◆ Nella "Storia del marxismo" recentemente
uscita a cura di Stefano Petrucciani si ripresenta la possibilità di
riesaminare la storia del marxismo alla luce del sistema di relazioni che
sorregge le sue diverse forme. Entro questo contesto sono almeno due i problemi
che vanno posti: quello del rapporto fra riforme e rivoluzione e quello del
nesso fra filosofia e marxismo
Paolo Favilli | I tre agili volumetti che compongono questa Storia
del marxismo, pur inserendosi in una tradizione consolidata e di lungo periodo
concernente i modi di fare storia dell’«oggetto» in questione, presentano
interessanti spunti di originalità nel panorama complessivo della produzione
storica frutto del clima della Marx Renaissance. Ho usato l’espressione produzione
storica, ma, come vedremo proseguendo nel discorso, il termine storia, proprio
nell’ambito della tradizione cui ho fatto sopra riferimento, necessita di
essere meglio precisato. Qual è, però, il peso della dimensione storica nel
contesto di quella riflessione generale su Marx ed il marxismo che è stata
chiamata Marx Renaissance?
1) La Marx Renaissance è, indubbiamente, un fenomeno
di estrema importanza che oggi ha travalicato anche l’ambito degli studi per
diventare, ad esempio, elemento centrale di una delle più importanti
manifestazioni artistiche mondiali: la Biennale di Venezia del 2015. Il
«cardine» del programma è stato «l'imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das
Kapital di Karl Marx. «Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi»,
ha detto il curatore della mostra veneziana[1].
La sfera degli studi, la sfera dell’arte, la sfera dell’alta cultura in genere,
però, appare separata dai processi di mutamento che interessano lo stato di
cose presente.
Il fenomeno della Marx Renaissance comincia a
delinearsi pochissimo tempo dopo la proclamata morte del pensatore di Treviri,
non casualmente in concomitanza con i primi sinistri scricchiolii delle crisi
finanziar-recessive degli anni Novanta. Un fenomeno che poi è cresciuto in
maniera esponenziale a partire dagli inizi della «grande crisi» in cui siamo
tuttora immersi. Le ragioni sono evidenti: l’impossibilità del pensiero
economico mainstream, ormai quasi del tutto coincidente con l’«economia
volgare», a spiegare le logiche profonde dei modi in cui si manifestano gli
squilibri dell’«economia mondo», cioè del capitalismo mondo. Porsi le domande
giuste e tentare qualche risposta di fronte all’attuale fase di accumulazione
capitalistica, comporta la necessità di pensare il capitalismo come problema.
È possibile farlo senza Marx?
Con tutta evidenza non lo è. Di qui la ripresa di una
ricchissima pubblicistica, in gran parte scientifica, su Marx e il marxismo,
quasi una nuova biblioteca che si aggiunge a quella vera e propria biblioteca
di Alessandria (fortunatamente non scomparsa) che ha raccolto nel tempo gli
infiniti contributi dedicati a problematiche marxiane e marxiste.
Il contributo italiano alla costruzione di questa nuova
biblioteca è stato ed è tutt’altro che marginale. Studiosi di economia, di
filosofia, di sociologia hanno prodotto una letteratura di alto livello. I
testi fondamentali di Marx sono stati sottoposti a nuove ed accurate indagini
filologiche. In particolare Il Capitale è stato oggetto di una
recente ed importante edizione comprendente tutti i testi scritti da Marx con
l’intenzione esplicita della realizzazione del I libro[2].
Il volume comprende anche tutte le principali varianti delle edizioni
precedenti alla IV edizione tedesca, e permette, così, di entrare direttamente
nel laboratorio marxiano. Un preliminare «lavoro filologico minuto e condotto
col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica»[3],
per dirla con Antonio Gramsci. Filologia messa al servizio dell’interpretazione
critica della teoria[4].
Della teoria, appunto. Gli studiosi di storia, fino a questo momento, sono
rimasti ai margini dei filoni centrali della Marx Renaissance; nel
migliore dei casi ne hanno accompagnata la logica dominante.
L’amplissimo panorama di studi che la Marx Renaissance ha
prodotto è stato recepito dagli storici soprattutto per lavori relativi a nuove
interpretazioni di storia del pensiero, di storia dell’analisi, di storia delle
idee in genere.
In Italia la storia della teoria ha una lunga tradizione di
grande interesse. Il fatto che il contributo italiano al dibattito teorico sul
marxismo sia stato di estrema rilevanza sia alla fine dell’Ottocento (Antonio
Labriola), sia nel Novecento (Antonio Gramsci), non poteva non avere influenza
su tutta una tradizione di studi. Inoltre sempre italiani erano gli
interlocutori/avversari tanto sull’«economia pura» (Vilfredo Pareto) che sui
«concetti puri» (Benedetto Croce), e si trattava di italiani che
rappresentavano le punte alte internazionali vuoi della teoria economica che
della filosofia idealistica.
Una tradizione che ha avuto ed ha importanti risultati
conoscitivi. Nei «trenta gloriosi» seguiti al secondo dopoguerra si sono
esplorati con varia fortuna i sentieri della storia sociale della cultura
marxista. Questa impostazione storiografica non si è sostituita alla prima, vi
si è affiancata e, nonostante alcune frizioni, l’insieme di rimandi tra le due
dimensioni storiografiche ha rappresentato un indubbio arricchimento di quella
cultura.
Dopo «fine del marxismo» e «fine della storia», diventata
assai problematica la connessione con il «movimento reale», la storia della
teoria ha ripreso nuovo vigore, ma con riferimenti del tutto esterni rispetto
alle forme marxismo nel loro rapporto con le forme assunte dall’antitesi
dei subalterni, tanto nella loro storia quanto nelle loro prospettive. D’altra
parte la storia del marxismo si concretizza proprio nel sistema di
relazioni tra le sue forme, le quali si presentano, a loro volta, come incroci,
risultanti di percorsi molteplici
È possibile che lo scavo in atto nei materiali teorici
marxiani sia propedeutico anche ad una storia rinnovata, ad una nuova sintesi,
ma per ora le opere di carattere generale che sono uscite nel periodo della Marx
Renaissance hanno riproposto il modello della storia delle teorie.
Allo stato attuale degli studi di storia del marxismo era
impossibile pensare una storia di carattere generale, una storia addirittura
globale, in grado di seguire la molteplicità delle forme marxismo al
di fuori della forma marxismo teorico.
Come ha opportunamente ricordato Giorgio Cesarale, uno degli
autori dell’opera in questione, «il
marxismo (…) se ha un valore conoscitivo è perché riposa su un complesso di forme (da
quelle storiche e politiche a quelle più legate alla critica dell’economia
politica)» [5].
E, seppure attraverso una declinazione sostanzialmente interna al marxismo
teorico, i lineamenti dei volumi si snodano e si articolano secondo tale
pluralità.
Gli ideatori dell’opera, il curatore, Stefano Petrucciani,
sono perfettamente coscienti delle difficoltà insuperabili, anche rimanendo
nell’ambito della solaforma marxismo teorico, per costruire una narrazione
generale con tendenze sistematiche relativamente ad un oggetto definibile solo
tramite storicamente determinati. Petrucciani nella Premessa parla
esplicitamente della costruzione di una «mappa», e nel saggio introduttivo
afferma «che una storia del marxismo non possa essere che selettiva e dunque
per molti versi anche arbitraria»[6].
È quindi del tutto ovvio che la mappa in questione sia esile e che i suoi
lineamenti si dipanino attraverso uno spazio talmente ampio da rendere
impraticabile la possibilità di percorrere tutto il territorio. Sarebbe, però
un’esercitazione non solo inutile, ma anche fuorviante, esercitarsi nella
ricerca degli spazi non percorsi dalla «mappa» tracciata. Un’opera non va
giudicata per quello che non c’è. Ed inoltre la ricerca delle «assenze» avrebbe
il medesimo carattere «arbitrario» che Petrucciani ha indicato per la scelta
delle «presenze». Un’opera va giudicata per quello che c’è, e in questa Storia
del marxismo c’è molto, e di sostanza.
2) Tra le molte «forme» marxismo quella di «marxismo teorico»
parrebbe avere una solida struttura di riferimento, e quindi caratteristiche di
denotazione attraverso parametri certi. Dal punto di vista dell’analisi
storica, invece, i parametri di definizione dell’oggetto di studio in questione
non si delineano con nettezza. I loro confini sono sfumati sia in profondità
che in ampiezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a livelli diversi di «marxismo
teorico». Diversi per capacità euristica, diversi per la scelta del punto
ritenuto essenziale allo svolgimento della teoria, diversi infine per gli
effetti su processi culturali di lunga durata.
Proprio la molteplicità dei modi in cui si manifesta la
permeabilità dei confini del «marxismo teorico», implica l’impossibilità, in
una storia, di ignorare nel contesto delle connessioni con il «marxismo
politico». Il marxismo politico, infatti, dal punto di vista dell’analisi
storica, e non solo, non è separabile dalle altre forme. Con queste, nel
corso della sua storia, ha costituito un sistema di relazioni attraverso cui si
è resa possibile l’amplissima diffusione di aspetti fondamentali delle forme stesse.
Per più di un secolo partiti politici e poi persino Stati hanno posto il
«marxismo» come elemento centrale della propria denotazione ed anche delle
molteplici connotazioni, e dunque abbiamo necessariamente a che fare con
dimensioni teoriche «impure».
Alcuni dei contributi dell’opera in questione hanno indagato
accuratamente nel terreno della suddetta permeabilità, con risultati di
notevole interesse. È il caso, ad esempio, dell’articolato itinerario di
Nicolao Merker nell’universo del marxismo di lingua tedesca, dalla Spd
all’austromarxismo, e di Guido Carpi nella centralità politica del marxismo
russo e poi sovietico.
Merker sottolinea il ruolo fondamentale delle leggi antisocialiste
di Bismarck nella formazione dei caratteri originari del marxismo. «Esibire
dottrine ispirate a Marx – afferma – diventò importante per motivi anzitutto
politici»[7].
Senza la pesante concretezza di questa contingenza storica la «cerniera che
segna il passaggio da Marx al marxismo», la «cerniera»[8] engelsiana,
avrebbe avuto maggiore difficoltà a chiudersi sull’orizzonte di una «filosofia
per il socialismo».
Ed ancora, a proposito della permeabilità dei confini di cui
si è detto, Merker cita Bruno Bauer che in un articolo politico del
1924 discute una tesi di fondo dellaMeccanica nel suo sviluppo storico (1883)
di Ernst Mach[9].
E la discute, appunto, non in uno scritto di teoria della conoscenza, ma in un
intervento sul terreno molto caldo dei tempi delle trasformazioni storiche, dei
tempi delle rivoluzioni e della lentezza dei ritmi di trasformazione. E in
tempi in cui il movimento operaio austriaco ed europeo su tali temi si sta
dilaniando, e non solo metaforicamente.
Il marxismo russo è, con tutta evidenza, il luogo in cui
l’intreccio tra marxismo teorico e marxismo politico finirà per assumere forme
che incideranno profondamente nella vicenda dei socialismi novecenteschi.
Merito del ricco ed analitico saggio di Guido Carpi è di avere tenuti ben
stretti i lineamenti della particolare storia russa dell’Ottocento nel loro rapporto
tanto con il marxismo precedente la rivoluzione d’ottobre che con quello
seguente. Pur senza alcuna tentazione deterministica, Carpi coglie il peso di
una storia profonda e di lunga durata nell’ambito di un complesso sistema di
relazioni con i fenomeni legati a esigui gruppi di intelligencija. Anche
il partito socialdemocratico russo (POSDR), prima della Grande guerra è partito
di intelligencija. E sarà soprattutto dopo la guerra e la rivoluzione che
la storia russa profonda, con protagonista il contadino-soldato, entrerà in
collisione con la dimensione critica del marxismo. La belle pagine che Carpi
dedica alla tensione tra quella vera e propria esplosione di sperimentazione
artistica, culturale in genere, degli anni Venti e il prevalere del marxismo della
ragione politica, sono, a questo proposito, di grande interesse.
Il grande scrittore sovietico Vasilij Grossman immagina una
situazione in cui, nel 1943, un fisico teorico di grande rilevanza e famoso in
tutto il mondo scientifico anche al di fuori della Russia, viene messo sotto
accusa in quanto le sue teorie «contraddicevano le idee leniniste sulla natura
della materia»[10].
Una situazione tutt’altro che immaginaria ed isolata nel marxismo di Stalin. In
quella del Diamat (materialismo dialettico) dello «stalinismo maturo»
– che, dice Carpi, «funziona e vuole funzionare come generatore e fondamento di
una mitologia universale assoluta». Ed aggiunge: «Lungi dal rappresentare una
mera deformazione del marxismo in senso platealmente deterministico – come
vuole Lukács o, al contrario in senso pragmatico (come vuole Marcuse), il
“materialismo dialettico” staliniano trapassa – qui davvero dialetticamente! –
in arte divinatoria, demiurgica e polemologica: il nostro oggetto di studio si
è così “tolto” (aufgehoben) in qualche cosa di altro da sé»[11].
Credo che sia una conclusione consolatoria. Anche questa era
una formamarxismo, uno specifico e particolare storicamente determinato.
3) Nei primi due volumi di quest’opera l’intreccio tra
dimensione teorica e sua articolazione con lo svolgimento dei lineamenti
politici si manifesta, e non poteva essere altrimenti, attraverso un fittissimo
insieme di problemi. Mi soffermerò, brevemente, solo su un paio di temi che mi
sembra abbiano a vedere in maniera particolare con questioni di fondo relative
a tale intreccio:
a) l’ «antiriformismo» di Marx, b) filosofia/non filosofia in Marx e nel marxismo.
a) Secondo Stefano Petrucciani «non c’è dubbio sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria di Marx»[12]. Un’affermazione che, a mio parere, ha bisogno di essere meglio precisata, e, quindi, inserita in un contesto di «distinzioni», per usare un’espressione di Delio Cantimori.
Soprattutto la distinzione tra le categorie analitiche del Capitale e
le posizioni politiche di Marx, in particolare nel momento in cui la Spd
tendeva ad assumere una identità «marxista».
Sul piano del miglioramento delle condizioni di lavoro degli
operai, ad esempio, la teoria del salario veniva legata da una parte a quella
del valore, dall’altra a quella dell’accumulazione, tramite la definizione dei
meccanismi d’azione del saggio di plusvalore e del saggio del profitto. Perciò,
per quanto concerneva le categorie strettamente analitiche, la grandezza del
salario, lungi dall’essere legata ai minimi di sopravvivenza (e del resto Marx
insisteva particolarmente sul carattere storico, non statico, di questi
minimi), non trova limiti se non nell’insorgenza di gravi pericoli per la
continuazione del processo di valorizzazione del capitale. Le variazioni del
saggio del profitto tra un limite minimo ed uno massimo potevano essere assai
ampie. «È chiaro – affermava Marx – che tra questi due limiti del saggio
massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La
determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta
incessante tra capitale e lavoro»[13].
Ed è altrettanto chiaro che tra questi due limiti, nella tensione verso il
limite superiore, sta tutta la storia del riformismo. Centocinquant’anni di
storia economica e sociale dalla I edizione del Capitale, hanno
dimostrato, ad abundantiam, la dinamica di quelle oscillazioni anche in
relazione al fattore «movimento operaio».
Naturalmente non era certo questo l’orizzonte verso cui
verso cui tendeva il «rivoluzionario» Marx, ma le sue principali categorie di
analisi economica non possono esser considerate negatrici di percorsi
gradualistici e quindi riformatori.
Per quanto riguarda, invece, la posizione politica espressa
nella «importante lettera “antiriformista”»[14] del
1879, il contesto in cui si pone è, certamente, quello della «assoluta
opposizione», cioè il contesto in cui, in seguito alle leggi antisocialista di
Bismarck, l’ambiente socialista tedesco si trovò ad essere sottoposto a
violente oscillazioni. La ricordata lettera-circolare del 1879 non è altro che
una reazione nei confronti dell’oscillazione più radicale: dalla «lotta di
classe» alla «filantropia». Nell’estate di quell’anno era uscita a Zurigo
nell’appena fondato «Jahrbuch für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», un
articolo dal titolo Sguardi retrospettivi sul movimento socialista in
Germania. Ne erano autori Höchberg, Schramm e Bernstein che però aveva aggiunto
solo alcune righe secondarie. Questa una delle frasi chiave dell’articolo: « …
i tedeschi hanno commesso un errore trasformando il movimento socialista in un
puro movimento operaio e attirandosi da sé, provocando inutilmente la
borghesia. Il movimento dovrebbe essere portato sotto la direzione degli
elementi borghesi e colti…».
In una lettera a Becker (8 settembre) Engels chiarirà il
senso della circolare «antiriformista»: «Sarà ben presto tempo di farsi avanti
contro i grandi e piccoli borghesi filantropici (…) che vogliono annacquare la
lotta di classe del proletariato contro i suoi oppressori [trasformandola] in
un istituto generale per la fratellanza umana, e questo nel momento in cui i
borghesi, con i quali vogliono affratellarci, ci hanno dichiarato fuori legge, hanno
distrutto la nostra stampa, disperso le nostre assemblee e ci hanno consegnati
all’arbitrio poliziesco sans phrase. Difficilmente i lavoratori tedeschi
parteciperanno a questo tipo di menzogna». Battaglia per l’autonomia politica e
teorica del socialismo, dunque, esattamente la stessa operazione che più di un
decennio dopo vedrà, in Italia, protagonista Filippo Turati contro tutti gli
«affinismi».
b) «Quando si parla del rapporto tra “filosofia” e “marxismo” si viene nominando un oggetto non chiaramente intellegibile», in questi termini, del tutto condivisibili, Giorgio Cesarale imposta uno dei problemi che ha attraversato, ed attraversa, tutto il lungo percorso del «marxismo teorico».
Cesarale è ben cosciente della difficoltà (impossibilità?)
di definire il sapere filosofico. Penso che potrebbe concordare con
quest’affermazione di uno storico come Krzysztof Pomian: «La specificità della
filosofia consiste proprio in questo, che essa non può realizzarsi se non in
una pluralità di filosofie tra loro in conflitto». E gran parte di questi
conflitti sono relativi al rapporto tra sapere filosofico e saperi particolari[15].
La questione del rapporto filosofia-Marx, filosofia-marxismo è del tutta
interna a questo tipo di problema, la cui consapevolezza impronta di sé tutto
il saggio di Cesarale.
«Karl Marx fu un filosofo tedesco»[16] afferma
con decisione Kolakowski, e su questa base legge le categorie economiche
marxiane come sostanziale frutto di una «antropologia filosofica»[17] e
ribadisce che il Capitale «va compreso come opera filosofica»[18].
Ed, appunto, cercare una risposta alla questione della natura del sapere di Das
Kapital, significa entrare nel nucleo centrale dell’operazione tanto
metodologica che epistemologica del Marx maturo.
Marx è stato certamente anche un «filosofo
tedesco» e alcuni dei problemi filosofici centrali del periodo giovanile, non
sono certo scomparsi, nella maturità, dall’orizzonte della sua riflessione. Ma
è altrettanto significativo che una volta giunto alla economia politica egli
«studiò per vent’anni questa scienza (…) con un interesse assolutamente
prevalente rispetto agli altri rami del sapere»[19].
Il Marx analitico della maturità è un economista politico. Il
problema riguarda piuttosto la peculiarità della sua critica dell’economia
politica.
Com’è noto Schumpeter insiste sulla natura «chimica» della
fusione nel Capitaledi sociologia, storia, economia. Diverso il caso della
filosofia che, sempre secondo Schumpeter, al massimo avrebbe influenzato la
«visione» di Marx, l’«atto conoscitivo preanalitico», mentre si potrebbe
dimostrare che «ogni sua proposizione, economica e sociologica, come pure la
sua visione del processo capitalistico in generale, o possono riportarsi a
fonti non filosofiche (...) oppure considerarsi come risultato di una propria
analisi rigorosamente empirica»[20].
Un’osservazione pregnante, sebbene non immune da quel fastidio nei confronti
della filosofia, apportatrice di impurità nei paradigmi scientifici, tipico di
una lunga tradizione di economisti per i quali nel migliore dei casi la
filosofia doveva considerarsi nettamente separata dalla loro disciplina, nel
peggiore considerarsi il luogo di complicate fanfaluche verbali.
In realtà la filosofia, nell’argomentazione del Capitale, ha
un ruolo più rilevante di quello che Schumpeter le ha assegnato, senza che per
questo l’analisi economica perda la sua specificità, e le categorie economiche
appaiano come meri involucri di categorie filosofiche, così come Kolakowski le
ha interpretate. La scelta del curatore della Storia del marxismo di
affidare a Riccardo Bellofiore[21],
uno degli economisti che con maggiore rigore e penetrazione ha indagato il
rapporto filosofia/economia nel Capitale, il capitolo dedicato all’analisi il
luogo sostanziale del problema (la teoria del valore), è stata, senza dubbio,
lungimirante.
Cesarale, sulla questione, cita Balibar: «quella marxiana è
piuttosto tanto un’antifilosofia (…) quanto una sorta si Überwindung, di
oltrepassamento, della filosofia, una posizione teorica che nel suo costituirsi
utilizza la filosofia, ma non la invera, non la eleva ad un grado superiore di
sviluppo». Sempre dallo stesso libro cui si riferisce Cesarale si potrebbe
citare anche questa tesi che l’autore definisce «un po’ paradossale»: «Non c’è
e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro l’importanza di Marx per
la filosofia è più grande che mai ( il corsivo è di Balibar)»[22].
Alla fine del XIX secolo un filosofo italiano, Antonio
Labriola, proprio tramite studi economici, passa dalla «filosofia astratta»[23],
alla convinzione che «lafilosofia come un tutto a sé [sia] destinata a
sparire»[24] (il
corsivo è mio). Un lungo e intenso viaggio all’interno dell’economia politica
durante il quale la sua concezione di filosofia si modifica radicalmente. Alla
luce di quel viaggio, che poi fa tutt’uno con la sua adesione al marxismo,
arriverà a questa conclusione: «Noi ora sappiamo che cosa la filosofia sia
stata, che cosa non debba più essere, e in quali modesti confini d’ora innanzi
si debba restringere»[25].
Per Labriola, in polemica con Croce proprio sulla concezione della filosofia, la scienza
dei «concetti puri» si manifesta come sapere regressivo, rispetto ad un
metodo, quello marxiano, che si oppone, da un lato all’assolutizzazione della
scienza, sottoponendola ad una “critica” (nel Capitale, ad una “critica
dell’economia politica” come scienza); dall’altro si oppone alla
assolutizzazione della filosofia, rinviandola per i suoi contenuti a riflettere
sulle scienze e sull’esperienza comune
Si è di fronte, direi, ad un modo d’intendere il lavoro
teorico diverso dallatheoria (non è un bisticcio di parole) nelle sue
implicazioni procedurali,conoscitive e pratiche, un modo che
costituisce la risposta non alla classica (e infruttuosa) domanda ‘che cosa è
la filosofia?’, ma alla domanda cruciale ‘come fare filosofia in mondo che cambia?’:
per conoscerlo e per trasformarlo.
Note
[1] «La Stampa», 3 marzo 2015.
[2] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia
politica, Napoli, La città del sole, 2011. (Marx Engels Opere Complete,
XXXI).
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione
critica, Torino, Einaudi, 1975, p. 420.
[4] R. Fineschi, Un nuovo Marx. Filologia e
interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci,
2008.
[5] G. Cesarale, Filosofia e marxismo tra Seconda a
Terza Internazionale, inStoria del marxismo, vol. 1, pp. 169-228. La cit.
p. 225.
[6]S. Petrucciani, Premessa, e Da Marx al
marxismo attraverso Engels, in Storia del Marxismo, cit,, pp. 9 e 12.
[7]N. Merker, Ortodossia e revisionismo nella
socialdemocrazia, ivi, pp. 33-72. La cit. p. 33.
[8] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo, attraverso
Engels, ivi, pp. 11-32. La cit. p. 24.
[9] N. Merker, L’austromarxismo e i marxismi eterodossi,
ivi, pp. 147-168. Il riferimento p. 150.
[10] V. Grosssman, Vita e destino, Milano,
Adelphi, 2008, p. 542.
[11] G. Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a
Stalin, in Storia del marxismo, cit, pp. 101-145. La cit. p. 141
[12]S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso
Engels, cit., p. 18.
[13]K. Marx, Salario, prezzo, profitto, MEOC, vol. XX,
p. 147. Il corsivo è mio.
[14] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso
Engels, cit., p. 18.
[15] K. Pomian, Filosofia/filosofie, in «Enciclopedia»,
vol. VI, Torino, Einaudi, 1981, pp. 153-207. La cit. p. 155.
[16] L. Kolakowski, Nascita, sviluppo, dissoluzione del
marxismo, vol. I, I fondatori, Milano, SugarCo, 1980, p. 11.
[17]Ivi, p. 349.
[18]Ivi, p. 279.
[19] Intervento di B. Jossa in Marx e i
marxismi cent’anni dopo, a cura di G. Cacciatore e F. Lomonaco, Napoli,
Guida, 1987, p. 423.
[20]J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino,
Einaudi,1959, vol I, p. 52, vol. II, p. 506.
[21] R. Bellofiore, Capitale, teoria del valore e teoria
della crisi, in Storia del marxismo, cit., vol. III, pp. 11-50
[22] E. Balibar, La filosofia di Marx, Roma,
Manifestolibri, 1994, p. 7.
[23] Lettera a Friedrich Engels del 3 aprile 1890, A.
Labriola, Carteggio, III, (1890-1895), a cura di S. Miccolis, Napoli,
Bibliopolis, 2003.
[24] Lettera a Friedrich Engels del 13 giugno 1894, ivi.
[25] Ivi.
Paolo Favilli, già
professore di Storia contemporanea e Teoria della conoscenza storica
all’Università di Genova, già direttore del Dipartimento di Studi Umanistici di
quell’Università, è studioso delle culture del socialismo. Alla storia del
marxismo ha dedicato, oltre numerosi saggi, anche alcuni volumi: Il
socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902), Napoli,
1980, Herausgabe un Verbreitung der Werke von Karl Marx und Friedrich Engels in
Italien, Trier, 1988, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla
grande guerra, Milano, 1996; Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione
storiografica in Italia, Milano, 2006. Sono in corso di pubblicazione: Il
marxismo e le sue storie, Milano, 2016 e The History of Italian Marxism.
Leiden/Boston, 2016, traduzione inglese del libro del 1996.
http://ilrasoiodioccam-micromega.it/ |