Karl Marx ✆ Donatien Mary |
Aldo Tortorella | Di un ritorno, quasi una moda, di Marx si è
largamente parlato dopo l’inizio della grande crisi aperta nel 2008 dal
fallimento della Lehman Brothers e dal rischio fallimentare di altre
grandissime banche americane – poi salvate coi soldi pubblici, a testimonianza
di un meccanismo, detto per convenzione liberistico, specializzato nel
privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La stampa e la diffusione dei testi di Marx si moltiplicò in
tutto il mondo, si manifestarono nuovi movimenti ispirati direttamente o
indirettamente ad una critica del capitale finanziario, trovò vastissima eco la
ricerca di Piketty, non marxista, sul capitale nel XXI secolo e sulla sua
concentrazione nello stesso modo e nelle stesse mani di sempre, un tema
d’interesse marxiano. Più recentemente la conferma di un ritorno è avvenuta da
una fonte insolita ma sensibile allo spirito dei tempi com’è il mondo dell’arte
visiva, con la dedica a Marx della Biennale di Venezia di quest’anno, compresa
una lettura pubblica e sistematica del testo del Capitale.
Il Capitale di
Marx fin dalla sua uscita – aggiunge – ha coinvolto non solo politici,
economisti, filosofi, ma artisti e la mostra di Venezia, dunque si ripromette
di far percepire – dice – «l’aura, gli effetti, le ripercussioni e gli spettri
del capitale». Che il programma sia riuscito o no è e sarà, certo, oggetto di
discussione, ma è ben provata la validità di un ritorno a chi per primo ha
messo sotto esame, appunto, il fondamento del mondo contemporaneo e ne ha
intravisto le conseguenze.
Dopo l’89 L’ultimo seppellimento ufficiale, che pareva
quello definitivo, era avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. Molte
orazioni funebri vennero pronunciate da pubblicisti e pensatori di vario
genere. Tra le formazioni politiche della sinistra storica di antica
provenienza terzinternazionalista, ma anche nei partiti socialisti, e tra molti
degli intellettuali che si erano o si supponevano vicini ad esse vi fu una gara
a smentire ogni rapporto con Marx.
In Italia, come si sa, ha luogo la metamorfosi del Pci,
partito programmatico ma di ispirazione marxiana attraverso la rielaborazione
di Gramsci. Nella socialdemocrazia tedesca il ripensamento del programma di Bad
Godesberg – e cioè del totale ripudio del marxismo – iniziato negli anni di
Brandt, e proseguito da Oskar Lafontaine, si chiuderà con il “nuovo centro” di
Schroeder. In Inghilterra Blair toglierà di mezzo l’articolo dello statuto che
prevede come finalità il superamento della proprietà capitalistica.
Qui da noi, nell’aneddotica di quella precipitosa
trasformazione c’è anche un posto per la nostra rivista Critica marxista,
riscattata al prezzo di una lira e così salvata dall’autodafé collettivo, e
fatta rinascere a una nuova vita. Il compito che iscrivemmo nella testata, e
che ha un momento anche nel convegno di oggi, fu quello di «ripensare la
sinistra» – tema, come si vede nella vicenda quotidiana, non mai esaurito.
Parve allora ad alcuni di noi, oltre ad altre considerazioni, sommamente
ingiusto che si considerasse il vecchio Marx quale responsabile sia pure ultimo
dei destini tragici del sistema sovietico giunto al crollo oppure degli errori
che i comunisti italiani potevano aver compiuto.
Un’ingiustizia perché c’erano stati tra i critici più fermi
del modello sovietico tanti eccellenti studiosi di Marx (compresi parecchi
italiani), tutti i marxisti perseguitati dallo stalinismo, oltre che politici
che si dichiaravano da lui ispirati (compresi, sia pur tardivamente, i massimi
dirigenti del Pci). Ma anche un errore perché ci sembrava che il suo pensiero –
e il tentativo di usarlo criticamente come già suggeriva il nome della rivista
– fosse indispensabile proprio al fine di un rinnovamento radicale delle idee e
delle pratiche politiche della sinistra.
Un rinnovamento indispensabile, ma da qualificare, sia per
il mutamento della realtà economica e politica globale con la vittoria
planetaria del modello capitalistico sia per le trasformazioni nei sistemi
produttivi, nelle esistenze e nelle relazioni umane indotte dalle scoperte
scientifiche e dalla rivoluzione tecnologica di fine secolo. Nel Novecento La
vicenda degli improvvidi seppellimenti e dei ricorrenti ritorni in vita di Marx
comporterebbe, credo, una ricerca distinta da quelle sui molti marxismi, la cui
storia, iniziata già durante la vita di Marx, e oggetto di una sterminata
bibliografia, è largamente riassunta, da noi, almeno sino all’inizio degli anni
ottanta del secolo scorso, nell’opera collettanea concepita e curata per
Einaudi da Hobsbawm e altri.
Lo studio dei certificati di morte del pensiero di Marx ,
che si accompagnano ai momenti di maggiore successo delle varie esperienze
economiche, sociali e politiche dell’assetto capitalistico, non mi parrebbe
meno rilevante di quello delle sue resurrezioni successive alle grandi crisi o
alle catastrofi delle guerre. Se all’inizio, al tempo della borghesia
trionfante e del colonialismo imperante, le stroncature dell’analisi economica
e sociale di Marx, mosse dall’ottimismo scientista e industrialista,
appartenevano ad una discussione teorica sulla legge del valore,
sull’impoverimento assoluto, sull’esito delle crisi cicliche, dopo la rivoluzione
d’ottobre la rimozione o le condanne dell’analisi marxiana si associavano
largamente all’avversione verso lo stato sovietico nascente.
Ma così come lo scoppio della prima guerra mondiale aveva
fatto giustizia almeno di alcune delle più avventate critiche – come quelle che
supponevano una relativa facilità nel superamento delle crisi cicliche senza
contemplare il rischio del ricorso alla guerra – e aveva generato le lotte
rivoluzionarie del dopoguerra, allo stesso modo la crisi del ’29 portò con sé
una ripresa dell’analisi marxiana e una critica approfondita al liberismo
economico.
Allora, come si sa, i ceti dirigenti e le classi dominanti
anglosassoni fecero fronte alla crisi con le analisi di Keynes e le riforme di
Roosevelt nel mercato dei capitali, mentre nell’Europa continentale gran parte
delle borghesie nazionali promuovevano il nazismo e i fascismi e mentre nel
mondo sovietico la collettivizzazione forzata delle campagne e la repressione
dei dissenzienti generava i terribili drammi che si conoscono. Venne di qui un
nuovo tempo di antimarxismo unito con l’antisovietismo, con l’apprezzamento in
Occidente dei successi nelle politiche interne di nazisti e fascisti – e
l’abbandono della repubblica spagnola ai franchisti – fino a che la nuova e spaventosa
guerra mondiale e l’alleanza internazionale antifascista nuovamente
rovesciavano la scala dei valori e spingevano a nuovo interesse per Marx una
parte della intellettualità e delle nuove generazioni maturate durante il
conflitto e la resistenza.
Era ancora, però, un interesse in cui l’immagine di Marx si
mescolava con quella del paese della battaglia di Stalingrado e della bandiera
rossa sul Reichstadt, il paese in cui, sia pure con tragedie terribili, per la
prima volta si era venuta sperimentando la soppressione della proprietà privata
dei mezzi di produzione e di scambio. Una mescolanza che veniva ribadita dalle
nuove rivoluzioni nella gigantesca Cina e nella piccola Cuba. Anche la grande
ribellione giovanile del ’68 mossa dall’antiautoritarismo, avendo sullo sfondo
il Vietnam di Ho ci min non rinunciava a ispirarsi alle rivoluzioni passate,
sia pure talora, ma non sempre, guardando ai dissenzienti perseguitati più che
ai vincitori.
In modo eguale e contrario, per tutto il tempo della guerra
fredda la polemica antimarxista fioriva e si sviluppava avendo sullo sfondo
quella medesima sovrapposizione di immagini: si parlava di Marx ma si pensava –
o ci si riferiva – a Stalin, a Mao, a Castro. Il successo della idea promossa
da Isaiah Berlin della libertà puramente negativa (cioè come rifiuto totale di
ogni intromissione pubblica diversa dalla salvaguardia della vita e dei beni)
ha sullo sfondo, appunto, la inaccettabilità di un modello di statalismo
assoluto e di diniego delle libertà, così come l’idea, propagandata dalla
Thatcher, che la società è nozione puramente astratta mentre l’unica cosa
concreta sono gli individui ha come bersaglio la stessa nozione di stato
sociale, visto quasi come anticamera del collettivismo a modello sovietico. In
realtà, quella sovrapposizione, sebbene quasi fatale, era sostanzialmente
arbitraria.
Già nei giorni del novembre del 1917 un giovane socialista
italiano di grande ingegno, che sarà poi tra i fondatori del Pci, aveva capito
e scritto che quella rivoluzione d’ottobre – di cui lui come milioni di persone
nel mondo appariva entusiasta – era, in realtà, una rivoluzione proprio contro il Capitale di Carlo Marx. Gramsci
distingueva, in quel ben noto articolo sull’Avanti!, un Marx «contaminato dal
positivismo e dal naturalismo» da un Marx erede, come dice, «del pensiero
idealistico italiano e tedesco». Il primo sarebbe l’autore della idea secondo
cui viene prima la borghesia capitalistica, la sua maturità e la sua crisi e
solo alla fine la trasformazione socialista – e contro questo Marx, appunto,
avveniva la rivoluzione d’ottobre.
All’opposto, il secondo Marx «che non muore mai», insegnava,
secondo il giovane Gramsci, che «il massimo fattore della storia» non è dato
dai «fatti economici bruti» ma dai rapporti tra gli esseri umani, «dalla
società degli uomini» che «sviluppano una volontà collettiva», la quale «plasma
la realtà oggettiva che vive , si muove, acquista il carattere di materia
tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace». I
tempi non sono obbligati, dunque, e la maturazione della consapevolezza e
volontà rivoluzionaria degli sfruttati, molto lunga in tempi normali, poteva
avere delle accelerazioni dovute a speciali motivi – in quel caso la guerra
mondiale. Sfortunatamente, il volontarismo assoluto che ispirava quell’articolo
nato sull’onda di una emozione e che non apparteneva al vecchio Marx, non
poteva bastare e anzi, come poi si vedrà, poteva rivolgersi contro se stesso.
E, infatti, Gramsci, poi, lavorò a lungo nei quaderni del carcere su quel
celebre passo della Prefazione alla Critica della economia politica – in cui
Marx parla delle condizioni per cui si esauriscono le vecchie formazioni
sociali e nascono le nuove, un brano che egli stesso traduce:
«Una formazione
sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive,
per le quali essa è ancora sufficiente, e nuovi, più alti rapporti di
produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di
esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno della vecchia società.
Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; (se
si osserva con più accuratezza, si troverà sempre che il compito stesso sorge
solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno
sono nel processo del loro divenire)».
Gramsci interpreterà questo brano spogliandolo dalla
possibile lettura deterministica, ma ha provato la sua acutezza di pensiero
vedendone la sostanza e cioè una critica delle fantasticherie che, al medesimo
tempo, definisce il terreno reale dello scontro politico e ideale, e non
annulla il ruolo delle soggettività politiche. Marx aveva così poco a che fare
con il modello sovietico che la vulgata assunse il nome di “marxismo-leninismo”
cui si aggiunse, poi, il suffisso “stalinismo”, in modo da stabilire una sorta
di canone immutabile.
Il che, come dovrebbe essere ovvio, era cosa non solo
lontana ma opposta ad ogni forma di pensiero critico – entro cui anche Marx è
iscritto tra i maggiori. Tuttavia quella mescolanza e sovrapposizione
culturalmente indebita era praticamente quasi inevitabile data l’origine ideale
dei promotori delle rivoluzioni di tipo socialista, e ciò spiega la presunzione
dell’affossamento definitivo di Marx all’indomani del crollo dell’Unione
Sovietica, del suo smembramento, della trasformazione della Russia in un paese
di capitalismo più o meno selvaggio. L’avvio della Cina in una analoga
direzione, nonostante la bandiera rossa, completò l’opera.
Addirittura si parlò di fine della storia, nel senso che il
modello vincente non avrebbe più avuto alternative. Era una forma di
autoinganno dei vincitori. I motivi di fondo che avevano mosso la ricerca di
Marx non erano venuti meno, nonostante gli abissi tecnologici che ci separano
da lui. Per questo c’è il nuovo ritorno, ma se non si ricordano i precedenti
non si può intendere la differenza. Ben scavato, vecchia talpa.
Oggi, non c’è più alcuna illusione che da qualche parte
della terra sia stata trovata la formula del mondo nuovo o che la marcia non
più considerata ineluttabile verso il socialismo sia già incarnata in una
formazione sociale. Il capitalismo ha mostrato la sua capacità di smisurato
sviluppo quantitativo e di adattamento, come Marx aveva previsto, fondando sul
desiderio (cioè l’individuo) e sulla scelta (cioè il libero arbitrio). La
proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, al tempo e al luogo in
cui fu tentata, si è trasformata in proprietà statale e questa in proprietà
burocratica, e i burocrati in capitalisti di rapina.
Se qualcuno lo levasse, l’appello all’unità proletaria, già
disatteso nelle trincee della prima guerra mondiale, suonerebbe estraneo alla
realtà di un mondo in cui, pur con una quantità di operai mai vista, il lavoro
necessario continuerà a decrescere, la concorrenza al ribasso è già micidiale,
la frammentazione si moltiplica, la miseria tracima e genera reclute in
abbondanza per i promotori di guerre. Vale a dire, in breve, che questa volta
il ritorno a Marx non presume di poggiare su dati acquisiti o su facili
speranze, e non può non avere la qualità matura del disincanto.
Nasce, inoltre, questo ritorno, dal rapido esaurimento delle
promesse implicite nella nascita di un mondo unificato sotto il segno del capitale
finanziario. La fine della guerra fredda con la vittoria di uno dei contendenti
non ha aperto la strada verso la pace perpetua e un lineare progresso. Al
contrario, è ritornato il confronto tra le potenze e la molteplicità delle
guerre appare come una guerra mondiale strisciante, potenzialmente esplosiva.
La supposta capacità auto- 3) Cfr. F. Frosini, Prefazione del ’59, in G.
Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano 1926-1937, Roma, Carocci,
2009, p. 661. 4) A. Gramsci, Appendice. Estratti dai Quaderni di traduzione, in
Id., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Roma, Einaudi, 1975, p.
2359. regolatrice del mercato è fallita.
L’idea di uno sviluppo infinito si è scontrata con i limiti
fisici del pianeta e mette a rischio le condizioni stesse della vita. Non
mutano, anzi in molti casi aumentano, le distanze tra paesi ricchi e quelli
poveri e, in ciascun paese, tra i molto ricchi e la gran massa degli altri. Si
viaggia tra le stelle ma troppa gente continua a morire di fame e sembra un
peso spropositato accogliere chi scappa dalla guerra e dalla miseria. Il
pontefice della Chiesa cattolica ha dovuto spiegare che quando parla in difesa
dei poveri e contro gli immoderati guadagni non lo fa perché è comunista ma
perché si ispira al Vangelo. E ha dovuto reinterpretare la Scrittura per
spiegare che all’uomo non è stata regalata la terra e gli animali che la
abitano per rovinare l’una e torturare gli altri a suo piacimento ma per
proteggerli.
Verrebbe da pensare, con il massimo rispetto, «Ben scavato,
vecchia talpa». In verità, Amleto dice «ben detto, vecchia talpa» allo spettro
del padre che in quel momento ammoniva dal sottosuolo: era, s’intende, la voce
del passato sepolto e ignorato che torna per dire ciò che sa e andarsene in
pace. Mentre per Marx, che nel 18 Brumaio citava a memoria, la talpa che scava
bene, come si sa, è l’immagine della rivoluzione che opera sotto traccia. Per
noi, forse, la parola dello spettro sotterraneo è proprio quella di Marx ora
liberata dal peso di qualcosa che non le apparteneva e aiuta anche chi gli è
lontano od ostile. Una voce, anche, udibile meglio dopo tanto lavoro di
interpretazione.
Per noi, ma non solo per noi, giova innanzitutto la lettura
che ne ha fatto Gramsci che ha insegnato a capire, tra l’altro, la influenza
reciproca tra la base materiale, economica, della società e l’insieme dei
fenomeni detti sovrastrutturali nel lessico della tradizione. E hanno giovato
anche tutti i lavori che hanno consentito di superare gli anacronismi e
collocarlo nel tempo suo e dentro la sua cultura, mettendo in luce, ad esempio,
la difficoltà di questa di guardare all’individuo non solo socialmente
determinato o la incomprensione della influenza dell’ordine patriarcale nella
determinazione del maschile come inaccettabile valore assoluto.
Un pensiero non rimane indefinitamente presente perché è
senza tempo, ma perché, stretto nei limiti del tempo, della cultura e della
vita del suo autore, apre una finestra nuova per guardare la realtà. Oramai
nessuno, per di più incolpevole, beve la cicuta per rispettare la legge della
città, anzi quanto più sono colpevoli tanto più se la spassano. Ma nessuno può
contestare che il povero Socrate sia uno degli inventori primi dell’etica,
compresa quella pubblica. E così è per Marx. Considerandolo una specie di
Bibbia, lo si usa, ovviamente, contro se stesso, magari per avallare
improbabili o perniciose dottrine altrui, come in effetti è accaduto (e
accade).
Visto entro i suoi limiti e le sue lacune studiate per tanti
anni, di cui anche in questo incontro si parlerà, torna l’attualità di chi,
appunto, ha scoperto nel capitale la forza dirompente e insieme, com’è stato
detto, il dramma del nostro tempo, e ha insegnato a guardare l’edificio della
realtà umana a partire dalle fondamenta, cercando di vederla per quello che è e
non per quello che ci si immagina che sia. Carica etica Può tornare, così,
l’autore mosso da una potente ma misconosciuta carica etica che spezza
l’ipocrisia delle anime belle compiaciute delle proprie virtù vere o presunte
ma incapaci di guardare alle origini dei mali che a parole deprecano. La scuola
di pensiero di origine kantiana che sottolineava, agli inizi del secolo
passato, questo lato di Marx fu sommersa da chi lo riteneva l’autore di una
scienza esatta, tema poi ritornato costantemente.
La sua analisi scientifica, come ogni altra, è condizionata
dal livello di conoscenze a quel tempo raggiunte e dunque può essere
continuamente in parte smentita in parte corretta, ma, essendo l’oggetto cui si
riferisce quello della relazioni sociali – e dunque in ultima istanza tra le
persone – non sarebbe mai neppure nata se non fosse stata mossa da una
indignazione e da una passione. La indignazione per la sorte riservata agli
ultimi e ai penultimi dei costruttori dei beni indispensabili alla vita e ad
una buona vita, la passione per la libertà di ciascuno e di tutti. Le relazioni
tra Marx e Spinoza, studioso delle passioni, riempiono ormai una biblioteca.
Il lavoro cambia, muta il sistema di formazione o di
occupazione delle coscienze, i dominati possono ignorare di esserlo o persino
felici di esserlo, ma senza quella indignazione e quella passione sinceramente
vissute, non si può fare azione politica, meno che mai quella detta di
sinistra. Può tornare, oggi, l’autore che studiava il presente pensando
all’avvenire forse nel convincimento, come taluni osservano, di una storia a
sbocco determinato, ma che disse di non voler fare e non fece mai il
pasticciere dell’avvenire, l’autore di un’opera aperta non tanto perché non
conclusa ma perché così concepita: e perciò Marx disse di non essere marxista,
sapendo che il proprio metodo critico avrebbe dovuto riguardare anche l’opera
sua.
Non si tratta di tentare non si sa quale nuova ortodossia,
ma di leggerlo senza lenti deformanti per essere aiutati a capire l’origine dei
problemi angosciosi del presente. E anche per essere indotti ad una autocritica
più profonda. Questo mondo in pericolo è quello forgiato e dominato dal
capitale ovunque vincente e fiorito innanzitutto nei luoghi della civiltà che
non può non dirsi ispirata dalla cristianità, non solo quella protestante ma
anche l’altra maggioritaria qui da noi, seppure cresciuta nella scarsa fedeltà
o nella ignoranza del Vangelo, come autorevolmente ci viene ora detto.
È questa civiltà occidentale oggi in discussione. E
all’assalto degli integralismi dei perdenti non si può rispondere, pena la
catastrofe, con l’integralismo dei vincenti. Questo mondo super armato si viene
ora chiudendo arcignamente, come da ultimo ha provato persino la Svizzera,
anziché guardare in se stesso e tendere a correggere le proprie storture
considerandole causa di quelle altrui. La tendenza all’uso immoderato della
forza diviene sempre maggiore, con i rischi che ne conseguono. Dovrebbe reagire
quella che si dice la sinistra. Ma l’avere buttato via Marx non ha giovato e,
anzi, ha costituito un potente incentivo a scivolare nelle braccia del
neoliberismo vincente e fallimentare, sicché la distinzione tra destra e
sinistra è diventata sempre più evanescente. È ovvio che non basta Marx, ma
senza continuare in una analisi rigorosa, come fu la sua, del modello economico
e sociale in cui viviamo continuerà a mancare il contributo che la sinistra potrebbe
dare a risolvere i crescenti problemi del presente. Penso che, ad occhi aperti,
Marx può essere più utile che mai a stimolare la ricerca e, anche, l’azione
politica.
Introduzione
al convegno I ritorni di Marx, organizzato dalla Fondazione Luigi Longo e da Critica marxista ad Alessandria, nei
giorni 22-24 ottobre 2015. Questo articolo è contenuto nel fascicolo n. 5/2015
della rivista Critica Marxista
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