Karl Marx ✆ Matson - The N.Y. Observer |
Irene Viparelli |
Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla teoria
marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un evento
determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo problema
sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza politica,
compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il mutamento del
contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta Europa, la
repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero un’importanza
decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica, un radicale
mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.
«Nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale. Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente»2.
L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche,
centrale nel Manifesto, sembra ormai,
dopo la rivoluzione, avere ben poco di strategico; il vero compito dei
comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta proprio contro queste alleanze
ibridatrici che, lasciando evaporare le differenze di classe, dissolvono
l’autonomia del proletariato e ne distruggono la coscienza e la forza
rivoluzionaria.
«Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»3.
Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il
grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu
il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a
criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a
Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega
dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica
fondamentale. L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione
impose infatti una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che
dovette essa stessa liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi
residui di “filosofia della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora
inibivano la formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente
coerente. Marx non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai tematizzato una
differente teoria politica; eppure le vicende del biennio rivoluzionario
europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo, gli imposero
necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non “filosofiche”, che
superarono di fatto la semplicità dell’antico modello teorico lineare4: dopo il
Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non poté più fondarsi
semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni società umana,
destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze produttive e
rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità peculiare con
cui questa “legge generale" si realizza nel modo di produzione
capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si sviluppa la
contraddizione di lavoro salariato e capitale.
Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a
tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una
teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza
del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il
regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia
dell’umanità5.
Linearità e ciclicità.
Nell’Ideologia tedesca Marx aveva definito la propria
concezione della storia proprio in opposizione ad ogni concezione filosofica,
ideologica:
«Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possono ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca»6.
Le teoria marxiana, al contrario delle filosofie della
storia, si fonda su un uso cosciente delle concettualizzazioni e
generalizzazioni teoriche: gli universali, riconosciuti come il prodotto
dell’astrazione dalle differenze peculiari degli oggetti determinati, non
possono più essere considerati il fine ultimo della conoscenza, ma assolvono
piuttosto un compito “pratico” derivato dalla loro peculiare capacità
sintetica: servono a definire i tratti comuni della storia umana. Per Marx
quindi l’astrazione, per sé priva di valore, diventa strumentale alla ricerca
scientifica, che è invece sempre riferita ad un oggetto specifico ed è sempre
finalizzata a definirne le sue caratteristiche peculiari, la sua irriducibilità
alla dimensione generica e astratta, la sua “differentia specifica”7.
Tale prospettiva metodologica fonda due dimensioni
differenti della temporalità e determina la loro relazione reciproca. La
“temporalità lineare” è la condizione trascendentale della storia stessa,
conseguenza delle caratteristiche essenziali dell’uomo: la sua specifica
modalità di rapportarsi alla natura duplica il significato e il valore
dell’elemento “naturale”, che, in ogni epoca, diventa allo stesso tempo
l’espressione del lavoro umano delle epoche passate, che dev’essere conservato,
e il presupposto per lo sviluppo ulteriore delle forze produttive umane, che
dev’essere quindi sempre ulteriormente trasformato8.
Il movimento storico, determinato dallo scontro necessario
tra queste due dimensioni, la conservativa e la dinamica, si configura come un
processo che procede dal semplice al complesso, dalle varie storie particolari
verso l’affermazione della storia universale. La rivoluzione, in ogni epoca, è
lo strumento per distruggere i vecchi rapporti di produzione e per fondare una nuova
“natura”, una diversa oggettività che, adeguata alle forze produttive ormai
sviluppate, realizza una nuova, effimera armonia tra l’elemento conservatore e
quello rivoluzionario.
La temporalità “filosofica” e lineare, che ha la sua
sintetica definizione nel postulato marxiano secondo il quale «le circostanze
fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze»9, è
quindi il risultato dell’astrazione dalle caratteristiche determinate di ogni
epoca, funzionale alla definizione dei caratteri generali, comuni a tutte le
epoche e quindi anche a quella che è l’ oggetto specifico della ricerca
marxiana, il modo di produzione capitalistico. La sua vera conoscenza però
presuppone il superamento di questo terreno delle “astratte analogie” e l’individuazione
della sua logica specifica10.
La “temporalità ciclica”, in quanto descrive e definisce ciò
che distingue la società capitalista da ogni altra società umana, è il
risultato del passaggio a questo nuovo piano d’analisi.
«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali»11.
In opposizione alle altre classi dominanti della storia, che
incarnavano la dimensione conservativa e statica dei rapporti di produzione
costituiti, la borghesia interiorizza l’elemento rivoluzionario dell’indefinito
sviluppo delle forze produttive come sua essenza peculiare. Le “circostanze
oggettive” conseguentemente, nel modo di produzione capitalistico, perdono la
loro fisionomia tradizionalmente statica ed appaiono esse stesse come elementi
dinamici, in continua trasformazione, infinitamente rivoluzionatesi attraverso
i successivi cicli economici.
«E’ questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a intensificare le forze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate; la legge che non gli concede tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti! Questa legge non è altro che la legge la quale, entro le oscillazioni dei cicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi di produzione. […] Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura in cui si può produrre più a buon mercato, cioè nella misura in cui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più a buon mercato, la fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una legge inesorabile. In tal modo con i suoi propri sforzi il capitalista non avrebbe guadagnato nient’altro che condizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale»12.
L’indefinito incremento delle forze produttive è il
risultato necessario delle leggi coercitive del capitale, che da un lato
impongono alla produzione di svilupparsi indefinitamente, al di là dei bisogni,
indipendentemente dalle esigenze della domanda, e dall’altro mantengono lo
scambio individuale quale forma di socializzazione della produzione privata, il
mercato come luogo in cui si deve realizzare la produzione. La specificità del
modo di produzione capitalistico è così, al tempo stesso, l’espressione del suo
strutturale disequilibrio, del suo carattere intrinsecamente contraddittorio:
la produzione si trova ciclicamente di fronte ad un mercato troppo limitato,
ormai saturo, incapace di fagocitare l’enorme quantità di merci prodotte13.
È il momento della crisi economica.
«Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. […] Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi»14.
La “temporalità ciclica”, cogliendo la peculiare dinamica
attraverso la quale si realizza la “legge generale della storia” nel modo di
produzione capitalistico, mette in luce le sue qualità determinate, i suoi
elementi di irriducibilità, la sua unicità, la sua essenza: società ormai
capace di produrre libera dai bisogni ma d’altra parte costretta a riprodurre
ed aumentare progressivamente la miseria proletaria e lo sfruttamento del
lavoro, è la “terra di mezzo” tra la preistoria e la storia dell’umanità,
l’ultimo gradino della storia naturale e il presupposto necessario per lo
sviluppo libero dell’uomo.
Incoerenze interne
Il proletariato non può sperare, come le classi subalterne
delle società pre-capitalistiche, di emanciparsi attraverso il rivoluzionamento
delle forze produttive; il loro indefinito sviluppo quantitativo e la loro
infinita trasformazione sono piuttosto la sua croce, il fondamento della sua
oppressione15. “La trasformazione delle circostanze”, la rivoluzione, nel modo
di produzione capitalistico, deve necessariamente assumere un significato,
completamente originale, nuovo: dovrà coincidere con la prima trasformazione
“qualitativa” della storia, con la distruzione del presupposto naturale delle
società umane e con l’inizio di una nuova fase della storia umana, fondata sul
libero sviluppo onnilaterale degli uomini16.
La “temporalità ciclica”, esprimendo la peculiarità del modo
di produzione capitalistico, deve quindi definire anche da un lato la modalità
di sviluppo dell’antagonismo sociale tra borghesia e proletariato, dall’altro
le caratteristiche specifiche della rivoluzione sociale.
Tale deduzione è assente nella riflessione marxiana degli
anni ’40. La storia del proletariato corre parallela a quella della borghesia;
il loro antagonismo si sviluppa progressivamente, secondo fasi successive,
attraverso un percorso assolutamente lineare17.
Quando la borghesia è ancora in lotta contro le classi
reazionarie, l’antagonismo rimane celato, nascosto, sotterraneo. In questo
stadio la borghesia è infatti ancora la classe per eccellenza rivoluzionaria ed
ha quindi il monopolio dell’iniziativa storica; il proletariato parallelamente
è ancora immaturo, non si riconosce come soggetto storico, classe per sé. La
sua lotta contro la miseria è ancora una lotta reazionaria contro il progresso,
per riguadagnare la sua condizione perduta nell’artigianato medievale. Ogni
gradino che compie la borghesia verso la sua completa affermazione come classe
politicamente e socialmente dominante è però anche un momento di
radicalizzazione del loro antagonismo essenziale.
All’apice del modo di produzione capitalistico, quando si
sono ormai sviluppate tutte le forze produttive che potevano nascere
all’interno dei rapporti di produzione borghesi, tale processo giunge infine al
pieno compimento: la borghesia si è ormai trasformata in classe conservatrice
mentre il proletariato è diventato un soggetto rivoluzionario pienamente
cosciente delle condizioni della sua propria emancipazione.
La rivoluzione sociale è concepita anch’essa in piena
analogia alle rivoluzioni borghesi dell’epoca moderna: un evento di breve
respiro, capace di distruggere repentinamente, attraverso la conquista del
potere politico da parte del proletariato, l’intero ordinamento borghese18.
La strategia politica, enunciata nel Manifesto, è pienamente coerente
con tali presupposti “filosofici”: lì dove, come in Germania, si era ben
lontani dal vedere realizzata una matura società capitalistica e con essa le
condizioni oggettive per la rivoluzione sociale, il proletariato avrebbe dovuto
ancora essere, come il proletariato francese del 1789, alleato della borghesia
contro le forze reazionarie e avrebbe dovuto aiutarla a realizzare il suo pieno
dominio sociale e politico; lì dove invece, come in Inghilterra, il modo di
produzione capitalistico aveva ormai già compiuto tutte le tappe del suo
sviluppo, la rivoluzione sociale sarebbe stata imminente19.
Germania e Inghilterra rappresentavano i due estremi opposti
dello sviluppo capitalistico: la prima era la nazione più arretrata, ormai
anacronista, in cui la borghesia non era ancora né politicamente né socialmente
la classe dominante; l’altra invece incarnava l’apice dello sviluppo
capitalistico; la borghesia non aveva più altro nemico che il proletariato
rivoluzionario.
La Francia, in questa prospettiva dell’assoluto parallelismo
tra sviluppo economico, conquista borghese del potere politico e realizzazione
delle condizioni oggettive della rivoluzione proletaria era per Marx un enigma
irrisolto. Qui la borghesia aveva infatti già compiuto la sua rivoluzione
politica, spazzato via l’antica nobiltà feudale ed il potere della chiesa,
affermato il suo assoluto dominio di classe ma, d’altra parte, la realtà
sociale francese era molto dissimile da quella inglese: l’antagonismo tra
borghesia e proletariato rimaneva ancora secondario e la maggioranza della
popolazione francese era ancora costituita da piccoli contadini proprietari e
dalla piccola borghesia cittadina, la cui stessa esistenza era indice dell’
“immaturità” del modo di produzione capitalistico.
Come poter spiegare questo scarto tra sviluppo politico e
sviluppo sociale? L’imbarazzo di Marx è ancor più evidente se si considerano i
suoi tentennamenti sulla strategia politica da adottare, oscillante tra la
prospettiva dell’alleanza, enunciata nel Manifesto, e la previsione di una pura rivoluzione proletaria,
enunciata nell’articolo La situazione francese, apparso sulla «Deutsche- Brüsseler-Zeitung» nel
gennaio 184820.
L’ insufficienza teorica, dovuta alla coesistenza di due
piani eterogenei e contraddittori, si traduce in incertezza programmatica. La
stessa dialettica è rintracciabile nei tentennamenti e nelle incertezze
marxiane relative alla descrizione del passaggio della rivoluzione proletaria
dalla dimensione nazionale a quella universale.
Nel Manifesto Marx
propone una teoria pienamente coerente con la prospettiva lineare:
«Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia»21.
Le rivoluzioni proletarie avrebbero inizialmente dovuto
assumere la forma di rivoluzioni nazionali indipendenti, ciascuna strutturata
secondo il grado di sviluppo raggiunto dal modo di produzione capitalistico.
«Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno delle nazioni scompare l’ostilità fra le nazioni stesse»22.
La conquista della dimensione universale sarebbe stata poi
il risultato naturale delle varie rivoluzioni nazionali: l’abolizione delle
classi avrebbe portato con sé, come conseguenza, l’abolizione dei confini e
delle nazioni.
In che modo però si possono conciliare i diversi gradi di
sviluppo delle nazioni, i tempi diversi delle varie rivoluzioni nazionali, dal
momento che la rivoluzione proletaria è vincente soltanto come rivoluzione
mondiale?
La risposta sembra poter esser trovata nel discorso tenuto
da Marx all’Assemblea nazionale di Londra per il diciassettesimo anniversario
della rivoluzione polacca, in cui però Marx in realtà utilizza un paradigma
completamente diverso:
«Tra tutti i paesi l'Inghilterra è quello dove l'antagonismo tra proletariato e borghesia è più sviluppato. La vittoria del proletariato inglese sulla borghesia inglese è quindi decisiva per la vittoria di tutti gli oppressi contro i loro oppressori. La Polonia non si libera quindi in Polonia, ma in Inghilterra».23
Ben lungi dall’apparire come un puro legame esteriore, la
dipendenza tra le varie rivoluzioni nazionali in questo caso appare piuttosto
fondata su un vincolo essenziale: i destini delle nazioni arretrate sono decisi
in quelle più sviluppate. Dall’Inghilterra la rivoluzione si sarebbe dovuta
quindi espandere a macchia d’olio fino a conquistare quella dimensione
universale in cui sola avrebbe potuto essere vittoriosa.
Tale concezione della rivoluzione era destinata a rimanere
un’ipotesi contraddittoria all’interno di una prospettiva politica che,
indifferente alla specifica contraddizione del modo capitalistico di
produzione, alla peculiarità dell’antagonismo di borghesia e proletariato e
alla sua modalità ciclicità di sviluppo, fonda ancora la necessità della
rivoluzione proletaria soltanto sull’astratta analogia con le altre società
umane, storicamente determinate e quindi destinate a perire in virtù della
contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. La medesima
prospettiva rivoluzionaria però, fondata sull’interdipendenza mondiale della
produzione capitalistica e ben più coerente con i presupposti teorici marxiani,
prenderà decisamente il sopravvento dopo la rivoluzione del 1848.
Prosperità e controrivoluzione
Le rivoluzioni politiche europee, invece di essere un passo
in avanti verso la definitiva vittoria della società borghese sui residui di
epoche passate, ebbero come unico risultato l’affermazione “universale” della
controrivoluzione, non soltanto sul continente rivoluzionario ma anche nella
“pacifica” Inghilterra. Qui l’aristocrazia fondiaria, rappresentata dal partito
Tory, nonostante avesse perduto, con l’abolizione delle leggi sul grano, il suo
ultimo privilegio sociale e nonostante avesse ormai riconosciuto l’indiscussa
egemonia del capitale industriale, continuava a conservare il monopolio del
potere politico.
«E come si può raggiungere questo obiettivo? Nientedimeno che con una controrivoluzione, cioè con una reazione dello Stato contro la società. Essi si sforzano di tenere artificiosamente in piedi le istituzioni e un potere politico, condannati dal momento stesso in cui la popolazione rurale si è trovata superata di tre volte da quella delle città»24.
La controrivoluzione, dopo il biennio rivoluzionario, non
poteva più essere considerata un fenomeno storico contingente, un’effimera
sospensione del movimento lineare della storia, una mera conseguenza dei
disordini rivoluzionari25; colpendo anche il paese che era riuscito a restare
indifferente alle vicissitudini rivoluzionarie, aveva conquistato una
“dimensione più universale” della stessa rivoluzione europea. Doveva essere
necessariamente riconosciuta come un fenomeno essenziale della società moderna,
intimamente legato al modo di produzione capitalistico26.
La metamorfosi delle forze reazionarie in pure “forze
politiche”, improduttive e parassitarie è infatti la conseguenza della
peculiare contraddizione della moderna borghesia che, al contrario delle altre
classi dominanti nella storia, è impossibilitata a compiere la sua propria
trasformazione da classe rivoluzionaria in classe conservatrice ed è costretta
piuttosto ad essere allo stesso tempo, sincronicamente, rivoluzionaria verso le
forze reazionarie, conservatrice nei confronti del proletariato ed incapace di
liberarsi definitivamente di entrambi i nemici 27.
La borghesia è necessariamente ed essenzialmente antagonista
verso ogni potere consolidato dalle tradizioni: le monarchie, con i loro enormi
apparati burocratici e militari, sono per lei null’altro che “faux frais” della
produzione, spese inutili al capitale, inspiegabili ritenute sui profitti,
esistenze parassitarie assolutamente contraddittore rispetto alle leggi della
produzione borghese. «L’argent n’a pas de maître!»28 ed il capitale non
può tollerare alcun potere politico che intralci la sua innata forza
rivoluzionaria, alcuna limitazione esteriore alle sue leggi intrinseche, alcun
ostacolo, alcun privilegio. La borghesia quindi non può che rivendicare uno
Stato perfettamente corrispondente alla dinamica del capitale: un governo
repubblicano, “minimo”, libero da ogni spesa superflua, che riduca al minimo i
suoi costi di produzione.
Quel «comitato, il quale amministra gli affari comuni di
tutta quanta la classe borghese» 29, prospettato nel Manifesto come esito ultimo dello sviluppo capitalistico, è
quindi in effetti l’ideale politico della borghesia, destinato però a restare
un progetto utopico, irrealizzabile: l’eliminazione del dispendioso apparato
burocratico e militare dello Stato eliminerebbe infatti ogni autonomia formale
del potere politico, demistificherebbe i rapporti tra le classi e lascerebbe
emergere in modo pericolosamente evidente l’antagonismo di capitale e lavoro30.
La borghesia fornirebbe così al proletariato tutte le armi per la rivoluzione e
parallelamente si priverebbe di ogni capacità repressiva, destinandosi
all’impotenza. La realizzazione del suo “Stato ideale” sarebbe l’affermazione
delle condizioni della propria sconfitta certa31.
La borghesia quindi, di fronte al proletariato, è costretta
a svestirsi degli abiti rivoluzionari per indossare quelli conservatori: gli
enormi costi di gestione dell’apparato statale, che aveva dapprima denunciato
come “faux frais” della produzione, intollerabili ritenute sui profitti,
vengono improvvisamente riconosciuti come spese più che mai necessarie al
capitale, le sue sole armi contro la lotta di classe, gli unici strumenti
capaci di garantire l’ordine e la pace sociale e assicurare così le condizioni
necessarie per lo sfruttamento capitalistico del lavoro.
L’essenza duplice della borghesia incarna quindi due istanze
contraddittorie, reciprocamente negatesi: il proletariato è tanto suo unico
alleato contro i poteri reazionari, quanto il suo nemico, «irreconciliabile,
invincibile – invincibile perché la sua esistenza è condizione della esistenza
stessa della borghesia»32; d’altra parte le costose forze repressive dello
Stato sono sì “ faux frais” di cui la borghesia si deve liberare, ma sono
anche, nello stesso tempo, la sua unica arma contro il proletariato.
Per mantenere il proprio dominio di classe la borghesia deve
inibire lo svolgimento della dialettica storica, mantenere assopita la sua
essenza contraddittoria, rendere latente, sospesa, la conflittualità sociale,
impedire l’emergere violento del suo “duplice antagonismo”, evitare da un lato
che classi rivoluzionarie «avanzino dall’emancipazione politica
all’emancipazione sociale» 33, dall’altro che la reazione «retroceda dalla
restaurazione sociale alla restaurazione politica»34.
Questo limbo, questa dimensione dell’assoluta indecisione
storica ha però la sua condizione trascendentale nella prosperità economica,
che crea le condizioni per poter realizzare un tacito e ipocrita compromesso
tra la borghesia e le forze repressive statali, capace di anestetizzare le
contraddizioni tendenzialmente esplosive del capitalismo: il credito borghese
si sottomette agli interessi improduttivi dello Stato, accetta di sopportare il
peso dei ceti privilegiati e parassitari e questi ultimi “in cambio” si
impegnano a garantire l’ordine e a pace sociale, diventando così strumenti
borghesi contro i pericoli della lotta di classe 35.
Concentrata sui suoi affari privati, interessata
esclusivamente a sfruttare al meglio la congiuntura favorevole, impegnata a
trarne i maggiori benefici economici nella consapevolezza che la crescita
economica è sempre il preludio della stagnazione e della crisi, la borghesia
cede ben volentieri ad un potere politico formalmente indipendente, garante
delle condizioni del corso normale della produzione borghese, tutte le
responsabilità e i pericoli connessi alla gestione dello Stato36.
Il compromesso appare infatti duplicemente vantaggioso per
la borghesia: non solo le forze burocratiche e militari dell’apparato statale
salvaguardano la pace sociale attraverso le forze repressive vere e proprie, ma
svolgono anche una preziosa funzione di “repressione preventiva”: opprimendo
egualmente tutte le classi sociali, compresa la borghesia, nascondono la loro
dipendenza dai rapporti di produzione borghesi e l’effettiva subordinazione al
capitale dietro la loro autonomia formale. Questa mistificazione, in cui i
reali rapporti di dipendenza tra i poteri statali e la società appaiono
invertiti, dà allo Stato le sembianze di un potere metafisico, di una forza
trascendente: è un “Dio”, che ha creato la struttura sociale per poter
dispensare premi e punizioni sociali, elargire miseria e privilegi. Mentre
attira così su di sé l’odio di tutte le classi sociali, lascia il capitale
libero di affermare indisturbato il suo effettivo potere, il suo reale dominio,
lontano da occhi indiscreti e pericolosi 37.
L’autonomia formale dello Stato dalla società quindi, ben
lungi dall’essere in contraddizione con i rapporti di produzione borghesi, è
piuttosto il risultato conseguente dell’a-politicità e dell’ “interessata
indifferenza” della classe borghese verso la dimensione pubblica in ogni
periodo di crescita economica.
Tutte le monarchie europee si fondavano per Marx, prima del
1848, su questo “tacito compromesso”, le cui clausole specifiche dipendevano,
nelle varie nazioni, dal potere sociale, e quindi dalla forza contrattuale,
delle varie borghesie nazionali.
La borghesia inglese, rifiutandosi di trarre dalla sua
potenza sociale «le necessarie conclusioni politiche ed economiche»38, aveva
lasciato la gestione dello Stato in mano all’aristocrazia fondiaria, garante
dell’ordine sociale. L’abolizione delle leggi sul grano era stata la
dimostrazione che, qualsiasi partito stesse al governo, il potere politico era
sempre costretto a cedere alle richieste borghesi e a sottomettersi ai suoi
interessi di classe39.
«La Costituzione britannica non è altro che un compromesso superato, anacronistico e caduto in prescrizione, fra la borghesia che non ufficialmente ma di fatto predomina in tutte le sfere decisive della società e l’aristocrazia terriera ufficialmente regnante»40.
Ben diversa era invece la forza sociale della borghesia
francese, che, in nome dell’ordine sociale, doveva accettare il dominio
politico dell’aristocrazia finanziaria, la «riproduzione del sottoproletariato
alla sommità della società borghese»41. Lo Stato francese, monopolizzato da una
“cricca” di interessi particolaristici, era diventato «una società per azioni
per lo sfruttamento della ricchezza nazionale francese, società i cui dividendi
si ripartivano fra i ministri, le Camere, 240 mila elettori e il loro
seguito»42.
In Germania infine il compromesso sembrava assolutamente
impossibile: la debole borghesia tedesca era infatti la più bisognosa della
protezione statale contro la concorrenza straniera e doveva sopravvivere con un
potere politico che, incapace di proteggerla economicamente, la costringeva
inoltre a farsi carico degli enormi costi di gestione della struttura ancora
feudale della monarchia.
Eppure la borghesia tedesca era la meno propensa a
intraprendere il cammino della rivoluzione:
«Ai suoi occhi la Corona era appunto solamente il paravento per grazia divina dietro al quale dovevano nascondersi i suo i propri interessi profani. L’intangibilità dei suoi propri interessi e delle forme politiche corrispondenti al suo interesse, tradotta in linguaggio costituzionale, doveva significare: intangibilità della Corona» 43.
L’“ipocrita compromesso” tra poteri repressivi di Stato e
borghesia è anche il segreto dell’affermazione universale della
controrivoluzione alla fine del biennio rivoluzionario:
«A partire dal 1849 la prosperità industriale e commerciale ha rappresentato il divano su cui la contro rivoluzione ha dormito indisturbata» 44.
Passata la crisi economica iniziata in Inghilterra tra il
1845 e il 1847, era cominciato un nuovo periodo di benessere, prosperità,
crescita economica e conseguentemente una rinnovata indifferenza della
borghesia verso la politica. Il desiderio di essere tutelata contro ogni
pericolo di conflitti sociali la spinse ad abbandonare i suoi rappresentanti
politici e a rifugiarsi nuovamente nelle braccia protettive dei poteri
controrivoluzionari45.
In Inghilterra:
«la massa della popolazione è occupata e gode più o meno di un relativo benessere, sempre astrazion fatta dei poveri, che sono inseparabili dalla prosperità inglese; per questo motivo oggi non è molto incline ad agitazioni politiche. Ma ciò che soprattutto dà a Derby la possibilità di dar corso alle sue macchinazioni, è il fanatismo con cui la classe media si è gettata nell’immane processo della produzione industriale, erigendo fabbriche, costruendo macchine e navi, filando e tessendo cotone e lana, immagazzinando merci, fabbricando, scambiando, esportando, importando ed esercitando altre attività più o meno utili, il cui scopo, per la borghesia, è sempre quello di far soldi. La borghesia, in questo momento di intensa attività commerciale – e ben si sa che questi felici momenti diventano sempre più rari e sempre più distanti l’uno dall’altro – fa e deve far soldi, molti soldi; soltanto soldi. E lascia ai suoi uomini politici ex professo l’incarico di tener d’occhio i tories. Ma gli uomini politici ex professo […] si lamentano giustamente di non poter agitare le acque senza una pressione dall’esterno, così come l’organismo umano non può funzionare senza la pressione atmosferica»46.
Sul continente rivoluzionario il nuovo benessere anestetizzò
nuovamente la contraddizione borghese e la parola d’ordine tornò ad essere
quella della tutela dell’ordine e della pace sociale. La lotta per il
mantenimento del potere politico conquistato attraverso le rivoluzioni avrebbe
richiesto necessariamente, in Francia come in Germania, una nuova alleanza con
il popolo, la fine di ogni garanzia di pace sociale, il rischio di non poter
approfittare della congiuntura economica favorevole. Le borghesie nazionali
preferirono quindi ritirarsi dal terreno politico e allearsi con la reazione
contro i loro stessi rappresentanti.
La borghesia francese «faceva capire che la lotta per la
difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe, del
suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo
molestava e gli dava fastidio»47. Abbandonò così l’Assemblea legislativa al suo
triste destino e diventò bonapartista48.
In Germania, parallelamente, «per paura della rivoluzione,
la parte commerciale e industriale della borghesia si getta nelle braccia della
controrivoluzione»49. L’Assemblea intesista si trovò completamente isolata
nella sua guerra contro la Corona; il suo appello ai cittadini per non pagare
le tasse al governo traditore sarebbe caduto nel vuoto, se non fosse stato
accolto entusiasticamente solo dai movimenti democratici, che in seguito
dovettero rispondere davanti ai tribunali.
L’ultimo periodo del biennio rivoluzionario, quindi, non fu
la lotta della borghesia per il mantenimento del potere politico, fu piuttosto
una “guerra politica” tra l’esecutivo ed il legislativo per la gestione
dell’apparato statale e per il monopolio dei privilegi politici.
«Il potere esecutivo,
in opposizione al potere legislativo, esprime l’eteronomia della nazione, in
opposizione alla sua autonomia»50. I rappresentanti borghesi si erano
trasformati anch’essi, dopo due anni di politica controrivoluzionaria e repressiva,
in “poteri metafisici”, “cricche” politiche legate a specifici privilegi e
privi di qualsiasi forza di rappresentanza. Lontani dal popolo, traditi dalla
propria stessa classe, privi di ogni sostegno sociale, senza armi, erano però
destinati all’impotenza e dovettero soccombere alla pura forza repressiva dei
poteri controrivoluzionari.
Crisi e rivoluzione
La borghesia, finché c’è abbondanza di credito, prosperità,
crescita economica, mantiene sospesi i presupposti contraddittori del suo
dominio, persistendo nella pacifica dimensione dell’assoluta indecisione e
irresoluzione; col sopraggiungere della crisi però la contraddizione esplode
violentemente, inaugurando una congiuntura rivoluzionaria.
La riduzione delle disponibilità di credito della borghesia,
la penuria nei profitti, impongono la fine degli sperperi, la parsimonia,
l’eliminazione dei “faux frais” della produzione. Così, quell’antagonismo
latente, sotterraneo tra il potere politico formalmente autonomo, che vorrebbe
sottomettere il credito borghese ai suoi privilegi, e la borghesia, che
soltanto a malavoglia tollera queste spese improduttive, deve necessariamente
emergere in superficie: l’autonomia formale dello Stato, le sue capacità
repressive, i suoi apparati burocratici e militari sono improvvisamente
riconosciuti come poteri reazionari, arbitrari, oppressivi, non legittimi. E
contro i regimi dispotici la rivoluzione è un diritto borghese.
La rottura del tacito compromesso con il potere statale,
l’abbandono del terreno della “sospensione storica” è però il più grande
pericolo per la borghesia poiché ogni congiuntura rivoluzionaria si annuncia
sempre con il minaccioso avvertimento: «Aprés moi le déluge!»51. Lasciando
esplodere il fondamento contraddittorio del suo dominio la borghesia dà infatti
inizio ad una serie di eventi che non può controllare; per quanto cerchi
disperatamente di riassopire le contraddizioni esplose, si trova ad essere
spintonata, sballottata, in balia di forze estranee che non riesce ad
addomesticare.
La possibilità rivoluzionaria è contemplata quindi dalla
borghesia esclusivamente come estremo rimedio, una strada da percorrere
soltanto dopo aver tentato tutti i possibili compromessi con i poteri statali
sul “terreno legale”. La forza e le capacità “persuasiva” della borghesia
dipendono però da due fattori oggettivi: da un lato dal grado dell’intensità
della crisi economica, che determina i margini di disponibilità di credito per
tenere in vita lo Stato parassita, dall’altro dalla forza sociale della
borghesia, che definisce la sua capacità di influire a livello politico, la
possibilità di costringere i poteri statali a rinunciare pacificamente ai
propri privilegi, subordinandoli agli interessi di classe borghese52.
Nel 1848 soltanto la borghesia inglese riuscì a mantenere
questo terreno della mediazione pacifica: poiché la crisi economica era rimasta
circoscritta nelle sfere secondarie e sintomatiche della speculazione e del
commercio, senza estendersi fino al cuore della economia capitalista, alla
sfera industriale, anche le ripercussioni politiche furono limitate.
L’abolizione delle leggi sul grano fu il compromesso col quale il governo Tory
accettò di difendere le esigenze della borghesia industriale, conservando il
proprio monopolio del potere politico. La borghesia inglese così si salvò senza
doversi incamminare sul pericoloso terreno rivoluzionario; la sua essenza
contraddittoria restò assopita.
Ben differente fu la dinamica storica per le altre nazioni.
La paralisi del commercio inglese fu infatti cruciale per le deboli economie
continentali, unilateralmente dipendenti dall’Inghilterra: non solo chiuse il
loro principale canale di esportazione ma aumentò parallelamente la concorrenza
inglese sugli altri mercati. La crisi si presentò conseguentemente nella sua
forma pura, essenziale, radicale: come crisi industriale di sovrapproduzione,
che annientò tutti i possibili tentativi di mediazione. La debolezza economica
si tradusse così in impotenza politica: sia l’appello della borghesia
industriale francese per una riforma elettorale che le avrebbe dato la
maggioranza parlamentare, sia quello rivolto dalla borghesia tedesca al monarca
assoluto, affinché si decidesse a diventare costituzionale, caddero nel vuoto.
La borghesia però, per sé assolutamente priva di coraggio,
incapace di imprese eroiche, non si incammina mai da sola sul terreno
rivoluzionario. Chiama il popolo a sua difesa, lo manda avanti contro il
pericolo, gli permette di battersi per lei e raccoglie infine i frutti della
rivoluzione.
Così in Francia fu il proletariato ad imporre la
proclamazione della repubblica sulla base del suffragio universale, cancellando
«persino il ricordo degli scopi e degli obiettivi limitati che avevano spinto
la borghesia alla rivoluzione di febbraio»53.
In Germania parallelamente il popolo pose fine ad ogni
possibilità di meschini compromessi con la Corona.
«La borghesia non aveva mosso un dito. Aveva permesso al popolo di battersi per lei. Il dominio trasmessole non era quindi il dominio del generale che sconfigge il suo avversario sul campo di battaglia, bensì il dominio di un comitato di salute pubblica a cui il popolo vincitore affida la tutela dei suoi propri interessi»54.
Il popolo, « puer
robustus sed malitiosus come dice Hobbes»55, consegna quindi alla
borghesia il potere politico ma la costringe allo stesso tempo a superare le
sue limitate rivendicazioni iniziali, ad elevarsi al di sopra della propria
esistenza di classe, a trasformarsi nella rappresentante della “volontà
universale della nazione”, nella classe universalmente emancipatrice, simbolo
della definitiva vittoria del diritto su ogni potere arbitrario, su ogni forma
di privilegio.
Le condizioni per la liberazione delle altre classi sociali
però implicano il superamento del modo di produzione borghese mentre d’altro
canto il dominio di classe della borghesia presuppone la schiavitù delle altre
classi sociali. Come avrebbe potuto la borghesia tutelare i propri particolari
interessi di classe ed esser contemporaneamente la portavoce delle
rivendicazioni delle altre classi sociali? Come avrebbe potuto garantire le
condizioni del dominio del capitale sul lavoro e rappresentare gli interessi
del proletariato? Come tutelare gli interessi della piccola borghesia e della
piccola proprietà contadina se il suo potere è il dominio del grande capitale,
che distrugge con ferrea necessità la piccola proprietà?
Il potere politico della borghesia, conquistato per via
rivoluzionaria, lascia emergere le sue istanze contraddittorie, reciprocamente
escludentisi, e crea così «il terreno della lotta»56: la rivoluzione borghese
diventa cioè la prima fase di un movimento rivoluzionario che deve proseguire
inarrestabile, «secondo una linea ascendente»57, bruciare le tappe della
storia, perpetuarsi, prolungarsi in permanenza, e, senza arrestarsi, senza
accettare compromessi, inesorabile, deve portare a compimento il suo compito
trasformando la rivoluzione politica in rivoluzione sociale e superando il
fondamento contraddittorio della società borghese.
Una necessità vitale impone quindi alla borghesia di
“reagire”, di bloccare questo movimento ascendente, di chiudere il più
rapidamente possibile la congiuntura rivoluzionaria; il ripristino del terreno
legale però, ben lungi dal poter esser deciso dalla volontà delle borghesia,
dipende esclusivamente dalla ripresa economica. «Anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario»58
e quindi il tradimento borghese della rivoluzione instaura necessariamente il
movimento opposto, “discendente”, verso la controrivoluzione, e la borghesia è
destinata a perdere nuovamente il controllo degli avvenimenti ed essere infine
sconfitta dalle forze reazionarie.
Questo movimento discendente, nel 1848, tanto in Francia
come in Germania, si realizzò in due fasi: la prima, quella della “resistenza
passiva”, fu dominata dalle rappresentazioni ideologiche della realtà59.
Formalmente la borghesia riconobbe la rivoluzione come atto
fondativo del suo dominio e si proclamò classe universalmente emancipatrice,
rappresentante della volontà del popolo; praticamente, contraddicendo e negando
i principi ideali, cercò di stabilire una distanza tra il suo potere politico e
l’evento rivoluzionario che l’aveva generato.
La borghesia francese proclamò così la “fraternité”
universale come il principio fondante della repubblica, mentre parallelamente
la politica del governo provvisorio ebbe un unico obiettivo: «Si doveva […] farla finita con gli operai»60.
La Commissione del Lussemburgo, la formazione della guardia
mobile, gli Ateliers nationaux; furono tutti provvedimenti tesi a indebolire
i proletari che, essendo stati decisivi nelle giornate di febbraio,
«avanzavano le pretese orgogliose del vincitore»61;
rivendicazioni inammissibili per la borghesia.
In Germania l’espediente col quale la borghesia riconobbe e
negò allo stesso tempo il legame tra la rivoluzione e il suo potere politico fu
la trasformazione di un nesso causale in un legame temporale.
«Post e non propter, vale a dire, il signor Camphausen è diventato presidente del Consiglio non per effetto della rivoluzione di marzo, ma dopo la rivoluzione di marzo»62.
Il ministero Camphausen, definendosi “primo ministero dopo
la rivoluzione di marzo”; riconosceva la rivoluzione soltanto come momento di
inizio del potere borghese e tacitamente confessava che la sua azione politica
si sarebbe svolta invece su un altro terreno. In tal modo furono poste le
premesse per la teoria intesista: la borghesia tedesca avrebbe svolto la sua
opera costituente sul “terreno legale del diritto”, in accordo con la Corona.
Tale ipocrisia celava un ardito e furbesco progetto borghese:
«Il “terreno del diritto” significava, in una parola, che la borghesia, dopo il marzo, voleva trattare con la Corona sullo stesso piede di prima del marzo, come se non fosse avvenuta nessuna rivoluzione e la Dieta riunita avesse raggiunti il suo scopo senza la rivoluzione. Il “terreno del diritto” significava che il titolo giuridico del popolo, la rivoluzione, non esisteva nel contrat social tra governo e borghesia. La borghesia deduceva le sue rivendicazioni dalla vecchia legislazione prussiana affinché il popolo non deducesse rivendicazioni dalla nuova rivoluzione prussiana»63.
Il giugno parigino segnò il passaggio dalla fase della
“resistenza passiva” a quello dell’ “attacco attivo” contro la rivoluzione. Il
suo segreto fu il dieci aprile inglese, giorno in cui una pacifica
manifestazione cartista fu trasformata in un massacro; la borghesia inglese
diede così l’esempio e la forza alla controrivoluzione europea: la borghesia
francese poté liberarsi definitivamente del proletariato, «e ciò che era
possibile a Parigi si poteva rifare anche altrove»64. La borghesia tedesca,
pusillanime e debole, divenne improvvisamente impavida e coraggiosa65.
Così, dall’Inghilterra alla Germania, la rivoluzione europea
fu definitivamente sconfitta e la borghesia sembrò esser ormai riuscita ad
imporre finalmente il suo dominio assoluto: inizialmente aveva sfruttato il
popolo contro i poteri reazionari, poi si era disfatta anche dell’antico
alleato, e sembrava aver così risolto il carattere contraddittorio del suo
potere politico distruggendone gli elementi costitutivi. Era rimasta la sola
forza sopravvissuta.
Le Costituzioni sarebbero state i suoi strumenti per
tutelarsi tanto dalla reazione quanto dal popolo. Ma, reprimendo il popolo,
quale altra arma le sarebbe rimasta contro i poteri reazionari? E come avrebbe
potuto portare avanti la repressione del popolo una volta distrutto l’antico
apparato statale? Ancora una volta l’attendeva un compito impossibile; ancora
una volta la contraddizione poteva essere risolta soltanto sul piano illusorio
dell’ideologia: essa sancì idealmente i principi democratici del proprio
dominio, immaginando così di tutelarsi dalle forze reazionarie, mentre
praticamente, per imporre la propria dittatura di classe contro il popolo,
riconfermò ovunque gli antichi poteri, la burocrazia e l’esercito, convinta che
questi avrebbero accettato il nuovo ruolo di “salariati” della borghesia e
avrebbero rinunciato ai loro vecchi privilegi.
L’egemonia politica borghese, all’interno della congiuntura
rivoluzionaria, non poteva esser altro che un effimero momento di equilibrio
tra rivoluzione e controrivoluzione e la borghesia, cercando di eternare
quest’”istante fuggente” attraverso l’opera costituzionale, preparava in realtà
tutte le condizioni oggettive per la sua futura sconfitta. Principi ideali e
condizioni reali del dominio borghese furono enunciati in ogni singolo articolo
della Costituzione francese emanata nel novembre 1848: diviso in due parti,
nella prima veniva enunciata formalmente la libertà universale mentre nella
seconda ne venivano definite le limitazioni66.
«Il lettore avverte subito che essa è, dal principio alla fine, un insieme di belle parole che nascondono un’intenzione quanto mai fallace. Già nel modo stesso in cui è formulata, infrangerla è impossibile, poiché ogni sua norma contiene in sé la propria antitesi – si annulla da sé. […] La Costituzione continua a ripetere sempre la formula che la regolamentazione e la limitazione dei diritti e delle libertà del popolo (come il diritto di riunione, il diritto di voto, la libertà di stampa, di insegnamento ecc.) debbono essere fissate da una legge organica successiva – e queste “leggi organiche” “determinano” la libertà promessa annientandola. […] Le eterne contraddizioni di questa parodia di Costituzione mostrano con sufficiente chiarezza che la borghesia può essere democratica a parole, ma non nei fatti; essa potrà ben riconoscere le verità di un principio, ma non lo metterà mai in pratica – e la vera “Costituzione” della Francia non sta nella Carta di cui abbiamo riferito, ma nelle leggi organiche emanate sulla base di questa e che noi abbiamo brevemente riassunto per il lettore. I principi c’erano - ma i dettagli furono rimessi al futuro, e proprio in grazia di quei dettagli la vergognosa tirannia fu ancora una volta assunta a legge!»67.
Le leggi organiche definirono “socialiste” anche le più
classiche libertà borghesi e permisero di portare avanti una politica
repressiva e reazionaria, antipopolare, che sottrasse alle classi nemiche, in
nome dell’ordine e della sicurezza sociali, ogni libertà.
«Ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suo proprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico, dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti […] Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la “calma”, come poteva voler conservare, alla testa della società , il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, il regime parlamentare, questo regime che, secondo l’espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta? Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? […] Tacciando dunque di eresia “socialista” ciò che prima aveva esaltato come “liberale”, la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto esser ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell’ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempo pendere come in spada di Damocle sulla propria testa»68.
La borghesia francese, convinta di aver affermato le
condizioni per la propria dittatura di classe, aveva posto le premesse per il
colpo di stato di Luigi Bonaparte.
Gli unici articoli positivi della Costituzione, che non
avevano in sé la propria antitesi, erano quelli relativi alla separazione dei
poteri. Qui la contraddizione tra la libertà ideale e dittatura reale, non più
incarnata in ogni singolo articolo, si disponeva invece tra gli articoli
relativi ai poteri del legislativo e quelli dell’esecutivo. I primi sancivano
l’idealità del potere politico borghese, i secondi la sua realtà. I poteri
speciali, affidati a Cavaignac durante il massacro di giugno, diventarono le
prerogative del presidente della repubblica: investito dei poteri illimitati di
un monarca assoluto, con il pieno controllo sull’esecutivo e sulle forze
militari, ebbe come unico limite quello della scadenza del mandato, che sanciva
il suo passaggio dall’onnipotenza al nulla. Così la costituzione «non solo […]
consacra, come la Carta del 1830, la divisione dei poteri, ma la estende sino a
farla diventare una intollerabile contraddizione»69. Istigava necessariamente
l’esecutivo alla soluzione anticostituzionale70.
In Germania il passaggio dalla “resistenza passiva” all’”attacco
attivo” fu simboleggiato dalla caduta del ministero Camphausen.
«Le sue dimissioni furono […] un mistero per i politicanti da osteria. Fu seguito dal ministero d’azione, dal ministero Hansemann, perché la borghesia pensava di passare dalla fase del tradimento passivo del popolo a favore della Corona alla fase dell’assoggettamento attivo del popolo sotto il dominio concordato con la Corona. Il ministero d’azione fu il secondo ministero dopo la rivoluzione di marzo. Ecco il suo mistero»71.
La politica impossibile del ministero Hansemann si riassunse
nella formula: «Signori! In questioni di denaro, la cordialità cessa!»72.
Quest’espressione era portatrice di due messaggi differenti: per la Corona
doveva significare l’abolizione degli antichi privilegi della
“camarilla berlinese”, la fine degli antichi “faux frais” della produzione
statale, dei poteri privilegiati, della nobiltà. La monarchia assoluta sarebbe
stata trasformata in monarchia costituzionale e l’unica forma di proprietà
tutelata sarebbe stata la proprietà borghese. Per il popolo il medesimo
imperativo era invece un avvertimento: poiché il credito borghese aveva bisogno
di ordine e stabilità sociale il governo avrebbe provveduto a reprimere ogni
sussulto sociale, ogni tentativo di risvegliare la lotta di classe.
Ancora una volta due compiti che si negavano reciprocamente:
se la borghesia avesse voluto realmente distruggere il potere della Corona,
l’intera struttura dell’apparato statale assolutistico e monarchico, si sarebbe
dovuto proclamare un potere costituente, una Convenzione rappresentante del
popolo rivoluzionario, come avevano fatto la borghesia inglese nel XVII e
quella francese nel XVIII secolo. Per la repressione del popolo d’altra parte
non avrebbe potuto fare a meno degli antichi poteri repressivi dello Stato, gli
avrebbe dovuto concedere enormi poteri, riconoscendoli come elementi
fondamentali del modo capitalistico di produzione.
La borghesia tedesca, proprio come quella francese, rese
unilaterale la contraddizione e si limitò alla repressione del popolo. «La
vecchia burocrazia, il vecchio esercito, le vecchie procure, i vecchi giudici,
nati, educati e invecchiati al servizio dell’assolutismo»73 furono invece
investiti di poteri sempre maggiori, nella convinzione che si sarebbero sottomessi
al nuovo potere borghese. «Non solo nel ministero, ma in tutto l’ambito della
monarchia la borghesia era ebbra di questa folle illusione»74.
Agonizzanti dopo la rivoluzione di marzo, grazie alle cure
della borghesia, le vecchie forze reazionarie poterono riprendere lentamente
forza e vigore, finché, quando furono ormai completamente guarite, vollero
ristabilire il loro antico modo di vita, lontane da “noiosi medici” e
protettori borghesi.
Conclusione
Irene Viparelli |
Tale insensatezza della storia si rivela essere apparente se
le congiunture rivoluzionarie sono concepite come stadi determinati dello
sviluppo capitalistico: in tale prospettiva, infatti, ogni ripresa economica,
ben lungi dall’essere un definitivo superamento della crisi, è soltanto il
presupposto per crisi future, più radicali, più violente; la contraddizione
borghese va in letargo solo per esplodere nuovamente, in una forma più matura e
più drastica.
L’antagonismo tra borghesia e proletariato diventa
progressivamente sempre più violento mentre d’altra parte diminuiscono i
margini per i possibili compromessi tra la borghesia e i poteri parassitari
dello Stato.
La trasformazione del proletariato in classe compiutamente
rivoluzionaria non si realizza, come Marx aveva immaginato nel Manifesto, attraverso un processo
di sviluppo lineare, ma invece proprio attraverso le successive congiunture
rivoluzionarie. Il suo sviluppo quantitativo, risultato del rivoluzionamento
delle forze produttive necessario per superare le crisi, è sempre accompagnato
da un parallelo sviluppo qualitativo.
La demistificazione delle relazioni sociali infatti,
lasciando emergere l’essenza contraddittoria della borghesia, costituisce
necessariamente un momento di crescita del proletariato, che solo così diventa
progressivamente maturo e cosciente della sua conflittualità essenziale con la
borghesia.
Il massacro di giugno aveva liberato l’intero proletariato
europeo da ogni illusione di poter emanciparsi all’interno dell’ordinamento borghese,
dalla rappresentazione ideologica della borghesia quale classe universalmente
emancipatrice, da ogni ipocrita “fraternité”. Era diventato così una vera forza
rivoluzionaria75.
«Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni della repubblica di febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe operaia. […] Solo con la disfatta di giugno dunque sono state create le condizioni, entro le quali la Francia può prendere l’iniziativa della rivoluzione europea. Solo immergendosi nel sangue degli insorti di giugno il tricolore è diventato la bandiera della rivoluzione europea – la bandiera rossa.
E il nostro grido è: La rivoluzione è morta! Viva la rivoluzione!» 76.
Nella crisi futura il proletariato sarebbe stato ormai
pienamente consapevole che «c’è un solo mezzo per abbreviare,
semplificare, concentrare l’agonia assassina della vecchia società e le doglie
sanguinose della nuova società, un solo mezzo; il terrorismo
rivoluzionario»77. La sua accresciuta potenza quantitativa e qualitativa gli
avrebbe dato ben altra forza per resistere ai tentativi borghesi di frenare il
movimento ascendente della rivoluzione78.
«Lo Stato borghese non sarà altro che una mutua assicurazione della classe borghese nei confronti sia dei singoli suoi membri che della classe sfruttata, un’assicurazione destinata a diventare sempre più dispendiosa e verosimilmente sempre più a sé stante rispetto alla società borghese, perché sempre più difficile sarà tenere a bada la classe degli sfruttati»79.
La progressiva crescita dell’antagonismo sociale rende
l’apparato burocratico e militare di Stato un elemento sempre più necessario
per il mantenimento della società borghese, ne impone una crescita e uno
sviluppo continuo.
La radicalità delle crisi, la loro dimensione sempre più
globale, la diminuzione degli strumenti per imporre la ripresa economica, le
crescenti difficoltà ad estendere i mercati, il credito sempre più, instabile
avrebbero quindi imposto alla borghesia con sempre maggiore necessità una
gestione parsimoniosa dello Stato proprio mentre il suo bisogno della
protezione statale sarebbe stato più urgente; gli spazi per le mediazioni e per
i compromessi in funzione antipopolare sarebbero progressivamente diminuiti
proprio mentre, d’altra parte, anche la strada rivoluzionaria sarebbe stata per
la borghesia sempre meno praticabile80.
Le crisi cicliche del modo di produzione capitalista rendono
quindi la borghesia sempre più impotente di fronte all’esplosione delle sue
contraddizioni essenziali mentre insegnano parallelamente al proletariato come
riuscire a spingere il movimento “ascendente” della rivoluzione fino alle sue
estreme conseguenze. La rivoluzione sociale è sempre più all’ordine del giorno.
Questa nuova concezione dello sviluppo ciclico delle
contraddizioni del modo di produzione capitalistico diede a Marx una valida
griglia interpretativa per poter trovare le risposte a quelle questioni che,
alle soglie della rivoluzione, erano destinate a rimanere degli arcani.
La rivoluzione proletaria era o non era all’ordine del
giorno in Francia81?
«Come gli operai credevano di emanciparsi accanto alla borghesia, così pensavano di potere compiere, accanto alle altre nazioni borghesi, una rivoluzione proletaria entro le pareti nazionali della Francia. Ma i rapporti di produzione francesi sono condizionati dal commercio estero della Francia, dalla sua posizione sul mercato mondiale e dalle leggi di questo. Come avrebbe potuto la Francia spezzare queste leggi senza una guerra rivoluzionaria sul continente europeo che si ripercotesse sul despota del mercato mondiale, sull’Inghilterra? Una classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbattere i nemici, prendere misure imposte dalle necessità della lotta. Le conseguenze delle sue proprie azioni la spingono avanti. Essa non inizia indagini teoriche sui suoi compiti. La classe operaia francese non si trovava a questa altezza: essa era ancora incapace di fare la sua propria rivoluzione»82.
L’antica questione, centrale nel Manifesto, della corrispondenza tra il grado di sviluppo del
capitalismo all’interno di una nazione e la conseguente strategia rivoluzionaria
da adottare sembra avere ormai perso l’antica urgenza: l’ambito in cui si
definiscono le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria, infatti, non
è più la nazione, ma invece il contesto e la fisionomia peculiare di ogni
congiuntura rivoluzionaria, in cui si decidono le sorti delle rivoluzioni
nazionali.83 Le nazioni più deboli infatti non sono vincolate solo
economicamente, ma anche politicamente, dalle più forti: così, per comprendere
la dinamica delle vicende tedesche del ’48, Marx era stato costretto ad
analizzare la rivoluzione francese, il cui destino era stato però a sua volta
deciso in Inghilterra.
Era stato infatti l’atteggiamento liberale della borghesia
inglese, la sua battaglia per l’abolizione delle leggi sul grano, il segreto
presupposto delle rivoluzioni politiche della primavera ’48 proprio come era
stato il massacro dei Cartisti del dieci aprile, e non il giugno parigino, che
aveva dato inizio alla controrivoluzione europea.
L’ingresso dell’Inghilterra nella congiuntura rivoluzionaria
era quindi ormai per Marx il presupposto assolutamente necessario affinché la
rivoluzione sociale potesse avere delle possibilità concrete di vittoria. Marx
aveva erroneamente previsto questo debutto inglese nella congiuntura successiva
che si sarebbe dovuta aprire tra il 1852 e il 185384.
Le rivoluzioni politiche seguono sempre un cammino inverso
rispetto alla crisi economica: nascono sempre nelle zone periferiche, dove le
deboli borghesie sono disarmate di fronte alla crisi, tendono però ad espandersi
progressivamente verso il centro85. Se nel 1848 non erano riuscite ad
oltrepassare la Manica e per questo erano state sconfitte, nella prossima crisi
avrebbero invece raggiunto l’Inghilterra, trasformando l’iniziale analogia tra
le due congiunture in una differenza assoluta86.
Per superare la crisi economica del 1845-1847 la borghesia
inglese aveva utilizzato tutte le sue armi più classiche, aumentando
enormemente le forze produttive, aprendo nuovi mercati e sfruttando più
intensamente gli antichi. La chiusura dei canali tradizionali della
speculazione europea inoltre l’aveva costretta sia ad investire quasi tutto il
capitale disponibile nella produzione industriale, sia ad espandere la
speculazione la verso i nuovi mercati oltreoceanici. Da tali tendenze Marx
aveva dedotto il carattere eminentemente industriale e la dimensione ben più
universale della futura crisi economica che avrebbe colpito il cuore stesso
dell’economia capitalistica, l’industria inglese.
«Fra qualche mese la crisi sarà a un punto che non raggiungeva in Inghilterra dal 1846, forse dal 1842. Quando i suoi effetti cominceranno a farsi sentire appieno fra le classi lavoratrici, si risveglierà quel movimento politico che per sei anni ha sonnecchiato. I lavoratori inglesi insorgeranno di nuovo a minacciare le classi medie nel momento stesso in cui queste stanno finalmente cacciando dal potere l’aristocrazia. Sarà gettata la maschera che ha finora celato i veri lineamenti politici della Gran Bretagna. Allora i due veri partiti antagonisti del paese si ritroveranno faccia a faccia. la classe media e le classi lavoratrici, la borghesia e il proletariato, e l’Inghilterra sarà costretta in ultimo a condividere l’evoluzione sociale generale della società europea. […] D’ora in poi potrà difficilmente evitare i grandi sommovimenti interni che colpiscono le altre nazioni europee»87.
La borghesia, per poter conquistare la maggioranza
parlamentare e amministrare direttamente lo Stato avrebbe rivendicato una
riforma amministrativa per l’estensione del suffragio. Il proletariato, come
sempre, suo naturale alleato contro l’aristocrazia fondiaria, avrebbe
radicalizzato le rivendicazioni borghesi ed imposto il suffragio universale.
Non ci sarebbe più stato spazio per i compromessi tra la borghesia industriale
e l’aristocrazia fondiaria e si sarebbe aperta la congiuntura rivoluzionaria
nella nazione che domina il mercato mondiale.
«Il suffragio universale è l’equivalente del potere politico per la classe operaia d’Inghilterra, dove il proletariato costituisce la larga maggioranza della popolazione, dove, attraverso una guerra civile lunga, anche se sotterranea, esso ha acquistato una chiara coscienza della sua situazione in quanto classe, e dove persino nei distretti rurali non ci sono più contadini, ma proprietari terrieri, imprenditori industriali (fittavoli) e mano d’opera salariata. In Inghilterra, conseguire il suffragio universale costituirebbe una misura di gran lunga più socialista di qualsiasi altra cosa che sia stata onorata con questo nome sul continente. A questo punto, il suo risultato inevitabile è la supremazia politica della classe operaia»88
Le rivoluzione politica, giungendo al cuore del modo di
produzione capitalistico, si trasforma in rivoluzione sociale, aprendo così una
nuova fase della congiuntura rivoluzionaria: la conquista del potere politico
da parte del proletariato inglese, da un lato avrebbe sottratto alla
controrivoluzione europea quella segreta forza che l’aveva resa vittoriosa nel
‘48, dall’altro avrebbe dato al proletariato europeo l’energia che finora gli
era mancata.
La rivoluzione sociale avrebbe cominciato così il suo
movimento peculiare, inverso rispetto alle rivoluzioni politiche: dal centro,
estendendosi a macchia d’olio, avrebbe raggiunto le nazioni più deboli,
sostenuto le forze rivoluzionarie, permettendo loro di “bruciare le tappe”, di
andare oltre le possibilità offertegli dal grado di sviluppo economico
nazionale, di accelerare il tempo storico col terrore rivoluzionario, di
perpetrare la rivoluzione, di raggiungere infine quella dimensione universale
in cui la rivoluzione sociale è vittoriosa89.
Questa prospettiva, sicuramente idilliaca, non voleva però
certamente essere profetica.
È impossibile infatti definire a-priori l’esito delle
congiunture perché è impossibile che si realizzino, al di fuori della
congiuntura, le condizioni oggettive per la vittoria rivoluzionaria. Se infatti
i presupposti della rivoluzione proletaria fossero semplicemente ricavabili dal
grado di sviluppo quantitativo raggiunto dalle forze produttive ad un certo
stadio del modo di produzione capitalistico, non si sarebbe ancora usciti dalla
prospettiva “filosofica” del Manifesto.
Le condizioni oggettive della rivoluzione proletaria sono
allo stesso tempo invece il presupposto e il risultato della congiuntura. Da un
lato infatti lo sviluppo quantitativo delle forze produttive è il fondamento di
ogni crisi economica, quindi di ogni congiuntura rivoluzionaria, e ne determina
il grado di intensità; dall’altro però, all’interno della congiuntura stessa,
la crisi è un processo che si sviluppa, si trasforma, si generalizza e si
radicalizza o si ritrae lasciando lo spazio per la ripresa90.
L’abolizione delle leggi sul grano, la scoperta delle
miniere d’oro californiane, l’immaturità del proletariato europeo,
l’atteggiamento reazionario dei contadini e della piccola borghesia, la
sospensione delle leggi bancarie di R. Peel. Nella congiuntura del ’48 i più
disparati fattori, soggettivi ed oggettivi, avevano impedito la radicalizzazione
della crisi e della congiuntura rivoluzionaria, favorendo la ripresa economica
e la controrivoluzione.
Marx, quasi come volesse esorcizzare tale possibilità
regressiva per il futuro, nei primi anni ’50 incominciò una spasmodica ricerca
degli elementi che potessero fungere da “fattori di radicalizzazione” della
crisi economica “imminente”, e che, tutelando la rivoluzione dalle pericolose
derive “discendenti”, le avrebbero garantito la conquista di quella dimensione
universale vittoriosa. Che si trattasse della politica inglese, della questione
indiana, della guerra di Crimea, delle leggi di Sir R. Peel, dei cambiamenti
dei tassi di interesse della Banca inglese o delle rivolte sociali in Cina,
ogni questione particolare era affrontata sempre dalla medesima prospettiva:
cercando di definirne il ruolo specifico che avrebbe potuto assumere nella
futura crisi e la sua potenziale capacità di inibire la ripresa economica.
La relazione tra la vecchia Europa e gli Stati Uniti
d’America è emblematica della duplice possibilità essenziale, sempre presente
in ogni congiuntura rivoluzionaria: le possibilità espansive del capitalismo
sono ben lungi dall’essersi esaurite; d’altronde la possibilità di una
rivoluzione sociale è altrettanto attuale. Il futuro è aperto a molteplici
possibilità ed è solo nella congiuntura rivoluzionaria che si decidono le sorti
della lotta tra le capacità espansiva e metamorfica del capitalismo, che gli
permette di uscire dalle crisi, e la forza espansiva, “ascendente”,
accelerante, della rivoluzione91.
«Le miniere d’oro californiane sono state scoperte solo da diciotto mesi, e già gli yankees hanno avviato la costruzione di una ferrovia, di una grande strada e di una via d’acqua dal golfo del Messico, già esistono corse regolari di navi a vapore da New York a Chagres, da Panama a San Francisco, già il commercio dell’oceano Pacifico si concentra a Panama, e la rotta per capo Horn è ormai superata. Una costa di 30 gradi di latitudine, una delle zone più fertili e belle del mondo, finora praticamente disabitata, va trasformandosi a vista d’occhio in un paese ricco e civilizzato, densamente popolato da gente di tutte le razze, dallo yankee al cinese, dal negro all’indiano al malese, dal creolo al meticcio all’europeo. L’oro californiano si riversa a fiumi sull’America e sulla costa asiatica dell’oceano Pacifico e trascina gli indocili popoli barbarici nel commercio mondiale, nella civiltà. Quello che nell’antichità furono Tiro, Cartagine e Alessandria, per il medioevo Genova e Venezia e, sino ai giorni nostri, Londra e Liverpool, cioè empori del commercio mondiale, ora ben presto lo diventeranno New York e San Francisco, San Juan de Nicaragua e Leon, Chagres e Panama. Il fulcro del traffico mondiale – nel medioevo l’Italia, nell’epoca moderna l’Inghilterra – sarà ora la metà meridionale della penisola nordamericana. L’industria e il commercio della vecchia Europa debbono impegnarsi a fondo se non vogliono finire nella stessa decadenza toccata all’industria e al commercio italiani dal XVI secolo in poi, e se Inghilterra e Francia non vogliono ridursi a quello che oggi sono Venezia, Genova e Olanda […] Grazie all’oro californiano e all’instancabile energia degli yankees, presto ambedue le coste dell’oceano Pacifico saranno popolate, aperte al commercio e industrializzate quanto lo è attualmente la costa da Boston a New Orleans. Allora l’oceano Pacifico avrà la stessa funzione che ora ha l’oceano Atlantico, e che nel medioevo fu del Mediterraneo, la funzione cioè di grande via marittima del traffico mondiale; e l’oceano Atlantico si ridurrà al ruolo di mare interno, come è ora il Mediterraneo. L’unica possibilità, per i paesi europei civilizzati, di non cadere in quella dipendenza industriali, e commerciale e politica in cui ora si trovano l’Italia, la Spagna e il Portogallo, sta in una rivoluzione sociale che – finché si è in tempo – muti i sistemi di produzione e di trasporto secondo le necessità della produzione quali scaturiscono dalle moderne forze produttive nuove, che mantengano all’industria europea la sua superiorità compensando in tal modo gli svantaggi della posizione geografica»92.
Sebbene quindi progressivamente lo sviluppo capitalistico
aumenti “tendenzialmente” le possibilità della vittoria rivoluzionaria, il
pericolo di nuovi “fattori inibitori”, della ripresa economica, delle derive
controrivoluzionarie, delle brame repressive borghesi è sempre in agguato93.
«Aprés moi le déluge!»94: l’esplosione del fondamento contraddittorio del modo
di produzione borghese apre uno spazio di incertezza storica e di molteplici
possibilità, che si realizzano nel corso dello sviluppo della congiuntura,
attraverso il dispiegamento e l’imprevedibile interazione di una pluralità di
fattori eterogenei, sia soggettivi che oggettivi, che possono fungere da
“inibitori” o da “radicalizzatori” della crisi e che non sono mai definibili
a-priori95.
Note
1 Nel corso del presente lavoro
saranno utilizzati per le opere di Marx i consueti acronimi: MEGA_ =
K. Marx, F.Engels, Gesamtausgabe, a cura dell’Istituto per il
Marxismo-Leninismo del Cc del Pcus e dell’Istituto per il Marxismo-Leninismo
del Cc del Partito socialista unitario tedesco (Sed), Berlin, Dietz Verlag,
1975 sgg, indicando con la cifraromana la sezione e con la cifra araba il volume
e la pagina; MEW = K. Marx, F. Engels, Werke, a
cura dell’Istituto per il Marxismo-Leninismo del Cc del Partito socialista
unitario tedesco, Berlin, Dietz, 1957 sgg; MEOC = K. Marx,
F.Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972 sgg.
2 MEGA_, I,
10, p. 259; MEOC, X, p. 282.
3 MEGA_,
I, 10, p. 467; tr. it. P.
Togliatti, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a
cura di G. Giorgetti, Roma, Editori riuniti, 1970, p. 286. «Dall’inizio del
XVIII secolo non c’è stata in Europa rivoluzione seria che non sia stata
preceduta da una crisi commerciale e finanziaria. Ciò vale per la rivoluzione
del 1789 non meno che per quella del1848» (MEGA_, I, 12, p. 152; MEOC,
XII, pp. 103-104).
4 Cfr. M.
Barbier, La pensèe politique de K. Marx , Paris, l'Harmattan,
1992, pp. 220-232 e M. E. Spencer, Marx on the State: the
Events in France between 1848-1850, in Karl Marx's social and
political thought: Critical assessment, Vol. III, a cura di C.
M. Brown, London - New York, Routledge, 1990, pp. 519-547. La nostra lettura non è assimilabile a queste
interpretazioni, che tendono a considerare le riflessioni politiche marxiane
relative alla rivoluzione del 1848 contraddittorie rispetto alla teoria
rivoluzionaria degli anni ’40. Marx nel 1850 poteva ancora scrivere: «La Lega
ha
fatto buona prova di sé perché
la sua concezione del movimento, quale era stata esposta nelle circolari dei
congressi e del Comitato centrale nel 1847 e nel “Manifesto comunista”, [0]ha
mostrato di essere la sola giusta» ( MEGA_, I, 10,
p. 254; MEOC, X, p. 276). In relazione a tale problema ci
sembra illuminante la riflessione di Lenin: «Nel Manifesto del Partito
comunista si ricavano gli insegnamenti generali della storia; questi
insegnamenti ci mostrano lo Stato come l’organo del dominio di una classe e ci
portano a questa necessaria conclusione: il proletariato non potrebbe
rovesciare la borghesia senza aver prima conquistato il potere politico, senza
essersi assicurato il dominio politico, senza trasformare lo Stato in
“proletariato organizzato come classe dominante”. […] Il problema di
determinare in che cosa consista – dal punto di vista dello sviluppo storico –
questa sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese qui non è posto.
Proprio questo è il problema che Marx pone e risolve nel 1852. Fedele alla sua
filosofia, il materialismo
dialettico, Marx prende come
base l’esperienza storica dei grandi anni rivoluzionari 1848-1851. Qui, come
sempre, la dottrina di Marx è il bilancio di un’esperienza, bilancio illuminato
da una profonda concezione filosofica del mondo e da una vasta conoscenza della
storia». (V. I. Lenin, Opere Scelte, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp.
871-873). Le analisi del biennio rivoluzionario non sono per noi una
falsificazione della teoria enunciata nel Manifesto; costringendo
però Marx a prendere in considerazione il legame tra le possibilità della
rivoluzione proletaria e la “temporalità ciclica” che sola realizza, nella
società capitalista, la “legge generale” dello sviluppo lineare delle forze
produttive, ne impongono un necessario approfondimento e il completamento.
5 Cfr. A. Lepre, La concezione della
storia nell’opera di Marx, in «Studi storici», XXIV, 1983, n. 3-4, pp.
359-365. Per Lepre la rivoluzione del ’48 ha conseguenze teoriche fondamentali:
«Si ha la completa trasformazione del rapporto passato/presente in quello
presente/passato. […] Nelle Forme dunque l’analisi storica non
ha più come oggetto determinati avvenimenti, come nel 18 brumaio o
nelle Lotte di classe e nemmeno una determinata classe, come
nel Manifesto, ma il processo generale che ha portato alla
formazione del produttore isolato. In questo modo essa perviene ad una
scomposizione della struttura della società negli elementi che la compongono e
può studiarli in se stessi e nei loro rapporti. Nei Grundrisse Marx
riprende anche la celebrazione che, insieme con Engels, ha fatto del progresso
nel Manifesto, ma lo attribuisce all’azione non della borghesia
moderna, ma del capitale. […] La sostituzione del capitale
alla borghesia moderna, come
agente e motore dei processi storici, segna perciò una svolta nella concezione
marxiana della storia». (ivi, pp. 359-365). In tutt’altra prospettiva
l’importanza della rivoluzione del ’48 è sottolineata da Kouvélakis: «Le jeune
Marx vit la fin des années de ce qu’on appelle en Allemagne le Vormärz, il
a trente ans au moment où une grande partie de l’Europe se couvre de
barricades, il est lui-même un “quarante-huitard”, selon la terminologie de
l’époque. Un quarante-huitard certes très particulier mais qui prend place dans
cette génération d’intellectuels et de révolutionnaires européens pour lesquels
le 48 et sa défaite marqueront de manière indélébile la vie – une vie d’exilé –
tout autant que l’ouvre. Il ne me semble pas dénué de sens d’examiner
d’ailleurs sous cet angle les
écrits postérieurs à 1850, de
lire en d’autres termes le Capital comme une longue médiation,
portée au niveau du concept, sur la défaite révolutionnaire de 48. Un peu
comme on a pu lire laPhénoménologie de l’esprit de Hegel, et plus
largement l’idéalisme allemand, comme une vaste réflexion sur la Révolution
française et ses conséquences». (E Kouvélakis, Marx
1842-1844: de l’espace public à la démocratie révolutionnaire, in AA.
VV. Marx 2000, sous la direction de E. Kouvélakis, Paris, Presses
universitaires de France, 2000, pp. 91-92).
6 MEW, 3, p. 27; tr. it. F. Codino, L’ideologia
tedesca, Roma 1958, pp. 23-24.
7 Cfr. G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto.
Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo , Napoli, Liguori,
1981, pp. 25-28. La lettura marxiana della storia può esser compresa soltanto
tenendo presente i due differenti livelli nei quali si struttura. Il livello
più astratto è quello in cui il lavoro è concepito come interscambio fra l’uomo
e la natura; tale piano si realizza però soltanto attraverso l’astrazione
dall’altro livello, in cui l’uomo è «colto come prodotto di un organismo
sociale, vero e unico soggetto dell’interscambio con la natura» (ivi, p. 28).
Tale duplicità di livelli d’analisi si giustifica a partire dalla finalità
marxiana: «individuare la forma specifica, storicamente determinata, in cui si
combinano fra loro i fattori della produzione» (ibid.). Ci sembra
altrettanto esplicativa, sebbene il nostro angolo visuale sia differente, la
prospettiva di Fineschi: «Con l’Ideologia tedesca, di fatto, Marx
riprende la strada della “logica peculiare dell’oggetto peculiare”, cercando di
ricostruire la dialettica concreta del reale». (R. Fineschi, Hegel e
Marx. Contributi a una rilettura, Roma, Carocci, 2006, pp.
30-32). «Che cosa significhi uomo, quale sia la natura del suo rapporto con gli
altri e via dicendo sono caratteristiche che si stabiliscono solo mediante lo
strutturarsi delle formazioni
sociali specifiche. Che cosa
sia uomo in astratto non è dato saperlo perchè questa nozione esiste per
l’appunto solo per astrazione da un processo storico in atto che
progressivamente si da forme distinte in base alle regole sociali di volta in
volta determinate» (ivi, p. 100). Non ci sembra quindi condividibile la tesi di
Finelli (Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx,
Torino, Bollati Boringhieri, 2004) che riduce il materialismo
storico ad una nuova “filosofia della storia” fondata su una concezione
organicista e feuerbachiana, metafisica, dell’uomo. Sulla fondazione della
teoria marxiana attraverso la critica dell’ideologia cfr. E. Balibar, La
philosophie de Marx, Paris, La decouverte, 1993 e Id., Cinq études
de matérialisme historique, Paris, F. Maspero, 1974, pp. 45-49; M. Barbier, La
pensèe politique de K. Marx, cit., p. 60- 99; R. Guastini, I due
poteri - Stato "borghese" e stato operaio nell'analisi marxista,
Bologna, Il mulino, 1978, p. 20- 29; G. Labica, Le statut marxiste de
la philosophie, Bruxelles, Éd. Complexe, 1976, pp. 277-310; M. Löwy, La
realtà rivoluzionaria nel giovane Marx, tr. it. D. Tarizzo,
Milano, Ottaviano, 1976, 120-135; E. Renault, Marx e l’idea di critica, tr.
it. M.T. Ricci, Roma, Manifestolibri, 1999, pp. 91-97.
8 «En fin de compte, qu’est-ce qui caractérise
l’histoire historique des hommes, par opposition à l’histoire naturelle de la
nature? L’histoire possède bien un trait spécifique qui la différencie de la
nature. C’est la transformation de conditions “naturelles” (y compris les
conditions socio-naturelles) en conditions qui sont elles-mêmes un résultat
produit par une activité sociale. Les conditions externes données, trouvées là,
sont modifiées et changées en conditions internes produites et reproduites. La
société se renouvelle et reproduit ses conditions, y compris ses conditions
socionaturelles, qui, au début, lui sont imposées, mais qu’en même temps elle
modifie». (M.
Vadée, Marx penseur du possible, Paris, Méridiens
Klincksieck, 1992, pp. 224-225).[0]
9 MEW, 3,
p. 38; tr. it. L’ideologia
tedesca, cit, pp. 34-35.
10 «L’idée de Marx est que la thèse selon laquelle
“les circonstances font tout autant les hommes que les hommes font les
circonstance” se renverse à partir du moment où les
hommes font tout autant les circonstances que les circonstances font
les hommes. Non seulement, cette thèse a une valeur critique contre
les diverses écoles philosophiques matérialistes et idéalistes, mais elle ne
s’applique pas indifféremment à toutes les époques historiques. Il faut la
comprendre comme s’appliquant à notre époque qui est celle d’un tournant
historique mondial. Du moins, Marx le pensait-il. Telle est l’expression et
l’essence du matérialisme marxien» (M. Vadée, Marx penseur du possible, cit.,
p. 247).
11 MEW, 4, p. 464; MEOC, VI,
p. 489.
12 MEW,
6, pp. 418-419; MEOC, IX, pp. 230-231.
13 «Questa giusta proporzione tra l’offerta e la
domanda che ricomincia ad essere l’oggetto di tanti pii desideri, da molto
tempo ha cessato di esistere. È ormai divenuta una cosa antiquata. È stata
possibile solo nei tempi in cui i mezzi di produzione erano limitati, in cui lo
scambio si muoveva entro limiti estremamente ristretti; con la nascita della
grande industria, questa giusta proporzione doveva cessare, e la produzione è
stata fatalmente costretta a passare, in successione continua, attraverso
vicissitudini di prosperità, di depressione, di crisi, di ristagno, di nuova
prosperità e via di seguito […]. Cos’era che manteneva la produzione nelle
giuste proporzioni, o quasi? La domanda che si imponeva
all’offerta, precedendola. La
produzione seguiva passo passo il consumo. La grande industria, costretta dagli
stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può
più attendere la domanda. La produzione precede il consumo, l’offerta da
violenza alla domanda. Nella società attuale, con l’industria basata sugli
scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è la fonte di tanta
miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso. Così, di due cose,
l’una: O volete le giuste proporzioni dai secoli passati, con i mezzi di
produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e
utopisti. O volete il progresso senza l’anarchia; e allora, per conservare le
forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali. Gli scambi
individuali infatti non sono conciliabili se non con la piccola industria dei
secoli passati, e col suo corollario di “giusta proporzione”, ovvero anche con
la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo seguito di miseria e di
anarchia». (MEW, 4, pp. 97-98; MEOC, VI, pp.138-139).
14 MEW, 4, p. 468; MEOC, VI,
pp. 491-492. Sulle crisi cicliche del modo di produzione capitalistico cfr. M.
Vadée, Marx penseur du possible, cit., pp. 417-448.
15 Soltanto l’affermazione della grande industria
moderna, invertendo il rapporto tradizionale tra produzione e mercato, rende
inadeguati i rapporti di produzione borghesi rispetto al grado di sviluppo
delle forze produttive. Parallelamente solo la grande industria moderna
trasforma il proletariato come classe rivoluzionaria: «Si potrebbe dire che
fino al 1825, l’epoca della prima crisi universale, i bisogni del consumo siano
in generale cresciuti più rapidamente della produzione e che lo sviluppo delle
macchine era la conseguenza forzata dei bisogni del mercato. Dal 1825
l’invenzione e l’applicazione delle macchine non sono che il risultato della
guerra tra padroni e operai. E anche ciò vale solo per l’Inghilterra. Le
nazioni europee sono state costrette ad usare le macchine dalla concorrenza che
gli inglesi facevano
loro sia sul mercato interno,
sia sul mercato mondiale» (MEW, 4, p. 551, MEOC, XXXVIII,
p. 462). Sul legame tra grande industria e sviluppo del proletariato
rivoluzionario cfr. G. M. Cazzaniga,Funzione e conflitto, cit., pp.
159-160; F. Claudin, Marx, Engels et la révolution de 1848, traduit
de l’espagnol par A. Valzer, Paris, F. Maspero, 1980, pp. 35- 51 e P. M.
Sweezy, Marx and the Proletariat, in Karl Marx's social and
political thought: Critical assessment, Vol. II, a
cura di C. M. Brown, London - New York, Routledge, 1990. pp. 228-240.
16 «Superare l’alienazione non consiste nel
ristabilire l’essenza traviata e quindi nel cancellare le condizioni materiali
di produzione stabilite dal modo di produzione capitalistico, ma nel superare
la forma in cui il rapporto vi si presenta; le condizioni capovolte, il
contenuto materiale che consiste nell’inversione di soggetto e oggetto, non
solo non vanno cancellate, ma rappresentano il guadagno, il progresso
epocale del modo di produzione capitalistico. Si tratta di trasformare
il comando esterno in comando proprio e, attraverso la scienza, di produrre le
condizioni in cui il lavoro meramente meccanico sia completamente automatizzato
e all’uomo restino il lavoro universale della scienza e il libero sviluppo
delle potenzialità personali. Non va abbattuto il contenuto, ma laforma,
ossia bisogna dare effettualità alla nuova forma latente nel
contenuto venutosi a creare» (R. Fineschi, Hegel e Marx, cit.,
p. 102).
17 Non possiamo proprio per questo condividere
pienamente la prospettiva di Balibar : «Misère de la philosophie, 1846
[…] et surtout le Manifeste du Parti communiste, […]
constituent les premiers exposés cohérent du matérialisme historique;
c’est-à-dire les premiers textes de Marx dont la position théorique soit
irréductible à toute forme antérieure, où la position spécifique du prolétariat
devient dominante en même temps qu’elle trouve sa formulation. La rupture est
alors à la fois théorique et politique» (E. Balibar, Cinq études de
matérialisme historique, cit., p. 23). Tali testi invece a noi
sembrano non essere pienamente conseguenti proprio con i nuovi presupposti teorici,
poiché le analisi politiche di Marx sono ancora indifferenti alla modalità
specificamente ciclica di sviluppo del modo di produzione capitalistico. La
nostra tesi è quindi altresì opposta a quella di A. Tosel: «En ce qui concerne
la théorie de l’organisation du prolétariat en classe révolutionnaire, elle a
pour base une première théorie des crises sociales et politiques du mode de
production capitaliste: la contradiction fondamentale entre forces de
production et système des rapports de production est le terrain qui permet à la
classe ouvrière, pourtant appelée à s’appauvrir pour produire davantage, de
devenir classe générale» (A.Tosel, Les critiques de la politique chez
Marx, in E. Balibar, A. Tosel, C. Luporini, Marx et sa
critique de la politique, Paris, F. Maspero, 1979, p. 28). Sul
rapporto tra la filosofia e la teoria marxiana degli anni ‘40 cfr. anche E.
Balibar,La crainte des masses, Paris, Galilée, 1997,
pp. 184-189 ; Id., L’idée d’une politique de classe chez Marx, in Marx
en perspective, textes réunis par Berbard Chavance, Paris,
Éd. de l'École des hautes études en sciences sociales, 1985, pp. 173-192 e Id., État,
parti, idéologie. Esquisse d’un problème, in E. Balibar, A. Tosel, C.
Luporini, Marx et sa critique de la politique, cit.,
pp. 134-136.
18 Sulla concezione marxiana della rivoluzione
francese come “forma classica” della rivoluzione e sul “giacobinismo” di Marx
cfr. E. Balibar, La crainte des masses, cit., pp. 157-165; B.
Bongiovanni,Le repliche della storia: Karl Marx tra la Rivoluzione
francese e la critica della politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1989,
pp. 60-70; J. Bruhat, Marx et la révolution française,
in «Annales historiques de la Révolution française», aprile-giugno 1966, pp.
125-147; A. Cornu, Karl Marx et la révolution française, in «La
pensée», 1958, n. 81, pp. 61-74; F Furet, Marx et la revolution
francaise, Paris, Flammarion, 1986, pp. 13-85; G. Sgro’, «Le
considerazioni di un giovane in occasione della scelta di una professione»:
il tema di tedesco di Karl Marx per l’esame di licenza liceale, in
«Archivio di storia della cultura», anno XVIII, 2005, pp.79-98; A. Soboul, Karl
Marx et l’expérience révolutionnaire française. Les origines de la théorie de
la dictature du prolétarat, in «La Pensée», 1951, n. 36, pp.
61-69.
19 Sulla strategia rivoluzionaria prima della
rivoluzione del 1848 e sul rapporto tra i comunisti e le altre forze
democratiche
cfr. E. Balibar, Marx, Engels and the Concept of the Party, in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, vol. III,
cit.. pp. 146-151; M. Barbier, La pensée politique de Karl Marx, cit.,
pp. 198-216; J. Cunliffe, Marx, Engels, and the Party, in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, vol. III,
cit., pp. 198-215; M. Johnstone, Marx and Engels and the
Concept of the Party, in Karl Marx's social and political thought:
Critical assessment, Vol. III, cit.. pp. 161-197; B. H. Moss, Marx
and Engels on French social democracy: Historians or Revolutionaries? in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol. I, a cura di C. M. Brown, London - New
York, Routledge, 1990, pp. 222-237; J. Texier, La nozione di “Partito”
e di “Partito comunista” nel 1847-1848, in R. Rossanda ( a cura di), Il
Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo, Roma, Manifestolibri, 2000, p.
224-228.
20 «Che fa il ministero? Nulla. Che fa
l’opposizione parlamentare legale? Nulla. Che si deve aspettare la Francia
dalle Camere attuali? Nulla. Che vuole Guizot? Restare al ministero. Che
vogliono Thiers, Molé e compagnia? Rientrare al ministero. Che guadagna la
Francia con questo eterno: ôte-toi de là, afin que je m’y mette? Nulla.
Ministero e opposizione sono dunque condannati a non far nulla. Chi compirà da
solo la prossima rivoluzione francese? Il proletariato. Che ci farà la
borghesia? Nulla». (MEOC, VI, p. 522).
21 MEW, 4, p. 473; MEOC, VI, p. 497.
22 MEW,
4, p. 480; MEOC, VI, p. 504.
23 MEW,
4, p. 417; MEOC, VI, p. 411.
24 MEGA_, I, 11,
p. 319; MEOC, XI, pp. 338-339.
25 «Con la Reazione, con i Borboni» alla
borghesia liberale «le si è contrapposta ancora una volta la controrivoluzione.
Infine, nel 1830, questa borghesia ha realizzato i suoi desideri del 1789». (MEW, 2,
p. 131; tr. it. A. Zanardo, La sacra famiglia, Roma,
Editori riuniti, 1967, p. 162). Nella Sacra Famiglia Marx
interpreta il periodo controrivoluzionario tra il 1815 e il 1830 come un
accadimento meramente empirico, una breve interruzione nel regolare sviluppo
della storia verso la piena affermazione della società capitalista,
un’affermazione solo temporanea del caso sulla necessità storica. Gli esiti
controrivoluzionari della storia sono infatti assolutamente incompatibili con
una concezione semplicemente
lineare
dello sviluppo storico.
26 Cfr.
la definizione di E. Balibar del termine “ contre-révolution” in Dictionnaire
critique du Marxisme , , sous la direction de G. Labica, Paris,
Presses universitaires de France, 1982, p. 241 e L. Brownstein, The
Concept of Counterrevolution in Marxian Theory, in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol. III, cit., pp.273-282.
27 Questo rapporto assolutamente contraddittorio
tra la borghesia e i poteri reazionari emerge chiaramente nelle riflessioni di
Marx sulla borghesia industriale inglese. Da un lato, infatti, è naturalmente
spinta alla rivoluzione: «A che cosa appartiene la monarchia, con i suoi
“barbarici splendori”, la sua corte, la sua lista civile e i suoi lacchè, se
non ai faux frais della produzione? La nazione può produrre e
scambiare senza la monarchia; liberiamoci della monarchia. Le sinecure della
nobiltà, la Camera dei lords? faux frais di produzione. Le
colonie? faux frais di produzione. La Chiesa di Stato con le
sue ricchezze, spoglie di saccheggi o di elemosine? faux frais di
produzione. Lasciate che i parroci si facciano libera concorrenza fra di loro e
che ciascuno li paghi secondo i suoi bisogni. Tutta la meticolosa routine della
legislazione inglese, con la sua Corte di cancelleria? faux frais di
produzione. Le guerre nazionali? faux frais di produzione.
L’Inghilterra può sfruttare le nazioni estere più a buon mercato in tempo di
pace» (MEGA_, I, 11, p. 324;
MEOC, XI, p. 344). D’altra parte però la borghesia
inglese non può portare a termine questo suo compito
rivoluzionario: «Questi stessi
“valorosi” liberoscambisti, rinomati per la infaticabilità con cui denunciano
l’interferenza governativa, questi apostoli della dottrina inglese del laissez
faire, che pretenderebbero di dare via libera in ogni circostanza agli
interessi individuali, sono sempre i primi a chiedere l’intervento del governo
non appena gli interessi individuali del lavoratore vengono in conflitto con i
loro interessi di classe. In questi momenti di scontro essi guardano con aperta
ammirazione agli Stati del continente, dove governi dispotici, che pure non
permettono alla borghesia di governare, almeno impediscono ai lavoratori di
opporre resistenza» (MEGA_, I, 12, p. 175; MEOC, XII,
p. 137).
28 MEGA_,
I, 10, p. 146; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 159.
29 MEW, 4, p. 464; MEOC, VI,
p. 488.
30 Si chiarifica così la relazione tra la
concezione dello Stato moderno come Stato burocratico e parassitario,
formalmente autonomo dalla società, e quella dello Stato come Stato di classe,
enunciata nel Manifesto: quest’ultima, fondata soltanto sulla
prospettiva lineare, diventa una “tendenza” che non può mai realizzarsi per il
duplice e sincronico antagonismo che caratterizza la classe borghese. Sul
rapporto dello Stato e la struttura di classe specifica della società borghese
cfr. anche E. Andrew, Marx’s Theory of Classes: Science and Ideology,
in Karl Marx's social and political thought: Critical
assessment, Vol. II, cit., pp. 263-277; E. Balibar, Cinq études de
matérialisme historique, cit., pp. 167-178; R. Guastini, I due
poteri, cit., pp. 25-26; M. Mauke, La teoria delle classi nel
pensiero di Marx ed Engels, tr.it. C. Papini, Milano, Jaca Book, 1973, pp.
9-15; D. Sayer, The Critique of Politics and Political Economy: Capitalism,
Communism and State in Marx’s Writings of the Mid-1840s., in Karl
Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol. I,
cit., pp. 670-678.
31 «Si
je dis que l’État est séparé de la lutte des classes (qui se déroule dans la
production-exploitation, dans les appareils politiques et dans les appareils
idéologiques) parce qu’il est fait pour ça,fait pour être
séparé d’elle, c’est qu’il lui faut cette “séparation”, pour pouvoir
intervenir dans la lutte des classes et “tous azimuts”, car non seulement dans
la lutte de la classe ouvrière, afin de maintenir le système d’exploitation et
d’oppression général de la classe bourgeoise sur les classes exploitées, mais
aussi, éventuellement, dans la lutte de classe intérieure à la classe
dominante, contre la division de la classe dominante qui peut être pour elle,
si la lutte de classe ouvrière et populaire est forte, un grave péril» (L.
Althusser, Marx dans ses limites, in Id., Écrits
philosophiques et politiques, vol. I, Paris, IMEC, 1994, pp.
428-449).[0]
32 MEGA_, I, 10,
p. 139; tr. it., Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850,
cit., p. 142.
33 MEGA_, I, 10,
p. 148; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 167.
34 Ibidem.
35 Marx aveva descritto il “compromesso
ipocrita” tra la borghesia e le forze reazionarie. Lenin coglierà la
possibilità della stessa mediazione anche tra la borghesia e l’altro suo
nemico, il proletariato: «Perché il monopolio dell'Inghilterra spiega la
vittoria (temporanea) dell'opportunismo in Inghilterra? Perché il monopolio dà
un sovrapprofitto, cioè un'eccedenza di profitto, superiore al profitto
capitalistico abituale, normale in tutto il mondo. Di questo sovrapprofitto i
capitalisti possono sacrificare una piccola parte (e persino assai
considerevole!) per corrompere i propri operai, per creare una specie di
alleanza (…), un'unione degli operai di una data nazione con i propri
capitalisti contro gli altri paesi. (…) La borghesia, di una «grande» potenza
imperialistica può corrompere economicamente gli strati superiori dei «propri»
operai, sacrificando a questo scopo anche più d'un centinaio di milioni di
franchi all'anno, poiché il sovrapprofitto ammonta, probabilmente, a circa un
miliardo» (V. I. Lenin, Opere complete, vol. 23, tr, it I.
Ambrogio, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 126-127).
36 Sull’essenziale carattere a-politico della
borghesia e sulla conseguente “metamorfosi” delle classi reazionarie cfr. H.
Draper, Karl Marx’s Theory of Revolution, vol. I, State
and Burocracy,London, Monthly Review Press, 1977, pp. 320- 324. e 490-497. Per Draper la classe capitalista è per natura
avversa alla gestione diretta dell’apparato statale: in primo luogo perché il
rapporto tra capitale e lavoro è una relazione puramente economica e il
capitalista quindi, sebbene abbia sempre bisogno dell’appoggio politico dello
Stato, ha preoccupazioni decisamente non politiche. In secondo luogo
storicamente la classe capitalista non si è sviluppata come classe nobile, ma
attraverso il lavoro e lo sfruttamento del lavoro produttivo degli altri; tale
distinzione tra produttori e aristocratici spinge conseguentemente la classe
capitalista ad identificare la partecipazione politica con il parassitismo.
Infine, la forte conflittualità e competitività tra le varie frazioni della
classe borghese, sia a livello sia nazionale che internazionale, rende
difficile per un capitalista rappresentare gli interessi dell’intera
classe.
37 Sulla forza mistificatrice dell’autonomia
formale del potere politico sembra fondamentale un confronto con le stimolanti
analisi di E. Balibar. (L’idée d’une politique de classe chez Marx, in Marx
en perspective, cit., pp. 497-526) sul “corto circuito” marxiano. Il
grande merito di Marx è per Balibar quello di aver colto, al di là della scissione
ideologica borghese tra sfera economica e sfera politica, la loro matrice
comune; la nozione di antagonismo sociale, che delinea il rapporto di lavoro
salariato e capitale, svela infatti una relazione che, né puramente economica
né politica, è piuttosto la base, il terreno comune, su cui si strutturano
entrambe: «En opérant ce court-circuit, le marxisme produit donc, plutôt qu’un
“renversement” selon la métaphore classique, une déplacement et une rotation de
l’axe des représentations du “social”: il prive la notion de propriété de sa
fonction centrale […] et il remplace l’axe “vertical” des rapports société /
Etat par le réseau transversal des implications, des effets et conditions du
rapport de production. Du même coup il crée une zone de tension insupportable
dans l’espace des confrontations idéologiques» (ivi, p. 515). Nella nostra
prospettiva questa “separazione ideologica” è da intendersi proprio come
“apparenza reale”: lo Stato, solo in quanto è formalmente separato dalla
società, in quanto si presenta come un “potere metafisico”, può svolgere la
sua funzione specifica di garantire le condizioni dello sfruttamento del
capitale sul lavoro. La crisi congiunturale ha proprio per questo una forte
potenza demistificatrice: annichilendo quel sistema di mediazioni che
permettevano di mantenere la “parvente” autonomia della sfera pubblica da
quella privata e lasciando emergere l’antagonismo sociale, rivela la duplice
natura del capitale, «la nature indistinctement “économique” et “politique”, ou
plutôt, comme nous pouvons maintenant l’écrire, ni économique ni politique, au
sens que ces catégories reçoivent dans l’idéologie bourgeoise» (ivi, p. 511).
La congiuntura rivoluzionaria, in altri termini, si apre proprio nel momento in
cui, nella crisi, il rapporto di capitale e lavoro salariato lascia emergere il
proprio significato non solo economico, ma invece anche politico. Cfr. anche
L. Althusser, Per Marx, tr. it. F. Madonia, Roma, Editori Riuniti,
1972, pp. 91-92; Id. Marx dans
ses limites, cit., pp. 428-449; E. Balibar, Sur
la dictature du prolétariat, Paris, F. Maspero, 1976, pp. 53-65; R.
Guastini, I due poteri, cit., p. 38-39 e A. Tosel, Les
critiques de la politique chez Marx, cit., pp. 31-32.[0]
38 MEGA_, I, 11,
p. 324; MEOC, XI, p. 345.
39 «Sarebbe
facile allungare questo elenco delle concessioni fatte dal ministero di
coalizione alla scuola di Manchester. Che cosa provano queste concessioni? Che la borghesia industriale, per quanto debolmente
rappresentata alla Camera, è tuttavia la vera padrona della situazione e che
ogni governo, sia esso whigs, tory o di coalizione, può mantenersi in carica e
può mantenere la borghesia fuori del governo, soltanto facendo per quest’ultima
il lavoro preparatorio. Risalite attraverso i documenti della legislazione
britannica fino al 1825 e potrete costatare che si resiste sul piano politico
alla borghesia facendole una concessione dopo l’altra sul piano finanziario.
Quel che l’oligarchia non riesce a capire è il semplice fatto che il potere
politico è soltanto il prodotto del potere commerciale e che la classe alla
quale essa è costretta a cedere quest’ultimo finirà necessariamente per
conquistarsi anche il primo. Lo stesso Luigi XIV, quando attraverso Colbert
emetteva leggi in favore dei manifatturieri, andava preparando la rivoluzione
del 1789, e al suo “l’état c’est moi” Sieyès potrà rispondere “le tiers état
est tout”. (MEGA_,
I, 12, p. 123, MEOC, XII, p. 73).
40 MEGA_, I,
14, p. 170; MEOC, XIV, p. 52.
41 MEGA_,
I, 10, p. 122; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit.,
p. 96.
42 MEGA_, I, 10,
p. 121; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit.,
p. 95.
43 MEW, 6,
p. 106; MEOC, VIII, p. 157.
44 MEGA_, I,
12, p. 332; MEOC, XII, p. 323.
45 Cfr.
J. Ehrenberg, The dictatorship of [0]proletariat,
London-New York, 1992, pp. 41-49 e B. H. Moss, Marx and Engels on
French Social Democracy: Historians or Revolutionaries?, cit., pp. 222-237. Per entrambi gli autori la rivoluzione
del 1848 aveva mostrato a Marx il carattere intimamente conservatore della
borghesia e l’aveva conseguentemente spinto a cambiare la strategia
rivoluzionaria, individuando altri soggetti rivoluzionari. Quest’interpretazione
però permette di cogliere solo un lato della contraddizione borghese, mentre
non tiene presente l’antagonismo altrettanto essenziale tra la
borghesia e le forze reazionarie.
46 MEGA_, I, 11,
pp. 350-351; MEOC, XI, p. 377.
47 MEGA_,
I, 11, p. 165; tr. it. P.
Togliatti, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori riuniti, 1964, pp.
178-179.
48 «Ci si immagini ora come il borghese
francese, in mezzo a questo panico commerciale, doveva avere il cervello,
malato come il suo commercio, torturato, confuso, stordito dalle voci di colpi
di stato e di restaurazione del suffragio universale, dalla lotta tra il
Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di fronda tra i legittimisti e
gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste a sud della Francia, dalle pretese
jacqueries nei dipartimenti della Nièvre e dello Cher, dalla pubblicità dei
diversi candidati alla presidenza, dalle parole d’ordine ciarlatanesche dei
giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler difendere la Costituzione e
il suffragio universale con le armi alla mano, dal vangelo degli eroi emigrati
in partibus che annunciavano la fine del mondo per la seconda (domenica) di
maggio del 1852, e si comprenderà come, in mezzo a questa costituzione,
cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e rivoluzione, il borghese
furibondo gridasse in faccia alla repubblica parlamentare: “Meglio una fine con
spavento che uno spavento senza fine !”». (MEGA_, I, 11, p. 169; tr.
it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 186-187).
49 MEW, 6,
p. 194; MEOC, VIII, p. 268.
50 MEGA_,
I, 11, pp. 177-178; tr. it. Il 18
brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 204.
51 MEGA_,
I, 10, p. 196; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850,
cit., p. 278.
52 Cfr.
W. Wesolowski, Marx’s Theory of Class Domination (an attempt at
systematization) , in Karl Marx's social and political
thought: Critical assessment, Vol. II, cit., pp.173-181. Wesolowski separa da un lato
la battaglia legale dalla rivoluzione, concependoli come due strumenti
differenti, ma entrambi validi, della lotta di classe; dall’altro distingue tra la
“forma ideologica”, (classica, diretta) e la “forma repressiva” (indiretta) del
dominio borghese. Queste distinzioni sono interessanti per la
nostra riflessione: la loro possibilità effettiva, l’imporsi di una specifica
modalità di lotta o di una forma determinata di Stato, dipende
infatti precisamente dalle differenti fasi dello sviluppo ciclico del
capitalismo, dal grado di intensità dei periodi di recessione o
dalla forza espansiva dei momenti di prosperità; dalla possibilità di restare
sul terreno di quei possibili “compromessi” che eludono il pericolo
dell’apertura della congiuntura rivoluzionaria.
53 MEGA_, I,
10, p. 124; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850,
cit., p. 107.
54 MEW, 6,
p. 106; MEOC, VIII, p. 158.
55 MEW, 6,
p. 111; MEOC, VIII, p. 162.
56 MEGA_, I,
10, p. 125; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit.,
p. 108.
57 MEGA_,
I, 11, p. 118; tr. it. Il 18
brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 85.
58 MEW, 6,
p. 102; MEOC, VIII, p. 153.
59«Ce
sont donc les exigences du moment historique . moment critique et
révolutionnaire où s’aiguise la lutte des classes – qui motivent cette
réactivation du fonds représentatif de chaque classe engagée dans la crise
révolutionnaire : celle-ci a en effet pour conséquence de briser le status
quo, caractérisé par la fixation temporaire de la configuration des
rapports de forces sociaux et les oblige par là même à mobiliser leur stock
d’armes idéologiques. La crise a donc pour effet, en remettant en jeu les
intérêts vitaux de domination de la classe, de la faire revenir pour ainsi dire
à sa propre origine, au moment de sa fondation pour renaître à proprement
parler comme classe dominante. Les anciens combats servent de paradigmes
aux nouveaux » (P. L. Assoun, Marx et la répétition historique, Paris,
Presses Universitaires de France, 1978, pp. 130-131). Sul problema della funzione delle rappresentazioni
ideologiche nella storia cfr. anche I.Garò, Représentation et politique
chez Marx, in «La pensée», n. 350, avril-juin 2007, pp. 77-88 e M.
Tomba, Il materialista storico al lavoro.
La storiografia politica del Diciotto Brumaio, in AA.VV. Pensare
con Marx, ripensare Marx, Roma, Sped. Al. Graf, 2008.
60 MEGA_, I,
10, p. 132; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, .
cit., p. 126.
61 MEGA_, I, 10,
p. 136; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit.,
p. 136.
62 MEW, 5,
p. 25; MEOC, VII, p. 26.
63 MEW, 6, p.
112; MEOC, VIII, p. 164.
64 MEW, 6,
p. 79; MEOC, VIII, p. 101.
65 A Londra, il 10 aprile, fu
spezzata per la prima volta non soltanto la potenza rivoluzionaria dei
cartisti, ma anche la propaganda rivoluzionaria della vittoria di
febbraio. Chi valuta giustamente l’Inghilterra e tutta la sua
posizione nella storia moderna non ha potuto meravigliarsi del fatto che le
rivoluzioni del continente siano per il momento passate senza lasciar traccia
su di essa. […] L’Inghilterra non accetta la rivoluzione del continente; quando
la sua ora verrà, essa detterà la rivoluzione al continente. Questa
era la posizione dell’Inghilterra, questa la conseguenza necessaria di tale
posizione, e perciò la vittoria dell’ “ordine” il 10 aprile era perfettamente
spiegabile. Ma che non ricorda come questa vittoria dell’”ordine” è stata il
primo contraccolpo ai colpi del febbraio e del marzo, come essa ha dato
dappertutto nuovo respiro alla controrivoluzione, e come ha riempito di ardite
speranze i petti dei cosiddetti conservatori!». (MEW, 6, pp. 77-78; MEOC,VIII,
pp. 99-100).
66 «Tutte le volte che essa proibì completamente
“agli altri” queste libertà, o ne permise l’esercizio soltanto a
condizioni che sono altrettante
trappole poliziesche, ciò avvenne sempre nell’interesse della “sicurezza
pubblica”, cioè della sicurezza della borghesia, così come prescrive la
Costituzione. Perciò, in seguito ebbero diritto di appellarsi alla Costituzione
tanto gli amici dell’ordine, che sopprimevano tutte queste libertà, quanto i
democratici, che le reclamavano integralmente. Ogni paragrafo della
Costituzione contiene infatti la sua propria antitesi, la sua Camera alta e la
sua Camera bassa: nella proposizione generale, la libertà, nella nota
marginale, la soppressione della libertà. Sino a che, dunque, il nome della
libertà venne rispettato e venne soltanto ostacolata, con mezzi legali
s’intende, la vera realizzazione di essa, l’esistenza costituzionale della
libertà rimase illesa, intatta, benché la sua esistenza reale venisse
distrutta». (MEGA_, I, 11, pp. 109-110; tr. it. Il 18 brumaio di
Luigi Bonaparte, cit., p. 69).
67 MEGA_, I,
10, pp. 545-546; MEOC, X, pp. 592-593.
68 MEGA_, I,
11, pp. 135-136; tr. it. Il 18
brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 119-121.
69 MEGA_, I, 11,
p. 110; tr. it. Il 18
brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 70.
70 Sulla struttura intrinsecamente
contraddittoria della Costituzione francese del 1848 cfr. P. Craveri, Genesi
di una costituzione, Napoli, Guida, 1985.[0]
71 MEW,
6, p. 113; MEOC, VIII, p. 165.
72 Ibidem.
73 MEW, 6, p.
234; MEOC, VIII, p. 318. «La nobiltà agraria dell’Uckermark arde nel
desiderio di un conflitto con il popolo, di una ripetizione delle scene
parigine di giugno nelle strade di Berlino; ma non si batterà per il ministero
Hansemann, si batterà per il ministero del principe di Prussia» (MEW, 5,
p. 398; MEOC, VII, p. 441).
74 MEW, 6,
p. 110; MEOC, VIII, p. 161.
75 «In una parola: il progresso rivoluzionario
non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al
contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo
sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione
raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario» (MEGA_, I,
10, p. 119; tr. it. Le lotte di classe in
Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 89).
76 MEGA_, I, 10,
pp. 139-140; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850 , cit., pp. 141-145. «Le cosiddette rivoluzioni del
1848 furono soltanto dei poveri episodi – piccole rotture e crepe nella dura
crosta della società europea. Eppure resero visibile una voragine. Esser
rivelarono, al di sotto della superficie apparentemente solida, un mare di
materia fluida, che aveva solo bisogno di espandersi per mandare in frantumi
continenti di roccia compatta. Rumorosamente e confusamente esse annunciarono
l’emancipazione del proletariato, vale a dire il segreto del XIX secolo e della
sua rivoluzione» (MEGA_, I, 14, p. 119; MEOC, XIV,
p. 655).
77 MEW, 5, p.
457; MEOC, VII, p. 520.
78 «Il proletariato non è una mera parte attiva
di questo intero, ma il crescere e lo svilupparsi della sua conoscenza da un
lato e, dall’altro, il suo stesso crescere e svilupparsi nel corso della storia
sono soltanto due aspetti del medesimo processo reale» (G. Lukács, Storia
e coscienza di classe, tr.it. G. Piana, Milano, Sugarco, 1973, p.
29-30).
79 MEGA_, I,
10, pp. 296-297; MEOC, X, p. 334.
80 «Posto che la controrivoluzione vivesse in
tutta Europa grazie alle armi, morirebbe in tutta Europa grazie al denaro. La
fatalità che incasserebbe la vittoria sarebbe la bancarotta europea, la
bancarotta di Stato. Contro le punte “economiche” le punte delle baionette
si sbriciolano come l’esca morbida». (MEW, 5, p. 457; MEOC, VII,
p. 519).
81 «Lo sviluppo del proletariato industriale è
condizionato, in generale, dallo sviluppo della borghesia industriale. E’
soltanto sotto il dominio della borghesia industriale che il proletariato
industriale acquista quella larga esistenza nazionale, la quale rende nazionale
la sua rivoluzione; crea i moderni mezzi di produzione, i quali diventano in
pari tempo i mezzi della sua emancipazione rivoluzionaria. Solo il dominio
della borghesia industriale strappa le radici materiali della società feudale e
spiana il terreno, sul quale solamente è possibile una rivoluzione proletaria.
[…] La borghesia industriale può dominare soltanto là dove l’industria moderna
foggia a propria immagine tutti i rapporti di proprietà, e l’industria può
raggiungere questo potere solo quando ha conquistato il mercato mondiale,
perché i confini nazionali non bastano al suo sviluppo. Ma l’industria francese
in gran parte si assicura lo stesso mercato nazionale solo mediante un sistema
proibitivo più o meno modificato. […] La lotta contro il capitale nella sua
forma moderna, sviluppata, nella sua fase culminante, la lotta del salariato
industriale contro il borghese industriale, è in Francia un
fatto parziale, che dopo le giornate di febbraio tanto meno poteva fornire
il contenuto nazionale della rivoluzione, in quanto la lotta contro i metodi
secondari di sfruttamento capitalistico, dei contadini contro l’usura
ipotecaria del piccolo borghese contro il grande commerciante, il banchiere e
l’industriale, in una parola, contro la bancarotta, era ancora confusa nel
sollevamento generale contro l’aristocrazia finanziaria in generale» (MEGA_, I,
10, p. 127; tr. it. Le lotte di classe
in Francia dal 1848 al 1850, cit., pp. 114-116).
82 MEGA_, I, 10,
pp. 126-127; tr. it. Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., pp. 111-114.
83 È questo cambiamento del punto di vista
teorico che fonda la nuova posizione strategica: il proletariato deve farsi
trovare pronto al sopraggiungere della congiuntura. Deve liberarsi
dall’ideologia, maturare, diventare consapevole dei suoi compiti rivoluzionari
e «aspettare l’occasione in cui il diffuso scontento di tutte le altre classi e
le circostanze generali consentiranno loro di riprendere nuovamente la loro
opera rivoluzionaria». (MEGA_, I, 12, p. 561; MEOC, XII,
pp. 558-559).
84 «Durante tutto questo periodo, tra il 1846 e
il 1852, si resero ridicoli col loro grido di battaglia: grandi principi e
misure pratiche (cioè piccole). E perché tutto questo? Perché in
ogni sommovimento violento sono costretti a ricorrere alla classe
operaia. E se l’aristocrazia è il loro avversario in via di sparizione, la
classe operaia è il nemico in ascesa. Essi preferiscono venire a un compromesso
con l’avversario in via di sparizione piuttosto che rafforzare il nemico in
ascesa con concessioni di qualche consistenza. Perciò si sforzano di evitare
ogni collisione violenta con l’aristocrazia; ma la necessità storica e i tories
li spingono avanti. Non possono evitare di adempiere la loro missione riducendo
a pezzi la Vecchia Inghilterra, l’Inghilterra del passato; e nel momento stesso
in cui avranno conquistato l’esclusivo predominio politico, quando il
predominio politico e la supremazia economica saranno uniti nelle stesse mani,
quando, di conseguenza, la lotta contro il capitale non sarà più separata
dalla lotta contro i governo in carica, allora , da quel momento, avrà inizio
la rivoluzione sociale in Inghilterra» (MEGA_, I, 11, pp.
324-327; MEOC, XI, p. 345).
85 «È naturale che le esplosioni violente si
manifestano prima alle estremità del corpo borghese che nel suo cuore, perché
qui le possibilità di un compenso sono più grandi». (MEGA_, I, 10, p.
466;MEOC, X, p. 522).
86 Cfr. F. Claudin, Marx, Engels et la
révolution de 1848, cit., pp. 346-347. Per Claudin la rivoluzione del
1848 rivelò a Marx la possibilità dell’esplosione della rivoluzione non lì dove
il capitalismo è ai limiti delle sue possibilità storiche, bensì nelle zone più
arretrate e spinse così sue riflessioni in una direzione che si mostrerà di
grande utilità alla luce dell’evoluzione storica ulteriore. L’interpretazione
di Claudin sembra però forzata. Se infatti è vero che le rivoluzioni politiche
scoppiano “in periferia”, per Marx è però altrettanto certo che la rivoluzione
sociale dovrà nascere nel “cuore” del modo di produzione capitalistico.
87 MEGA_,
I, 14, p. 168 ; MEOC, XIV, pp. 60-61.
88 MEGA_, I,
11, p. 327; MEOC, XI, p. 345. Cfr. J. Texier, Révolution
et démocratie chez Marx et Engels , Paris, PUF, 1998. Texier deduce dalle riflessioni marxiane sul
proletariato inglese un’implicita possibilità di transizione pacifica al
socialismo. In realtà però, «il movimento rivoluzionario vero e proprio potrà
cominciare in Inghilterra solo con l’introduzione della Carta, proprio come in
Francia, dove la battaglia del giugno fu possibile solo dopo la conquista della
repubblica». (MEGA_, I, 10, p. 472; MEOC, X,
p. 528). Per Marx, nella prossima rivoluzione, «Cobden avrà il
ruolo di Necker» (MEGA_, I, 10,
p. 218; MEOC, XI, p. 264). «Le concept de la dictature du
prolétariat n’a rien à voir d’essentiel avec les conditions et le formes de la
“prise du pouvoir”. Par contre, il est indissociable de la question de la
détention du pouvoir, qui commande pratiquement tout le cours de la
révolution» (E. Balibar, Sur la dictature du prolétariat, cit.,
p. 51). Che sia il risultato di una rivoluzione violenta o di una vittoria
elettorale, la conquista proletaria del potere politico è comunque
sempre soltanto il primo momento di un movimento rivoluzionario che si
deveradicalizzare fino a trasformarsi in rivoluzione sociale, tesa a
distruggere i rapporti borghesi di produzione. [0]
89 Cfr.
J. Textier, Révolution et démocratie chez Marx et Engels ,
cit., pp. 22-23, D. Doveton, Marx and Engels on Democraty, in
“History of political thought”, 1994, XV, pp. 555-591; M. Johnstone, Marx,
Blanqui, and Majority Rule, in Karl Marx's social and
political thought: Critical assessment, Vol. III, cit., pp. 331-351. Questi autori considerano
il pensiero marxiano essenzialmente una teoria democratica e
liberale. Tali interpretazioni sono possibili però soltanto se non
si tiene presente la peculiarità specifica della rivoluzione sociale, ovvero la
trasformazione del “politico” da fine a strumento, a momento che
deve essere superato. L’ interruzione della rivoluzione e il suo mancato
radicalizzarsi da rivoluzione politica in rivoluzione sociale, il
suo fallito passaggio dalle dimensioni nazionali a quella mondiale, ha infatti
come sua conseguenza assolutamente necessaria la “controrivoluzione”, intesa
come rafforzamento e perfezionamento degli apparati repressivi e
burocratici dello Stato, formalmente indipendenti. Sul significato del momento
politico della rivoluzione ci sembra indicativa la posizione di. E. Balibar :
«La révolution n’est pas conçue
simplement comme un acte, mais
comme un processus objectif. Dans un tel processus, les “mesures” constituant
un programme révolutionnaire ne sont qu’une “première étape”, que d’autres
suivront nécessairement, et qu’elles ne contiennent pas encore» (Cinq études
de matérialisme historique, cit., p. 79). La rivoluzione proletaria
non può, per Balibar, in alcun modo essere la mera conquista politica dello
Stato borghese; tale prospettiva, rintracciabile nel Manifesto, è
“rettificata” proprio attraverso le esperienze della rivoluzione de 1848 e
quelle della Comune di Parigi. Esse mostrarono infatti la necessità di
distruggere gli apparati di potere statali borghesi e di costituire forme di
organizzazione del proletariato rivoluzionario completamente differenti
rispetto allo Stato borghese. E’ illuminante, in tal senso, la distinzione di
L. Althusser tra potere e apparati di Stato: «Innanzitutto, bisogna, se non
aggiungere, almeno precisare che lo Stato (e la sua esistenza nel suo apparato)
non ha senso che in funzione del potere di Stato. Tutta la lottam politica
delle classi ruota attorno allo Stato: intendiamo attorno alla detenzione, cioè
alla presa o alla conservazione del Potere di Stato da parte di una certa
classe, o di un “gruppo di potere”, cioè di un’alleanza di classi o di frazioni
di classi. Questa prima precisazione ci obbliga dunque a dare una distinzione
tra il Potere di Stato (conservazione del potere di Stato o presa del potere di
Stato), obiettivo della lotta politica di classe da una parte, e l’Apparato di
Stato dall’altra. Sappiamo che l’Apparato di Stato può rimanere al suo posto,
come lo provano le “rivoluzioni” borghesi del XIX secolo in Francia (1830,
1848) o i colpi di Stato ( il 2 dicembre 1852, il 13 maggio 1958) o i crolli di
regimi (caduta dell’Impero nel 1870, caduta della III Repubblica nel 1940) o
l’ascesa politica della piccola borghesia (1890- 1895 in Francia), ecc. […]
senza che l’apparato di Stato ne sia toccato o modificato; esso può rimanere al
suo posto, sotto gli avvenimenti politici che colpiscono la detenzione del
potere di Stato» (L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, tr. it.
M. T. Ricci, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 77). La dittatura proletaria deve
quindi essere finalizzata alla distruzione degli apparati di Stato borghesi;
solo questo momento distruttivo può porre le premesse per il passaggio dalla rivoluzione
politica alla rivoluzione sociale. Cfr. anche Id. Marx
dans ses limites, cit., pp. 454-464. [0]
90 «Questa duplice crisi viene accelerata, resa
più vasta e pericolosa dalle convulsioni che contemporaneamente incombono sul
continente, e, sul continente, le rivoluzioni assumeranno per l’effetto che
avrà la crisi inglese sul mercato mondiale un carattere molto più marcatamente
socialista». (MEGA_, I, 10, 303; MEOC, X,
p. 341). Le rivoluzioni politiche stesse retroagiscono quindi sulla crisi, come
“fattori di radicalizzazione”, contribuendo a determinarne, nella congiuntura,
il grado di intensità. La nuova strategia marxiana è pienamente coerente con
questa prospettiva: solo il proletariato indipendente e rivoluzionario potrà
essere in grado di sottrarre alla borghesia le armi di difesa, accelerando così
il movimento rivoluzionario. [0]«Il est clair que, pour Marx et Lénine et Mao,
la capacité dite “subjective” (c’est-à-dire et théorique et organisationnelle),
la qualité de l’organisation, de sa théorie et de sa ligne, sont alors
déterminantes pour combattre judicieusement les “causes qui
contrecarrent” la tendance dominante du processus de lutte de classe, et pour
aider à l’accomplissement de la “tendance” elle-même. Aucune fatalité ne
préside donc a l’échéance du processus. Tout au contraire : il dépend des
capacités théoriques, organisationnelles et politiques, jusque dans ses
moindres pratiques, du parti, que la tendance s’accomplisse,
ou qu’au contraire quelque résultat “monstrueux” résulte d’une lutte menée sans
prendre en considération les “causes qui contrecarrent” le développement de la
tendance» (L. Althusser, Marx dans ses limites, cit., p. 462).
91 Su questa “duplice possibilità” presente in
ogni congiuntura rivoluzionaria ci sembra chiarificante la prospettiva di A.
Tosel: «Le communisme ne peut plus être défini comme forme de rapport social
immédiatement expressif de son contenu ; il se présente comme une tendance
possible, à construire, sans garantie, dans la résistance à la soumission
réelle qui joue contre le travail la productivité même du travail et oppose
toute la gamme de l’innovation scientifique et technologique au projet d’une
gestion sociale du surproduit» (A Tosel, Études sur Marx et Engels.
Vers un communisme de la finitude, Paris, Ed. Kimé, 1996, p.
67). Cfr.
anche Id., Marx et le rationalisme politique, in « La pensée
», Juilletaoût 1995, n. 303, pp. 35-45; L. Brownstein, The Concept of
Counterrevolution in Marxian Theory, cit., pp. 273-287 e I Garò, Représentation
et politique chez Marx, cit., pp. 77-88. Non concordiamo con l’interpretazione di F. Kaplan
(Les trois communismes de Marx, Paris, Éd. Noêsis, 1996),
che interpreta questo spazio di iniziativa storica come il momento morale della
dottrina marxiana: «En fait, la nécessité historique laisse, pour Marx, une
certaine marge à l’initiative humaine, à la liberté, à la bonne ou mauvaise
volonté. […] Autrement dit, le marxisme, en tant que doctrine faisant appel au
militantisme, ne peut se borner à justifier le communisme par la nécessité
historique. Il doit aussi en faire un exigence morale» (ivi, pp. 401-403).
L’apertura della possibilità dell’iniziativa storica per noi si deve piuttosto
interpretare come una “possibilità oggettiva”, derivata proprio dalla
contraddittorietà del modo di produzione capitalistico e dal suo manifestarsi
attraverso crisi congiunturali.[0] Sulla essenziale a-moralità del discorso
marxiano cfr. E. Renaut, Marx e l’idea di critica, cit., pp.
135-149.
92 MEGA_, I,
10, pp. 218-219; MEOC, X, pp. 264-265.
93 «Marx pense la nécessité de la prise du
pouvoir et de son avenir : dans une dialectique de la tendance,
nécessairement
prise dans des “causes qui la contrarient” (et viennent avant tout d’elle), où
une intervention politique est possible et s’impose pour permettre
l’accomplissement de cette tendance. Sans cette “ intervention”, jamais
la tendance ne s’accomplira d’elle-même, et si cette
“intervention” est de mauvaise qualité, le pire est à craindre, dans la
médiocrité d’un “compromis historique”, dont les variétés peuvent être
infinies, et qui peut s’achever dans des horreurs, pour peu que la situation de
l’impérialisme y prête la main» (L. Althusser, Marx dans ses limites, cit.,
p. 463).
94 MEGA_, I, 10,
p. 196; tr. it. Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850,
cit., p. 278.
95 Cfr.
M. Rubel, Marx devant le bonapartisme , Paris - La Haye,
Mouton & Co, 1960, pp. 149-161. Rubel sottolinea lo scacco della possibilità della
rivoluzione liberatrice rispetto alla sua opzione opposta. L’analisi della
storia europea, con la formazione delle grandi unità nazionali, dei grandi
sistemi industriali e delle grandi masse proletarie, partiti e sindacati
operai, a Est e a Ovest, sembra dimostrare che il bonapartismo è il destino del
mondo moderno. I mezzi definiti da Marx come storicamente necessari per portare
al socialismo - la generalizzazione del modo di produzione capitalistico e
quindi del proletariato a la conquista degli stati nazionali – hanno infatti
condotto non alla rivoluzione, bensì alla generalizzazione del fenomeno così
profeticamente analizzato da Marx, il bonapartismo. Sul tema del bonapartismo
cfr. anche L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, cit., pp.
103-104; la definizione di Balibar di “appareil” in AA. VV. Dictionnaire
critique du Marxisme, cit., p. 49 e K. Papaioannou, Marx and the Bureaucratic State,
in Karl Marx's social and political thought: Critical assessment, Vol.
III, cit., pp. 42- 43.
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