Carlo Scognamiglio
La casa editrice Orthotes ha ripubblicato Il giovane Marx (un agile opuscolo
che György Lukács diede alle stampe nel 1954), in un’elegante edizione curata
da Piergiorgio Bianchi, che ripropone, con pochi accorgimenti, la bella
traduzione di Angelo Bolaffi, del 1978. Lukács non è solo un filosofo
importante, ma è stato anche un grande scrittore, e la sua pagina è sempre
stilisticamente apprezzabile, nonché pregna di intense riflessioni. Questo
libro, come altre sue opere, si lascia leggere con avidità da quei lettori che
apprezzano il raro connubio tra una prosa chiara e lineare, e la complessità
della riflessione teorica.
Procedendo con ordine, l’autore segmenta il processo
formativo di Marx secondo le fasi distinte della sua produzione giornalistica e
filosofica. Secondo Lukács, la dissertazione dedicata alla Differenza tra le filosofie della natura di
Democrito e di Epicuro, con la quale Marx completò il suo percorso di studi
universitari nel 1841, costituisce una notevole testimonianza della capacità
del giovane studioso di distinguersi nel quadro concettuale della sinistra
hegeliana, per la sua volontà di cercare un superamento del padre della
dialettica che non fosse estrinsecamente polemico. Vengono messi a fuoco già in
questa fase aurorale del pensiero marxiano alcuni elementi importanti della sua
successiva maturazione teoretica, primo fra tutti l’embrionale tracciato di un
materialismo non naturalistico, inteso quale veicolo di emancipazione anti-assolutistica.
Grande attenzione è dedicata da Lukács all’attività
giornalistica di Marx, con particolare riferimento all’esperienza vissuta nella
collaborazione e poi redazione della Gazzetta
renana. Negli articoli del giovane Marx sono ravvisabili molti segnali di
uno spirito critico e argutamente antagonista rispetto alle anacronistiche
oppressioni feudali perpetrate autorità prussiane. Merita attenzione e
apprezzamento nel profilo intellettuale del primo Marx questo reciproco
richiamo di giornalismo e filosofia. Marx osserva e approfondisce i nudi fatti
della cronaca sociale, economica e politica, trovandovi lo stimolo necessario a
riprendere tra le mani i testi di Hegel o dei giovani hegeliani e svilupparne
una critica. Simmetricamente, legge avidamente le pagine di Feuerbach sul
rapporto dialettico soggetto-predicato, e le tesi hegeliane sulla società
civile, per meglio irrompere nel dibattito politico e sviluppare un’erosione
delle posizioni conservatrici. Fin dai primi anni della sua formazione di intellettuale,
dunque, Marx congiunge sistematicamente la prassi della critica sociale con il
momento dell’analisi teorica.
Secondo Lukács, il futuro autore del Capitale non è inizialmente animato
– come molti interpreti sostengono – da sentimenti liberali, ma da posizioni
più assimilabili a un radicalismo democratico e giacobino. La sua idea di
Stato, ai tempi del celebre articolo dedicato ai furti di legname, è rinviabile
a una denuncia del venir meno dello Stato alla propria funzione universale,
dove però l’universalità non significa rispetto delle differenze sociali, cioè
equidistanza tra ricchi e poveri. Universalità significa invece essenza
intrinsecamente democratica dello Stato, tradita dalla realtà politica
prussiana.
Seguendo la traccia di quel sistematico rapporto di
implicazione tra attività pubblicistica e filosofia, Marx concentra le proprie
energie nella stesura del suo commentario alla Filosofia del diritto hegeliana. La sua priorità, nella
ricostruzione di Lukács, è attaccare frontalmente ogni possibile apologia della
monarchia costituzionale. Se infatti tale sistema era parso a Hegel come
espressione sintetica di tutti i sistemi politici (monarchia,
appunto,aristocrazia, modulata nell’esercizio del potere dei membri del
governo, edemocrazia, incarnata dal sistema delle camere legislative), Marx
considera invece quell’istituto un controsenso. Se lo Stato è tale solo quando
raggiunge la forma di una piena sovranità popolare, la perpetuazione del
modello monarchico non può essere compatibile con una struttura finalmente
democratica. Nonostante la presenza costante di questo elemento polemico
caratterizzi in numerosi passaggi la Critica
della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843), Marx riconosce
a Hegel il merito di aver evidenziato la crucialità del dissidio tra società
civile e Stato. Il padre della dialettica avrebbe visto la separazione, propria
della società moderna, tra le differenze sociali presenti nella società civile,
e la dimensione politica. Se in epoche pre-moderne appartenere a uno Stato o un
ordine della società implicava una peculiare collocazione nella gerarchia
politica, con la Rivoluzione francese si è invece completamente divaricata
quella separazione. Secondo il giovane Marx, ma pure secondo Lukács, Hegel si
accontenterebbe di una soluzione solo apparente della scissione, tentando di
occultarla attraverso l’assegnazione di un ruolo politico alle differenze tra
ordini o stati. Ciò lo costringerebbe a trascinare istituzioni feudali nel
quadro di un ordinamento moderno, come la camera alta o peggio ancora il
maggiorascato, nella tutela dei privilegi di nascita. L’assurdità della
conciliazione hegeliana sarebbe quindi riducibile all’evocazione di funzioni
animali nella definizione dello Stato razionale, poiché, come scrive sarcasticamente
Marx, “in questo sistema la natura fa direttamente dei
re, fadirettamente di pari, ecc., come fa degli occhi e dei nasi”.
L’obiezione a Hegel tuttavia si fa più incerta quando si
rivolge alla relazione stessa tra i primi due momenti dell’eticità e lo Stato.
Per Marx la famiglia e la società civile, in quanto tali, determinano
l’esistenza dello Stato, che li presuppone. Hegel avrebbe invece ribaltato
questo rapporto, sostenendo che due primi momenti si danno solo come interne
astrazioni dello Stato. La questione è assai complessa, tuttavia sospetto che
l’argomentazione del giovane Marx, qui, non sia sufficientemente fondata. Secondo quale
significato del termine “realtà”, infatti, la famiglia e la società civile
precederebbero lo Stato? Se ci riferiamo a una realtà meramente materiale,
nessuno dei tre termini del problema costituisce una sostanza reale. Si
stratta infatti di entità relazionali. Il rapporto di precedenza voluto da
Hegel può essere letto in due modi. Primo: storicamente la famiglia si
costituisce sempre in un’entità statuale che la riconosce come tale. In assenza
di un’entità politica, uomini e donne che si riproducono e generano figli non
si definiscono come “famiglia”. Analogamente, la società civile regola
l’incontro e lo scontro nei rapporti tra volontà particolari, ma solo
nell’ambito di una struttura statuale che la riconosce come la “propria”
società. Diversamente, parleremmo solo di relazioni tra soggetti, non di
società civile. Secondo: se intendiamo invece lo Stato come l’essenziale
natura politica dell’uomo (quindi a prescindere dalla sua articolazione storica
moderna), la sua immanente appartenenza a un’organizzazione sociale, è del
tutto evidente che famiglia, polizia, magistratura, corporazioni, appaiano –
come accade in Hegel – distinte articolazioni di un concetto più universale di
convivenza civile.
Nel suo insistente tentativo di ribaltare la relazione tra
soggetto e predicato, Marx riprende in parte la filosofia de Feuerbach. Solo in
parte però, perché, ricorda Lukács, quest’ultimo aveva dato prova di totale
assenza di senso politico. Dopo aver severamente criticato la dialettica
hegeliana, infatti, Feuerbach finisce per proporre un’idea dello Stato assai
simile a quella di Hegel, anch’essa monarchica, secondo una concezione che vede
il sovrano quale rappresentante simbolico e unitario di tutte le classi
sociali. A Marx piace invece l’argomentazione feuerbachiana inerente il
ribaltamento nel rapporto tra soggetto e predicato. Hegel avrebbe dunque
concepito la soggettività reale – l’uomo finito – come predicato
dell’universale, capovolgendo la verità. Si tratta tuttavia di
un’argomentazione molto nota, che non necessita di ulteriori approfondimenti.
Altra opera giovanile cui Lukács dedica pagine intense
è La questione ebraica(1843).
Nel periodo di composizione di questo scritto, anche in virtù della sua
personale esperienza con i pavidi azionisti del giornale Vormärts, Marx tende sempre di più ad
escludere la partecipazione della borghesia in qualunque processo rivoluzionario
radicale (quasi presagendo gli esiti dei moti
quarantotteschi), soprattutto in Germania, per concentrare la propria
attesa di cambiamento sulle masse popolari sfruttate, in alleanza con gli
intellettuali rivoluzionari. Non è ancora compiuto l’approdo a una concezione
socialista, né all’individuazione del protagonismo proletario. Ma è conseguita
pienamente la sfiducia nella borghesia come classe capace di affiancare le
masse popolari in una più compiuta battaglia democratica.
La questione ebraica,
pur essendo un testo occasionato da una controversia con Bauer
sull’emancipazione religiosa, costituisce in realtà un approfondimento del tema
già colto nel commentario hegeliano, a proposito della separazione tra lo Stato
politico moderno e le condizioni particolari dei cittadini. Per un verso,
infatti, lo Stato nega le differenze nella dimensione della politica, dove
tutti appaiono formalmente uguali. Tuttavia, poiché lo Stato lascia esistere le
differenze, e si autodefinisce come universale in contrapposizione a quelle,
esso le presuppone. Per cui, conclude Lukács: “da ciò risulta che il rapporto
dello Stato politico verso la società civile è spiritualistico e che esso si
rapporta a quello come il cielo alla terra. E questa scissione, nella società
capitalistica, fra vita spirituale e vita materiale reale si riferisce non
soltanto al tutto, ma divide ogni singolo uomo nello
spirituale citoyen e nel materiale bourgeois, nel membro dello
Stato e nell’individuo vivente” (p. 68).
Il processo di maturazione del giovane Marx si compie dunque
nel 1844, quando il ruolo chiave della classe operaia viene messo a fuoco,
vengono redatti gli importanti Manoscritti
economico-filosofici e diviene viva, insieme a Engels, la sua “attiva
partecipazione alla lotta di classe internazionale del proletariato” (p. 97.)
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