Giulio Di Donato
◆ Per
Marx la libertà comunista non è l’uscita dal lavoro ma il superamento del
lavoro determinato da una necessità eteronoma ed etero-finalistica
Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx,
“manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”,
“libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha però
sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere
“repellente”, è stato sempre “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, non
si sono mai create le condizioni soggettive ed oggettive che gli permettessero
di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”.
[1]
Perché si ritorni alla sua vera e profonda essenza, deve
cessare di essere lavoro “antitetico” e divenire “libero”. Ciò non significa,
ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco;
un “lavoro realmente libero, per es. comporre, è al tempo stesso la cosa
maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”.
E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente
“universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e
controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze
naturali”. [2]
Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. [3]
Produrre in modo universale, produrre liberi dal bisogno
fisico, produrre e riprodurre l’intera natura, porsi liberamente di fronte al
prodotto poiché questo è manifestazione della coscienza umana, produrre secondo
la misura di ogni specie e secondo le leggi della bellezza: ecco l’essenza del
lavoro in quanto fare totale, in quanto oggettivazione universale e libera (perché
non imposta da scopi esteriori) dell’essenza umana.
Si capisce come, sulla base di questo impianto, la divisione
del lavoro, quale frantumazione e parcellizzazione di esso, appaia come la più
completa negazione del suo carattere “totale” e “universale”, e dunque come
qualcosa che non deve semplicemente essere tenuto sotto controllo dagli uomini
per limitarne gli effetti nocivi, ma come qualcosa che deve essere negato e
soppresso. “Lo studio della divisione del lavoro e dello scambio è di grande interesse,
perché l’una e l’altro costituiscono le espressioni visibilmente alienate
dell’attività e della forza essenziale dell’uomo come attività e forza
essenziale proprie del genere umano”. [4]
Nell’Ideologia tedesca la
prospettiva del comunismo si configura come una soppressione pura e semplice
della divisione del lavoro, tanto all’interno della fabbrica quanto nella
società. Mentre là dove il lavoro è diviso, ciascuno ha una sfera d’attività
determinata ed esclusiva, che gli viene imposta e alla quale non può sfuggire;
nella società comunista, invece, ciascuno non avrà più una sfera di attività
esclusiva, ma potrà perfezionarsi in qualsiasi attività, cioè in tutte le
attività. La produzione, dice Marx, sarà regolata in modo tale da rendermi
possibile “di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a
caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo
criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né
pescatore, né pastore, né critico”. [5]
Nelle opere marxiane della maturità la soppressione della
divisione del lavoro non si configura mai, però, come un ritorno ad assetti e a
modi di vita precapitalistici, bensì come una Aufhebung, cioè come un
superamento che conserva ed invera le acquisizioni e la ricchezza della civiltà
capitalista, e che anzi, è reso possibile da queste acquisizioni e da questa
ricchezza. Anche per ciò che riguarda il superamento della divisione del
lavoro, la nuova società è già tutta formata, secondo Marx, nel seno della
vecchia società, dalle cui strettoie e dai cui lacci occorre liberarla. [6]
Una volta soppressi i rapporti capitalistici, la libera
pianificazione consapevole dei processi produttivi da parte dei lavoratori
associati permetterà di superare ogni divisione del lavoro e qualunque codice
autoritario. Marx formula, in definitiva, l’ipotesi di un superamento storico
del lavoro in quanto attività umana “determinata dalla necessità e finalità
esterna” chiusa entro “la sfera della produzione materiale” e del passaggio al
“lavoro libero”, inteso come “autorealizzazione individuale” e “primo bisogno
della vita”.
Dal carattere costrittivo del lavoro sociale, dalla sua
“esteriorità” teleologica – i fini del lavoro coercitivo esterno contraddicono
sia la libertà dei produttori individuali che l’interesse sociali complessivo
[7] – non può prescindere l’organizzazione capitalistica della produzione
materiale, il cui presupposto è, appunto, il lavoro astratto, quantitativamente
commisurato e retribuito mediante la misura del proprio tempo di svolgimento.
Si pone ora il problema di quanto sarà lunga, nella società
futura, la giornata lavorativa, la quale non può ridursi automaticamente in
base al fatto che il lavoro cessa di essere puro lavoro salariato. Da questo
punto di vista, nota Marx, non c’è nessuna certezza che nella società futura la
giornata lavorativa sia in ogni caso più breve di ora.
L’eliminazione della forma di produzione permette di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario. Tuttavia quest’ultimo, invariate rimanendo le altre circostanze, estenderebbe la sua parte: da un lato, perché le condizioni di vita dell’operaio si farebbero più ricche e le esigenze della sua vita maggiori. Dall’altro, una parte dell’attuale plus lavoro rientrerebbe allora nel lavoro necessario. [8]
Una tecnologia avanzata può naturalmente creare un maggior
numero di beni materiali in minor tempo, ma in nessuna occasione Marx dice
esplicitamente che l’incremento dei bisogni futuri potrà essere pienamente
compensato dal progresso tecnologico. Egli accenna che nella futura società “le
macchine avrebbero ben più largo campo d’azione che non nella società
borghese”, ma non specifica la natura di questa trasformazione.
Certo, secondo Marx, la dinamica interna della produzione
capitalistica che va nella direzione di un costante aumento della produttività
e di una corrispondente riduzione del lavoro socialmente necessario, promuove,
attraverso un sempre più esteso “impiego tecnologico della scienza”, la progressiva
trasformazione dei mezzi di lavoro in un “sistema automatico di macchine”. E
dunque, il risultato di questo sviluppo potrebbe essere, alla fine, la completa
cessazione della produzione materiale come processo lavorativo “immediato”, per
divenire processo scientifico che “sottomette le forze naturali e le fa operare
al servizio dei bisogni umani” [9]. Da qui la possibilità che nella società
comunista, dove l’incremento produttivo e lo sviluppo della scienza avranno
reso possibile l’abolizione del carattere immediatamente lavorativo del
processo di riproduzione materiale, l’attività produttiva, affidata a procedure
automatiche, sarà regolata dalla razionalità del lavoro libero. [10]
Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mani che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa. [11]
In definitiva, la libertà comunista è per Marx non l’uscita
dalla produzione e dal lavoro tout court, ma il superamento del lavoro
determinato da una necessità che, per il singolo soggetto, si presenta come
eteronoma ed etero-finalistica.
Note
[1] Karl Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, Firenze 1968, p.
278-279.
[2] Ibidem.
[3] Karl Marx, Manoscritti
economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 2004, p. 75.
[4] Ivi, p. 149.
[5] Karl Marx, L’Ideologia
tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 24
[6] Un’asserzione simile si incontra, in La guerra civile in Francia, op. cit., p.
63: “(La classe operaia) non ha da realizzare alcun ideale; essa non ha che da
porre in libertà gli elementi della società nuova che si sono sviluppati in
grembo alla società borghese in sfacelo”. Una “volta cancellata la limitata
forma borghese, la ricchezza non è altro che l’universalità dei bisogni, delle
capacità, dei godimenti e delle energie produttive individuali, creata nello
scambio universale”. È la manifestazione incondizionata delle doti creative
dell’uomo “senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che
rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di
tutte le forze umane come tali, non misurate da una misura precostituita”. In
essa l’uomo non si riproduce in una “dimensione determinata ma produce la sua
totalità” (Grundisse, La Nuova
Italia, Firenze, 1968, pp. 36-37).
[7] Nella società borghese i prodotti del lavoro sono
prodotti di lavori privati, autonomi, condotti l’uno indipendentemente
dall’altro. Perciò la connessione sociale non si realizza nella produzione, nel
lavoro, bensì si realizza in modo mediato, attraverso lo scambio dei prodotti
del lavoro, ovvero attraverso il mercato. Il prodotto del lavoro privato ha
quindi forma sociale solo in quanto ha forma di valore, cioè solo in quanto ha
la forma della scambi abilità con altri prodotti del lavoro. Ciò significa che
nello scambio il lavoro privato si trasforma nel suo contrario, in lavoro
immediatamente sociale.
[8] K. Marx, Il
Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1970, vol. I, sez. V, cap. 15, p. 578.
[9] K. Marx, Lineamenti
(Grundisse), La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 584-7.
[10] Per H. Marcuse lo sviluppo tecnologico ha posto le
premesse per una diminuzione della quantità di energia che deve essere
investita nel lavoro, a tutto vantaggio dell’éros (qui inteso come energia che
coinvolge l’individuo intero, la sua libertà, la sua creatività) e in vista di
una trasformazione finale del lavoro in gioco, ossia in attività libera e
creatrice.
[11] Karl Marx, Il
Capitale, op. cit., vol. III, sez. VII, cap. 48, p. 933.
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