. William Whewell era forse stato l’antesignano di questa impostazione e probabilmente, a  dispetto di tutte le apparenze contrarie, perfino il maestro di Huxley[276], e comunque è indubbio il fatto che il convenzionalismo teorico rappresentava una tendenza epistemologica diffusa a livello europeo. Darwin stesso, come si è visto, la condivideva. Del resto, alcuni altri scienziati famosi in tutta Europa per i loro innovativi lavori scientifici e ben conosciuti anche da Marx avevano sostenuto, prima e dopo Huxley, idee simili a quelle descritte in precedenza.

Johannes Peter Müller, ad esempio, il famoso fisiologo tedesco alla cui scuola avevano studiato Theodore Schwann e Rudolf Virchov, difendeva un’interpretazione biologica della conoscenza estremamente moderna, in cui la percezione del mondo esterno è sempre un processo che avviene all’interno del nostro corpo o nella nostra coscienza, nell’ambito della riflessione mentale dell’osservatore. Anche se il mondo fisico rappresenta un presupposto del pensare, l’attività intellettuale mediante la quale ne costruiamo l’interpretazione rimane “une activité tout-à-fait indépendante de la matière”[277]. Da questo punto di vista, i concetti tramite i quali spieghiamo il contesto sensibile che ci contorna non rappresentano affatto un rapporto tra il soggetto senziente e la natura, bensì sempre e soltanto un sistema teorico, una data conoscenza delle cose: “les idées expriment les relations qui existent entre eux”[278]. Come si vede, in merito alle questioni di fondo non c’è una gran differenza rispetto alla scienza odierna[279].

Questo orientamento epistemologico, già attivo nella scienza ottocentesca, anche se rimarrà ancora a lungo latente, è tuttavia provato anche dalle tesi sostenute da Jakob Schleiden, il botanico che insieme a Th. Schwann costituisce una figura chiave della moderna “cell theory”[280], e di cui Marx ed Engels, inutile persino dirlo, avevano una conoscenza di prima mano[281]. Cosa sostiene Schleiden? Una interpretazione scientifica molto semplice: “Toute pensée qui se rapporte au monde extérieur a dans le cerveau sa correlation”. In effetti, secondo lo scienziato tedesco, i nostri organi di senso svolgono una funzione intermediaria fondamentale tra la razionalità formale del soggetto e il mondo dell’esperienza in cui viviamo. Solo che essi non ci mettono in relazione con un oggetto distinto dal nostro raziocinio individuale, dai processi di pensiero che attiviamo per renderci intelligibile l’esistenza. Al contrario: “Nous avons une preuve décisive que nos perceptions sont de pures créations de notre esprit, que nous ne saisissont point le monde extérieur tel qu’il est, mais que l’action qu’il nous fait subir est une simple occasion d’exercer notre esprit, dont les produits sont tantôt en rapport avec le monde extériur, et en sont tantôt entièrement indépendants”[282].

Considerazioni non molto dissimili, anche se magari più caute o non apertamente costruttiviste come le precedenti, venivano avanzate anche da William Boyd Carpenter, altro scienziato studiato e apprezzato da Marx, il quale nella sua opera più nota giungerà ad affermare che il pensiero, proprio perché riceve “trough the sensory ganglia that consciousness of external objects and events, which is the spring of its intellectual or emotional operations”, non ha in effetti alcuna “communication with the external world”[283]. Tutta la conoscenza elaborata dall’attività concettuale dell’osservatore, anzi, dipende interamente dai processi che si svolgono all’interno della nostra logica razionale o ragione selettiva: “It is upon the ideas aroused in the Mind by Sensorial changes […] taht all acts of Reasoning are based”[284].

Se vi fossero ancora dei dubbi sull’importanza e il peso teorici di queste interpretazioni scientifiche, si può allora citare un altro esempio eclatante della nuova epistemologia allora era in fase di costituzione, e si tratta ovviamente anche in questo caso di uno scienziato che Marx aveva letto e riversato poi persino in Das Kapital[285]: Adolphe Wurtz. Il celebre chimico francese, uno dei pionieri della sintesi organica, sostiene che “l’hypothèse” degli atomi si trova in effetti “à la base des idées modernes sur la constitution de la matière”[286]. La forma congetturale di questo principio rappresenta forse una deduzione da fatti d’esperienza o un’inferenza da dati empirici previamente osservati? Come probabilmente ci direbbe Wurtz: Il n’en est rien. Con l’assunzione in oggetto, all’inverso, “nous pénétrons dans un monde invisible, inabordable par l’expérimentation directe”, anche se poi “les hypothèses qui y donnent accès peuvent être vérifiées dans quelques-une de leurs conséquences et acquérir par là quelque degré de possibilité”[287]. Il principio teorico di partenza, dunque, è un postulato della nostra mente razionale, un enunciato convenzionale attraverso il quale ci rendiamo possibile l’analisi scientifica della materia e le “ordonnances immuables de la nature”[288]. In ogni caso, se gli atomi sono “une cause première et profonde” dei corpi naturali, se essi determinano la stessa loro “forme physique” in termini che non sempre “sont saisissables” nella loro completezza[289], resta il fatto che essi posseggono natura stipulativa ed arbitraria, rappresentano comunque un’idea regolativa posta in essere dal soggetto scientifico per spiegare determinati fenomeni. Come afferma Wurtz stesso in una formulazione di sintesi, “tout cela est logique”. Infatti, “en admettant l’existence des atomes, nou faisons  une hypothèse: il faut la concevoir aussi large que possible, de façons à en faire découler tous les faits et rendre inutiles la création et l’emploi d’hypothèses secondaires”[290]. Si potrebbe continuare a lungo a documentare la presenza del costruttivismo convenzionalista nella scienza dell’Ottocento, soprattutto nell’opera di scienziati sicuramente studiati da Marx ed Engels[291]. In ogni modo dovrebbe essere abbastanza evidente il fatto che la tendenza ipotetico-deduttiva nel pensiero scientifico del tempo non rappresentava una tendenza minoritaria o limitata ad alcuni scienziati per così dire “relativisti”[292]. Al contrario, la concezione allora emergente conferiva un nuovo significato epistemologico persino allo stesso realismo scientifico, attribuendogli adesso un contenuto razionale e arbitrario che prima non possedeva. Mentre questo “paradigma shift”, come è stato definito da Kuhn, è a mio avviso largamente dimostrato dalle prove addotte, molto più problematico è comprendere perché esso non sia stato minimamente avvertito da Marx ed Engels, né per criticarlo né per condividerlo. Penso che possano essere almeno quattro le probabili ragioni del loro silenzio.

Una possibile spiegazione di questa omissione ci è forse data dal fatto che quelle tendenze, benché esplicite e apertamente argomentate, fossero allora poco visibili e non ancora ufficialmente accreditate nell’ambito della comunità scientifica. In fin dei conti, esse sembravano convivere col vecchio ideale della conoscenza oggettiva per l’accento che veniva comunque portato sulla scoperta delle leggi di natura e sulla comprensione dell’ordine immutabile dell’universo[293] da parte dell’attività razionale della mente. L’incipiente convenzionalismo, entro il quale sarebbe poi divenuto chiaro che la natura svolge solo la funzione di convalida o meno delle nostre teorie e che noi conosciamo sempre meglio soltanto la nostra conoscenza, poteva sembrare infatti ancora perseguire l’antico fine di rappresentare o rispecchiare nei nostri sistemi d’idee il mondo esterno, giacché l’attività congetturale della ragione veniva apparentemente finalizzata  alla interpretazione della materia e delle sue leggi causali.

In secondo luogo, e questa è una circostanza che può aver avuto il suo peso, bisogna ricordare il fatto che la nuova epistemologia si presentava allora, per così dire, “scattered” in numerosi testi apparsi in diversi periodi entro le varie discipline, senza che in nessuno studio scientifico essa fosse stata presentata in forma organica e chiara. L’assenza di una sua formulazione inequivoca e di sintesi può forse aver ostacolato la sua comprensione da parte di Marx ed Engels, di solito così attenti all’affiorare di nuovi stili di pensiero.

Una terza ragione, a mio avviso più convincente delle altre, risiede nel fatto che Marx sembra più interessato a trovare nella scienza di allora una conferma o una convalida della sua interpretazione piuttosto che analizzare la sua intima e complessa, internamente differenziata, logica epistemologica o teoria della conoscenza. La mia netta impressione è che Marx abbia soprattutto cercato nell’autorità indiscussa del pensiero scientifico dell’Ottocento, oltre ad una serie di categorie atte a spiegare la specifica natura sociale del capitale e la sua dinamica, la legittimazione teorica della sua concezione, come se la scienza confermasse in pieno la sua analisi del modo di produzione capitalistico[294]. Infine, sicuramente una decisiva funzione di schermo e un potente ostacolo ad una più precisa comprensione delle cose l‘ha svolta l’avversione per Hegel e per l’idealismo più in generale, cosa che del resto fa parte dell’intera formazione culturale e filosofico-politica, vero e proprio patrimonio genetico, di Marx ed Engels. Ciò che giustamente Michael Rosen ha chiamato “the banal Marxist criticism” di Hegel, secondo la quale il grande filosofo di Stoccarda prenderebbe “for mind what is really matter”[295], ha con molta probabilità rappresentato un esiziale, tenace e duraturo, pregiudizio che ha sbarrato la strada ad ogni messa in discussione di quel principio ontologico ritenuto specifico del materialismo che invece proprio la scienza stava in quegli anni abbandonando. Mentre il mondo fisico veniva sempre più chiaramente interpretato dal pensiero scientifico come uno sfondo sensorio dell’attività conoscitiva, che per il resto veniva costruita dai processi concettuali attivati dalla mente e controllati poi tramite l’esperienza (esse stessa, d’altra parte, artificiale), fino all’ultimo Marx ed Engels continueranno a ritenerla un fondamento oggettivo preesistente ed indipendente dall’osservatore e a cui la razionalità umana doveva comunque riferirsi per poter dare un reale significato empirico alla sue teorie. D’altro canto, come vedremo nel prossimo paragrafo, se questo presunto presupposto materialistico – l’autosufficienza della Materia – aveva lo scopo di confutare tutte le tendenze spiritualistiche o metafisiche (vitalismo, deismo, Soul, Spirit, teologia, sovrannaturale, misticismo, cause occulte, animismo, apriorismo, ecc.) presenti nella ricerca scientifica del tempo (dalla geologia alla biologia), esso diventa un non sense in rapporto alla società. Anzi.

Nella misura in cui infatti pretende di poter trattare la realtà sociale come un contesto empirico esterno e indipendente dagli individui, come il marxismo storico ha del resto sempre fatto, quel principio, dal punto di vista teorico, diventa persino controproducente e fuorviante. I soggetti sociali infatti, attraverso il loro agire in genere razionale, guidato da determinati intenti e da date istituzioni (Stato, diritto, politica, denaro, ecc.), finiscono sempre col costituire la loro cornice societaria, che allora mai e poi mai potrà essere considerata esterna, preesistente e già data - in una parola: differente -, rispetto alle loro pratiche intenzionali. Al contrario, il sistema sociale consta di quello che i singoli fanno e pensano, dell’intera loro prassi costruttiva (pensiero e attività politica in senso lato). Presupporre una distinzione di natura tra le due istanze significa in questo caso enunciare soltanto una contradictio in adjecto, che come tutte le contraddizioni logiche si dissolve da sola.

D’altro canto, la tesi in oggetto è insostenibile anche per un altro fondamentale problema. Si è visto infatti che nella sottile analisi di Marx le diverse forme della società – istituzioni, razionalità regionali, soggetti, ecc. – appaiono all’intelletto degli individui come una premessa perché sono state intrinsecamente mediate dai processi riproduttivi del capitale. È questo ultimo a porle nella loro funzione apparentemente fattuale, da cui tutto sembra cominciare. Di fatto, però, esse rappresentano entità preformate e dipendenti dalla loro causa istitutiva. Considerare un presupposto dette istanze o anche la loro storia, come necessariamente deve fare il postulato in questione[296], vorrebbe dire sposare in pieno la logica del capitale, l’identificazione di realtà sociale e datità delle forme, che Marx ha invece radicalmente criticato. In altri termini, la concezione più sofisticata e complessa di Marx, corroborata come si è visto dalla scienza della sua epoca, confuta dalle fondamenta la sostenibilità o la coerenza  logica di quell’assunto concettuale, giacché essa, tramite le categorie mutuate dal pensiero scientifico moderno, dimostra che esso costituisce il risultato o l’effetto specifico di un processo di formazione determinato che ne condiziona natura e struttura, forma e contenuto. L’idea in discussione si confuta dunque da sé due volte. Innanzitutto, perché entra in contrapposizione con quello stesso pensiero dal quale si pretendeva di derivarla, che asserisce il contrario di quanto da essa sostenuto. Secondariamente, perché in società essa rappresenta una contraddizione in termini, un asserto illogico che non può stare in piedi né possedere alcun significato effettivo.

Anche questi fraintendimenti, tipici secondo me di tutto il marxismo storicamente costituito, dipendono in ultima istanza dal fatto che Marx ed Engels, paradossalmente, non hanno messo a fuoco le profonde trasformazioni epistemologiche che nel corso di quegli anni prendevano piede all’interno della scienza ottocentesca. Anche i loro travisamenti, almeno in parte, sono riassumibili nel celebre aforisma di Diderot: On voit tout à travers la lunette de son système, e sono precisamente questi “occhiali” ad aver prodotto i silenzi di cui si è detto. Il loro antihegelismo, la feroce e accecante polemica contro lo speculativo – un costume filosofico che coincide d’altra parte con la loro formazione teorica -, hanno reso impossibile ad entrambi capire fino in fondo quali effettivi mutamenti epistemologici stesse attraversando allora la scienza da essi così intensamente studiata. Benché questo sia solo uno dei motivi che può spiegare il loro atteggiamento unilaterale nei confronti dell’epistemologia contemporanea, la sua importanza mi sembra difficilmente contestabile.

Note

[85] Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., vol.1°, pp.43-48 (Werke, 23, pp.49-54).
[86] Tutti i passi citati ibid.
[87] Cfr. ibid., pp.75-76 (ibid., pp.75-76).
[88] ibid., p.59 (ibid., p.63).
[89] Tutti i passi citati ibid., p86, p.70, p.58 (ibid., p.85, p.71, p.62).
[90] ibid., p.186 (ibid., p.169).
[91] id., Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, La Nuova Italia, Firenze,1974, p.32 (Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, Verlag Neue Kritik, Frankfurt, 1969, p.28).
[92] id., Lineamenti, cit., I, p.297 (Grundrisse, cit., p.216).
[93] id., Il Capitale, cit., vol. 1°, p.51 (Werke, 23, p.56).
[94] ibid., p.71; corsivo mio (ibid., p.72).
[95] Tutti i passi citati ibid., pp.86-88 (ibid., pp.85-87).
[96] Ibid., p.59 (ibid. p.63).
[97] Cfr. ibid., p.100 (ibid., p.97). Cfr. anche Per la critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, pp.969-970 (Werke, 13, pp.21-22).
[98] ibid., pp.60-64 (ibid., pp.64-67).
[99] Cfr. ibid., p.69 (ibid., p.71). Si consideri ancora il seguente passo ibid., p.74 (ibid., p.75): “Quel che s’è detto, parlando alla spiccia, all’inizio di questo capitolo, che la merce è valore d’uso e valore di scambio, è erroneo, a volersi esprimere con precisione. La merce è valore d’uso, ossia oggetto d’uso, e “valore”. Essa si presenta come quella duplicità che è, appena il suo valore possiede una forma fenomenica propria differente dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio; e non possiede mai questa forma se considerata isolatamente, ma sempre e soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce, di genere differente”.
[100] Cfr. ibid., pp.62-64 (ibid., pp.65-67). Cfr. anche Lineamenti, I, pp.77-81 (ibid., pp.60-63). Sul valore come astrazione della mente e concetto euristico per l’analisi razionale della realtà capitalistica cfr. ancoraManoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma, 1980, p.241 (Mega², II, 3.1, p.210): “Abbiamo visto, il valore riposa su questo, che gli uomini si rapportano reciprocamente ai loro lavori come a lavoro uguale e generale e, in questa forma, sociale. Questa è un’astrazione, come ogni pensiero umano, e tra gli uomini si danno rapporti sociali solo nella misura in cui gli uomini pensano e possiedono questa capacità di astrazione dalla particolarità e accidentalità sensibile”. Da questo punto di vista, spiega Marx, ne consegue che “naturalmente i rapporti possono essere espressi soltanto sotto forma di idee”, in Lineamenti, cit., I, p.107 (Grundrisse, cit., p.82). L’antiempirismo di Marx era noto, forse il suo convenzionalismo un po’ meno.
[101] Cfr. ibid., p.74 (ibid., pp.74-75): “il valore di una merce è espresso in maniera indipendente mediante la sua rappresentazione come “valore di scambio”“.
[102] Tutti i passi citati ibid., pp.70-71; corsivi miei (ibid., pp.71-72).
[103] Ibid., p.88; cosrivo mio (ibid., p.86). Cfr. ancora questo passo dei Lineamenti, cit., II, p.382 (Grundrisse, cit., p.579): “Il rozzo materialismo degli economisti, che li porta a considerare i rapporti sociali di produzione degli uomini e le determinazioni che le cose ricevono, in qunto sussunte sotto questi rapporti, come proprietà naturali delle cose, è un idealismo altrettanto rozzo, anzi un feticismo, che alle cose attribuisce relazioni sociali come loro determinazioni immanenti, e così le mistifica”. Il concetto di feticismo qui definito da Marx, come si vede, non ha niente a che vedere con nozioni come alienazione, umanesimo, et similia, che sono tutte da dimenticare, da mandare al macero. Non fanno altro infatti che portare fuori strada e accrescere la confusione. L’idea di Marx ha una complessità logica interna che queste categorie neanche sfiorano.
[104] I due passi citati ibid., pp.90-91; corsivo mio (ibid., pp.88-89).
[105] Cfr. ibid., p.75 (ibid., p.76).
[106] I due passi citati ibid., p.99 (ibid., p.97)
[107] ibid., p.100 (ibid., p.97).
[108] ibid., p.86 (ibid., p.85).
[109] ibid., p.75 (ibid., p.76).
[110] Tutti i passi citati ibid., pp.58-59 (ibid., pp.62-63).
[111] Cfr. ibid., p.92 (ibid., p.90): “Ma proprio questa forma già data, bella e pronta [fertige Form] – la forma di denaro – del mondo delle merci vela materialmente, invece di svelarlo, il carattere sociale dei lavori privati, e quindi i rapporti sociali dei lavoratori privati”.
[112] Cfr. ibid., pp.115-126, p.161 (ibid., pp.109-118, p.147).
[113] ibid., p.123 (ibid., p.115).
[114] ibid., p.157 (ibid., p.144).
[115] ibid., p.116 (ibid., p.110).
[116] Cfr. ibid., pp.171-172 (ibid., p.156).
[117] ibid., p.177 (ibid., p.161).
[118] ibid., p.186 (ibid., p.169).
[119] ibid., p.123 (ibid., p.115).
[120] id., Lineamenti, cit., I, p.83 (Grundrisse, cit., p.65).
[121] id., Il Capitale, cit., vol. 1°, p.113 (Werke, 23, p.108).
[122] Tutti i passi citati ibid., pp.112-113; corsivo mio (ibid., p.107). Cfr. ancora ibid., p.133, pp.159-160 (ibid., pp.123-124, pp.145-146).
[123] Cfr. id., Per la critica, cit., p.1097 (Werke, 13, p.125).
[124] Cfr. id., Il Capitale, cit., vol. 1°, pp.657-664 (Werke, 23, pp.559-564).
[125] Tutti i passi citati in id., Teorie sul plusvalore, cit., vol. 3°, p.496; corsivo mio (Werke, 26.3, pp.453-454). Cfr. anche pp.500-501 (ibid., pp.457-458).
[126] I due passi citati ibid., p.529 (ibid., p.484).
[127] ibid., p.521 (ibid., p.477).
[128] ibid., p.529 (ibid., p.484). Cfr. inoltre Il Capitale, cit. vol. 3°, pp.540-542, p.1099, p.1114 (Werke, 25, pp.405-406, p.825, p.837): “È proprio nella formula capitale-interesse che scompare ogni mediazione e che il capitale è ridotto alla sua formula più generale, ma proprio per questo di per sé incomprensibile e assurda” (corsivo mio); “La forma: “capitale-interesse” posta come terza dopo “terra-rendita” e “lavoro-salario” è molto più conseguente che “capitale-profitto”, in quanto nel profitto rimane sempre un ricordo della sua origine, mentre nell’interesse non soltanto è scomparso questo ricordo, ma vi è una forma saldamente contrapposta a questa origine”.
[129] Cfr. gli argomenti esposti nel 3° Paragrafo.
[130] Cfr. Il Capitale, cit., vol. 1°, p.186 (Werke, 23, pp.168-169). È interessante leggere anche questo passo delle Teorie sul plusvalore, cit., vol. 3°, p.175 (Werke, 26.3, p.163): Le diverse categorie economiche, spiega Marx, “si rispecchiano in modo molto distorto nella coscienza” dei soggetti sociali: “Essi si trovano posti entro rapporti che determinano la loro mind senza che essi debbano saperlo”.
[131] Id., Lineamenti, cit., II, p.498 (Grundrisse, cit., p.662).
[132] Cfr. id., Il Capitale, cit., vol. 3°, pp.1163-1164 (Werke, 25, pp.874-875).
[133] ibid., vol. 1°, p.91 (Werke, 23, p.89).
[134] I due passi citati in Lineamenti, cit., II, p.464 (Grundrisse, cit., pp.637-638). Come ci ricorda Marx, “la concorrenza in generale, questo essenziale locomotore dell’economia borghese, non ne stabilisce le leggi, ma ne è l’esecutivo. La concorrenza illimitata non è perciò la premessa della verità delle leggi economiche, ma la conseguenza – la forma fenomenica in cui si realizza la loro necessità” (ibid., p.198; ibid., p.450). Cfr. inoltre Il Capitale, cit., vol. 3°, pp.316-317 (Werke, 25, p.235). Cosa pensare di quegli economisti e sociologi marxisti, Sweezy in testa insieme a Gorz, che ritengono la concorrenza il tratto distintivo del capitalismo?
[135] id., Il Capitale, cit., vol. 1°, p.200 (Werke, 23, p.180).
[136] Cfr. ibid., vol. 3°, pp.1154-1167 (ibid., pp.867-877).
[137] ibid., p.1181 (ibid., p.887).
[138] ibid., p.232 (ibid., p.171).
[139] ibid., p.1112 (ibid., p.836).
[140] La metafora è dello stesso Marx: cfr. ibid., vol. 1°, p.91 (ibid., p.89).
[141] Cfr. ad es. id., Lineamenti, cit., I, pp.97-108 (Grundrisse, cit., pp.75-82).
[142] id., Il Capitale, cit., vol. 3°, p.266 (Werke, 25, p.197).
[143] Cfr. ibid., p.257 (ibid., p.190).
[144] ibid., p.252 (ibid., p.186). Marx usa l’espressione: “das Wertgestz beherrscht ihre Bewegung”.
[145] Ibid., p.255 (ibid., p.188).
[146] ibid., p.254 (ìbid., p.187).
[147] Cfr. ibid., pp.236-297 (ibid., pp.174-220).
[148] Tutti i passi citati in Per la critica, cit., pp.1031-1036 (Werke, 13, pp.72-76).
[149] ibid., p.1044 (ibid., p.82).
[150] ibid., p.1043 (ibid., p.82)
[151] id., Il Capitale, cit., vol. 3°, p.248 (Werke, 25, pp.182-183).
[152] Tutti i passi citati ibid., p.250 (ibid., p.184). Cfr. ancora ibid., pp.277-281 (ibid., pp.205-209).
[153] Ibid., p.266 (ibid., p.197).
[154] Cfr. ibid., vol. 1°, p.265 (Werke, 23, p.234). Cfr. anche ibid., vol. 3°, p.273 (ibid., p.203).
[155] ibid., vol. 3°, p.490; corsivo mio (Werke, 25, p.367). Del resto, in questa stessa pagina Marx sostiene che”il prezzo di mercato si distingue dal valore non qualittativamente, ma solo quantitativamente, solo per quanto riguarda la grandezza di valore”.
[156] ibid., p.273 (ibid. p.203).
[157] ibid., pp.1113-1114 (ibid., pp.836-837).
[158] Cfr. ibid., pp.239-240 (ibid., pp.176-178).
[159] Ibid., vol. 1°, p.124 (ibid., p.117). Così prosegue il passo citato: “La forma di prezzo, tuttavia non ammette soltanto la possibilità d’una incongruenza quantitativa fra grandezza di valore e prezzo, cioè fra la grandezza di valore e la sua espressione di denaro, ma può accogliere una contraddizione qualitativa, cosicché il prezzo, in genere, cessi d’essere espressione di valore, benché il denaro sia soltanto la forma di valore delle merci”.
[160] Ibid.
[161] id., Per la critica, cit., p.1338; corsivo mio.
[162] Id., Il Capitale, cit., vol. 3°, p.240 (ibid., p.177).
[163] Un’ulteriore ed interessantissima riprova, per quanto indiretta, delle radici scientifiche del ragionamento di Marx ci è data da un famoso fisico ed epistemologo francese, che certo delle cose qui in discussione era completamente all’oscuro. Pierre Duhem, nel suo Prémices philosophiques già citato, spiega infatti in maniera esemplare, e proprio rifacendosi alla misurazione di una grandezza fisica, che tra le due idee  - tra il calore di un corpo e la sua temperatura - “il n y a aucune espèce de relation de nature”, semplicemente perché la temperatura rappresenta o esprime le proprietà del calore: “l’une devient le symbole de l’autre”. Le due nozioni, per quanto siano correlabili attraverso l’interpretazione dell’osservatore, non possono tuttavia ricalcarsi totalmente dal punto di vista numerico né ammettere la loro addizione. Mentre il calore “n’est pas réductible à une grandeur”, la temperatura, che è una quantità algebrica, ammette al contrario una sua computazione matematica: “la température peut être ajoutée à une autre température, être multipliée ou divisée par un nombre”. Ciò significa che nella scienza non di dà alcun “décalque fidèle et scrupuleusement exact des phénomènes”. Al contrario, la razionalità scientifica “substitue” o “remplace” la molteplicità e la complicazione, lo “inextricable chaos” dei fatti d’esperienza con “une sorte de représentation symbolique, de schéma” concettuale che opera la “transformation” dei dati empirici e la “transposition” dei fatti osservati “dans le monde abstrait et schématique crée par les théories physiques”. Ecco perché sarebbe inutile e persino logicamente contraddittorio andare alla ricerca di una equivalenza esatta tra la “traduction symbolique” e i dati d’esperienza. Nelle teorie scientifiche non può esservi alcun “récit des faits constatés”. Per due ragioni di fondo, una epistemologica, l’altra fisica. Prima di tutto, perché queste interpretazioni costituiscono “un ensemble de conventions” derivanti “du choix des hypothèses” deciso dall’osservatore. Da questo punto di vista, ne consegue persino che non sono le nostre spiegazioni delle cose ad essere verificate dai dati empirici, bensì è il mondo fisico che serve da convalida o meno delle nostre teorie. Le proposizioni di una teoria fisica “ne sont nullement le récit de certains faits; ce sont des énoncés abstraits auxquels vous ne pourrez attacher aucun sens, si vous ne connaissez pas les thépries physiques admises par l’auter”. In una data interpretazione scientifica dei fenomeni “les théories seules fixent le sens et la correspondance avec le faits”: “c’est seulement après que [le physicien] aura constitué un corps étendue de doctrine, après qu’il aura constitué une théorie complète, qu’il pourra comparer à l’expérience les conséquences de cette théorie”. In secondo luogo, se “le symbole abstrait ne peut être la répresentation adéquate du fait concret, le fait concret ne peut être la réalisation du symbole abstrait”, se dunque lo “schéma abstrait” che spiega i dati d’esperienza “ne peut être l’exact équivalent, la relation fidèle” del suo oggetto, tutto questo deriva a sua volta dal fatto che le cause degli eventi fisici sono comprensibili soltanto tramite le conseguenze che esse inducono nei fenomeni osservabili e quantificabili del mondo dell’esperienza (Tutti i passi citati ibid., pp.4-8, pp.150-175). In natura, ed è questa la parte del discorso di Duhem che qui più interessa, si possono misurare solo gli effetti delle reali cause attive, che molto spesso, se non sempre, rimangono invisibili. Se io misuro la magnitudo di un sisma, devo comunque assumere sempre che esista una differenza logica sostanziale tra il movimento e la frizione delle diverse placche continentali – non osservabili – e l’energia – misurabile - che si libera nella loro collisione e che viene poi apprezzata e stimata quantitativamente dalla magnitudo. La stessa cosa avviene con le maree. Non si vede affatto la curvatura dello spazio indotta dalla massa della luna, ma solo i suoi effetti, ed è poi la scala di grandezza di questi ultimi che può essere accertata. Stanti queste condizioni, per lo “schéma symbolique” o sistema di concetti con cui ci rendiamo intelligibile il mondo reale (fisico o sociale) semplicemente non ha alcun senso razionale – in linea di principio - postulare qualsivoglia coincidenza numerica tra le due nozioni. Se si vuol conoscere i meccanismi con cui opera la Natura, nella scienza bisogna insomma presupporre il fatto che è impossibile far coincidere la causa di un fenomeno con la sua misura. Per essa persino pensarlo è un nonsenso. Si noti, poi, che la spiegazione di Duhem era già stata avanzata, benché in forma diversa e riferita allora al “calorico”, all’elettricità e alla forza di gravità, da J. Herschel nel 1831: cfr. a questo proposito il suo A preliminary discourse, cit., pp.191-196. In conclusione allora, per tornare a Marx, i valori sono il calore e i prezzi-denaro la sua temperatura. In quest’ambito, l’esasperata ricerca della loro concordanza quantitativa si basa dunque su un travisamento ed una sostanziale ignoranza dell’effettivo status cognitivo interno del pensiero scientifico.
[164] Cfr. id., Il Capitale, cit., vol. 1°, p.265 (Werke, 23, p.234).
[165] ibid., p.200 (ibid., pp.180-181).
[166] ibid., vol. 3°, p.296 (Werke, 25, p.219).
[167] ibid.
[168] ibid., p.240 (ibid., pp.177-178). Si veda ancora questo passo ibid., p.239 (ibid., p.177): “il plusvalore, una volta assunta la sua nuova forma di profitto, rinnega la sua origine, perde il suo carattere e diviene irriconoscibile”.
[169] Cfr. id., Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma, 1977, p.67 (Werke, 16, p.129).
[170] Questa logica risale, sembra, ad un’affermazione di Lord Kelvin: “Si sa ben poco di qualcosa se non la si può misurare”, asserto che d’altro canto ha come suo necessario corollario un altro principio: le cose che non si possono osservare non esistono, ergo ciò che non si può misurare non esiste. Cfr. I. Hacking, Il caso domato, il Saggiatore, Milano, 1994, p.90; P. Feyerabend, Come essere un buon empirista, Borla, Roma, 1982.
[171] Si ha proprio la netta impressione che tutto il dibattito storico sul valore - a cominciare dalla Prefazione di Engels al 3° Libro del Capitale e dal saggio di Conrad Schmidt del 1889: Durchnittsprofitrate auf Grundlage des Marx’schen Wertgesetzes – sia stato una discussione sul sesso degli angeli, una fiera lotta contro i mulini a vento, che ha preso le mosse da un eclatante fraintendimento della logica di Marx da parte dell’intelletto positivistico degli economisti, che hanno bellamente ignorato i paradigmi scientifici dell’epoca e ciò che essi implicavano per la conoscenza razionale del mondo sociale. Gli equivoci e i travisamenti iniziali si sono poi avvitati – in apparenza senza fine, giacché il bavardage continua ancora oggi – su se stessi, come nel più classico dei dibattiti accademici.
[172] Cfr. P. Feyerabend, Farewell to reason, Verso, London, 1987, p.215.
[173] Tutti i passi citati in P.-S. Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814, p.2.
[174] ibid., p.6.
[175] I due passi citati ibid., pp.1-3.
[176] I due passi citati ibid., pp.42-43.
[177] Tutti i passi citati ibid., pp.48-49.
[178] ibid., p.41.
[179] ibid, p.70.
[180] Cfr. ibid., rispettivamente, pp.44-47, pp.73 e sgg., pp.58-59.
[181] Cfr. ibid., p.84.
[182] Cfr. ad es. I. Hacking, Il caso domato, già citato.
[183] Cfr. il Commentaire di R. Rashed al volume di Condorcet, Mathématique et societé, Hermann, Paris, 1974, pp.13-86.
[184] Cfr. di Varii Auctores, The ferment of knowledge. Studies in the historiograhy of eighteenth-century science, Cambridge U. P., 1980; R. Holson, Scottish philosphy and British physics 1750-1880, già citato.
[185] Cfr. R. E. Butts, Whewell’s logic of induction, in Varii Auctores, Foundations of  scientific method. The nineteenth century, Indiana U. P., 1973, p.53.
[186] New York, 1874 (La prima edizione inglese del volume è del 1843).
[187] Cfr. ibid., p.579. D’altro canto, come ha spiegato Butts, “Hume was his progenitor” (cfr. il suo Whewell logic of induction, cit., pp.53-54).
[188] Cfr. P. Wiener, Dictionary of the history of ideas, Scribner, New York, 1973, vol. II, p.45. Aveva torto Marx quando definiva Petty  ”il padre dell’economia politica, che in un certo senso è anche l’inventore della statistica>? Cfr. Il Capitale, cit., vol. 1°, p.330. Si veda anche Per la critica, cit., pp.989-992 (Werke, 13, pp.37-41). Il volume di Petty figura nella Biblioteca di Marx nell’edizione del 1687: cfr Mega², Die Bibliotheken von Karl Marx und Friedrich Engels, cit., p.512.
[189] Tutti i passi citati ibid., p.1155 (Werke, 25, p.868).
[190] A Quételet, Sur l’homme et le dévelopmente de ses facultés. Essai de Physique sociale, Fayard, Paris, 1991, p.38 (L’edizione originale dell’opera è del 1831).
[191] Ibid., p.41. Cfr. ancora ibid., pp.250-251: “Cette extension d’une loi de la physique, qui se confirme de la manière la plus hereuse quand on l’applique aux documens que fournit la societé, offre un exemple nouveau des analogies qu’on trouve, dans bien de cas, entre les lois qui règlent les phénomènes matériels et ceux qui sont relatifs à l’homme”.
[192] ibid., p.38.
[193] ibid., p.44. Cfr. ancora ibid., p.46: “mais nous n’avons que des conjectures plus ou moin probable sur la marche du centre de gravité du système, et sur la direction du mouvement: il peut se faire que pendant que toutes les parties se meuvent d’une manière progressive ou rétrograde, le centre demeure invariablement en équilibre”. È indispensabile vedere l’argomentazione di Quételet anche nel suo Théorie des probabilités, Bruxelles, 1853, in particolare a p.47 e pp.101-102.
[194] Ibid., p.53.
[195] Cfr. ad es. ibid., p.381: “On ne peut aprécier les facultés [de l’homme] que par leurs effets, c’est-à-dire par les actions ou les ouvrages qu’elles produisent”. Su questa questione cfr. in generale le pp.371-381.
[196] È una cosa degna di nota il fatto che l’espressione “centre de gravité” - impiegata anche da Marx in nozioni come Gravitationspunkt e Zentrum: cfr Il Capitale, cit., vol. 1°, pp.254-255 (Werke, 23, pp.187-188) -, oltre che da Quételet fosse usata anche da Laplace e John Herschel, e prima di loro ovviamente da Newton. Cfr. i loro volumi: Exposition du système du monde, cit., pp.214-217; Essays, cit., pp.25-27.
[197] J. Herschel, Essays, cit., p.366; corsivo mio.
[198] Cfr. ibid., pp.415-416.
[199] Cfr. ibid., pp.368 e sgg.
[200] ibid., p.419.
[201] ibid., p.420. Si consideri inoltre il seguente passo ibid., pp.439-440: “For it must never be forgotten that tendencies only, not causes, emerge as the first product of statistical inquiry”.
[202] ibid., pp.415-416.
[203] I due passi citati ibid., pp.422-424.
[204] I due passi citati ibid., p.421.
[205] Cfr. ibid., p.436. È oltremodo interessante leggere la spiegazione che Herschel dà di questo concetto. Cosa sostiene dunque Herschel? Vediamo: “Into the philosophy of the abstract sciences the notion of cause does not explicity enter; relations, not events, being the subject of inquiry in these sciences. But in those where phenomena come to be explained, the reference of these to their causes, and the development of the processes by which the action of such causes is carried out through a chain of intermediate effects, till tehy result in the phenomena observed, is our sole, at least our ultimate, object of inquiry” (ibid., p.206; corsivo mio). Poco oltre lo scienziato inglese afferma ancora: “There are, no doubt, other lines of experience in which we also receive, but more obscurely, and as it were conversely, through the medium of effect, the idea of cause” (ibid., p.209; corsivo mio).
[206] ibid., p.425.
[207] ibid., pp.149-152.
[208] W. Whewell, Natural theology, cit., p.75.
[209] ibid., p.168.
[210] È davvero significativo il fatto che la moderna teoria del caos, insieme ad altri paradigmi scientifici del resto come la fuzzy logic, corroborino ancor oggi l’interpretazione della scienza dell’Ottocento e indirettamente di Marx, ritenendo l’aleatorio e il casuale dei caratteri interni specifici della natura o del modo di manifestarsi dei fenomeni naturali e dei sistemi osservati. Cfr. ad es. I. Prigogine, Entre le temps et l’éternité, Fayard, Paris, 1988; D. Ruelle, Hasard et chaos, Jacob, Paris, 1991; I. Ekeland, Au hasard, Seuil, Paris, 1991; Varii Auctores, Le hasard aujourd’hui, Seuil, Paris, 1991; I. Prigogine, Le leggi del caos, Laterza, Bari, 1993; B. Kosko,Fuzzy thinking, Flamingo, London,1994; J. Cohen – I. Stewart, The collapse of chaos. Discovering simplicity in a complex world, Viking, New York, 1994. Persino Karl Popper difende questa interpretazione delle cose, cioè la conoscenza approssimativa, probabilistica, statistica e stocastica della natura complessa, instabile e aleatoria degli eventi naturali: cfr. il suo Conjectures and refutations, Routledge, London, 1969.
[211] Jacques Bidet, ad esempio, ritiene che la teoria del valore sia ormai divenuta “inutilisable” a la si debba “abandonner” in favore della “notion de “valeur-travail-utilit锓 intesa “comme catégorie anthropologique”: cfr. il suo Théorie de la modernité, PUF, Paris, 1990, pp.196-232. Inutile dire, naturalmente, che non si prende in considerazione qui nessuno degli scienziati studiati da Marx. Bidet ovviamente non è il solo. La tendenza è diffusissima in tutto il marxismo storico. Persino volumi di 556 fitte pagine come quello, paradossale fin dal titolo, di Jon Elster, Making sense of Marx, Cambridge U. P., 1987, ignorano completamente il retroterra scientifico del pensiero marxiano. Ho sviluppato una critica di questo marxismo nel mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, già citato.
[212] Cfr. A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Feltrinelli, Milano, 1979; Il denaro. L’apriori in contanti, Editori Riuniti, Roma, 1991.
[213] Cfr. a mero titolo d’esempio, ché la letteratura sull’argomento è vastissima, Varii Auctores, The value controversy, Verso, London, 1981, che è una disputa tra filosofi, economisti e sociologi; oppure Aa. Vv., Valori e prezzi nella teoria di Marx, Einaudi, Torino, 1981, un altro dibattito tra economisti di scuole di pensiero europee diverse. In ultimo, cfr. anche G. Dostaler, Un échiquier centenaire. Théorie de la valeur et formation des prix, La Découverte, Paris, 1985; G. Lunghini (a cura di), Valori e prezzi, UTET, Torino, 1993; G. Jorland, Les paradoxes du capital, Odile Jacob, Paris, 1995. Persino Gérard Dumenil, nel libro che impiega ben 398 pagine per spiegare proprio Le concept de loi économique dans “Le Capital”, Maspero, Paris, 1978, non menziona mai un solo lavoro scientifico letto da Marx e riversato poi nel suo magnus opus. La stessa cosa va detta per i seguenti saggi di John Roemer, Value, exploitation and class, Harwood, London, 1986; Analytical foundations of Marxian economic theory, Cambridge U. P., 1988, e per quello di Michael Heinrich, paradossalmente intitolato Die Wissenschaft vom Wert, VSA Verlag, Hamburg, 1991. C’è bisogno di altri esempi? E pensare che se avessero dato un’occhiata più attenta ai sistemi di conoscenza odierni avrebbero potuto trovare non pochi casi di epistemologie scientifiche che corroborano ancor oggi l’impostazione di Marx. Si prenda ad es. il volume di Varii Auctores, Chaos et déterminisme, Seuil, Paris, 1992, i cui autori sono tutti matematici, fisici, storici della scienza, astronomi e biologi. Cosa sostengono questi scienziati? Una tesi molto semplice, di cui tuttavia gli economisti non hanno mai avuto (né attualmente hanno, marxisti e no poco importa) nozione. Per la scienza e per la meccanica statistica in particolare di Boltzmann “il y a deux niveau de realité qui ne se réduisent pas les uns aux autres et ne sont pas susceptible d’être décrits par les mêmes modèles” (ibid., p.393). Ciò è logico se si pensa al fatto che, secondo Planck, persino i quanti, per quanto misurabili, non sono visibili (id., La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, pp.75 e sgg.). Cfr. ancora, in ultimo, E. Laszlo, Alle radici dell’universo, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, pp.65-67: “Vi sono due livelli di realtà, uno che si rivela nei fenomeni e un altro che vi sta sotto”, tesi che riprende l’analisi di S Hawking, A brief history of time, Bantam, New York, 1988.
[214] G. Bachelard, L’activité rationaliste de la physique contemporaine, PUF, Paris, 1951, p.217.
[215] Al. Donné, Cours de microscopie, Paris, 1844, p.302.
[216] Cfr. Werke, 29, p.524.
[217] Cfr. F. Vidoni, Natura e storia. Marx ed Engels interpreti del darwinismo, Dedalo, Bari, 1985, pp.29-31. Conosco solo due altri studi dedicati al rapporto di Marx ed Engels con Darwin: B Naccache, Marx critique de Darwin, Vrin Paris, 1980; Y Christen, Le Grand Affrontement. Marx et Darwin, Albin Michel, Paris, 1981.
[218] Cfr. ad es. i lavori di Engels: Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca; Antidühring; Dialettica della natura.
[219] Cfr. D. Ospovat, The development of Darwin’s theory. Natural history, natural theology, and natural selection, 1838-1859, Cambridge U. P., 1995
[220] ibid., p.252. Per una illustrazione delle correnti scientifiche inglesi avverse alle “inductuve generalizations” cfr. anche R. Yeo, Defining science, cit., pp.12-13, pp.93-96, pp. 140-165, pp.180-193.
[221] ibid., p.96.
[222] I due passi citati ibid., pp.229-230.
[223] Cfr. ibid., pp.113-114. Cfr. del resto cosa Darwin stesso scriveva a Wallace il 22 dicembre 1857: “I am a firm believer that without speculation there is no good and original observation”, in Life and letters of Charles Darwin, vol. I, New York, 1887, p.465.
[224] ibid., pp.95-98.
[225] Cfr. P. Rehbock, The philosophical naturalists. Themes in early nineteenth-century British biology, The University of Wisconsin Press, 1983.
[226] Cfr. D. Ospovat, The development of Darwin’s theory, cit., p.20.
[227] Cfr. P. Rehbock, The philosophical naturalists, cit., pp.7-12.
[228] I passi citati in D. Ospovat, The development of Darwin’s theory, cit., p.238. Cfr. anche P. Rehbock, The philosophical naturalists, cit., pp.68-69, pp.192-196. Sulla interna differenziazione del mondo intellettuale inglese del tempo ed i suoi fermenti culturali cfr. anche A. Desmond, The politics of evolution. Morphology, medicine, and reform in radical London, The University of Chicago Press, 1992; S. J. Gould, Ontogeny and phylogeny, Harvard University Press, 1977; C. C. Gillispie, Genesis and geology. A study in the relations of scientific thought, natural theology, and social opinion in Great Britain, 1790-1850, Harvard University Press, 1996; J. D. Barrow - F. J. Tipler, The anthropic cosmological principle, Oxford U. P., 1996.
[229] Cfr. P. Rehbock, The philosophical naturalists, cit., pp.68-80; J. D. Barrow – F. J. Tipler, The anthropic cosmological principle, cit., pp.83-87, pp.116-117, p.166; E. Mayr, Un lungo ragionamento, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, praticamente in tutto il volume.
[230] J. Herschel, A preliminary discourse, cit., p.122.
[231] Cfr. ibid., pp.29-34, pp.79-92, pp.96-99, pp.118-119.
[232] ibid., pp.120-121, p.79.
[233] Cfr. ibid., p.166.
[234] I due passi ibid., pp.98-99.
[235] ibid., p.92.
[236] ibid., p.99.
[237] Cfr. ibid., pp.144-145, pp.300-309.
[238] Cfr. ibid., p.171, pp.212-215.
[239] id., Outlines of astronomy, London, 1858, p.406.
[240] Cfr. T. Huxley, Method and results, London, 1893, p.176.
[241] Cfr. la sua polemica con Whewell in Essays, cit., pp.142-256.
[242] ibid., p.629, p.85.
[243] ibid., pp.171-173.
[244] ibid., pp.151-152.
[245] Cfr. P. Rehbock, The philosophical naturalists, cit., pp.65-90, pp.107-108, pp.221-222.
[246] Cfr. il mio Marx and the scientific thought of his time, già citato.
[247] Cfr. ad es. Life and letters of Thomas H. Huxley, vol. I, New York, 1900, pp.261-262.
[248] Sulla concezione generale di William Whewell è da leggere S. Marcucci, L’”idealismo” scientifico di William Whewell, Le Monnier, Firenze, 1963.
[249] T. Huxley, Method and results, cit., p.47.
[250] I passi citati ibid., pp.62-64.
[251] id., Darwiniana, London, 1893, p.449.
[252] I due passi citati in id., Method and results, cit., pp.62-63.
[253] ibid., pp.64-65.
[254] Cfr. ibid., pp.46-51; Darwiniana, cit., pp.360-363.
[255] ibid., p.250. Cfr. anche id., Lay sermons, London, 1870, pp.72-73.
[256] ibid., p.245.
[257] Cfr. id., Darwiniana, cit., p.363: “The method of scientific investigation is nothing but the expression of the necessary mode of working of the human mind”. Si vedano anche le pp.72-74, in cui Huxley difende “Darwin’s method” dalle accuse  di essere “not inductive enough, not Baconian enough”.
[258] id., Science and hebrew tradition, London, 1893, p.193. Non sorprende il fatto che Charles Lyell, cito dall’edizione francese del suo volume, definisse la “tendance matérialiste” di Darwin come “la tendance toujours croissante de l’esprit sur la matière”:cfr. il suo L’ancienneté de l’homme prouvé par la géologie, Paris, 1870, pp.558-559. Il libro era uscito a Londra nel 1863 con il titolo The geological evidences of antiquity of man. Engels, in una sua lettera a Marx dell’aprile dello stesso anno, lo aveva subito definito “sehr interessant und recht gut”: cfr. Werke, 30, p.338.
[259] Tutti i passi citati ibid., pp.46-49.
[260] id., Method and results, cit., p.61.
[261] Gli ultimi due passi citati in id., Science and hebrew tradition, cit., pp.46-47. Cfr. anche Method and results, cit., p.65: “The progress of physical science, since the revival of learning, is largerly due to the fact that men have gradually learned to lay aside the consideration of inverifiable hypotheses; to guide observation and experiment by verifiable hypotheses; and to consider the latter, not as ideal truths, the real entities of an intelligible world behind phænomena, but as a symbolical language, by the aid of which Nature can be interpreted in terms apprehensible by our intellects”.
[262] id., Method and results, cit., p.61.
[263] ibid., pp.64-65.
[264] ibid., p.60. Cfr. ancora ibid., p.164: “Thus there can be little doubt, that the further science advances, the more extensively and consistently will all the phænomena of Nature be represented by materialistic formulæ and symbols”.
[265] ibid., p.194.
[266] I due passi citati ibid., p.191.
[267] Cfr. la sua opinione ibid., p.155: “I, individually, am no materialist, but, on the contrary, believe materialism to involve grave philosophical error”. Marx credeva viceversa, e lo dice in una sua lettera a Engels del dicembre 1868, che Huxley in questo ultimo periodo si  fosse rivelato “wieder materialistischer als in den letzten Jahren”: cfr. Werke, 32, p.229.
[268] ibid., p.191.
[269] È probabile che qui Huxley si riferisca a Büchner e compagni: cfr. F. Gregory, Scientific materialism in nineteenth century Germany, Reidel, Dordrecht, 1977.
[270] I due passi citati in T. Huxley, Method and results, cit., p.193.
[271] Tutti i passi citati ibid., pp.193-194. L’opera di Eddington a cui si è fatto riferimento è New pathways in science, Cambridge U. P., 1935. Si veda comunque anche il suo Science and the unseen world, Allen & Unwin, London, 1929.
[272] ibid., p.194.
[273] Cfr. ibid., p.178, pp.205-211.
[274] I due passi citati ibid., pp.178-179.
[275] I due passi citati ibid., p.164. Le formulazioni du Huxley relative al rapporto thought-matter sono riprese tali e quali da Engels nel suo Ludwig Feuerbach e in Dialektik der Natur: cfr. Werke, 21 e 20, senza tuttavia il significato loro attribuito dall’evoluzionista inglese.
[276] Cfr. ad es. il mio Marx and the scientific thought of his time, cit., pp.92-98. Del resto, si possono vedere anche le Lessons in elementary physiology, London, 1868, pp.263-283, in cui Huxley ripete la principale tesi di Whewell secondo la quale ogni sensazione implica sempre il pensiero dell’osservatore: cfr. W. Whewell, Theory of scientific method, Hackett, Indianapolisi, 1989. Non è sintomatico che il “conservative Cambridge divine”, come lo ha definito Adrian Desmond (The politics of evolution, cit., pp.218-219), sostenga lo stesso paradigma epistemologico del progressista, evoluzionista e ateo Huxley? La posizione sociale  e politica dell’osservatore, non sembra né decisiva né determinante per spiegare la natura preformata e condizionata della razionalità scientifica. Per poterlo fare, occorrono altri criteri.
[277] Cito dall’edizione francese del suo Handbuch der Physiologie, l’unica in mio possesso: J. P. Müller, Manuel de physiologie, vol. II, Paris, 1845, p.493.
[278] ibid., p.494.
[279] Cfr. ad es. G. Edelman, Bright air, brilliant fire. On the matter of the mind, Penguin, London, 1994, pp.18-19: “The brain might be said to be in touch more with itself than with anything else”.
[280] Cfr. G. Buchdal, Leading principles and induction: the methodology of Matthias Schleiden, in Varii Auctores, Foundations of scientific method, cit., pp.23-32.
[281] Cfr. Werke, 30, p.418.
[282] Cito dalla traduzione francese a mia disposizione del volume Die Pflanze und ihr Leben del 1849: M. Schleiden, La plante et sa vie, Paris, 1859, p.8; corsivo mio.
[283] W. B. Carpenter, Principles of physiology, London, 1851, p.1022 per i due passi citati.
[284] Ibid., p.1044. Cfr. anche pp.171-176, pp.997-999.
[285] Cfr. Werke, 32, p.306 e 23, pp.326-327.
[286] A. Wurtz, La théorie atomique, Paris, 1879, p.1.
[287] ibid., p.228. È interessante notare il fatto che la nozione di “invisible world” - come definiva l’oggetto in causa William Carpenter, o secondo Jean Baptiste Biot “principes invisibles” - era operante anche nella medicina e nella biologia del tempo, e come si è visto con Herschel aveva corso corrente anche nella fisica e nell’astronomia di allora. Cfr. a questo proposito J. B, Biot, Traité de physique expérimentale et mathématique, 4 Tomes, Paris, 1816; W. B. Carpenter, The microscope and its revelations, London, 1862; A. M. Ampère, Essai sur la philosophie des sciences, Paris, 1834; L. Mandl, Traité pratique du microscope, Paris, 1839.
[288] ibid., p.6.
[289] Tutti i passi citati ibid., p.43.
[290] I due passi citati ibid., p.181; corsivo mio. Nella storia della chimica, spiega Wurtz, diversi fatti “qui ont été révélés par l’observation ne présentaient qu’un caractère empirique”, mentre adesso con la nuova concezione “les voilà expliqués et subordonnés à un principe dont ils découlent comme des conséquences naturelles” (ibid., p.158; corsivo mio).
[291] Alcuni autori certi, perché ripetutamente citati, sono i seguenti : Geoffroy  Saint-Hilaire, Jakob Moleschott, William Grove e persino James Clerk Maxwell. Come si vede, qui v’è tanto una progressione nel tempo quanto un ventaglio di scuole di pensiero: dalla paleontologia, via la biologia, alla fisica.
[292] Cfr. ad es. T. Huxely, Method and results, cit., p.210, ed ancora più esplicitamente J. C. Maxwell, Matter and motion, Sheldon Press, London, 1925 (La prima edizione è del 1877), p.12.
[293] Cfr. J-B. Lamarck, Système analytique des connaissance positive de l’homme, Paris, 1820, pp.20 e sgg.; L Büchner, Forza e materia, Milano, 1867, p.51.
[294] Marx sembra infatti concepire la scienza come sapere generale sociale, quintessenza della ragione, sapere oggettivo patrimonio di tutta la società, tendenza questa che d’altra parte era comune a tutte le scienze sociali dell’epoca, economia politica classica in testa ovviamente: cfr. C. M. Clark, Economic theory and natural philosophy. The search for natural laws of economy, Edward Elgar Publishing, London, 1992. Questo non vuol dire che Marx l’interpretasse solo nel senso suddetto. La questione, come al solito, è molto più complessa ma non mi è possibile affrontarla qui.
[295] Cfr. il suo Hegel’s dialectic and its criticism, Cambridge U. P., 1984, p.155.
[296] Cfr. l’esemplare formulazione di tale principio, rappresentativa di tutto il marxismo storico del resto, da parte di Althusser: Réponse à John Lewis, Maspero, Paris, 1973, pp.35-39.