Come il lettore ha avuto modo di constatare, questo libro è
duramente critico nei confronti della visione postmodernista cui la maggior
parte degli intellettuali della sinistra radicale ha aderito negli ultimi
decenni. Mi riferisco, in particolare, agli effetti della «svolta linguistica»
delle scienze sociali e all’influenza che cultural
studies, gender studies, teorie del postcoloniale e la pletora dei
post (post industriale, post materiale, ecc.) proliferati a partire dagli anni
Ottanta del secolo scorso hanno esercitato sulla cultura dei nuovi movimenti,
attribuendo progressivamente al conflitto politico e sociale il carattere di
una competizione fra «narrazioni» e fra «processi di soggettivazione». Questa
psicologizzazione del conflitto ha rimpiazzato la lotta di classe con una
sommatoria di richieste di riconoscimento identitario da parte di soggetti
individuali e collettivi sostanzialmente privi di qualsiasi riferimento ai
rapporti sociali di produzione, funzionando, di fatto, da involontario quanto
potente alleato del progetto egemonico neoliberista.
È vero che in queste pagine ho preso anche le distanze da
una serie di temi cruciali del marxismo: la tesi che presenta la contraddizione
fra forze produttive e rapporti di produzione quale ineludibile presupposto
della transizione dal capitalismo al socialismo; la convinzione che il
progresso tecnologico e scientifico svolgano in ogni caso un ruolo progressivo
e l’idea che la storia incorpori un principio evolutivo immanente. Cionondimeno
resto convinto del fatto: 1) che la teoria marxista offra strumenti assai più
potenti di quelli delle teorie postmoderniste per analizzare e comprendere la
realtà economica, sociale e politica in cui viviamo; 2) che nella monumentale
opera di Marx esistono spunti che consentono di superare i suoi stessi limiti.
Una formidabile guida per compiere questo lavoro di «scioglimento» della
dogmatica marxista (spesso imputabile agli esegeti più che al maestro) è il
pensiero di György Lukács, dal quale prende le mosse questa nota metodologica.
L’abbandono di Marx viene spesso motivato dal presunto
«economicismo» delle sue teorie (con particolare riferimento all’annosa
querelle sui rapporti fra struttura e sovrastruttura) e alla sua visione
«deterministica» del rapporto fra coscienza e identità sociale (vedi la
pluricitata affermazione secondo cui l’essere sociale determina la coscienza).
Argomenti affilati contro tali accuse si trovano nell’ultima opera di Lukács,
quella Ontologia dell’essere sociale 1 che l’autore completò negli
ultimi anni di vita. Opera sfortunata, nel senso che vide la luce in un momento
di profonda crisi del marxismo (la caduta dell’Urss era imminente, il prestigio
dell’ideologia comunista ai minimi termini e gli stessi allievi di Lukács, fra
cui Agnes Heller, erano prossimi a convertirsi ad altri paradigmi teorici) il
che fece sì che il libro avesse assai meno risonanza di quanto avrebbe
meritato. Si tratta di un testo monumentale (quattro volumi) che l’autore ha
concepito come una sfida alle mode filosofiche che venivano affermandosi negli
ultimi decenni del Novecento. Bersagli principali della sua critica erano il
formalismo dissolutore del reale, l’individualismo astorico, il nichilismo
relativista, ma anche il marxismo «volgare».
Partiamo dal presunto economicismo della concezione
marxiana. Scrive Lukács in un brano in cui riflette sui Manoscritti economico-filosofici: «in essi per la prima volta nella storia
della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della
produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una
descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica. Ma
l’economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua
immagine del mondo sia fondata sull’“economismo”» 2. Ciò è confermato dal fatto che
Marx sceglie di definire la propria opera come «critica dell’economia politica»
(a differenza di quegli intellettuali marxisti che si considerano studiosi di
economia tout court) – una
scelta che rispecchia il primato gerarchico accordato alla riproduzione
materiale (da intendersi in senso non riduttivo: non si parla solo di terra, mezzi
di produzione, ecc. ma anche di modelli organizzativi e culturali) della vita
umana e delle relazioni sociali che ne definiscono, in ogni peculiare
contingenza storica, l’estensione e i metodi. Detto con le parole di Lukács:
«la critica di Marx è una critica ontologica. Parte dal principio che l’essere
sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia
primariamente e insopprimibilmente sulla prassi. Tutti i caratteri reali
rilevanti di questo essere possono quindi venir compresi solamente a partire
dallo studio ontologico delle premesse, dell’essenza, delle conseguenze, ecc.
della prassi sulla sua costituzione vera, ontologica» 3. Ma veniamo al rapporto
struttura/sovrastruttura. Le accuse all’approccio di Marx si fondano perlopiù
sulle sue rozze interpretazioni da parte del «diamat». Contro tali
interpretazioni, Lukács ricorda che «questo
peculiare, paradossale, di rado compreso metodo dialettico riposa sul già
accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e
l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una
insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva […] né uno sviluppo
storico privo di leggi e irripetibile, né un dominio meccanico “per legge”
dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità
dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto
solo la funzione di momento soverchiante» 4. Per cogliere appieno il senso
dell’ultima citazione serve un chiarimento: a quali «leggi» si fa qua qui
riferimento? Parliamo di leggi nel significato che viene comunemente attribuito
al termine nel linguaggio scientifico, nel qual caso l’accusa di determinismo
conserverebbe validità? Oppure le cose stanno diversamente? Due sono i nodi
cruciali dell’argomentazione lukacsiana che consentono di chiarire il punto. Il
primo è l’affermazione secondo cui Marx riconosce una sola scienza, che non è
l’economia, bensì la storia. Il secondo contesta il luogo comune secondo cui la
concezione marxiana sarebbe fondata su un principio di necessità immanente alla
storia stessa.
Che la storia sia guidata da una necessità immanente,
argomenta Lukács, è una credenza tipicamente religiosa perché «in ogni concezione del mondo a carattere
religioso la necessità, in quanto essenza e modo fenomenico del divino trascendente,
non può non avere una parte in ogni senso privilegiata» 5. Ma ciò vale anche per quella
teologia secolarizzata che è la scienza moderna, nella misura in cui essa si
pone al servizio del dominio di classe: dal momento che i rapporti sociali di
produzione oggi esistenti devono essere fondati ideologicamente mediante un
qualche tipo di necessità, «non sorprende
quindi per nulla che nelle grandi filosofie moderne, che erano chiamate a
consacrare sul piano della concezione del mondo la nascente scientificità e con
essa lo sviluppo, il progresso, in quanto decisivo concetto di valore
ideologico scaturente dalla nuova economia, si sia posta al centro la necessità
[…] come potere spersonalizzato che domina sul mondo» 6. Viceversa per Marx, il quale la
concepisce come un processo determinato dai rapporti di forza sempre mutevoli
fra classi sociali in conflitto, la storia non è mai un processo teleologico ma
causale, e tale causalità non è mai rettilinea, unilaterale, bensì una tendenza
evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei
complessi ogni volta attivi. Perciò gli esiti delle trasformazioni non vanno
mai giudicati a priori come progresso o regresso. In conclusione: per Marx
l’unica possibile conoscenza scientifica è post festum, il che non significa che il processo storico sia il
prodotto di eventi casuali, che sia dunque impossibile estrarne dei nessi
generali, bensì che questi ultimi «si esplicitano nell’essere progettuale non
come “grandi bronzee leggi eterne”, che
già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, “atemporale”, ma
invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili,
nelle quali simultaneamente divengono in pari modo visibili sul piano
ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai
processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce»7.
Passiamo infine alla tesi secondo cui l’essere sociale
determina la coscienza. Da quanto finora detto, è evidente che, per Lukács, ciò
non significa che Marx ritenesse che la coscienza e i suoi contenuti sono il
prodotto diretto della struttura economica, ma significa invece che essi sono
il prodotto della totalità dell’essere sociale. Il che, a sua volta, non
significa che i fattori sovrastrutturali siano mere apparenze, ma significa che
mentre è solo l’agire sociale degli uomini a produrre strutture economiche,
istituzioni, idee, ecc. la natura e il carattere di tali prodotti resta in
tutto o in gran parte incomprensibile per i produttori. Il che è in sintonia
con la precedente affermazione secondo cui la storia non è un processo
teleologico – una costruzione consapevole dei soggetti umani – bensì un
processo evolutivo, complesso e contraddittorio, il cui significato può essere
afferrato solo post festum. È
per questo motivo che ogni concezione che attribuisca unilateralmente al
soggetto il ruolo di agente prioritario, se non esclusivo, del processo storico
«finisce nella pania delle contraddizioni
di un irrazionalismo trascendente. Infatti, da un soggetto isolato, basato su
se stesso, non è possibile far derivare un comportamento consapevolmente
attivo, pratico, verso la realtà, senza un aiuto trascendente»8.
Come giustificare, se questo è vero, l’emergere di una
soggettività rivoluzionaria, e come immaginare che tale soggettività possa
progettare e realizzare la transizione a un nuovo sistema di relazioni sociali?
La risposta di Lukács è del tutto coerente con le tesi appena esposte: «la
classe per sé stessa», argomenta il filosofo, non è l’esito di un autonomo
processo di presa di coscienza, ma scaturisce dalla prassi umana, in questo
caso da quel particolare tipo di prassi che è la lotta di classe. Del resto, è
proprio nei cambiamenti rivoluzionari che la relazione fra fattori soggettivi e
fattori oggettivi dell’evoluzione sociale si presenta in tutta la sua chiarezza
perché, scrive Lukács citando Lenin: «Per
lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che “gli strati inferiori
non vogliano”, ma occorre anche che “gli strati superiori non possano” vivere
come per il passato»9.
Carlo Formenti |
Note
1 G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pgreco
Edizioni, Milano 2012, 4 voll.
2 Ivi, vol. II, p. 264.
3 Ivi, vol. I, p. 36.
4 Ivi, vol. II, pp. 290-291.
5 Ivi, vol. I, p. 154.
6 Ivi, vol. I, p. 155.
7 Ivi, vol. I, p.308.
8 Ivi, vol. I, p. 179.
9 V. I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale,
in Opere complete, Editori
Riuniti, Roma 1966, vol. XXI, p. 191, cit. in G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit.,
vol. I, p. 204.
10 G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit.,
vol. I, p. 245.
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