La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo,
nell'aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell'economia politica
una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della
borghesia, com'era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui
dominava l'idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo
"naturale" e non "storico", ovvero come un evento destinato
a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista.
Per l'ultimo Marx, quello interessato all'antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall'antagonismo tra capitale e lavoro.
Per l'ultimo Marx, quello interessato all'antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall'antagonismo tra capitale e lavoro.
A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione
di superare la filosofia con l'economia, bensì con la politica. Solo dopo
aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua
sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni
europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso
agli studi teorici dell'economia capitalistica, di cui quelli dedicati al
pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli
d'essere pubblicati.
Tutti i testi di economia - ad eccezione
dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a
Parigi a contatto con gli ambienti socialisti - sono stati elaborati sotto il
peso di un'amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai
dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva
possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli
scritti risulta alquanto forte l'uso dialettico della categoria hegeliana
dellanecessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso
avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo
europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es.
il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci
si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto "marxismo legale" ed
"economicismo", contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti
proteste.
Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma
per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di
cui però Fusaro non s'interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi
dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello
del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento
organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx
dell'epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo
sull'Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le
premesse dell'epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente,
l'unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro,
dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto
conoscerlo, non l'avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti
suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle,
Lafargue, Guesde...), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire
un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.
Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può
portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere
il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono
essere semplicemente "studiati" o, peggio ancora, "letti"
come due autori qualunque. Entrambi chiedono d'impegnarsi per trasformare le
cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con
urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma
d'irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce
col fare i "teorici dell'alternativa", senza lasciarsi coinvolgere in
alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne
uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l'attuale Diego Fusaro, che
quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.
Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti
ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le
masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il
medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella
Prefazione a Per la critica dell'economia politica), senza però riuscire a
porvi rimedio, tant'è, anzi, ch'egli si trovò come costretto ad accentuare il
lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi
alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere
preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin
evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che
fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del
sistema bisogna portarla, al proletariato, dall'esterno, in quanto, se lo
si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.
Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle,
pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso
anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di
Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della
contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un
passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni
aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati
concessi all'industrializzazione, all'urbanizzazione, allo sviluppo
tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza
ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla
necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e
coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.
Fusaro è convinto d'essere titolato pienamente a parlare di
"riscoperta di Marx", in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella
stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro)
fu tutta all'interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì
alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu
l'esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o
comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle
riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più
allo spontaneismo delle masse che non all'organizzazione di un partito di
professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria.
Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel
terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e
individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva - come
Althusser - sul piano meramente filosofico.
In Italia si ebbe addirittura l'impressione, negli anni
Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta
dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L'importanza
attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all'esigenza di non
toccare i tasti dell'impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di
accettare acriticamente la politica di "larghe intese" (il famoso
"compromesso storico") realizzata tra comunisti e democristiani.
Un movimento come quello del Sessantotto non può essere
guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli delpolitico. E Fusaro
ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch'egli peraltro
ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di
spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al
giorno d'oggi, se davvero si vuol fare i "marxisti", non è
sufficiente fare dei "discorsi eversivi"; non si può evitare d'essere
meramente "filosofi" limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la
"fraseologia rivoluzionaria". Occorre l'appartenenza a un partito,
una militanza personale.
Marx aveva ucciso la filosofia con l'economia, ma Lenin
aveva detto che "la politica è una sintesi dell'economia". Questo
perché non c'è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue
sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo
bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca
globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l'unica alternativa è quella
di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali:
lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo
della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello
d'uso. Le differenze fra una strategia e l'altra possono riguardare soltanto le
modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di
continuo e l'analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel
la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non
riusciva mai a comprendere l'essenza degli antagonismi sociali.
Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista
economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro
glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però
accorgersi di un limite di fondo di tutta l'analisi del Capitale, e cioè
la sottovalutazione dell'importanza dei fattori sovrastrutturali. Se
Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l'avesse fatto senza usare le lenti
deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo
sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe
potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.
Dopo l'interpretazione che Lenin ha dato del "marxismo
classico", mediante cui ha valorizzato enormemente l'aspetto
sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice
"riscoperta" di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui
riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare
sufficiente una "politica rivoluzionaria", trascurando,
colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i "diritti (o valori)
umani universali", i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza
riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del
patrimonio dell'umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come
inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati
sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di
Preve, chiama la "terza guerra mondiale" (cioè la "guerra
fredda"), in quel documento significativo (la cosiddetta "Carta della
nonviolenza" o "Dichiarazione di Delhi") che Gorbaciov firmò nel
1986 insieme a Rajiv Gandhi.
Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del
passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad
essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell'analisi economica di Marx non
riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica.
Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell'economia e,
fatto salvo l'impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876
si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un
partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.
Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza
attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di
condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la
cultura, l'ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche,
artistiche... come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture
economiche. Al massimo - aveva detto nella Prefazione alla prima edizione
del Capitale - ci si poteva elevaresoggettivamente nella
comprensione delle contraddizioni sociali.
Lenin non era affatto così schematico, proprio perché
attribuiva un'importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e
ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere
Gramsci - lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia - prima
che, nell'ambito del socialismo, si capisse l'importanza dellacultura, per quanto
già l'ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo
Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la
guerra contadina, che qualcosa del "marxismo" del suo geniale collega
andava emendato, tant'è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato
della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in
ultima istanza.
D'altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita,
cominciò a capire l'importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in
modo particolare l'esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel
periodo storico che poi fu definito col termine di "comunismo
primitivo". Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi.
La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte
Engels l'aveva messo sull'avviso, nelle lettere che gli scriveva, che
quell'opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.
Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di
non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica
rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a
causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s'impose appena
dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i
comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si
considerava addirittura inesistente.
Che anche Fusaro non abbia capito l'importanza
della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura
economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui,
nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es.
del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio
sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e
contingenti, ma anche dallo sviluppo delcristianesimo. Cosa di cui Fusaro si
disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino
rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto
nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e
protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma
dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il
calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo
del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo
s'erano sviluppate nell'Italia comunale e signorile, dove la religione
dominante era quella cattolico-romana.
D'altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a
Marx, di fare un'analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel
cosiddetto "socialismo reale", non arriva neppure a comprendere che
una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma
anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che
è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di
tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei
lavoratori.
È importante essere convinti di questo, poiché quando si
contesta l'Europa delle banche e della finanza - come fa Fusaro con insistenza
- e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui
ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere
errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l'idea di Stato
nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che
sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze
del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi
monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i
quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e
conflitti d'ogni tipo, non può riportarci alla fase dello "Stato
nazionale", sia questo di tipo capitalista o socialista.
È dal "sistema" che bisogna uscire, coi suoi
meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto,
bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d'Ottobre e
di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di
progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi
militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all'inverosimile proprio
le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una
grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di
uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato
alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria
volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l'idea di
usare le leve dello Stato per affrontare l'eventuale controrivoluzione.
Nota
I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento
sono Karl Marx e la schiavitù
salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, ed.
Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro
curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed.
Limina Mentis, 2015
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