18/9/16

L’attualità della riflessione del giovane Marx

Karl Marx ✆ Valentinionescu
Renato Caputo

L’opera di Karl Marx (1818-1873) ha avuto un’eccezionale influenza sulla formazione del mondo contemporaneo, tanto che durante il secolo breve l’accettazione o meno delle sue teorie ha costituito un vero e proprio discrimine in ambito non solo politico, ma più in generale culturale. È stato certamente fra i pensatori più influenti della storia della filosofia, dell’economia, della sociologia, della storiografia e delle scienze politiche. In alcuni Paesi le sue opere sono state pubblicamente bruciate e sono tutt’ora vietate, in altri sono divenute un’ideologia di Stato, al punto d’assurgere al ruolo svolto precedentemente dalla religione. 

Il successo dell’opera marxiana è indissolubilmente legato ai rapporti di forza fra le classi sociali, a dimostrazione di una tesi fondamentali della sua Weltanschauung in cui la teoria è indissolubilmente legata alla prassi: i prodotti del pensiero non possono essere considerati come se fossero a sé stanti, dotati di una storia autonoma, ma sono parte integrante dei rapporti sociali che si sono stabiliti nel corso storico fra gli uomini, profondamente condizionati dagli interessi materiali ed economici. Il sorgere e la fortuna del pensiero di Marx sono legati, dunque, indissolubilmente all’emergere e all’acquisire coscienza di sé come classe del proletariato moderno, ovvero dei lavoratori salariati che per riprodursi sono costretti a vendere come merce la propria capacità di lavoro.

Marx è nato a Treviri (Trier) nella Germania occidentale nel 1818, assegnata dopo il Congresso di Vienna alla Prussia, in una famiglia borghese. Siamo in piena Restaurazione anche se forti sono in questa città universitaria al confine con la Francia le influenze della Rivoluzione francese. Il padre, un’illuminista laico di origine ebraiche divenuto luterano per sottrarsi alle discriminazioni, intendeva fargli studiare giurisprudenza a Bonn. Qui è attratto dalla cultura romantica, con cui entra in contatto seguendo le lezioni di W. A. Schlegel. 

Dopo esser passato all’università di Berlino, Marx è profondamente influenzato dal fascino della filosofia di Hegel, che aveva insegnato in questa città fino a 5 anni prima, che conosce grazie alle lezioni di un suo discepolo decisamente radicale: Eduard Gans. Decide così di passare agli studi filosofici e si lega agli ambienti dei giovani della sinistra hegeliana, punto di riferimento intellettuale per l’opposizione progressista (Vormärz) che preparerà il terreno per la rivoluzione del 1848.

Nel 1841 discute la tesi di laurea: Differenze tra la filosofia di Democrito e di Epicuro, che testimonia l’interesse del giovane Marx per il materialismo non deterministico di quest’ultimo e per una visione del mondo scientifico-filosofica che contrappone a quella mitologico-religiosa allora dominante. 

Marx a causa della repressione dell’opposizione radicale deve rinunciare come altri esponenti della sinistra hegeliana alla carriera accademica. Dal 1842 lavora alla Gazzetta Renana, giornale degli intellettuali radicali e principale organo dell’opposizione, di cui diviene redattore capo. Chiuso il giornale dalla censura, Marx si rifugia a Parigi, ove redige la rivista Annali Franco-Tedeschi con Ruge, Heine ed Engels.

Influenzato dalla critica di Feurbach, il fondatore dell’ateismo filosofico moderno, alla filosofia speculativa, nel 1843 Marx lavora alla Critica della filosofia hegeliana del diritto. Secondo Marx l’errore della posizione idealista di Hegel consisterebbe nel pretendere di partire dall’idea dello Stato, per cui la realtà storica e sociale sarebbe, a causa di questo misticismo logico, prodotta da un’astrazione intellettuale. Al contrario per Marx il pensiero è prodotto dalla realtà, così lo stesso Stato astratto, ideale, di Hegel si rivelerebbe essere in realtà una giustificazione ideologica dello Stato reale, prussiano.

Marx rovescia anche il primato sostenuto da Hegel dello Stato sulla società civile, sfera in cui i rapporti fra gli individui sono regolati dall’utile e dall’interesse. Nel modo di produzione capitalista, infatti, lo Stato politico viene subordinato agli interessi economici della società civile borghese. Tanto più che Marx non intende come Hegel battersi per un dominio politico dello Stato sulla società civile, ma intende riassorbire progressivamente le funzioni di dominio, necessariamente autoritarie, dello Stato nella società civile, realizzando così una democrazia integrale e diretta [1].

Nel primo scritto degli Annali Franco-tedeschi, Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del diritto (1844), Marx dimostra di aver fatto propria la critica di Feurbach alla religione che, però, intende radicalizzare estendendola al piano sociale. La religione, in effetti, per Marx non può esser considerato il fondamento, come sostenevano i giovani hegeliani, della limitatezza mondana, ossia delle contraddizioni storiche e sociali, ma come una loro necessaria conseguenza. La religione, infatti, è per Marx espressione della miseria reale degli uomini e al contempo costituisce una forma inconsapevole di protesta contro di essa. Perciò per superare l’alienazione non basta riconoscere la divinità come un prodotto della storia umana, ma occorre appagare e risolvere quei bisogni che, insoddisfatti, rendono necessario il ricorso dell’uomo alla religione, perciò definita da Marx oppio del popolo. Le masse popolari, per sfuggire alle tragiche condizioni reali di oppressione e sfruttamento cercavano rifugio in un mondo artificiale in cui gli ultimi sarebbero divenuti i primi. Non potendo cogliere in modo razionale, filosofico e scientifico, le motivazioni reali della propria condizione di oppressione, i subalterni la considera come un dato di fatto – per altro giustificato religiosamente dal peccato originale – cercando consolazione nei paradisi artificiali del cristianesimo [2].

Dunque, a parere di Marx l’emancipazione religiosa non può che essere la conseguenza di una emancipazione politica che però, a sua volta – come dimostrano gli Stati Uniti in cui si stava affermando la democrazia moderna sulla base del genocidio degli autoctoni e la schiavitù dei neri – presuppone necessariamente l’emancipazione socio-economica. Tali temi sono al centro del secondo scritto pubblicato da Marx negli Annali Franco-tedeschi: Sulla questione ebraica (1844), recensione critica a Sulla questione ebraica di Bruno Bauer, le cui posizioni sono così sintetizzate:
La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione. Quando ebreo e cristiano riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro che differenti stadi di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di serpente deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era rivestito, allora non si troveranno più in rapporto religioso, ma ormai soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano”
Tuttavia per Marx l’emancipazione politica, il superamento in uno Stato liberal-democratico dell’ancien régime, non costituisce, come si illudevano Bauer e la sinistra hegeliana, la forma ultima dell’emancipazione umana, dal momento che l’astratta eguaglianza politica non pone in discussione, anzi finisce con l’occultare le reali diseguaglianze socio-economiche. L’emancipazione politica non emancipa l’uomo reale, terreno, bensì l’uomo astratto, il cittadino di uno Stato in cui l’eguaglianza giuridica e politica cela la crescente polarizzazione fra le classi sociali.

Tornando alla critica all’idealismo, che considerava centrali le idee nella storia, Marx al contrario considera le idee espressione della vita materiale ovvero del differente, dal punto di vista storico e politico, modo di produzione della vita materiale. Perciò, stimolato dalle riflessioni che Friedrich Engels pubblicherà in La condizione della classe operaia in Inghilterra – dopo aver fatto tirocinio nell’industria tessile del padre a Manchester – Marx affianca agli studi storico-filosofici gli studi economici. Da qui i cosiddetti Manoscritti parigini del 1844 pubblicati postumi in Urss nel 1932 con il titolo di Manoscritti economico-filosofici.

In essi Marx non si limita ad assimilare l’economia politica elaborata precedentemente dalla borghesia, quando era una classe rivoluzionaria, ma ne fa una critica, dal momento che anche le più avanzate teorie economiche consideravano il modo di produzione capitalistica il punto di arrivo della storia umana. Al contrario per Marx il capitalismo genera il proletariato, di cui sfrutta la forza lavoro, appropriandosi anche del lavoro non retribuito.

Nei Manoscritti parigini Marx analizza in particolare l’alienazione o estraniazione prodotta dal lavoro salariato. Il concetto di alienazione era centrale nella filosofia di Hegel, anche se indicava essenzialmente uno stato in cui l’autocoscienza dell’uomo era fuori di sé e tendeva a perdersi. Dunque Hegel si serviva di tale concetto solo terreno del pensiero, anche perché secondo la sua concezione idealista del mondo l’uomo è essenzialmente pensiero, autocoscienza. Tanto più che a Hegel interessa essenzialmente la comprensione della realtà – come sottolinea prendendo come metafora della sua concezione della filosofia la nottola di Minerva che si alza in volo sul fare della sera, ovvero quando il momento dell’azione è terminato – e non avvertiva la stessa esigenza di Marx per la sua radicale trasformazione.  Del resto Hegel considerava il protagonista dello sviluppo del reale-razionale lo spirito assoluto, che a parere di Marx era una nuova forma di auto-alienazione dell’uomo, non distante da quella propria della visione del mondo religiosa.  

Perciò con il concetto di alienazione Feurbach aveva denunciato il processo per cui l’uomo arricchisce la divinità di attributi che sottrae a se stesso. Marx sviluppa sul piano socio-economico tale processo di alienazione indicando l’estraneità fra il lavoratore e il suo lavoro in quanto: in promo luogo il proletario moderno non dispone del prodotto del suo lavoro, che è proprietà del capitalista e, accrescendo il suo capitale, diviene un oggetto estraneo che domina il lavoratore. Dunque come per Feurbach quanti più attributi l’uomo alienava nella divinità da lui prodotta, tanto più impoveriva se stesso, così per Marx quanto più il proletariato moderno produce, tanto più è soggiogato dal prodotto del proprio lavoro.

In secondo luogo, il lavoratore salariato nel lavoro si aliena, in quanto non si realizza in esso, dal momento che il lavoro è divenuto solo uno strumento per conseguire il salario che gli consente di riprodursi. Considerato che l’uomo si distingue dagli animali proprio per la sua libera attività consapevole e la storia è perciò considerata da Marx storia dell’autoproduzione dell’uomo grazie al proprio lavoro, con l’alienazione l’essenza dell’uomo diviene uno strumento, un mezzo per sopravvivere, ossia all’uomo diviene estranea la sua stessa essenza, mentre gli restano unicamente le attività proprie della vita animale, come la nutrizione, il riposo, la riproduzione, ecc. Infine, il lavoro salariato nega l’essenza dell’uomo anche in quanto animale sociale, perché invece di essere un luogo di incontro e arricchimento reciproco diviene il teatro della lotta di classe fra il padrone, che vuole spremere al massimo la forza-lavoro che ha acquistato dal salariato e quest’ultimo che cercherà di limitare al massimo il proprio sfruttamento.

Per superare questa forma moderna di alienazione occorre, a parere di Marx, eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro. Solo così, con la realizzazione di una società in cui saranno proprietà sociale, comune, l’uomo si riapproprierà della propria essenza di artefice della propria storia [3].
Note
[1] Per approfondire queste questioni cfr. Marx e noi: Stato e società civile
[2] Per approfondire questi temi rinvio a Marx e il bisogno di religione
[3] Su tali tematiche mi permetto di rinviare a La lotta per l’egemonia oggi 
http://www.lacittafutura.it/