Lorenzo Mainini |
“Se automobile definisce ciò che
si muove da solo, allora la produzione di auto-mobili salariati, ovvero di
lavoratori che si attivano da soli al servizio dell’organizzazione
capitalistica, è incontestabilmente il maggior successo dell’impresa (…) neoliberista”1.
Attraverso una simile metafora Frédéric Lordon prova a spiegare in che modo
l’introduzione d’una dimensione ‘desiderante’ nel rapporto produttivo
capitale/lavoro tenda a schiacciare, sempre di più, il desiderio del lavoratore
sul desiderio del capitale. Il discorso pubblico incentrato sullo slancio
‘imprenditoriale’, sull’immagine del lavoro come ‘realizzazione di sé’ e del
lavoratore come ‘imprenditore di se stesso’, servirebbe infatti ad attivare il
lavoratore nella realizzazione d’un desiderio che in realtà non è il suo, ma
quello dell’impresa; un desiderio che non è più l’incrocio dei bisogni sociali,
ma a cui, tuttavia, il lavoratore è chiamato ad aderire perché sarà solo
desiderando (ovvero lavorando per) quel desiderio altrui che accederà al denaro
– il salario – in quanto medium per la ‘realizzazione di sé’ – tendenzialmente
attraverso il consumo.
La metafora d’ “auto-mobili salariati che si attivano da
soli al servizio dell’organizzazione capitalistica” rischia tuttavia di non
essere una semplice metafora. Uber,
quell’impresa altamente neoliberista che si presenta come un servizio di car
sharing, è in tal senso ‘più realista del re’: essa sta già producendo degli
esseri auto-mobili on demand, attivabili secondo il desiderio
dell’impresa. La recente sentenza del tribunale di Milano che blocca uno dei
servizi proposti dalla società –UberPop -,
in linea del resto con altri interventi europei, può cogliere ovviamente solo
alcuni aspetti del problema: in particolare, la concorrenza sleale mossa da Uberalle
tradizionali cooperative di taxi, in virtù d’una flessibilità tariffaria
all’interno d’un mercato che per i tassisti è invece vincolato da trattative,
licenze ed accordi con le pubbliche amministrazioni. In definitiva i tribunali
sono chiamati ad esprimersi su quale ‘corpo sociale’ andrà tutelato: la
tradizionale corporazione dei tassisti o la nuova imprenditorialità che irrompe
nel settore – e con qualche ragione spesso, almeno in Europa, han scelto a
favore della prima. Tuttavia non è la prospettiva giuridica quella che saprà
cogliere la vera criticità sociale di Uber e
del modello di lavoro ch’esso implica2. Uber, in effetti, sottende
un’antropologia e una precisa dinamica della messa al lavoro.
Sarà utile, magari, dare qualche cenno sul core business della
società. Uber si presenta
come un’impresa di trasporto locale privato, in definitiva poco la dovrebbe
distinguere da un ‘noleggio con
conducente’. Eppure non è affatto così. Appoggiando la sua rete di autisti
sui sistemi di geo-localizzazione, accessibili ormai in massa tramite i
telefoni che in molti abbiamo in tasca, Uber procede verso quella disintermediazione che caratterizza
da tempo molti aspetti della new economy: cliente ed autista si vedono
sulla mappa virtuale della loro città e si accordano per la corsa. Uber in definitiva non è che la
rete a cui un aspirante autista cede la proprietà del suo lavoro e a cui un
aspirante cliente accede per comandare una corsa. In effetti, a differenza d’una
qualunque compagnia di taxi o di trasporto privato locale, Uber non assume i suoi autisti né
si configura come la struttura cooperativa tramite la quale dei singoli
produttori – autisti, in questo caso – si federano. Uber, detto semplicemente, si limita a garantire, tramite la
concessione della sua app,
l’accesso alla rete per l’aspirante autista, la visibilità del
singolo autista dentro il sistema di geo-localizzazione autista/cliente. La
macchina che l’autista guiderà, il tempo che egli consumerà nella prestazione,
la manutenzione della macchina stessa, il rapporto diretto col cliente sono,
invece, tutti fattori che eccedono le competenze della rete-Uber, e pertanto sono scaricati dalla
parte del lavoratore-autista. Un lavoratore, a questo punto, veramente immerso
in una dimensione ‘desiderante’, in cui la realizzazione di sé,
l’imprenditorialità di se stesso, coincide col desiderare il desidero di Uber.
Un simile modello, l’antropologia e la sociologia che
sottende si prestano a diverse considerazioni. Per quanto ovvio, sarà forse il
caso di partire da un’evidenza: Uberricalca da vicino l’economia della
rendita descritta da Marx3. Uber, in definitiva, come il rentier,
proprietario d’un dominio4 all’origine
inerte, si avvantaggia gradualmente del progresso sociale, del lavoro sociale
che ‘valorizza’ il dominio stesso. Come il dominio fondiario aumenta il suo
valore, anzi entra nel ciclo del valore, tramite “l’apertura d’un canale, di
una strada, l’aumento della popolazione (…)”5 nella zona circostante, che
fanno salire le quotazioni del fondo, allo stessoUber entra nel ciclo del valore nel momento in cui il lavoro
sociale crea la possibilità di mettere a frutto il dominio virtuale tramite i
sistemi di geo-localizzazione e disintermediazione prodotti socialmente, e già
esistenti nella società. Uber dunque
si limita a detenere ed esercitare la proprietà d’un fondo virtuale
‘valorizzato’ da un lavoro sociale e da un progresso generale che prescindono
da Uber stesso. Di più,
come il rentier, Uber non
provvede ai ‘mezzi di produzione’, non dota il lavoratore né degli strumenti di
lavoro né della materia su cui lavorare; si limita a concedere, finché
l’autista sarà attivo nella rete, il diritto di lavorare sul suo ‘fondo’ che,
dunque, come spiegava Marx, continuerà ad aumentare il suo valore, adesso,
tramite il lavoro vivo del ‘concessionario’ che, con la sua macchina, col suo
tempo – neanche più sottoposto ad un orario di lavoro retribuito per unità -,
cercherà dei clienti, effettuando una prestazione su cui Uber preleva una percentuale.
Anche le conseguenze sociali d’un simile modello sembrano
seguire il percorso già intravisto da Marx. I bassi costi del dominio, il fatto
che esso aumenti valore con investimenti ridotti – giacché la tecnologia è
stata elaborata altrove e la dimensione materiale del lavoro e i suoi costi son
tutti scaricati sul lavoro vivo e sui mezzi dell’autista – fan sì che le
capacità espansive d’un tale dominio aumentino sensibilmente, e con ciò la sua
capacità d’attrarre nuovo lavoro sarà enorme. In tal senso anche la lotta in
corso tra le corporazioni dei tassisti ed Uber si configura come la conflittualità ovvia, tipica, tra i
piccoli proprietari – i tassisti – e il grande latifondo – Uber -, la
cui concorrenza – salvo interventi legislativi o giudiziari – è tendenzialmente
insuperabile. Basterà in effetti una piccola ‘inchiesta’ quotidiana, ovvero
chiedere agli autisti di taxi quale sia il loro effettivo rapporto con Uber,
per scoprire che, al netto della conflittualità giuridico-politica, alcuni
tassisti già tendono ad orbitare, privatamente, intorno alla rete ‘fondiaria’
di Uber: più di uno in effetti –
spesso i più giovani o i più marginali nel tessuto sociale, gli immigrati
– dichiarerà d’essere tassista per una parte della giornata e autista della
rete-Uber per il resto. Se
questo è vero, si legga ancora Marx intorno alla rendita terriera: “Il piccolo
proprietario fondiario, che si lavora da sé il proprio fondo, si trova di
fronte al grande proprietario nello stesso rapporto in cui un artigiano che possiede il
proprio strumento di lavoro si trova di fronte al padrone di fabbrica. Il
piccolo proprietario è diventato un semplice strumento di lavoro”6. In definitiva, la
difficoltà di reggere la concorrenza rende il piccolo proprietario – il
tassista – suscettibile di consegnarsi, con i suoi mezzi, la sua macchina, e il
suo tempo, al grande proprietario – Uber –
che, da parte sua, si limiterà ad immetterlo nel suo fondo, concedendogli il
diritto di fare esattamente lo stesso lavoro di prima, solo che adesso lo farà
in nome di Uber e per Uber. Si tratterebbe in definitiva d’una
classica trasformazione della concorrenza formale in monopolio materiale, d’una
creazione – difesa con i consueti argomenti del liberismo – e d’una successiva
distruzione del mercato, in virtù della forza d’uno dei concorrenti. Il caso di
San Francisco, patria di Uber, è
in tal senso esemplare: la rete-Uber, dopo
essersi imposta come concorrente sul mercato, ha distrutto il mercato stesso,
producendo un crollo delle corse dei taxi tradizionali pari al 65%7.
Ciò detto, sembrerebbe che quanto fin qui descritto sia una
forma, particolarmente mistificante, di lavoro precario e d’impresa
neoliberista, con tutte le conseguenze che questo comporta. Tuttavia Uber è qualcosa di più; sembra che
esso rappresenti veramente una possibile fase estrema della ristrutturazione
capitalistica e dell’asservimento del lavoro. In effetti, in termini generali, Uber utilizza una tecnologia che,
con Antonio Negri, potremmo ritenere propria del comune, esso privatizza
un sapere e un capitale fisso prodotto socialmente e, per altri versi,
socialmente disponibile. Di più, tramite quest’enclosure, Uber mette al lavoro materialmente
un massa umana virtualmente infinita: la competenza ch’esso richiede è in
effetti quella d’avere una patente e di procurarsi una macchina, in definitiva
una semplice disponibilità materiale alla mobilità urbana – qualità piuttosto
comuni. Svincolandosi dal sistema di licenze e di contrattazione con le pubbliche
amministrazioni – elementi, questi, che limitano la disponibilità di
forza-lavoro per le tradizionali compagnie di taxi, che pertanto si configurano
come ‘corporazioni’ -, Uber ha
virtualmente accesso ad una forza-lavoro inesauribile. Pressoché chiunque potrebbe
un giorno consegnare il proprio lavoro ad Uber; stabilmente o anche solo provvisoriamente nella forma d’un job che,
se per il lavoratore avrà la parvenza d’un’occasione saltuaria per aumentare in
qualche modo le proprie entrate, da un punto di vista più strutturale dimostra
invece come l’universalità della forza-lavoro a cui tende Uber faccia tutt’uno col suo
carattere on-demand, attivato di volta in volta secondo il desiderio
dell’impresa. In sintesi, i presupposti strutturali del modello Uber sottendono la disponibilità a
richiesta d’una forza-lavoro tendenzialmente inesauribile, perché basata su una
competenza umanasviluppata in un tempo di lavoro che ormai coincide con la vita,
senza più alcun rapporto con delle unità tempo-lavoro. Il dolo ideologico sta
nel definire tutto ciò disintermediazione e nell’avallare l’idea che si tratti
d’uno sharing. Nella prestazione d’un autista Uber non c’è nulla di ‘condiviso’. Il cliente – per intenderci
– non riceve un passaggio da qualcuno che va nella sua stessa direzione, viene
invece caricato da autista che sta svolgendo, a tutti gli effetti, la sua
attività lavorativa. Un’attività che tuttavia, tramite la cessione della
proprietà del suo lavoro ad Uber in
cambio dell’accesso alla rete, l’autista svolge ormai in una dimensione
‘domestica’ – che è un eufemismo per dire che la svolge con i suoi propri mezzi
di produzione. A lavorare, tramite Uber,
è dunque la vita nel suo complesso: quella ‘storica’ incorporata al lavoro
sociale della tecnologia comune di cui Uber fa
un uso privato, quella ‘nuda’ che tramite la semplice funzione del movimento
urbano, consegnato ad Uber, si
mette al lavoro per l’impresa, quella ‘affettiva’ che tende a schiacciare il
desiderio, generale e rettilineo, del lavoratore (ossia la propria
realizzazione) sul desiderio, puntuale e ciclico, del capitale.
L’impressione finale è che Uber si configuri come quell’esperimento capitalistico capace,
ancora una volta, di mettere al lavoro quegli elementi apparentemente
‘eversivi’ e di captare plus-valore da ciò che dovrebbe costituire la sua
criticità: comune, vita e affetti. E, di più, retrocedendo nelle sue competenze
economiche al semplice livello immateriale della rete, ovvero alla proprietà
dello spazio di lavoro altrui e alla definizione dei confini espansivi del
proprio ‘fondo’, Uber procede
verso l’estrazione di valore dall’esistente, compiendo la tendenziale
metamorfosi del capitale in rendita. Una rendita che potrà aprirsi al credito
finanziario8 -
lì inizierà, di certo, una nuova fase – grazie ai successi ottenuti tramite il
lavoro, quello sociale e quello vivo, che ‘volontariamente’ gli è stato
consegnato.
Note
1, F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù.
Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, Roma 2015, p. 76. ↩
2, Cfr. C. Formenti, Se il lavoro si ‘uberizza’,
disponibile online sul blog MicroMega:
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/02/02/carlo-formenti-se-il-lavoro-si-uberizza/.
↩
3, Si veda l’analisi tratteggiata in Rendita fondiaria, K.
Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio,
Torino 2004, pp. 48-65. ↩
4, Sarà il caso un giorno di riflettere sui nomi: gli spazi di
proprietà virtuali si definiscono esattamente come gli spazi di proprietà
materiali, fondiari. Si veda A. Cagioni, Rendita, accumulazione e nuovi
processi di valorizzazione nel web 2.0, online su Commonware:
http://commonware.org/index.php/gallery/104-rendita-accumulazione-valorizzazione-web. ↩
5, Marx, Rendita fondiaria, p. 51. ↩
6, Marx, Rendita fondiaria cit., p. 57. ↩
7, http://time.com/money/3397919/uber-taxis-san-francisco/
↩
8, Si ricordino in tal senso le pratiche correnti del
finanziamento di Uber, “Goldman
Sachs” tra gli altri.
http://www.euronomade.info/ |