4/7/16

Classi e lotta di classe dopo la “crisi del marxismo”?

Karl Marx ✆ Zeppo 
Alessandro Mazzone
In nessun Paese europeo quanto in Inghilterra il senso della gerarchia sociale è presente immediatamente nel medium di ogni incontro e comunicazione - la lingua. Non solo diversa ricchezza di sintassi, vocabolario, registri espressivi distinguono i ceti, ma già la pronuncia di ogni parola e frase (pronuncia, le cui differenze “verticali”, appunto di appartenenza a strati superiori o inferiori, sono più importanti di quelle “orizzontali”, di regione). Questo biglietto da visita che si manifesta col solo aprir bocca, immediatamente, è un tratto tipico, che, nel centro primo del capitalismo e del maggiore impero moderno (anche se ora subordinato al cugino-nemico statunitense), si chiama appunto class; e poiché è evidente e onnipresente, non c’è - di solito - alcun bisogno di dirlo.

Ma nello stesso tempo, l’uso della parola class, nell’inglese corrente, ricorda anche che in quel Paese il movimento operaio, pur forte e glorioso in certe fasi, è rimasto quasi sempre subalterno; e che il concetto e sentimento dell’autonomia di classe dei lavoratori, morale prima ancora che politica, è rimasto, colà, marginale. Il senso proprio di “classe”, che appunto non significa appartenenza a un certo gruppo, categoria, ambiente, ma si riferisce ai rapporti di produzione e alla forma capitalistica della riproduzione sociale complessiva [2], non è entrato, là, nel senso comune. [3

E proprio perciò, che ci siano “classi” - nel senso di stratificazioni, di un alto e un basso a lor volta graduati, e di una potenza e miglior qualità inerente all’ “alto” è, invece, fortissimamente, nel senso comune, (di cui massimo e miglior testimonio è appunto la lingua). Infatti, “class” tutto significa, dalla evidente e ammessa superiorità dei ricchi e potenti - la upper class (noi diciamo talvolta “i padroni”, ma quest’espressione non riconosce superiorità!), alle classificazioni più o meno fondate di varie teorie sociologiche, e poi anche giù giù fino a quelle vanità sciocchistico-pubblicitarie, per cui una certa automobile o un paio di scarpe esprimerebbe la vostra “classe” (buon pro’ vi faccia...) - E non è un caso, probabilmente, che sempre l’inglese corrente, solo fra le lingue europee (dall’italiano al francese al tedesco al russo...) non abbia due termini per dire “popolo” e, invece “gente”. Tutto quanto è people, “la gente” “gli individui al plurale” - in buona armonia, a pensarci bene, con quell’altro aspetto: poiché dove tutto è class, insieme gerarchia, strato, ceto, stile di vita, come può esserci e agire, ed esser soggetto politico in opposizione ai suoi dominatori, un’ entità che sia non lower class, o plebe, ma davvero “popolo”? [4] - Così. anche in questi tratti del linguaggio si manifesta la egemonia plurisecolare della borghesia inglese [5].

Ma lasciamo gli aspetti storici, per venire al presente, e a noi. Anche da noi, infatti, l’attacco all’autonomia morale, culturale, politica, dei lavoratori, alla consapevolezza, al senso di sé, all’identità della classe operaia propriamente intesa, ha ottenuto successi - anche se non ancora il successo massimo: che sarebbe quello di obliterarsi del tutto, e sostituire all’evidenza della lotta di classe dall’alto un’altra “evidenza”, quella di una stratificazione e diversità sociali tanto poliedriche quanto impenetrabili, e dunque immutabili. Anche da noi il senso comune - risultato di lunghe lotte per l’emancipazione dei lavoratori, notabene! - per cui “classi lavoratrici”, “classe operaia” significano quello che significano, e sono tutte espressioni che implicano solidarietà (di classe appunto, di fronte a quell’altra e potente solidarietà dei padroni contro i lavoratori), e implicano lotta, e implicano una prospettiva di emancipazione anche lontana - anche da noi questo senso comune e tessuto di idee, sentimenti e azione in cui i singoli si legano alla loro classe, appunto - questo senso comune e comune sentire non è nato dal nullaEd è cresciuto ed è stato forte in decenni non lontani. E ora è più debole, come tutti sanno. E non serve il rimpianto, ma invece il domandarsi come e perché, per sapere da dove riprendere le fila - come si sa. Finalmente - e si sa anche questo - le fila vanno riprese da lontano, dandoci conto e spiegazione delle vittorie non piccole che la controparte ha potuto ottenere, in Italia e nel mondo, negli ultimi decenni.

C’è però chi argomenta che questo indebolirsi e restringersi del senso di classe sia un aspetto della cosiddetta “crisi del marxismo”, o comunque collegato ad essa. Con questo tipo di amalgama tra fenomeni reali e nebulose immaginazioni si ottengono subito due effetti. Primo: al posto delle classi, del loro antagonismo, della saldissima azione economica, politica, ideologica dei padroni, e di chi ad essi si è accodato e si accoda, avete un fenomeno globale e vago, una specie di “spirito del tempo”, che non si può analizzare (anche se si può discettarne senza fine...). Secondo, un effetto intimidatorio: chi vorrà ancora parlare di classi, di lotta di classe, di sviluppo del capitale e sua crisi, di plusvalore, e insomma di tutte queste categorie “marxiste”, che lo spirito del tempo ha lasciato dietro di sé? Andiamo, signori, stiamo coi tempi, parliamo il linguaggio di tutti... (e il gioco è fatto - o, almeno, sembra.)

Di “crisi del marxismo”, poi, sono state piene riviste (“di sinistra”, s’intende, convegni di intellettuali e politici “di sinistra”, s’intende), qualche libro, molti articoli di giornale, per alcuni anni, a grosso modo intorno al 1980.
Proviamo a domandarci: Che cosa significa “crisi del marxismo”?
1. Oh che problema intricato, opinabile, discusso per anni inutilmente, vetusto, anzi morto e sepolto - direte voi. E avrete ragione. Ma rassicuratevi. Non si vuol qui tediare nessuno rispolverando vecchie diatribe. Quella che propongo è una breve riflessione sulla “crisi del marxismo”, datata 2003, cioè certo dopo la “crisi”, dopo l’89-91 e dopo che le illusioni sul “nuovo ordine mondiale” hanno ormai ceduto il posto a più sobrie considerazioni sul rapporto tra i pochi potenti e tutto il resto dell’umanità. Questa breve riflessione si può riassumere, lo confesso subito, in una battuta un pochino provocatoria. Eccola. Poiché una concezione scientifica generale che non si svolga in ricerche particolari da lei rese concettualmente possibili, e che a lor volta, ovviamente, porteranno ad arricchire la teoria generale, a svilupparla e anche a modificarla e correggerla, è una cosa semplicemente impossibile (una tale concezione, infatti, sarebbe unicamente un pezzo di carta su cui son scritti certi segni) - “crisi del marxismo” vuol dire, e ha voluto dire essenzialmente (e non già una volta sola), “non fare marxismo”, non sviluppare quella “filosofia della prassi” che (come scriveva Antonio Labriola 108 anni or sono) Marx ed Engels avevano soltanto avviato.

“Un momento”, dirà qualcuno, “tu ritieni dunque che ’il’ marxismo sia una teoria scientifica?” Piano, le cose non sono così semplici. Né che cosa voglia dire “scientifico” è, in una tale affermazione, chiarito; e neppure a che cosa alluda l’espressione ’il’ marxismo. Anzi: io non affermo neppure che ’il’ marxismo, come ente singolare, sia esistito. Soltanto, come detto, vorrei cercare di cominciare a dipanare la matassa, oggi: ossia quando comincia a esser sentita da molti l’esigenza di strumenti teorici che permettano di studiare, ed eventualmente comprendere, ed eventualmente (ma più lontano e sotto condizioni pratiche tutte da vedere), modificare l’andamento potenzialmente catastrofico della unificazione del mondo, cioè del genere umano, nella forma di moto detta “capitalistica”.

Questa forma di moto non è - ovviamente - la stessa cosa che le parolette vuote e/o ricattatone propinate al disprezzato volgo - tipo “mercato”, “globalizzazione”, etc. etc. [Si avanza bensì la pretesa che “il mercato” debba e possa fungere da solo regolatore del rapporti sociali (“società di mercato”, non più società a economia di mercato, etc.); ma, come sapete, non tra persone serie che fanno affari seri.] La preponderanza dei criteri di profitto, questa sì, inerente alla forma di moto capitalistica, importa oggi che la volontà politica di sfamare tutti, in un mondo in cui le risorse sono sovrabbondanti da circa 30 anni, NON si formi, e dunque che non si debba parlare di un problema della fame nel mondo, o di un problema delle epidemie, dove i presidi medici esistono da tempo e non si applicano o non si vendono, ma, correttamente, di sterminio; e simili argomentazioni possono farsi, mutatis mutandis, per questioni ambientali riguardanti l’ecosistema planetario e quelli regionali.

Tutto questo è arcinoto, come è noto a molti il detto del padre teorico del neoliberalismo, il premio Nobel per l’economia F. Hayek: “dobbiamo abbandonare il pregiudizio secondo cui ogni uomo che nasce ha diritto alla vita” (1977, in una intervista alla Weltwoche di Zurigo).

2. Ma perché parlare di “forma di moto capitalistica” e non semplicemente “del” capitalismo? Ebbene, già questa domanda ha una lunga storia, che risale almeno alla realizzazione - finalmente avviata e non ancora compiuta, della MEGA2, l’edizione critica dell’opera completa di Marx e di Engels, e alle resistenze dogmatiche al suo avvio, ancora verso il 1960. In effetti, la domanda porta al centro del problema dell’eredità letteraria e scientifica di Marx: al problema del “nocciolo” più compiuto della sua concezione, mai completata, e che è la teoria pura del “Modo di produzione capitalistico”. Questa NON è teoria (molto meno: descrizione) di un qualche “capitalismo” storico (inglese o altro). I vari capitalismi storicamente esistiti sono configurazioni - con termine labriolano - successive e diverse del Modo di produzione: ivi compresa, naturalmente, la prima configurazione “globalizzante” in forma di spartizione coloniale del globo a fine ’800; e compresa, io penso, la presente e ulteriore, purché riusciamo a studiarla. Per questo motivo, già parlare “del” capitalismo è poco corretto: a rigore, “il” capitalismo non esiste. Storicamente e geograficamente, cioè localmente, ce ne sono stati molti, ciascuno con caratteristiche proprie, sebbene poi tutti con alcune caratteristiche essenziali comuni (valorizzazione del capitale, cioè rapporto e processo di capitale, in primo luogo); e tutti tendenzialmente riassorbibili, poi in parte riassorbiti, nel mercato mondiale - la endenza alla formazione del quale è essa pure propria, ut sic, del Modo di produzione capitalistico quale pura forma di movimento.

Tutto questo (e molto, moltissimo altro ancora), è ormai, visti i testi di cui disponiamo, difficilmente controvertibile corrisponda all’intenzione conoscitiva dell’Autore del Capitale I e del formidabili “lavori preparatori”, nonché integrazioni e correzioni, che oggi conosciamo grazie alla nuova edizione critica. (Basti qui una cifra: circa 5000 pagine di ms. decifrati e criticamente pubblicati, in mezzo ai quali il Capitale I, pubblicato nel 1867, si colloca, e solo può essere inteso. E ancora: tre (non una) redazioni della teoria complessiva (dalla quale, poi,si avrà o si ricaverà il Capitale I-II-III come siamo stati abituati a leggerlo), tutte anteriori alla pubblicazione di Capitale I). Finalmente, incontrovertibile è altresì che Marx volesse anche dare uno “spaccato” della società borghese del tempo suo, non solo la sua “legge di movimento”. E ne abbiamo testimonianza in ricerche storiche, politiche, anche letterarie; in capitoli “illustrativi” del Capitale stesso, (p. es. l’8° e in parte il 13° ); in grandi scritti politici, dall’ Indirizzo del 1864 in poi.

Da qui, come Walter Markov e la sua scuola hanno mostrato con rigore storiografico e filologico, si spiegano anche quegli avvii e parti di una teoria della Formazione economico-sociale,che, pure con contributi successivi nel ’900, resta finora un torso. Ma la “estensione” verso l’analisi storica, politica, culturale, anche filologica, (per non parlare della straordinaria attenzione del tardo Marx per la scienza naturale del tempo), è inerente alla duplicità di piani dell’opera sua: quello della pura teoria del Modo di Produzione, che è teoria di una forma di moto storica (e non propriamente ’economica’, anche se naturalmente la relazione fondamentale, il rapporto di produzione, o insomma il rapporto e processo di capitale, può dirsi economica) - e dell’uso degli strumenti teorici da essa offerti nell’analisi di configurazioni, eredità storiche, vita di “popoli” e “nazioni” particolari, ecc.

3. Perché, poi, questa teoria pura del MPC avrebbe tanta importanza? Per due motivi, direi. Il primo, che appunto in quanto esposizione teorica di una forma di moto (della vita di uomini producenti e associati nel rapporto di capitale), essa ha una sua temporalità specifica, una tendenzialità (espansione indefinita della produttività del lavoro, sussunzione di forme antecedenti e loro inclusione nel proprio moto, estensione tendenziale del rapporto mercantile a tutte le forme di vita, mercato mondiale), e una dimensione storica (anche se - ovviamente - non cronologica e neppure, in senso stretto, politica.) Questa tendenzialità o temporalità storica abbraccia tutta l’epoca della produzione capitalistica. E oggi, quando cresce il numero di coloro che vorrebbero possedere strumenti teorici per analizzare l’attuale regno universale del capitale, comprenderne le modalità e i limiti, ed eventualmente (ma certo, sotto condizioni pratiche tutte da trovare) restringerlo, una teoria di questa portata appare - purché intesa nel suo altissimo grado di astrazione, che ne esclude la applicabilità diretta al dato empirico - di grande interesse.

Il secondo motivo, poi, è che - come scrisse V.S. Vygodskij, il Nestore della nuova filologia marxiana scomparso cinque anni fà, un’ altra teoria di questa ampiezza e portata semplicemente non esiste. Potrà un giorno esistere, certo. Ma non esiste. Ora, è sempre buona regola (in qualunque campo d’indagine) quella di partire dalla massima e più comprensiva teoria esistente, svilupparla, introdurre teorie e ipotesi sussidiarie, e soltanto per questa via modificare, un giorno eventualmente abbandonare, la teoria iniziale. In questo campo - ossia nel campo della scienza seria - non vige l’arbitrio relativistico, non lo anything goes, non il brillante inventore di verità ultime - ma semplicemente, il lavoro rigoroso.

E allora, che dire della “crisi del marxismo”? Tutte queste belle cose non l’hanno impedita affatto, anzi non merita quasi più parlarne - dirà qualcuno. A me pare di no. E, anzi, che convenga partire di qui proprio per guardare avanti, alla esigenza di teoria per i problemi del XXI secolo. Esigenza che è poi anche, e forse soprattutto, pratica, certo urgente di fronte alle tragedie in corso, e all’impotenza nei loro riguardi, cui con tanta persistenza e tanti mezzi ci si vorrebbe far rassegnare mentre, è pur vero, “un altro mondo è possibile”.

4. Dunque, ricordiamo. Verso il 1980 si potevano leggere saggi e discussioni sulla “fine della centralità della classe operaia”. (Questo esempio basterà, qui, anche perché fu preso allora come segnale della “crisi”). Gli autori di quegli scritti intendevano in realtà, per lo più, la frazione di classe costituita dai lavoratori della grande industria, che in effetti diminuivano di numero. Non so, e non rileva più molto, se quegli autori, che confondevano appunto “classe” - ente determinato dai rapporti di produzione, e anzi modo d’esistenza, in questi rapporti, delle forze produttive sociali - con un certo numero di individui, p. es. quelli che entrano in fabbrica a ore fissate - se gli autori, dico, si rendessero conto già allora che contribuivano a isolare questa frazione, il proletariato industriale in senso stretto, da altre frazioni della classe lavoratrice salariata, da altri lavoratori manuali e non, e questi da quella. Oggi si vede bene, come per questa via si sia arrivati a presentarli tutti in ordine sparso all’attacco generalizzato alle condizioni di vita, al salario globale (sanità, scuole, trasporti, servizi pubblici in genere), al salario differito (l’infame, ostinato attacco alle pensioni continua anche in quest’estate torrida, dove la morìa dei vecchi “sembra” un fatto di natura, o un fenomeno di costume, e giù sociologismi e moralismi inutili sull’egoismo dei giovani ecc.). - Ma proprio quelle disquisizioni sulla “centralità” o no della “classe operaia” erano loro stesse “crisi del marxismo”! Erano loro stesse incapacità o non-volontà di risalire alla costituzione di classe della società, alle scelte di medio e lungo periodo che essa comporta, ai modi in cui l’egemonia di classe determina modi di vita, tipi di comportamento, tipi umani possibili.

Una analisi di tutto questo non si improvvisa. [6] Il non tentarla neppure, però, apriva la strada alle mode: l’assenza di teoria crea un vuoto, che riempiono teorizzazioni affrettate, e poi mode intellettuali. È inevitabile, e non era tutto. L’abbandono di fatto del punto di vista di classe dava l’avvio al disorientamento e alla subalternità politicistica: restando attaccati a operazioni e manovre politiche del giorno, si perdeva di vista il problema, quel che era da indagare e da portare a teoria: il moto del capitale, la nuova fase della produzione capitalistica che si delineava con imprese transnazionali, produzione “a filiera”, “flessibilizzazione”, outsourcing ecc. ecc., la reazione del capitale alla crisi di valorizzazione - tutto quello, insomma, che è poi a monte della mediazione politica e dei suoi “teoremi” manovrieri, destinati a durare lo spazio di un mattino. (Chi ricorda mai, per es., il “proudhonismo” di B. Craxi?)

Di questi e simili discorsi eran piene le carte, verso il 1980. Il “marxismo” - leggi: l’uso delle categorie della teoria fondata da Marx per intendere la realtà presente - da quelle carte se ne era andato da tempo. La coerenza di classe, intanto, non poteva certo parer vincente nei rapporti della mediazione politica a breve o medio termine: il vento tirava dalla parte opposta, i lavoratori erano ridotti alla difensiva su scala mondiale! Intellettuali e politici di sinistra vedevano, chi crollare personali certezze teoriche troppo facilmente acquisite, o superficialmente accolte, chi dileguarsi obiettivi di potere politico troppo baldanzosamente indicati. C’era anche chi, semplicemente, non aveva sostanza culturale e morale abbastanza per resistere all’offensiva dell’avversario, dispiegata invero in grande stile e a tutti i livelli [7]. A sentimenti confusi, a ritardi culturali che era troppo tardi per recuperare, a desideri più o meno confessati di “star nella barca buona”, bisognava dare una voce, che si presentasse come un fenomeno obiettivo, una novità reale, cui nessuno poteva sottrarsi. In breve volger di mesi, senza che si sapesse bene come era nata, la crisi del marxismo fu su tutte le bocche.

5. Eppure, la cosa non si riduceva a questo - anche se i fiutatori del vento degli anni intorno al 1980 non sembrarono mai accorgersene.

Un decennio prima, nel primi mesi del 1971, Georg Lukàcs, dettando gli ultimi capitoli a noi rimasti della sua grande opera incompiuta, la Ontologia dell’essere sociale, aveva offerto pagine cristalline e senza ambagi sulla “sterilizzazione del marxismo” avvenuta nel corso di quattro-cinque decenni tanto in occidente che in oriente. Questa sterilizzazione poneva l’esigenza di ricominciare dai fondamenti filosofici della concezione avviata da Marx, e sviluppata poi in parte, ma anche bloccata e sterilizzata nel medio XX secolo. A quella sterilizzazione il filosofo intendeva rispondere rintracciando la ontologia dell’essere sociale, imbricata su quella dell’essere cosmico non-vivente e su quella del vivente - ontologia cui Marx, nell’800, aveva dato un contributo decisivo sì, ma non fondante la teoria ex-novo, né, ancor meno, esaurendola (dato che questa, come ogni teoria autentica, non può esistere se non svolgendosi).

Il filosofo doveva ricominciare dai fondamenti filosofici della teoria, dal loro svolgimento, dalla loro esposizione più esplicita e “ora divenuta possibile” (come suona il sottotitolo dei Prolegomeni all’ Ontologia dell’essere sociale). In questa esposizione non possiamo entrare qui.[8] Ma il filosofo sa, e dichiara, che i fondamenti filosofici non sono tutta l’opera di ripresa del marxismo dopo la sua sterilizzazione, dogmatica o genericamente “critica”. La riformulazione filosofica, anzi, non è neppure fine a se stessa - le categorie teoriche si sviluppano e sono vere nella consapevolezza, via via acquisita con l’indagine attenta e rigorosa, del processo sociale complessivo in tutte le sue dimensioni. A sua volta questa consapevolezza non può vivere solo nelle carte, ma, per la sua natura di momento del processo sociale stesso, si svolge, articola e concresce su sé stessa nell’azione degli uomini - tendenzialmente: di tutti gli uomini.

Questa dunque era stata una reale “crisi del marxismo” - molto tempo prima che i trombettieri della “svolta” verso una (non nuova!) conciliazione di classe ne adottassero la frase, che fece rumore da noi per un paio d’anni: la rinuncia a usare (con fatica e rischio, nello studio e nella lotta) le categorie teoriche, prima di tutte quelle della teoria del Modo di produzione, sviluppandole, integrandole di ipotesi meno generali, “vedendo” di volta in volta i processi in movimento, ricavandone una strategia, e via dicendo. Questa rinuncia è stata “crisi del marxismo”? È stata deficienza di marxismo, come altri preferirà dire? Ma le diciture contano poco. C’è soprattutto un gran lavoro non fatto, e che va ripreso.

Per motivi diversissimi (che non è possibile indagare qui), c’è stata obiettivamente, storicamente, socialmente una rinuncia a servirsi di una teoria che - se sai, se vuoi fare il tuo lavoro, con la necessaria umiltà - ti aiuta a comprendere i processi sociali, la storia anche, in cui comunque sei compreso e coinvolto - e dunque, nell’azione solidale, ad agire su di essi, a modificarli. Questo è quel che G. Lukàcs chiamava “sterilizzazione del marxismo” nei decenni centrali del XX secolo. Si tratta di un fenomeno storico, che come fenomeno storico andrà indagato. (Per cui le motivazioni di singoli studiosi e intellettuali, le iniziative di politici e dirigenti interessano sì, ma solo nel contesto di quel fenomeno storico. [9])

6. Già da questi accenni emerge che, se vogliamo cercare un primo orientamento nella ingens silva di questioni cui il titolo rimanda (e che ovviamente non saranno neppure tutte elencate nelle considerazioni che seguono), occorre tener distinte tre dimensioni diverse:
- quella di un moto internazionale, nell’età del “Trionfo della borghesia” e dell’imperialismo (la I., II. e III Internazionale, con tutte le loro manifestazioni, strutture, alleanze ecc.), che si richiama espressamente alle “idee di Marx”: oggetto, questo, di studio storico;
- quella, invece, di concezioni di gruppi intellettuali, loro svolgimento, commistioni, crisi. Questa altra dimensione può essere studiata soltanto in un rapporto duplice: da un lato, rispetto alle le tradizioni di cultura e la loro elaborazione, discussione politica, ecc., nei singoli Paesi; dall’altra parte, entro la combinazione-scontro di egemonie di classe che costituisce, in ogni istante, la vita culturale dei popoli nel senso più ampio. [10] (Per queste nozioni di egemonia di classe, classe dirigente e classe dominante, blocco storico, ideologia come “filosofia di ogni uomo” e suo moto insieme individuale e collettivo, il riferimento evidente è ai Quaderni di Gramsci); [11]
- terzo, quella dei rapporti di produzione e dello sviluppo della Riproduzione Sociale Complessiva nel loro quadro (“progressivo” e/o “bloccante”, da vedersi analiticamente nei singoli casi): ossia della Riproduzione Sociale Complessiva in forma di Modo di Produzione Capitalistico, ai giorni nostri: questa dimensione non compare fenomenicamente senz’altro, e rende intelligibili le altre due attraverso elementi intermedi (p. es., rapporto tra avanzamenti scientifici e innovazione tecnica che quelli rendono possibile, senza mai determinarla direttamente).
Quest’ultima dimensione, oggi, rende possibile tentare una analisi della mondializzazione - ossia dell’integrazione in corso, e dapprima economico-produttiva, del genere umano, nelle sue diversità antiche e segmentazioni nuove (e volute!), mediante il mercato mondiale capitalistico attuale, con produzione a filiera, società transnazionali e multinazionali, dominio della finanza ecc.). S’intende da sé come ciò sia cosa ben diversa dalla c.d. “globalizzazione”, comprendendo non i soli aspetti tecnico-aziendali, imprenditoriali, monetari e finanziari, ma anche l’elemento di tirannide contenuto nella progressiva riduzione di numero dei centri di potere effettivo, nello svuotamento della politica, nella dislocazione delle funzioni pubbliche ecc.; comprendendo altresì, concettualmente, lo sterminio sistematico - non già dei soli (!) popoli del “3° mondo”, ma, potenzialmente e attualmente, di chiunque non sia “utile” (non c’è più infatti nulla che sia soltanto “locale”: quando le risorse ci sono, come è in effetti, un buon ospedale a Firenze vuol dire: un altrettanto buon ospedale a Palermo o a Nairobi potrebbe farsi, o prepararsi rispettivamente, ma non si vuole); in terzo luogo, il concetto di “mondializzazione” permette di cominciare a render ragione delle reazioni, resistenze e lotte dei popoli e dei lavoratori, dovunque - in condizioni altamente diversificate sì, ma obiettivamente unificabili alla luce dello stesso principio, che “non c’è più nulla di soltanto locale”, cioè che comportamenti diversissimi si riferiscono, anche se per lo più ancora inconsciamente, a problemi in radice comuni. (Come ha scritto A. Catone, è partendo dallo sviluppo del capitale che va inteso il neoliberismo, e non viceversa!) - La regolazione sociale totale mediante “il mercato” è pura illusione propagandistica, s’intende; interessa invece, nel contesto, il “Limite della competizione” (Petrella et alii ), cioè il contrasto crescente tra uso razionale delle risorse per scopi razionalmente determinati e la c.d. “razionalità del mercato”. Questo, appunto, non è un puro “problema economico”, come non è puro “folklore” p. es., l’elemento locale, tradizionale, “folkloristico” dei Sem Terra brasiliani, ecc. ecc.

7. Ma G. Lukàcs dà, nelle pagine ricordate, anche una indicazione di contenuto. La “sterilizzazione del marxismo” (a Est e a Ovest) avrebbe avuto due aspetti. La dogmatizzazione, o riduzione a un canone ne varietur di “indicazioni dei Classici”, escludente in linea di principio problemi nuovi; e la riduzione a una generica critica dell’esistenza umana “nel” capitalismo (di nuovo ’il’ capitalismo in generale... ). Quest’ultima contribuì bensì in alcuni casi a suscitare opere letterarie, critiche, filosofiche di notevole rilievo, in rapporto con le tradizioni di cultura di Paesi determinati (basti pensare a Sartre, Camus, Merleau-Ponty in Francia, alla letteratura e al cinema neorealista in Italia, ecc.); in altri casi, aprì la via a interessanti combinazioni con ricerche psicologiche, antropologiche, ecc., sorte autonomamente tra ’800 e ’900.

Ora questo doppio processo si svolge, sottolinea Lukàcs, sia ad Est che a Ovest (nel periodo della contrapposizione tra i due blocchi). Vuol dire questo che si è avuto a che fare con un marxisrno, che però è stato “sterilizzato”? O è una illusione ottica, determinata, nel “politico” G. Lukàcs, dalla equazione “scontro del due sistemi mondiali”= “alternativa tra capitalismo e socialismo”? Questa lettura riduce il filosofo alla sua collocazione politica nel tempo, e lo tratta dunque come non-filosofo; soprattutto, essa riporta l’autore della Ontologia dell’ essere sociale, come ogni altro autore, alla dimensione delle “scelte” e diatribe di intellettuali in gruppi, che hanno esistenza culturale di momento in momento bensì, dominano talora le mode,ma proprio per questo non hanno rilevanza teoretica.

Vero è che con “marxismo” si è inteso anche la forma unificante di una intera eredità di cultura, la “cultura moderna” (europea). (Non da Gramsci: il quale parla bensì di “tutta la cultura moderna”, di cui però “il marxismo... è stato una parte; mentre la “filosofia della prassi” ha come antecedente la storia moderna - in Gramsci, e già in Labriola.). Questa accezione ha buone ragioni che possono corroborarla, una miriade di studi spesso utili su Marx e Illuministi, economisti, filosofi classici antichi e moderni - che talora la confortano e talora no; ed è alla base della discussione sulle “fonti e parti integranti del marxismo”, che pure ha dato risultati interessanti nella prospettiva dell’insorgere, tra il ’600 e l’800, di una concezione rigorosa, o anche “scientifica”, dei processi storico-sociali. Tuttavia, essa mi sembra decisamente limitata rispetto a quella labriolana e gramsciana di una eredità sempre di nuovo da riconsiderare, e di uno sviluppo mai garantito, che sono contenuti nel concetto di “filosofia della prassi”. Non è il caso di entrare qui nel particolare. Basti dire che se antecedente della “filosofia della prassi” è lo sviluppo della civiltà moderna (europea), la stessa “filosofia della prassi” si trova a buon diritto oggi, e non può non trovarsi, a dover fare i conti con la critica e autocritica dello eurocentrismo, del sociologismo colonialista, di quel progresso dell’incivilimento che oscurava e negava i suoi prezzi di barbarie e di sterminio negli altri continenti (per tacere delle varianti bolse del genere: progresso = sviluppo della tecnologia - le quali, a vero dire, non possono riguardare la filosofia della prassi). Ma c’è di più. La mondializzazione via dominio incontrastato del capitale è - forse - forma antagonistica della unificazione del genere umano, maniera atroce di stabilire criteri e valori di vita comuni mediante imposizione, sterminio e ribellione. La produzione “a filiera” e computerizzata è - forse - una tappa obbligata dello sviluppo della produttività del lavoro sociale. Ma: questi sono problemi aperti oggi, sotto l’assillo di un potere irrazionale che non solo massacra in interventi militari aperti, ma stermina bloccando ogni uso razionale delle risorse, produce e diffonde armamenti nucleari, chimici, batteriologici come durante la “guerra fredda” e peggio; che rifiuta l’uso razionale della ecosfera, etc. - Insomma: se davvero la “civiltà moderna” pensata nella idealità del suo concetto può essere ricondotta (contro il nichilismo irrazionalista) alla universalità morale d’origine cristiana filosoficamente riformulata da Kant, alla sfera della libertà ragionevole di Hegel, al “libero sviluppo di ciascuno condizione del libero sviluppo di tutti” del Manifesto
 allora, mi sembra, quel che fa davvero problema non è la “ribellione avventurosa” da Stirner a Nietzsche a Foucault a Deleuze, ma il fatto che l’ambito degli scopi umani possibili, ampliati via via dalla scienza, ma mai decisi da lei (come vide Kant) si è ampliato abbastanza, certo grazie essenzialmente alla “civiltà moderna (europea)”, perché la gestione razionale e ragionevole del globo e delle sue risorse sia necessaria e urgente. Ma questa gestione razionale non può essere imposta dall’alto: essa può realizzarsi solo entro e grazie a una umanità pacificata. In questo consiste - a mio giudizio - la sfida posta a una “filosofia della prassi” all’altezza del nuovo secolo: pensare, [i] con modestia e pazienza, le modalità di un costituirsi non catastrofico della “umanità”, del “genere umano unificato mondialmente “ (Gramsci) - “umanità” e “genere umano” i quali tuttavia non sono politicamente costituiti. (Il giorno in cui lo siano, è quello in cui si metterebbero anche le briglie al tiranno.)

8. Da ultimo, “marxismo” è stato inteso anche come assunzione dell’eredità progressiva, democratica, antioscurantistica di popoli e nazioni. Specialmente nel ’900, questo ha significato una massa ingente di ricerche e attività, che i potenti di oggi vorrebbero dimenticate, miranti a tener desta, a diffondere a approfondire la consapevolezza di sé, con ciò la memoria storica e la dignità, di grandi masse di uomini.

La lotta contro la irratio è più attuale che mai - ma occorre vedere la nuova dimensione del problema: in breve, l’inaccettabilità di ogni forma di coscienza razionale di massa per i potenti di oggi, nel che consiste un aspetto essenziale della tirannia (“morte della politica” ecc.).

E in secondo luogo, a differenza da quanto poté valere nel ’900, la lotta contro la irratio implica oggi il riconoscimento della distinzione tra Weltanschauung, [visione del mondo], e filosofia. La filosofia delle scuole - scriveva Goethe in Poesia e Verità - offrendo ordinatamente risposte a tutte le domande, non risponde a nessuna domanda vera, e disgusta gli intelletti più svegli. (Non molto diversa, salvo nel tono, è la distinzione di Kant tra “nozione scolastica” e “nozione cosmica” di filosofia.) Alle “domande vere”, cioè necessariamente nuove, la filosofia risponde producendo nuova filosofia - nuove verità filosofiche. (Come avvenne per esempio quando Spinoza, ponendo la questione ontologica di come potesse pensarsi un ente infinito necessariamente verace, si lasciò alle spalle il dio di Cartesio, definì la sostanza nel modo celeberrimo - e meritò, come vediam meglio tre secoli dopo, l’epiteto allora infamante di “ateo perfetto”). In altre parole: la “ideologia” pessima della “morte delle ideologie” non si può controbattere mostrando la substitutionem terminorum, la sofistica che essa contiene. 

Occorre prendere atto della vasta opera di abbrutimento di massa in corso da decenni, sapere che la maggioranza dei giovani e giovanissimi ignora affatto che cosa sia “ideologia”, “cittadinanza politica, sociale, culturale, ecc.” - e che dunque se la “filosofia della prassi” del secolo XXI saprà adeguarsi al suo concetto (quello appunto che ne ebbero Gramsci e Labriola) le vie della sua diffusione non potranno essere che quelle di una sua futura diffusività, ora soltanto possibile - di una nuova presa di coscienza, in ogni individuo, della possibile libertà, del possibile autogoverno razionale degli uomini e della loro Terra, e della tirannide che questo vuole bloccare e soffocare. Queste vie - mi sembra - un poco si delineano, in settori di ricerca economici, giuridici, filosofici, in campi delle scienze “naturali”, come la biologia, che non possono più sottrarsi al confronto con la loro stessa dimensione umana e sociale. E altrove, nelle scienze e nelle arti. Talvolta anche in atti politici, come quello del novembre 2002 a Firenze. Se queste vie, una volta percorse e intrecciate, prenderanno nome e terminologia “marxista”, non so, e non mi pare molto rilevante. L’essenziale - mi pare - è fare il lavoro, portare avanti a tutti i livelli, dal più alto teoricamente a quello quotidiano e “popolare”, l’opera della ragione, della libertà, della vita divenuta umanamente possibile, contro la tirannide e lo sterminio. Questo potrà essere il “fare”, nel XXI secolo, che seguirà al “marxismo” e ai “marxismi” storicamente esistiti, li continuerà, supererà - e si lascerà alle spalle la “crisi del marxismo”. 
Note
[1] Alcune parti di questo articolo compaiono anche, sotto il titolo. Che cosa significa “crisi del marxismo”? nella rivista “La Contraddizione”, 99 (2003).
[2] Cfr. in “Proteo” 1/03, e in questa stessa rubrica, Classe lavoratrice, sindacato, storia del movimento operaio, p. 66-69.
[3] Anche se, naturalmente, si può leggere di class consciousness, class struggle e simili. Ma suona insolito. Indice di pensiero “Un-American”, diceva il senatore McCarthy, e si dice di nuovo. E si è potuto dire che queste espressioni sono “straniere”...
[4] “Popolo” in questo senso entra nell’uso anche da noi all’epoca della Rivoluzione Francese. Cfr. p. es. un bel canto della Repubblica Partenopea del 1799: “...Già nato uguale e libero / ma suddito alla legge / è il popolo che regge / sovrano ei sol sarà.” - Prima, questa accezione di “popolo” era dei dotti, letterati e filosofi. - Ovviamente, anche in Inghilterra il consenso linguistico non è totale, e la TUC ha pubblicato, ancora non molti anni fa, una History of the English Working Class. Del resto, scrivendo in inglese colto (non quello del ridicolo diplomino affibbiato, volentieri a caro prezzo, ai nostri studenti), è perfettamente possibile render chiaro se si sta parlando di “storia del popolo inglese”, delle sue lotte democratiche ecc., o di “english people” nel senso banale, o in quello, che il senso banale non esclude, dell’appartenenza etnico-razzistica (cfr. oggi, da noi, l’espressione “ lumbard”...)
[5] Cfr. gli studi di Chritopher HILL, W. H. CALDWELL, E. WILSON e altri più recenti.
[6] Ce ne era stata una, alle origini del PCI, nei Quaderni del carcere dintonio Gramsci. Si disse (ma invano) in quegli anni, che il solo modo di rifarsi degnamente a Gramsci era rifare la sua puntigliosa, minuziosasplendida analisi di tutti gli aspetti dell società italiana - 50 anni dopo.
[7] I meno giovani ricorderanno come in quegli anni i tavoli delle librerie di mezza Europa cambiarono faccia da un trimestre all’altro, mentre avanzava la monopolizzazione e finanziarizzione dell’editoria - per non parlare dei “mezzi di comunicazione di massa”. E per non parlare, naturalmente, del “fascino discreto della borghesia”, che si esercita col potere economico in tutte le sue forme...
[8] Solo va accennato che la Ontologia proposta da Lukàcs offre tra l’altro una concezione di grande portata della unità di scienza e filosofia nel riferimento di entrambe a un tertium, la prassi effettiva degli uomini. La prassi effettiva lukàcsiana ha un analogon nei pensieri obiettivi della Scienza della logica di Hegel, cioè pensieri effettivamente prodotti e praticati dagli uomini associati, e quindi storici.
[9] Per quanto tragica e spaventosa, neppure la repressione staliniana può esser presa, storicamente, come “causa prima”!
[10] Per chi non sia schiavo di pregiudizi corporativi è evidente che le egemonie di classe sono a monte delle attività di gruppi intellettuali, e non viceversa: esse possono, sussidiariamente, passare anche attraverso queste attività. Per fare un esempio: il consenso di massa a trasferire il 30% (o più) del reddito aggregato delle famiglie a proprietà immobiliare, banche ecc., in affitti, mutui fondiari ecc., è stato determinato primariamente, in tempi lunghi, da scelte di classe sul modo di costruire le città, il sistema dei trasporti ecc.: laforma mentis del “casa mia casa mia, per piccina che tu sia” e simili può, secondariamente, esser stata cantata e decantata da letterati, canzonieri, favolisti, illustratori.
[11] V. ora anche lo studio di Fabio FROSINI, Gramsci e la filosofia. Saggio sui Quaderni del carcere. Carocci, Roma 2003.
[i] Pensare concettualmente non certo escogitare, o immaginare. Questo, si dirà, è “solo” compito specificamente filosofico. Infatti. Per converso, gli effettivi filosofi della irratio, come Nietzsche, non fanno (solo) polemiche contro la democrazia e il socialismo, ma argomentano che essi sono impensabili. Si intende poi da sé che la confutazione di queste filosofie (la elaborazione delle “armi più raffinate e decisive” in sede di lotta egemonica, secondo Gramsci) può essere premessa alla costruzione culturale- politica di un “senso comune” democratico, ecc.
Di nuovo per converso: è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere l’opera sistematica di distruzione di un senso comune democratico, e delle corrispondenti forme di cultura e di vita soggettiva, condotta dalla controparte ormai da decenni, con grande ricchezza e varietà di mezzi. 
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