Sergio Sabattini ha scritto Da un altro tempo. Marx e Engels, la rivoluzione, la Russia (Edizioni Punto Rosso), un libro che è, come dice, il libro di una vita. Una vita spesa bene per i compiti rilevanti e difficili cui ha assolto come militante politico e dirigente comunista, ma anche, come qui possiamo leggere, per questa sua ininterrotta riflessione che ora rende pubblica. Spesso, quando si volge verso l’età più avanzata, si indulge al racconto delle proprie personali memorie. Si tratta di documenti sempre utili sia per i lettori che desiderano informarsi sul tempo passato, sia per gli storici professionali che hanno così modo di paragonare vari punti di vista interni a un medesimo tempo, a medesimi eventi, a medesime esperienze umane. Ma il testo di Sabattini è ben altra e più impegnativa impresa.
È un testo di riflessione storica e teorica, un itinerario dentro la storia e dentro il pensiero di coloro che insoddisfatti del loro presente e del futuro che esso prometteva – come furono gli iniziatori del movimento socialista – si sono sforzati di leggere la intima costituzione della società e dello stato al fine di prospettare un futuro migliore. Le autobiografie hanno bisogno di aprire solo i propri ricordi, per un lavoro come questo bisogna aprire e studiare molti libri per porsi le domande e ancor di più per cercare le risposte.
Un tale faticoso e ininterrotto lavoro, compiuto da chi è stato per tutta la sua vita un politico di professione, è un dato rilevante in se stesso in tempi in cui i politici per primeggiare studiano essenzialmente per farsi attori televisivi e che, qui da noi, acquistano tanto più potere se sono volontari o involontari attori comici.
Ma non è solo la quantità del lavoro che conta in questo sostanzioso volume. Conta la qualità, vale a dire la lettura critica dei testi presi in esame e le tesi prospettate attorno all’argomento prescelto e chiaramente esposto nella prima parte del volume che viene chiamata “introduzione” ma è da sola un ampio saggio sulle teorie della trasformazione sociale a partire dalla critica rivolta a Marx ed Engels – e a Kautski e Lenin – prima da Eduard Bernstein e poi da Karl Korsch, insigne studioso e comunista tedesco espulso dal Partito comunista di Germania negli anni ’20, quando quel partito, ma anche l’internazionale comunista, si avviava sulla strada dello scontro con la socialdemocrazia, scontro che favorì la presa del potere dei nazisti. Korsch è, esplicitamente, il teorico di riferimento dello scritto di Sabattini e l’ampia indagine che segue al saggio introduttivo nelle altre due parti del volume è dichiaratamente orientata a confermarne l’analisi critica dell’idea marxiana sulla rivoluzione.
Questa idea viene identificata da Korsch, lo dico all’ingrosso, con la originaria ispirazione blanquista. Blanqui, com’è noto, sostenne con assoluta costanza l’idea di rivoluzione come insurrezione – e passò quasi tutta la vita in galera. Marx ed Engels – che gli furono e gli restarono amici – dopo il 1848 romperanno con la Lega dei comunisti, per la quale avevano scritto il Manifesto, e con i blanquisti che la dirigevano in larga misura. Korsh, naturalmente, vede bene che la fase matura del pensiero di Marx rappresenta una rottura politica con l’idea di rivoluzione come colpo di stato armato.
Ma egli pensa che rimanga ferma l’opinione che l’idea della transizione al socialismo sia piuttosto il risultato di una elaborazione da portare alla classe operaia anziché il prodotto della sua soggettività, cioè delle sue lotte via via nate nella esperienza storica, per modo che starebbe qui l’origine del leninismo vale a dire della esplicita affermazione che la coscienza rivoluzionaria è elaborazione di una elite – costituita dal partito rivoluzionario – da portare al proletariato, le cui lotte spontanee non supererebbero mai la fase rivendicativa, o al massimo sindacalistica. La classe operaia in tal modo, si sostiene, diviene oggetto e non soggetto della rivoluzione e dei suoi sviluppi. Lo stalinismo diviene così l’espressione, sia pure degenerata, del leninismo, e questo non potrebbe essere separato dall’originaria ispirazione marxiana.
Sabattini, presentando la sua lunga fatica in una breve prefazione, si chiede se queste dispute antiche (che arrivano “da un altro tempo”, come recita il titolo) abbiano ancora un senso visto che tutto è cambiato. Lo stato creato dalla rivoluzione leninista è crollato. Il movimento comunista nato dalla terza internazionale si è dissolto. Il mondo è unificato nel mercato unico dei capitali e nel modello capitalistico interpretato da vari sistemi politici. Mancherebbe, cioè, il motivo del contendere.
La storia avrebbe già deciso. Io penso, al contrario, che così come non era vero che la costruzione sovietica staliniana per il fatto stesso di esistere fosse la prova della bontà di un metodo e del socialismo in marcia, così non è vero che la vittoria planetaria del capitalismo sia la prova della validità del sistema in cui viviamo e della sua indefinita parennità. Ritengo al contrario, che riflettere sul passato, come qui fa Sabattini, non solo è utile, ma è indispensabile, proprio quando le sconfitte sono più gravi e pesanti.
Il tempo in cui viviamo dimostra bene che era un’illusione pensare che lo scacco fosse solo dei comunisti ivi compresi quelli come i comunisti italiani che avevano seguito la linea della piena fedeltà alla democrazia. Sono in crisi radicale i socialdemocratici europei costretti, ove ancora contano, a far da sostegno ai centristi più o meno moderati.
Di fronte a questi fallimenti a sinistra, la sua parte più moderata ha pensato che fosse tutto da buttar via, anzi da rottamare e che bisognava affrettarsi a mutare non solo la pelle ma tutti gli organi interni, il fegato, il cuore e anche il cervello, facendosi liberal-democratici e neoliberisti, esecrando le parole antiche e nascondendo le antiche bandiere. Ma è venuta la grande crisi iniziata nel 2007 e non ancora finita così che sono entrati in crisi anche i liberal-democratici vagamente progressisti, come i democratici americani o i loro maldestri imitatori di casa nostra, vittime della loro indifferenza verso i prezzi che la globalizzazione capitalistica faceva pagare a tanta parte dei lavoratori delle metropoli.
E la crisi ciclica particolarmente grave non ha provocato, com’era mito antico, spostamenti a sinistra o al centro sinistra, ma in senso opposto, come accadde in vasta parte d’Europa nella crisi del ’29 e come viene accadendo oggi negli Stati Uniti oltre che in tanti paesi europei. La classe operaia dei paesi economicamente più sviluppati propende in buona misura verso movimenti di protesta spesso apertamente di destra.
Uno dei maggiori teorici dell’operaismo italiano, ora esponente del partito al governo, ha confinato nella sua giovinezza la propria dottrina spontaneista, dichiarando di essersi accorto nel corso degli anni che gli operai vogliono solo un po’ di aumenti del salario e qualche miglioramento delle norme lavorative. La sinistra senza popolo dà la colpa al popolo che se ne va da un’altra parte, l’operaismo senza operai dà la colpa agli operai, colpevoli di non aver mai saputo di essere la “rude razza pagana” che “scala il cielo” e si abbandona ad altre simili improbabili imprese.
Dunque, riprendere seriamente il filo di una discussione che ha le sue origini lontane nel tempo che il libro di Sabattini rievoca dovrebbe servire a colmare una lacuna che è diventata un mare di ignoranza colpevole. Insisto nel credere che il peggior guaio del nuovismo di ieri e delle rottamazioni di oggi non sia stato nell’ oblio dei meriti del passato ma nella rimozione d’ogni ricerca sugli errori e sulle loro cause, procedura molto più difficile e dolorosa di qualunque abiura. Asserire che “tutto era sbagliato” ha lo stesso effetto di dire che “tutto era giusto”: non c’è più niente da sapere, da indagare, da scoprire.
Dunque esaminare minutamente (com’è nella seconda parte del volume) le origini stesse della vocazione rivoluzionaria dei due giovanotti che poi scriveranno il manifesto dei comunisti e saranno tramandati ai posteri come canuti barboni, riprendere in mano la Reinische Zeitung (la loro Gazzetta Renana), le loro opere giovanili, i pensieri affidati alla loro corrispondenza per vedere l’origine di un pensiero e delle sue lacune è un’operazione non solo interessante, ma meritoria perché si sforza di fornire alla tesi di Korsch un ulteriore fondamento. Così come l’indagine sulla storia russa e sulle correnti rivoluzionarie che la percorrono dall’ottocento, che costituisce la terza parte, fa capire bene le premesse di quella che sarà l’esperienza di Lenin. Tra l’altro, visto che di questi tempi si fa un gran parlare, spesso a sproposito, di populismo, che è corrente nata e cresciuta in Russia, qui ve n’è una nutrita narrazione e analisi, anche per il rapporto che ci fu con il vecchio Marx.
Riprendere la critica di Korsch – comunque – è certamente utile non solo in sede accademica per chi voglia oggi ripensare e costruire una sinistra che non c’è più. Tuttavia, anche se non se non se ne può disconoscere la fondatezza per ciò che riguarda l’avvio della esperienza marxiana, credo che andrebbe anche ricordato che è molto arduo parlare di una dottrina della rivoluzione in Marx se non negli anni giovanili.
La unica esposizione ch’egli, nella maturità, fece seppure succintamente della sua visione del processo storico sta, come ci insegnano gli specialisti della materia, nella ben nota prefazione a “Per la critica dell’economia politica” del ’59 ed è qui che esprime il pensiero su cui Gramsci tornerà a più riprese nel carcere e cioè che nessun sistema economico e sociale perisce finché non abbia espresso tutte le sue potenzialità e un altro non abbia iniziato a sorgere nel suo seno. Qui, in sede teorica, non c’è più alcuna traccia di blanquismo e anzi su questa base Engels, che come si sa va tenuto ben distinto dal suo amico e sodale, potrà tendere, forzando il pensiero di Marx, a forme di determinismo storico anche sotto l’influenza del darwinismo e del positivismo.
Forse, una più attenta considerazione dovrebbe essere posta alla trascurata e vilipesa corrente del socialismo neokantiano che fiorì in Germania in quella scuola di Marburgo cui Sabbatini fa cenno citando alcuni passi di Cohen che ne fu il principale esponente. Quella scuola riduceva forse eccessivamente l’idea socialista ad un imperativo morale e dunque parve contraddittoria rispetto alle analisi di fatto suggerite dall’analisi del Capitale di Marx e presenti nella disputa che opponeva Bernstein a Kautski ma anche alle lucide analisi di Rosa Luxemburg che invitava a guardar bene la tendenza alla crisi del modello capitalistico e ammoniva a non pensare alla democrazia borghese come una realtà stabile dato che quando le forze dominanti si vedessero perdute ricorrerebbero a forme repressive e dittatoriali, com’è avvenuto e come può avvenire ancora.
Ma alla Luxemburg dobbiamo anche l’ammonimento a Lenin che dissolve la Costituente quando, dal carcere, gli ricorda che un partito unico, cioè la soppressione del dibattito e dello scontro democratico delle idee, vuol dire un destino di burocratizzazione e dunque alla lunga anche la morte del partito – com’è in effetti avvenuto. E le dobbiamo anche il grande insegnamento morale con cui ha suggellato la sua vita.
Era contro l’insurrezione spartachista di Berlino del ’19, ma quando la insurrezione fallisce rifiuta di fuggire, come altri capi, per condividere la sorte dei compagni lavoratori : e così viene catturata e trucidata assieme a Karl Liebknecht. Forse il movimento socialista e comunista avanzarono nelle coscienze finchè sono stati anche una scuola di superiore etica pubblica e sono decaduti quando hanno cessato di esserlo. Oggi si dice che il Papa cattolico è l’unica voce di sinistra perché predica dei principi etici che dovrebbero essere elementari tra cui quello che bisogna stare dalla parte dei poveri o che le guerre sono utili solo ai mercanti di armi. A forza di dire che non basta dire queste ovvietà, la sinistra si è dimenticata il motivo per cui tanto tempo fa è venuta al mondo. Poi ha fatto tanti errori, ma il principale è stato quello di barattare l’anima con il potere, perdendo entrambi.
Non è tempo perduto interrogarsi sulle origini. Oggi se si vuole far rinascere una sinistra degna è dal rifacimento dei fondamenti che bisogna partire. Così com’è ora, questa terra è invasa dalla gramigna e dalle male piante. I vecchi, se ne sono capaci, possono solo dissodare il terreno, come fa questo libro di cui va ringraziato Sabattini. Spetterà ai più giovani la nuova semina.
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