10/4/15

Marxismo & ecología | Marx-Engels-Podolinskij: Una traccia teorica perduta?

Karl Marx ✆ A.d.
Tiziano Bagarolo   |   Prendendo spunto dalle indicazioni fornite da Juan Martinez Alier in Ecological Economics, l’autore affronta il tema del rapporto fra il marxismo e l’ecologia alla luce del carteggio intercorso nel 1880 fra Karl Marx e un giovane intellettuale socialista ucraino, Sergej Podolinskij. Quest’ultimo, partendo dai principi della termodinamica, in un saggio pubblicato in alcune riviste socialiste europee aveva proposto una revisione della teoria marxiana della produzione. Secondo l’autore, l’approccio di Podolinskij conteneva alcune idee anticipatrici circa la natura entropica dei processi economici e il duplice processo di accumulazione e di dissipazione dell’energia solare che si svolge sulla superficie terrestre, ad opera il primo delle piante e il secondo delle altre forme viventi. La fecondità delle idee di Podolinskij, tuttavia, non fu intesa adeguatamente; Engels si espresse in proposito in modo sostanzialmente (anche se non interamente) negativo in due lettere a Marx del dicembre 1882. Entrambi furono ostacolati nel giudizio per il fatto che non avevano ancora fatto approfonditamente i conti con il principio di entropia e le sue implicazioni. In effetti, l’elaborazione della “critica dell’economia politica” era avvenuta in una fase precedente a quella in cui essi cominciarono a riflettere sul secondo principio. Anche per questo, malgrado la presenza negli scritti e nel pensiero di Marx e di Engels di significativi temi “ecologici”, rimase nel marxismo una concezione inadeguata e ambivalente di “sviluppo delle forze produttive” e ciò ha in parte contribuito al “lungo divorzio” tra marxismo ed ecologia.

Quell’ insufficienza fu talvolta esasperata, come nella interpretazione “prometeica” che il marxismo ricevette in Unione Sovietica durante l’industrializzazione staliniana. Nell’ultima parte del suo saggio T. Bagarolo avanza l’ipotesi che alcuni spunti teorici proposti da Podolinskij e apparentemente dimenticati, possano invece aver ispirato negli anni venti-trenta alcuni studiosi di discipline ecologiche in Unione Sovietica e, per loro tramite, possano aver indirettamente influenzato la formulazione della teoria dell’ecosistema da parte dell’americano Lindeman.
“L’uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze naturali esistono in lui come come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo e condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali…
“Il sole è l’oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita; parimenti, la pianta è oggetto del sole come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della forza essenziale oggettiva del sole.” | Karl Marx, 1844
“Nuove preoccupazioni sociali generano nuovi problemi intellettuali e storici. Inversamente, nuove interpretazioni del passato forniscono nuove prospettive sul presente e quindi il potere di modificarlo.” | Carolyn Merchant, 1980
Scopo del presente articolo (1) è quello di ricostruire un episodio finora ignorato della storia del marxismo, certo non dei principali, ma ugualmente di grande significato alla luce degli attuali problemi ecologici e del dibattito, quanto mai aperto, sul rapporto tra il marxismo stesso e il pensiero ecologico.
Protagonista di questo capitolo inedito è Sergej Andreevic Podolinskij (2), un medico ed economista ucraino di idee socialiste, attivo tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso, che in alcuni scritti comparsi tra il 1880 e il 1883 sulla stampa socialista europea (3), propose un interessante approccio analitico – che potremmo definire, schematicamente, fisico-ecologico – al tema della produzione, e che su questo soggetto ebbe uno scambio epistolare con Marx nell’aprile del 1880. L’episodio si chiuse, apparentemente, con alcune valutazioni sulle idee di Podolinskij espresse da Engels in due lettere a Marx del dicembre del 1882. Pur avendo goduto al suo tempo di una certa notorietà negli ambienti socialisti europei (4), il nome di Podolinskij fu successivamente dimenticato, salvo, forse, in Ucraina, sua terra natale.
La “traccia teorica” (5) nuova, aperta allora da Podolinskij, sembra in seguito “perduta” (ma forse, lo vedremo alla fine del nostro articolo, non fu proprio così); resta il fatto che essa non ebbe un’eco nello sviluppo successivo del marxismo. La possibilità di un incontro, di una saldatura, fra il marxismo e la nascente ecologia (cioè tra il pensiero e la prassi dell’emancipazione sociale e il nuovo pensiero del rapporto uomo-natura, pensiero consapevole dei fili innumerevoli che legano la nostra specie alla fragile trama della vita planetaria) non ebbe seguito. Malgrado una storia di rapporti e di intrecci più ricca di quel che abitualmente si sospetti, restò “un lungo divorzio” (l’espressione è di Martinez-Alier) non solo tra marxismo ed ecologia, ma soprattutto tra movimento operaio (e sue espressioni politiche) e coloro (studiosi, movimenti) che avanzarono anche in seguito l’esigenza di rinnovare il rapporto fra uomo e natura, fra economia e ambiente, fra presente e futuro. Rimase a lungo ignorata, o marginalizzata, l’esigenza di fare i conti con un pensiero che andava mettendo in dubbio l’ideologia del dominio sulla natura, l’onnipotenza della tecnica, il mito del progresso, e richiedeva invece di prestare attenzione alla profonda solidarietà che la specie umana intrattiene, di fatto, col resto del mondo vivente e non vivente. Il “caso Podolinskij”pone, dunque, questioni di grande rilievo storico e insieme di pressante attualità. Non abbiamo la pretesa di esaurirle in un articolo. Nello spazio di questo lavoro ci proponiamo di ricostruire dettagliatamente il solo “punto di partenza”nel suo contesto teorico-storico, con l’ambizione di fare cosa utile alla discussione su questi temi che speriamo si sviluppi tra quanti sono interessati a riflettere sul passato per meglio comprendere il presente nel quale ci troviamo ad agire.
“Armonizzare pluslavoro e teorie fisiche”
Scrivendo a Marx l’8 aprile 1880 per chiedergli, per la seconda volta, un parere sulle proprie idee, Sergej Podolinskij presenta il proprio punto di vista come un “tentativo di armonizzare il pluslavoro con le attuali teorie fisiche” (6). Mi pare che questa formula – nel contesto di reciproca cortesia che si intuisce nello scambio epistolare fra il giovane medico ucraino esule a Montpellier e l’anziano economista tedesco che vive a Londra – racchiuda tanto un riconoscimento della validità della categoria del pluslavoro (uno dei fondamenti della teoria marxiana), quanto una riserva critica, alla luce degli ultimi risultati della termodinamica, sul modo in cui essa viene “fondata”da Marx. In effetti, come sappiamo dagli articoli da lui pubblicati sull’argomento, il senso delle idee che Podolinskij sottopone al giudizio di Marx è quello di una proposta di revisione, di una riformulazione della teoria della produzione in termini energetici: Podolinskij propone infatti di considerare i processi economici sotto l’aspetto delle trasformazioni operate sul flusso di energia solare captato dalla superficie terrestre dall’intervento del lavoro umano. E in assoluto la prima volta che viene affacciata questa problematica. Oggi, soprattutto dopo i lavori di Georgescu-Roegen (7), un punto di vista che ha una stretta parentela con quello proposto oltre un secolo fa da Podolinskij ci è più familiare ed è oggetto di discussione fra coloro che si occupano del nesso economia-ambiente (per quanto resti marginale, se non proprio ignorato, proprio nelle facoltà e negli insegnamenti economici).
Ma quale impressione può aver fatto su Marx, nel 1880?
Ci è impossibile dirlo con certezza perché non è stata trovata traccia di una sua reazione. Possiamo tuttavia ragionevolmente supporre che le idee di Podolinskij apparissero a Marx inusuali, se non astruse, forse anche ostiche da comprendere, ma in qualche modo intriganti. I principi scientifici dai quali Podolinskij muoveva nel suo ragionamento – gli studi di fisiologia vegetale e di fisiologia del lavoro muscolare, il principio di conservazione dell’energia e quello di entropia – non erano sconosciuti all’autore del Capitale, ma erano piuttosto recenti e lui ed Engels non avevano avuto il tempo di “assimilarli”a pieno e di integrarli nell’elaborazione teorica sul capitalismo (la “critica dell’economia politica”) le cui linee di fondo erano state sviluppate in un periodo precedente, tra il 1857 e il 1867 (8). Sulle implicazioni più generali dei nuovi principi della termodinamica, e segnatamente del principio di entropia (9), essi stavano ancora discutendo (come gran parte degli studiosi dell’epoca), ed erano quindi impreparati a formulare un giudizio netto così, a stretto giro di posta.
Non deve stupire, quindi, che dopo una prima risposta evasiva, Marx non si affretti a rispondere al giovane studioso che attende dall’altra parte della Manica. Forse intervenne anche qualche altro fattore a distrarre l’attenzione di Marx. Fatto sta che, forse troppo preso da altre urgenze e dai molti affanni personali e familiari (10), Marx non tornò sopra alla “faccenda Podolinskij”che alla fine del 1882, negli ultimi mesi di vita, mentre si trovava a Ventnor, nell’isola di Wight. Qualcosa, che non siamo in condizione di stabilire con certezza, richiamò la sua attenzione sulla storia di due anni prima (11). Ne fece cenno a Engels il quale, da Londra, gli mandò il suo parere in due lettere successive, datate 19 e 22 dicembre 1882 (12).
Engels non liquida l’idea suggerita da Podolinskij di esprimere il pluslavoro anche in termini di eccedenza dell’energia resa disponibile dal lavoro rispetto all’energia spesa per la sussistenza della forza-lavoro, ma ne dà comunque un giudizio fortemente riduttivo; la giudica un’idea poco interessante, se non fuorviante. Duramente critico è, in particolare, verso la confusione che gli sembra di scorgere tra approccio in termini fisici e categorie economiche. Ma c’è l’impressione che egli non abbia meditato a pieno sulle implicazioni del punto di vista che propone Podolinskij. Così gli sfugge la novità di ciò che si trova davanti e anche una certa affinità fra il tema affrontato da Podolinskij e questioni teoriche che fanno parte delle problematiche del pensiero di Marx e anche sue.
“La reazione di Engels all’articolo di Podolinskij fu certo una cruciale occasione perduta nel dialogo tra marxismo ed ecologia” ha scritto Juan Martinez-Alier (Martinez-Alier, 1991, p. 300), non del tutto a torto, ma forze sopravvalutando il significato di questo episodio e della sua influenza successiva. In fondo, non va trascurato il fatto che, malgrado il giudizio vergato da Engels nelle due lettere del dicembre 1882, una versione dell’articolo di Podolinskij vide la luce pochi mesi dopo (numeri di marzo e aprile 1883) nella rivista teorica del partito socialdemocratico “Die Neue Zeit”; rivista diretta, è vero, da Karl Kautsky, ma sulla quale non mancava di esercitare una sorta di “supervisione”editoriale lo stesso Engels, per cui appare molto improbabile che la pubblicazione vi sia stata decisa contro il suo parere, o anche senza di esso. Quanto alle lettere di Engels a Marx, esse non furono pubblicate che negli anni venti del nostro secolo (13), quando il nome di Podolinskij era già stato dimenticato ovunque in Europa (con eccezione dell’Ucraina). Se esse dunque contribuirono a formare l’opinione dei marxisti, lo fecero rafforzando convinzioni già consolidatesi in modo autonomo, piuttosto che determinandole ex novo.
Resta il fatto, comunque, che l’incomprensione di Engels, che non seppe in seguito far buon uso delle idee anticipatrici di Podolinskij, insieme con la malattia che colpì quest’ultimo nel 1881 sottraendogli la possibilità di procedere oltre nella riflessione che aveva appena abbozzato, segnò in qualche modo la sorte non solo del nome di Podolinskij o del suo lavoro anticipatore (caduti nell’oblio per circa un secolo), ma soprattutto di una linea di pensiero e di un intero ambito di problematiche teoriche e pratiche. Su questo punto dovremo tornare. Ma prima di procedere oltre, occorre soffermarsi più a fondo sulla proposta teorica di Podolinskij e sugli argomenti della replica di Engels.
Lavoro umano e flussi di energia
Senza riassumere per esteso il punto di vista di Podolinskij, richiamiamo qui, per comodità del lettore, i punti notevoli del suo ragionamento e alcuni risultati particolarmente “attuali”. Tre sono le principali novità che noi vi scorgiamo: 1. l’analisi dei processi economici da un punto di vista termodinamico, 2. la visione del metabolismo della natura in termini di accumulazione e di dissipazione dell’energia solare, 3. l’istituzione di una correlazione fra energia e “forme di società”.
Podolinskij si diffonde soprattutto sul primo e sul secondo tema, sul terzo è più sommario. L’insieme non manca di qualche pecca. Su alcune di esse dovremo spendere qualche parola perché, a nostro avviso, alcune insufficienze e alcune approssimazioni del discorso di Podolinskij hanno avuto certamente una qualche responsabilità nel fraintendimento di Engels.
Ma vediamo per ordine la materia.
1. La produzione dal punto di vista termodinamico. Ammesso il principio di conservazione dell’energia (14), il lavoro umano, osserva Podolinskij, non può essere concepito come capace di creare qualcosa dal nulla, ma solo di modificare i flussi di energia esistenti in natura così da adattarli alla soddisfazione dei bisogni umani. La tesi che gli preme dimostrare è che il lavoro umano ha la facoltà di accumulare più energia di quanta non venga spesa per la sopravvivenza, e che questa è la base dello sviluppo di ogni società. Citando Clausius (15) e il principio di entropia (16), Podolinskij spiega che ogni forma di energia dell’universo è soggetta, nel corso delle sue trasformazioni, ad una tendenza verso la dissipazione, cioè verso una irreversibile degradazione qualitativa verso un equilibrio finale sotto forma di calore che esclude ogni ulteriore possibilità di utilizzo per compiere un lavoro (17). Naturalmente, questa tendenza opera anche sulla superficie terrestre, dove il flusso di energia proveniente dal Sole si manifesta in forme molteplici: riscaldamento dell’aria e suoi spostamenti, evaporazione e susseguenti precipitazioni e scorrimento delle acque, energia biochimica fissata dall’accrescimento della vegetazione, energia muscolare animale e umana, lavoro delle macchine che sfruttano in modo diretto o mediato la radiazione solare. Alla fine del ciclo delle sue trasformazioni, la radiazione luminosa assorbita dal pianeta è in ogni caso di nuovo irradiata verso lo spazio cosmico sotto forma di calore, secondo quanto prescritto dal principio di Kirchhof (18). E però nelle possibilità del lavoro umano, e nei suoi fini, di influenzare questi processi, nel senso di accrescere la quantità di energia accumulata sulla superficie terrestre e quindi disponibile per l’umanità:
L’uomo, mediante determinate azioni intenzionali, può accrescere la quantità di energia accumulata nei vegetali e ridurre quella dissipata dagli animali. (Podolinskij, 1883, p. 420)
Ciò può avvenire, suggerisce Podolinskij, in due modi: incrementando la conversione dell’energia solare (come nel lavoro di coltivazione dei campi), oppure contrastando la dissipazione dell’energia accumulata, conservandola più a lungo nelle forme utili a soddisfare i bisogni umani (e a questo tende il lavoro extra-agricolo). Egli, pertanto, definisce la nozione di lavoro utile:
E un impiego dell’energia meccanica e mentale dell’organismo tale che ha per effetto di accrescere il bilancio complessivo dell’energia sulla superficie terrestre. (Podolinskij, 1883, p. 422)
Insieme a questa intuizione originale (sviluppata, bisogna dire, non senza ingenuità e imprecisioni comprensibili per l’epoca), vanno segnalati anche alcuni passaggi del ragionamento e alcuni risultati di dettaglio. Per dimostrare l’assunto che il lavoro umano ha la facoltà di accumulare l’energia solare, Podolinskij ricorre al confronto fra la produttività energetica delle foreste, dei pascoli naturali, delle colture foraggiere e di quelle cerealicole della Francia del suo tempo, derivando i dati dalle statistiche ufficiali e le stime sui contenuti calorici degli input e degli output dagli studi contemporanei di fisiologia vegetale e animale e simili. Insomma, applica per la prima volta la metodologia che oggi si definisce “analisi dell’energia”(19).
Analizzando poi le prestazioni lavorative dell’organismo umano, utilizza i risultati già stabiliti da Hirn (20), Helmholtz (22) e Clausius, ma in nuovo contesto, e richiama le nozioni di rendimento (“coefficiente economico”, nella sua terminologia) e di produttività dell’organismo umano considerato come “macchina termica”. Una “macchina termica perfetta” nel senso di Sadi Carnot (22), osserva Podolinskij, in quanto il lavoro umano è in grado di effettuare quello che appare come un “ciclo operativo completo”, giacché essa converte il lavoro in calore e in altre forze necessarie alla sua sussistenza, in un certo senso facendo “ritornare al suo focolare il calore prodotto col suo lavoro” (Podolinskij, 1881, 4, p. 12).
Da sottolineare, infine, l’insistenza non casuale sull’energia del flusso solare (significativamente la definizione di lavoro utile fa perno su di essa). Egli sa perfettamente che ci sono sulla Terra altre fonti di energia che non derivano dal Sole (descrive ad es. quella delle maree e quelle endogene: vulcanesimo, geotermia, ecc.), ma queste gli appaiono quantitativamente trascurabili su scala globale (ma non locale); oppure che derivano dal Sole ma che, a differenza del flusso di quest’ultimo costantemente disponibile, rappresentano piuttosto degli stock di energia già accumulata il cui utilizzo si risolve in una de-accumulazione netta, in una dissipazione; e cita a questo proposito il carbon fossile:
Lo scopo principale del lavoro deve essere […] l’aumento assoluto della quantità di energia solare accumulata sulla Terra, molto più che la semplice trasformazione in lavoro d’una più grande quantità di calore o di altre forme di energia già accumulate sulla Terra. Imperocchè quest’ultima trasformazione, l’elevamento dell’energia, per esempio la produzione del lavoro mediante la combustione del carbon fossile, è tanto [più] accompagnata da perdite inevitabili per la dispersione nello spazio, [quanto più] si giunge ad uno per cento più elevato di calore o di altra forza fisica trasformata in lavoro. (Podolinskij, 1881, 4, p. 13)
2. L’energia e il ciclo della vita. L’analisi dei processi economici sotto l’aspetto termodinamico porta Podolinskij a metterne in luce, da un lato, la dimensione entropica (l’unidirezionalità del flusso energetico dal Sole alla dissipazione e all’irradiazione verso lo spazio cosmico); da un altro, la connessione con l’intero sistema della vita planetaria, a sua volta dipendente dalla radiazione solare. Ovviamente la dipendenza dell’uomo dalle altre forme di vita e in ultima analisi dalla luce del Sole non è una novità teorica nel 1880; essa, per un verso, affonda nella coscienza mitica dell’umanità; per l’aspetto propriamente scientifico, invece, risale alla fine del diciottesimo secolo e alle osservazioni di Ingenhousz (23) sul processo di accrescimento delle piante e di scambio gassoso con l’atmosfera in presenza della luce. La novità che si fa strada nello scritto di Podolinskij è un’altra: spinto dalla logica della sua argomentazione, Podolinskij ipotizza una relazione quantitativa, una sorta d’equilibrio, fra due processi di segno opposto di cui sono agenti gli essere viventi. Da un lato, un processo di accumulazione (ad opera della vegetazione); dall’altro, un processo di dissipazione (da parte degli animali e dei processi di demolizione della materia vivente) dell’energia solare assorbita e accumulata dal sistema della vita:
Ci troviamo qui dinnanzi a due processi paralleli, che insieme formano il cosiddetto ciclo della vita [Kreislauf des Lebens]. Le piante possiedono la facoltà di accumulare energia solare, mentre gli animali, nutrendosi di sostanze vegetali, convertono parte di tale energia accumulata in lavoro meccanico, e quindi la dissipano nello spazio. Qualora la quantità di energia accumulata dai vegetali risultasse maggiore di quella dissipata dagli animali, si verificherebbe una sorta di accantonamento di energia – ad es. nel periodo di formazione del carbon fossile, in cui evidentemente la vita vegetale era nettamente preponderante su quella animale. Se, al contrario, la vita animale prendesse il sopravvento, ben presto le scorte di energia verrebbero dissipate e la stessa vita vegetale dovrebbe regredire entro i limiti fissati dal regno vegetale. Si stabilirebbe così un certo equilibrio tra accumulazione e dissipazione dell’energia: il bilancio energetico della superficie terrestre verrebbe a costituire una grandezza più o meno stabile, ma l’accumulazione netta di energia scenderebbe a zero, o comunque molto più in basso che nell’epoca della preponderanza della vita vegetale. (Podolinskij, 1983, p. 420)
L’idea del “ciclo della vita”, già presente nelle scienze naturali alla metà dell’Ottocento, si era venuta precisando attraverso gli studi sulle basi fisico-chimiche degli esseri viventi. Podolinskij, qui sta la novità, rilegge questa nozione in termini di energia, abbozzando l’approccio che guiderà, qualche decennio più tardi, la costruzione della teoria dell’ecosistema come unità definita e strutturata dalle relazioni trofiche (24).
3. Energia e società. Le nozioni di “coefficiente economico”(efficienza, rendimento) e di “produttività”del lavoro umano vengono considerati da Podolinskij nella loro dimensione essenzialmente storica e sociale (il loro valore risulta variabile da un’epoca all’altra e da una società all’altra della stessa epoca). Combinati insieme, poi, definiscono quella che si potrebbe chiamare la “condizione di vitalità” di una determinata comunità umana:
L’esistenza e la possibilità di lavorare della macchina umana sono garantite fino a quando il lavoro di questa macchina viene convertito in un accumulo di energia per il soddisfacimento dei nostri bisogni di tante volte maggiore della somma del lavoro umano di quante volte il denominatore del coefficiente economico supera il numeratore.
Ogni volta che la produttività del lavoro umano è minore dell’inverso del coefficiente economico ci sarà penuria e forse una diminuzione della popolazione. Quando, al contrario, l’utilità del lavoro sarà maggiore di tale numero, ci possiamo aspettare un incremento del benessere e forse un aumento della popolazione. (Podolinskij, 1883, p. 454)
Qui siamo oltre il determinismo (preteso “naturale”) del principio di popolazione maltusiano, pur nel riconoscimento – in termini corretti – del vincolo ecologico cui sottostà, in ogni caso, la dinamica economico-demografica di qualsiasi comunità umana (25).

Podolinskij traccia, poi, sulla base dei concetti appena definiti, un rapido schizzo del progresso umano attraverso le varie forme sociali (stato selvaggio, schiavitù, feudalesimo, capitalismo) e discute poi le possibilità del socialismo. Egli istituisce una duplice relazione dialettica fra energia e società: da un lato, la disponibilità di energia scandisce le tappe dello sviluppo sociale; dall’altro, le relazioni sociali condizionano a loro volta il modo e l’efficacia degli impieghi dell’energia. Il socialismo, ai suoi occhi, è la forma sociale che deve superare gli sprechi e l’imprevidenza delle forme precedenti, che può trarre il massimo vantaggio dai rapporti sociali di cooperazione (e non di conflitto) e dalle nuove conoscenze scientifiche, e che saprà far valere l’educazione come leva potente per promuovere una amministrazione razionale delle risorse del pianeta finalizzata al soddisfacimento dei veri bisogni.
Vecchio e nuovo. Accanto a queste novità anticipatrici, che collocano Sergej Podolinskij fra coloro che aprono la strada ad alcune delle più importanti scoperte del ventesimo secolo e fra i pionieri dell’ecologia, destano perplessità alcune formule e alcuni concetti che riflettono, invece, l’epoca e l’ambiente in cui vennero formulate. In generale, si può osservare che Podolinskij non fuoriesce ancora da una prospettiva fondamentalmente fiduciosa nel “progresso” e nello sviluppo delle forze produttive, anche se temperata da un inizio di consapevolezza del problema dei limiti naturali certamente nuova per l’epoca. Su due altri punti, invece, sembra ancora prigioniero di posizioni diffuse negli ambienti socialisti dell’epoca ma già criticate – a mio parere a ragione – da Marx e da Engels.
Il primo punto è il modo di considerare il lavoro. Nella distinzione che Podolinskij traccia fra lavoro intellettuale e lavoro “muscolare”(e nell’equiparazione fra lavoro muscolare umano e animale) si intuisce una confusione fra categoria termodinamica e categoria economica di lavoro, da un lato; e il permanere, dall’altro, di un’idea di lavoro fisico, manuale (tipica dell’idealizzazione socialista del lavoratore “del braccio”) dotato di una qualche facoltà miracolosa di produrre ricchezza, contro cui Marx aveva già polemizzato, ad es., nella Critica al programma di Gotha (26).
Il secondo punto è il collegamento che Podolinskij stabilisce tra lavoro prestato (e valore-lavoro dei prodotti, anzi “valore-energia”nel suo approccio) e “giusta”distribuzione sociale dei beni. Anche queste idee erano già state oggetto della polemica di Marx contro i socialisti utopisti e contro Lassalle e, nel 1875, di un serie di rilievi critici alla bozza di testo programmatico del partito socialdemocratico tedesco (27).
Queste incongruenze non ci devono stupire più di tanto. Nella scienza, così come in ogni altra forma di pensiero, capita spesso che il nuovo si fa strada attraverso il vecchio e ciò che è valido si afferma non solo in mezzo ma spesso anche per mezzo di ciò che è superato e tuttavia ancora sopravvive. Non si dimentichi, però, che quello di Podolinskij è sostanzialmente un abbozzo, probabilmente sviluppato in solitudine, che egli purtroppo non ebbe la possibilità di correggere e riformulare in modo più soddisfacente sulla base di un confronto e di una discussione con altri.
La replica di Engels, ovvero l’occasione perduta
Forse, furono questi dettagli piuttosto discutibili che fecero su Engels un’impressione negativa portandolo a travisare e a sottovalutare gli aspetti innovativi, positivi, della proposta di Podolinskij (28). E tuttavia, il senso del suo giudizio è tutt’altro che una liquidazione sbrigativa. Scrive egli a Marx:
La faccenda Podolinski me 1’immagino così. La sua scoperta è questa: il lavoro umano è capace di trattenere sulla superficie della terra e di far agire l’energia solare più a lungo di quanto accadrebbe senza di esso. Tutte le deduzioni economiche che egli ne trae sono errate. (Marx-Engels, 1953, VI, p. 414)
E chiudendo la prima lettera:
Dopo la sua scoperta assai preziosa [sic!] Podolinski ha smarrito la via giusta, perché voleva trovare nel campo delle scienze naturali una nuova prova della giustezza del socialismo e ha mischiato quindi cose della fisica con cose d’economia. (Marx-Engels, 1953, VI, p. 416)
A ben vedere, Engels muove due ordini di obiezioni a Podolinskij, che è utile esaminare separatamente. Per un verso egli mostra di non credere alla possibilità, e neppure all’utilità, di fare un’analisi dei processi economici in termini di energia. Per un altro verso, rimprovera Podolinskij di voler trarre deduzioni economiche direttamente dalla fisica, e questo non gli sembra ammissibile.
Riguardo al primo argomento, Engels non è molto coerente, in verità. Proprio mente si esprime con scetticismo sulla possibilità di effettuare una attendibile contabilità energetica della produzione, suggerisce alcuni criteri corretti per farla: ad es. includendo i fertilizzanti, il combustile e così via nella contabilità del settore agricolo. Dà a vedere, inoltre, di avere una certa percezione della natura entropica dei processi produttivi perché, spiega, a parte il settore-agricolo, gli altri settori hanno un bilancio energetico negativo, non fanno che degradare l’energia solare tanto “presente”, quanto, soprattutto “passata”:
Tu sai meglio di me – scrive egli a Marx – a che punto arriviamo nello sperpero di provviste di energia, carbone. minerali, foreste, ecc. (Marx-Engels, 1953. VI, p. 417)
Ammette anche che “il vecchio dato di fatto economico che tutti i produttori industriali vivono dei prodotti dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame, della caccia e pesca, può essere tradotto anche, volendo, nella fisica”, ma poi dà scarso valore a questa intuizione concludendo: “dal che per altro non risulta davvero gran cosa” (Marx Engels, 1953, VI, p. 417).
La seconda obiezione, invece, può appoggiarsi a qualche formula confusa o equivoca dello stesso Podolinskij, l’abbiamo visto. Si tratta di una questione sulla quale l’attenzione di Engels è molto vigile. Sappiamo da altri scritti che egli rifiutava il procedimento disinvolto di trasferire una categoria da un ambito disciplinare ad un altro, dove assume un significato diverso, spesso per derivarne corollari politico ideologici abusivi.
Egli si era già occupato nei suoi appunti per la Dialettica della natura di alcuni di questi pasticci teorici. In particolare aveva criticato la pretesa di alcuni di trasferire alle società umane il concetto vago di “lotta per la vita”propria dell’interpretazione darwiniana della storia naturale e della vita animale (29).
In altre due occasioni, nel 1875 e nel 1880-81, aveva rifiutato l’identificazione della nozione di lavoro in senso economico con quelle proprie della termodinamica e della fisiologia (30), ed è proprio questo tipo di critica che riecheggia nelle lettere a Marx su Podolinskij.
Ma, al di là del problema se Podolinskij incorra o no nell’errore che Engels gli attribuisce, resta il fatto che neppure Engels nega in linea di principio l’ammissibilità di fare una analisi in termini di energia dei processi economici o di quelli vitali, e che anch’egli riconosce il nesso tra processi economici e ambiente (31).
D’altra parte è facile documentare che anche Marx nel Capitale considera rilevante l’analisi dei processi produttivi non solo in quanto processi sociali ma anche sotto l’aspetto materiale, cioè in quanto processi che si svolgono fra l’uomo e la natura, in cui l’uomo opera utilizzando i materiali e le forze presenti in natura, soggetti alle leggi naturali, nei quali l’input energetico svolge una funzione determinante (32). E questa una realtà profonda del rapporto fra l’uomo e la natura che non può essere soppressa da alcun prodigioso sviluppo tecnico-scientifico. Non solo. Si può anche documentare uno straordinario parallelismo fra gli argomenti di Podolinskij e un passaggio del Capitale, là dove Marx definisce la “base naturale” (l’espressione è di Marx) del pluslavoro e del plusvalore (33). Insomma, non mancavano le premesse perché la reazione di Marx e di Engels fosse diversa, perché il contributo di Podolinskij catturasse la loro attenzione, perché il loro giudizio fosse più positivo, perché, in una parola, questa fosse l’occasione per avviare una riflessione sui problemi posti da Podolinskij e per approfondire il tema del nesso tra produzione e ambiente naturale. Perché la nuova “traccia teorica”fosse meglio esplorata.
Ma ciò non avvenne:
E’ possibile affermare che Engels capiva, se non i principi dell’energetica industriale, quelli dell’energetica agraria; inoltre, vedeva chiaramente la differenza tra spendere lo stock di carbone e usare il flusso di energia solare, ed era di gran lunga in anticipo su molti economisti, sociologi e storici successivi per conoscenza e interessi scientifici. Ma è un fatto che Marx ed Engels ebbero l’opportunità di leggere uno dei primi tentativi di marxismo ecologico e non ne ricavarono alcun profitto. (Martinez-Alier, 1991, pp. 302-3)
Insomma, si trattò di un’occasione perduta. Ci dobbiamo chiedere perché.
Marx, Engels e l’ecologia. Potenzialità e limiti
Martinez-Alier indica in una inadeguata concezione delle “forze produttive” e nella visione di un “comunismo dell’abbondanza” (che potrebbe fondarsi solo sulla base di un grande sviluppo delle forze produttive) i due ostacoli teorici che avrebbero annebbiato il giudizio di Engels (e di Marx) e, soprattutto, compromesso in seguito la possibilità di un incontro tra la tradizione di pensiero marxista e quella dell’ecologia. Non è una tesi nuova, e credo vada presa in seria considerazione. Tuttavia essa sarebbe vera, comunque, solo in parte: la vicenda successiva dei rapporti tra marxismo ed ecologia non può esser letta, prescindendo da altri fattori del contesto (ideologici, sociali e politici), come mero svolgimento di storia delle idee (34).
Per cominciare col piede giusto la riflessione su un tema così impegnativo come quello del rapporto intercorso tra marxismo ed ecologia, è bene partire cercando di definire meriti e limiti della “coscienza ecologica” di Marx ed Engels, considerata ovviamente nel contesto storico.
A questo proposito occorre subito osservare che, a rigore, è improprio parlare di ecologia per l’epoca di cui ci stiamo occupando. Benché il termine fosse stato introdotto da Ernst Haeckel già nel 1866 (35), esso non divenne di uso comune che negli ultimi anni del secolo e, quel che più conta, l’ecologia – in quanto disciplina scientifica “cosciente di se stessa” (36), di un suo proprio campo unitario di studi e di specifici strumenti di indagine – non venne a formarsi che in epoca ancor più recente, tra gli anni venti e gli anni quaranta di questo secolo (37). Quella che attualmente consideriamo sensibilità ecologica, per l’epoca che stiamo considerando dobbiamo dunque cercarla in altri ambiti: nel modo di intendere il posto dell’uomo nella natura da parte del pensiero filosofico e scientifico, nell’immagine della natura che si fa strada nelle scienze naturali, nel modo in cui gli economisti definiscono il rapporto fra sviluppo e risorse, nelle opere di quei precursori che richiamano l’attenzione dei contemporanei sui fenomeni di degrado dell’ambiente naturale indotti dalle attività antropiche. E’ con questi sviluppi che dobbiamo confrontare i tratti di coscienza ecologica che troviamo in Marx e in Engels, ed è sulla base di questo confronto che possiamo formulare un giudizio storicamente fondato; altrimenti corriamo il rischio di commettere l’anacronismo di rimproverare Marx ed Engels – che mai pretesero di essere autorità in materia di biologia o di termodinamica – di non essere stati migliori ecologi degli ecologi del loro tempo (38).
In effetti, paragonando le loro posizioni a quelle prevalenti fra gli studiosi della loro epoca, Marx ed Engels rivelano una sensibilità piuttosto avanzata e gli strumenti teorici da essi elaborati dimostrano una grande modernità e una grande apertura anche nei confronti delle emergenti problematiche ecologiche.
Schematizzando drasticamente (per ovvie ragioni di spazio) penso che si possa riassumere in questi punti il pensiero marx-engelsiano in questo campo: 1. una concezione proto-ecologica del rapporto uomo natura, 2. un abbozzo di critica ecologica dello sviluppo capitalistico, 3. un embrione di programma ecologico ispirato al criterio della “sostenibilità” e della responsabilità verso le generazioni future.
Restano, nel contempo, dei limiti e delle ambivalenze legate alla definizione dei concetti di forze produttive e di progresso, che si sarebbero aggravati nell’interpretazione dei marxisti successivi, fino a rendere tale “marxismo” (soprattutto nel caso dell’ideologia staliniana) una apologia dell’industrialismo e della pretesa umana di “trasformare la natura” (che nel programma staliniano degli anni trenta diventa addirittura la pretesa di rimodellare la stessa natura per renderla base adeguata della nuova società socialista) (39).
Vediamo brevemente questa materia, anche mediante qualche esemplificazione.
1. Uomo-natura-società. C’è spesso la tendenza (40), parlando della posizione del marxismo verso la natura e i problemi ecologici, a dimenticare che il primo significato del “materialismo” marx-engelsiano (prima ancora del suo essere “storico”) è quello di essere l’affermazione del fatto che l’uomo è parte integrante della natura, natura esso stesso a tutti gli effetti, essere naturale “condizionato e limitato, al pari degli animali e delle piante”, per riprendere le parole del passo dei Manoscritti del ‘44 che abbiamo scelto come epigrafe per questo nostro articolo. Non è banale sottolineare questo primo tratto, fondamentale, del pensiero marxista, perché esso è lo sfondo costantemente presente di tutti gli sviluppi successivi. Le pagine illuminanti del giovane Marx in cui egli abbozza il suo “naturalismo” in contrapposizione all’idealismo hegeliano (41), la riflessione comune dell’Ideologia tedesca in cui viene definito il materialismo storico anche a partire dall’idea della società umana come fenomeno emergente dalla natura, e della storia come dialettica ad un tempo del rapporto fra uomo e uomo e fra umanità e natura (42); l’elaborazione del rapporto fra produzione, rapporti di produzione, natura nell’Introduzione del ’57 (43); il tema del metabolismo (Stoffwechsel) fra società e natura centrale nel Capitale (44); per finire con i suggestivi passi engelsiani della Dialettica della natura in cui si discute il posto dell’uomo nella natura alla luce del darwinismo, del successo del Prometeo borghese, ma anche di una netta coscienza di alcuni suoi aspetti negativi per l’ambiente naturale (45): c’è in tutti questi momenti un filo ininterrotto, via via precisato, un approccio originario, che non ha perso di attualità alla luce delle problematiche ecologiche dell’ultimo secolo.
Per Marx ed Engels l’umanità è dunque parte integrante della natura che l’ha generata e della cui vita complessiva partecipa. Ma l’homo sapiens è anche specie molto particolare. Tramite il lavoro – attività consapevole e finalistica – questa specie agisce sulla natura, modifica l’ambiente in cui vive, trasforma le condizioni originarie di questo rapporto e di questa dipendenza. Così ha inizio la storia, una evoluzione molto particolare che oltrepassa la dimensione del mero “naturale” e crea la nuova dimensione tipicamente umana del “sociale” (del “culturale”, se si vuole), irriducibile al mero dato biologico. Di questa unità dialettica del naturale e del sociale occorre tener conto quando si esamina la relazione uomo-natura. Infatti, il rapporto in cui l’umanità si trova con la natura, con il suo ambiente, non è dato una volta per tutte, ma cambia di epoca in epoca, è storicamente determinato; cambia soprattutto da una forma di società ad un altra, è socialmente condizionato.

L’uomo che lavora, l’homo faber, è anche un uomo che costruisce strumenti; a toolmaking animal, dice con Benjamin Franklin il Capitale; un animale che espande i suoi organi esosomatici, diremmo oggi con la terminologia di Alfred Lotka. Questa caratteristica gli ha conferito col tempo un potere enorme di intervenire e di modificare l’ambiente, la natura che lo ospita (46). Così la specie umana arriva a compromettere l’ambiente in cui vive; e Marx e Engels più volte segnalano le testimonianze di questa realtà incontrate nelle loro letture (47). Ciò accade perché manca la conoscenza degli effetti ultimi delle azioni umane sulla natura; ma anche e soprattutto per il prevalere di comportamenti, socialmente condizionati, di miope sfruttamento ispirati dalla molla del tornaconto individuale e immediato (48).

2. Ecologia politica dello sviluppo capitalistico. Negli scritti di Marx ed Engels, in effetti, troviamo decine di pagine in cui si fa cenno o si esaminano estesamente le conseguenze dannose per l’ambiente delle attività condotte dall’uomo, in modo particolare nell’ambito dello sviluppo capitalistico. Si tratta in effetti delle prime pagine di “ecologia politica” dello sviluppo capitalistico in cui la denuncia si salda con l’analisi dei concreti meccanismi sociali e produttivi del degrado.

Un tema che ritorna molte volte, ad es., è quello degli effetti negativi dell’urbanizzazione collegata all’espansione industriale; viene osservato che questi processi, per i modi e la scala in cui avvengono, provocano l’avvelenamento dei fiumi e dell’aria, compromettono la salute e la vivibilità urbana, sconvolgono il necessario ricambio organico fra l’umanità e la natura, depauperano la fertilità dei suoli e degradano le condizioni di vita dei lavoratori (49).

Altro tema ricorrente è quello delle conseguenze distruttive dell’agricoltura chimica su vasta scala, che “mina le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”, scrive Marx nel Capitale (Marx, 1867, I, pp. 551-3). La dipendenza dal mercato, più in generale, viene individuata come incompatibile con una gestione razionale dell’agricoltura e delle risorse forestali, perché la logica del profitto a breve termine non può che scontrarsi con quella della riproducibilità in tempi lunghi delle risorse naturali (50).

Questi “spunti ecologici” non sono osservazioni occasionali ed estemporanee, hanno radici nel corpus centrale del pensiero marxiano, in quella critica dell’economia politica il cui modello interpretativo del capitalismo conserva una straordinaria capacità esplicativa anche sul tema economia-ambiente, sul quale invece ha mostrato la corda l’approccio economico tradizionale.
Ricordiamo qui per titoli alcuni degli strumenti concettuali della critica dell’economia politica che si rivelano oggi particolarmente utili:
a) In primo luogo la definizione coerente – nel concetto di modo di produzione (di modo di produzione capitalistico) – delle coordinate teoriche fondamentali entro le quali vanno considerate le modalità concrete del metabolismo fra l’uomo e la natura; modalità che sono storiche e sociali (e non naturali ed eterne), ma che nel contempo sono caratterizzate da una interna necessità sistemica (per quanto dialetticamente contraddittoria e dinamica) che non si lascia scalfire dalla mera intenzionalità etica degli agenti sociali che operano all’interno delle “regole del gioco” date. E’ vano dunque pensare di modificare la logica di sviluppo del sistema se non si giunge a metterne in discussione gli elementi strutturali che ne garantiscono la riproduzione. In particolare, la nozione di modo di produzione collega fra loro in unità dialettica gli elementi “astratti” della riproduzione materiale (le condizioni soggettive ed oggettive della produzione, le forze produttive) e della riproduzione sociale (i rapporti di produzione). Ciò consente di condurre una analisi concreta dell’interazione dialettica delle determinanti sociali e delle determinanti naturali sia della riproduzione materiale sia di quella sociale dell’organismo sociale storicamente dato. 
b) Il carattere feticistico delle categorie economiche mercantili e monetarie, che velano la natura sociale della produzione, del lavoro e della ricchezza, il suo aspetto concreto (il valore di scambio prevale sul valore d’uso); fenomeno che oggi si accentua per la divaricazione crescente tra contabilità finanziaria e monetaria della ricchezza e sua consistenza reale in termini di risorse distrutte e di ambiente degradato.
c) L’inversione tra i fini e i mezzi nel processo economico capitalistico: innanzitutto il carattere alienato del lavoro, che da attività per la propria realizzazione vitale è invece ridotto ad attività al servizio di un meccanismo economico cieco e impersonale che domina ed espropria il lavoratore; ma l’alienazione e l’inversione mezzi-fini coinvolge anche altri ambiti dell’economia capitalistica: i valori d’uso (fra i quali la natura nei suoi molteplici aspetti) diventano nel tutto indifferenti nella misura in cui non sono anche valori di scambio che entrano nel ciclo di valorizzazione del capitale; i bisogni reali non sono più il fine della produzione: la creazione di bisogni artificiali diventa il mezzo per realizzare il plusvalore e perpetuare il ciclo della valorizzazione.
d) Il fine della valorizzazione sconvolge la natura del processo economico, lo trasforma in produzione per la produzione, con ciò dando avvio alla crescita incontrollata, incontrollabile e illimitata dei processi di trasformazione materiale (51), i quali non riconoscono più davanti a sé limiti quantitativi o qualitativi (52), se non nella misura in cui incontrano una coercizione sociale o una barriera economica (aumento dei costi).
3. Eco-comunismo. Anche il tema della responsabilità verso la natura e verso le generazioni future, venuto alla ribalta nella riflessione ecologica e filosofica degli ultimi anni (53), è già presente nella riflessione di Marx e di Engels. In alcuni passi dei loro scritti troviamo espressa una chiara consapevolezza, affine a quella che guida la proposta recente che va sotto il nome di “sviluppo sostenibile”, che le attività umane debbono essere condotte in modo da preservare gli equilibri naturali (in particolare la fertilità della terra) da cui dipendono le possibilità di vita delle generazioni a venire (54). Più nello specifico, è un motivo insistente l’esigenza di una ricomposizione della contraddizione fra città e campagna, al quale si affianca il tema della necessità di un’agricoltura condotta razionalmente in modo da garantire la perpetuazione della fertilità del suolo, in luogo dell’agricoltura di spoliazione sviluppatasi con i rapporti di produzione capitalistici, l’industria, l’urbanizzazione e il commercio internazionale (55). Sono tutti elementi embrionali che segnalano l’attenzione per la qualità dello sviluppo e per i suoi riflessi sull’ambiente, che si ricollegano al tema filosofico, già avanzato nei Manoscritti economico-filosofici, della “riconciliazione” fra uomo e natura, ma anche ad una sensibilità umana ed estetica attenta ai valori non meramente utilitaristici della natura, sensibilità testimoniata nella corrispondenza e dai contemporanei (56).

C’erano dunque nel marxismo originario le premesse per un dialogo fecondo con le scienze della natura e con l’ecologia, c’era la potenzialità di un’evoluzione, per mezzo di questo dialogo, verso un punto di vista più adeguato – “ecologico” – tanto per ciò che riguarda gli strumenti teorici con cui considerare la storia e il legame con la natura della società umana, quanto per ciò che riguarda le preoccupazioni pratiche che formano l’oggetto della strategia rivoluzionaria e che definiscono i compiti all’ordine del giorno prima e dopo la rivoluzione socialista.

Ma c’erano anche dei limiti, non di second’ordine (anche se non decisivi di per se stessi), che hanno contributo a inibire e a disperdere le potenzialità di cui abbiamo appena parlato.
E’ su questi limiti che dobbiamo adesso soffermarci.
Forze produttive, un concetto ambivalente
La visione ecologica delle condizioni dell’esistenza umana poteva essere facilmente collegata al marxismo attraverso una definizione adeguata [del concetto] di forze produttive. Ciò è quanto Marx non fece. (Martinez-Alier, 1991, p. 26).
Martinez-Alier non ha torto. Ci si può chiedere, però se Marx era nelle condizioni, negli ultimi travagliatissimi anni, di assumersi questo compito. Ne dubitiamo. Dubitiamo in realtà che lo stesso Engels, che pure ebbe oltre un decennio a disposizione, fosse allora nelle condizioni soggettive e oggettive di portare a termine quest’opera di riformulazione delle fondamenta fisico-ecologiche della teoria marxiana (57). In realtà, è ai marxisti successivi che andrebbe chiesto di render conto di non aver saputo o voluto farsi carico di questa riformulazione, di aver preferito la ripetizione scolastica delle formule testuali allo studio concreto, empirico e teorico, della configurazione effettiva delle forze produttive.
Ma dove era il limite, dove stava l’ostacolo teorico difficile da rimuovere?
Il tema delle forze produttive, in realtà, è da tempo una vexata quaestio tra i marxisti, e credo che oggi esso presenti almeno due diversi aspetti problematici, l’uno e l’altro rilevanti per la nostra discussione: 1. quale sia il contenuto concreto di questa categoria e quindi quale significato vada attribuito al concetto di “sviluppo delle forze produttive”; 2. come si debba intendere il nesso tra forze produttive e rapporti sociali di produzione, e quindi quale sia il significato della nota formula marxiana che “la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione”è il motore della dialettica storica.
Andiamo per ordine.
1. Forze produttive, energia, entropia. Chi scrive si è fatto l’opinione che la categoria di “forze produttive” sia una delle più citate ma anche delle più travisate del marxismo, ma non solo per colpa degli interpreti. Se si compie una ricerca nei testi si scoprirà che non c’è un luogo in cui si dia una definizione generale soddisfacente del concetto: in genere si trova un uso di questa categoria in termini generali, cui fa riscontro un contenuto generico e non ben definito; oppure, all’opposto indicazioni molto precise ma non generali né facilmente generalizzabili (si definisce questa o quella forza produttiva). Se si riuniscono insieme queste indicazioni diverse, comincia allora a delinearsi un concetto piuttosto articolato che non corrisponde a molte semplificazioni correnti (58); e forse si comincia ad intravvedere in che direzione occorre riformularlo per integrarvi le successive acquisizioni della termodinamica e dell’ecologia.
Ma, restando ancora al suo significato di un secolo fa, un primo orientamento ci viene dall’analogia (non casuale), tra Produktivkräfte (forze produttive) e Kraft (forza, energia). In prima approssimazione, sono forze produttive tutti quegli elementi che svolgono un ruolo attivo nel processo produttivo e che contribuiscono ad accrescerlo, tutti quegli elementi che mettono in movimento la produzione e moltiplicano l’efficacia del lavoro umano (che è la “prima” forza produttiva); detto altrimenti: le forze produttive sono gli “agenti” viventi e non viventi dei processi di produzione.

In questo plurale rientra a pieno titolo la natura (59), in particolare nel suo aspetto energetico (benché Marx non approfondisca abbastanza il carattere specifico di quest’ultimo). Un passo particolarmente significativo:
Nella storia dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla, appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante opere della mano umana. (Marx, 1867, I, p. 561)
Marx parla a volte delle forze naturali come degli “agenti inanimati” della produzione. Questa terminologia traduce quello che oggi chiameremmo gli input energetici dei processi produttivi. Si tratta indubbiamente di una nozione inadeguata, primitiva, soprattutto pre-entropica. Non include l’idea della degradazione entropica, cioè la nozione che ogni risultato ottenuto ha per contropartita una perdita nell’ambiente circostante, e una perdita irrevocabile (60). Al contrario, in Marx, il concetto di sviluppo delle forze produttive (materiali) evoca l’idea di un processo cumulativo e incrementale, in cui l’elemento successivo si aggiunge a quelli precedenti nello stesso tempo in cui questi realizzano e conservano il proprio potenziale. In qualche modo, benché si tratti di cose diverse, tra il concetto di accumulazione del capitale e quello di sviluppo delle forze produttive c’è una sorta di omologia logica, un medesimo modello concettuale.
Molti hanno sostenuto la tesi che il marxismo ignora l’esistenza di limiti ecologici allo sviluppo. Alla lettera questa affermazione non è vera (61), ma non c’è dubbio che esso abbia ignorato il “problema” dei limiti (come il 99% del pensiero ottocentesco, direi). Ciò significa, non tanto che il progresso delle forze produttive e della società umana può essere illimitato, quanto che, per Marx ed Engels nel secolo scorso, l’esistenza dei limiti si poneva in un orizzonte remoto e nell’immediato prevaleva la capacità autoespansiva del progresso scientifico e tecnologico che andava costantemente “abolendo” i precedenti limiti imposti dalla natura alle possibilità umane. Era questa, d’altra parte, la prospettiva con cui due intellettuali tedeschi (cioè di un paese che appariva allora arretrato rispetto all’Inghilterra “avanzata”) guardavano alla rivoluzione industriale promossa dai nuovi rapporti di produzione, e alla dinamica complessiva (tecnica, sociale, politica, scientifica) che essa portava con sé.
In effetti, l’idea di forze produttive propria del Capitale non recepisce facilmente la nozione di un limite assoluto allo sviluppo; limite che non sta soltanto nell’orizzonte lontano della finitezza del globo terrestre ma, in modo molto pregnante, in modo molto più vincolante, è intrinseco ad ogni processo vitale e ad ogni processo economico, in quanto l’uno e l’altro operano “in perdita”, degradano energia e incrementano il disordine: tanto la vita che i processi economici si sostentano in quanto, e fino a quando, possono contare su un flusso di energia costantemente rinnovato; i limiti di questo flusso sono anche il limite assoluto di questi processi.
In realtà il limite reale è molto più ristretto, perché non conta soltanto l’ammontare dell’energia potenzialmente disponibile, ma soprattutto l’efficienza con cui viene assorbita e metabolizzata; la vegetazione, ad es., non sfrutta per la fotosintesi che una frazione di un punto percentuale o poco più dell’energia solare; l’efficienza con cui un consumatore (che può essere l’uomo) assimila l’energia alimentare così accumulata, non supera il 10%; il nostro sistema industriale, poi, spreca sotto forma termica senza utilità più del 50% dell’energia che consuma, e il 50% dell’energia utilizzata è impiegata in modo inefficiente sotto forma di calore a meno di 200°, così che non più del 10-20% della spesa energetica è davvero giustificata dai fini per cui è compiuta (Grinevald, 1990, p. 26).
Non solo: non basta ipotizzare un incremento a piacere del flusso energetico per rendere possibile la crescita illimitata (62), perché gli equilibri ecologici terrestri e i cicli globali della Biosfera sono “dimensionati” su una determinata (da una lunga evoluzione) “portata” dei flussi energetici e non su una qualsiasi, e non possono tollerare incrementi di origine antropica oltre una certa soglia. Le conseguenze, quando non teniamo conto di ciò, oggi cominciamo a misurarle come deterioramento della stabilità degli ecosistemi e della Biosfera (63).
Ecco dunque perché, pur giustificato e condivisibile entro un determinato quadro storico ed entro precisi limiti di validità, il paradigma marxiano dello sviluppo delle forze produttive rivela una valenza antiecologica e diventa un ostacolo per la presa di coscienza dei limiti entro cui opera e può operare l’umanità. Interpretato come onnipotenza prometeica dell’homo technologicus che persegue un disegno di dominio sulla natura, non può che finire per giustificare le peggiori scelte del capitale (ad es. la scelta nucleare), o risolversi nei rovinosi risultati dell’industrializzazione staliniana, che non a caso fu accompagnata da propositi deliranti di “trasformazione della natura” così da farne una “nuova” base per la società socialista.
E tuttavia, questa interpretazione non è affatto necessaria. Il senso complessivo della posizione marx-engelsiana va in un’altra direzione, come lasciano intendere esplicitamente alcuni passi particolarmente penetranti e suggestivi di Engels che criticano la nozione imperialistica di “dominio sulla natura” e ne propongono invece una versione prudente, direi “cooperativa” (64).
In effetti, e qui riprendiamo quello che abbiamo accennato all’inizio di questo punto dedicato a discutere il concetto di forze produttive, la traccia che emerge riunendo tutte le indicazioni sparse nei testi marxiani non è riducibile né all’equivalenza “forze produttive = industria-e-tecnologia”, né all’identificazione “forze produttive = energia”, né alla somma di entrambe; l’aspetto che tende ad assumere maggior rilievo è un altro (non esclusivo): la principale forza produttiva è, per dirla con un termine d’oggi, “cultura”, nel senso di “sapere” e “saper fare” degli individui, ma soprattutto di “cooperazione” e di “sapere cooperativo” a livello del corpo sociale (65).
Un’indicazione molto attuale, mi pare. Intanto perché sottolinea un aspetto delle forze produttive che ha una relativa autonomia dalle forze produttive materiali (che sono solo una componente dell’insieme) e che quindi è suscettibile di un sviluppo slegato dalla crescita dei flussi fisici. In secondo luogo, perché l’informazione (connessa con i saperi e con la cooperazione sociale) è propriamente l’aspetto neghentropico (capace cioè di contrastare le tendenze entropiche, di costruire ordine e di far diminuire il disordine) che opera nelle strutture viventi e in quelle sociali, quello cioè che consente di ottimizzare l’utilizzo delle risorse date per il soddisfacimento dei bisogni.
2. Forze produttive/rapporti di produzione. Fino a questo momento abbiamo parlato del concetto di forze produttive dal punto di vista della “produzione in generale” (66), cioè del loro significato per il metabolismo fra l’umanità e la natura, indipendentemente dalla forma sociale determinata in cui esso si svolge. Un punto di vista legittimo, a patto di sapere che è anche un punto di vista “astratto”, che non parla cioè di alcuna realtà concreta ma di un aspetto unilaterale che può caratterizzare diverse o tutte le forme sociali, ma che non sussiste di per sé. In altre parole: non si possono incontrare forze produttive “astratte” dal loro contesto sociale; si danno soltanto forze produttive embedded (per usare l’espressione pregnante introdotta da Karl Polanyi), cioè “incorporate”, “incluse”, in rapporti sociali determinati, con i quali fanno un tutt’uno e “agiscono insieme” (67).
Con quest’avvertenza, il punto di vista precedente può esser visto anche in un secondo modo: come un procedimento per esplorare un insieme di potenzialità di sviluppo (umane e tecnologiche), ben sapendo che l’unico sviluppo concreto è quello che si realizza sempre dentro un contesto sociale determinato.
Questo approccio dialettico è quello stesso che sottostà all’approccio marx-engelsiano che nella Ideologia tedesca, per fare un esempio, arriva alla conclusione:
Sotto il regime della proprietà privata queste forze produttive non conoscono che uno sviluppo unilaterale, per la maggior parte diventano forze distruttive, e una quantità di tali forze non può trovare nel regime della proprietà privata alcuna applicazione. (Marx-Engels, 1846, p. 51)
Quella della conversione di forze potenzialmente produttive in forze effettivamente distruttive mi sembra una formula, soprattutto riguardo alle questioni ambientali, più appropriata e significativa dello schema ben noto della “contraddizione” tra forze produttive (dinamiche) e rapporti di produzione (che le incatenano).
D’altro canto, consente di dare fondamento ad un approccio critico e non apologetico allo sviluppo economico, tecnologico, scientifico (68), e perciò di elaborare un concetto “differenziato” (69) di progresso: non c’è alcun progresso automatico, lineare, garantito nella storia umana (70), non c’è nessuna assicurazione riguardo al futuro, né da parte dello sviluppo tecnico-scientifico, né da parte di un soggetto storico o extrastorico provvidenziale. C’è solo lo spazio, per gli uomini, per tentare di agire consapevolmente (almeno in una certa misura) e per determinare in questo modo alcuni esiti invece di altri; e quindi per cercare di far prevalere assetti più favorevoli al libero sviluppo collettivo e individuale (di individui sociali, non di atomi ostili l’uno all’altro secondo il modello dell’individualismo proprietario borghese) e di smantellare quelli che ne sono di ostacolo.
Sergei Podolinsky
[
Сергій Подолинський
L’eredità di Podolinskij
Il saggio di Podolinskij, così anticipatore, comparve inizialmente nel 1880, nello stesso anno della corrispondenza con Marx. Già l’anno successivo il suo autore si ammalava gravemente. Due anni più tardi, pochi mesi dopo aver ripreso in mano la materia, Marx moriva (14 marzo 1883). Engels sarebbe vissuto ancora dodici anni (si spense il 5 agosto 1895), ma non sarebbe più tornato sull’argomento. Nessuno di loro, dunque, ebbe la possibilità, o la capacità, di andare a fondo al nodo di problemi che era stato posto. Il quale, per lungo tempo, non fu più ripreso né tanto meno approfondito dagli studiosi marxisti in Occidente o dagli studiosi sovietici (71).
Sembrerebbe, dunque, che il seme gettato da Podolinskij non abbia dato frutti, che la sua eredità sia andata dispersa. In realtà altri, dopo di lui e in altri contesti, affrontarono temi simili, in genere condividendo la sua stessa sorte di indifferenza presso gli ambienti economici ufficiali (72), fino a quando il vecchio punto di vista – riscoperto in modo indipendente – tornò a galla nel nuovo clima degli anni Settanta, anni di crisi energetica ed ecologica.
Dei tre aspetti di novità individuabili nell’approccio di Podolinskij che abbiamo indicato all’inizio, ce n’è uno, però, che pare aver avuto in seguito una sorte migliori degli altri, e vale la pena, in conclusione, di parlarne. Si tratta di ciò che, con linguaggio odierno, potremmo chiamare l’energetica ecologica. Abbiamo già detto che esso anticipava sviluppi futuri del pensiero ecologico che sarebbero intervenuti tra gli anni Venti e gli anni Quaranta di questo secolo. In effetti, abbiamo più di un indizio che il lavoro di Podolinskij non sia stato del tutto estraneo a questi sviluppi, ancorché per una strada indiretta.
L’idea di un duplice processo termodinamico, di accumulazione di energia solare, e di dissipazione, come elemento centrale della definizione della struttura di una comunità ecologica, si fa strada tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del nostro secolo, principalmente per opera dell’ecologo-matematico americano Alfred Lotka (1880-1949) (73) e del geochimico russo Vladimir Ivanovic Vernadskij (1863-1945) (74) in una prima fase, e del giovanissimo studioso americano Raymond Laurel Lindeman (1916-42) in un secondo momento. All’articolo di Lindeman pubblicato nel 1942 dalla rivista “Ecology”, poco dopo la prematura scomparsa del suo autore (75), si fa tradizionalmente risalire la formulazione compiuta di questo approccio che sta alla base della teoria dell’ecosistema.
Proprio in quest’ambito c’è forse un filo che unisce la “traccia” lasciata da Podolinskij alla “via maestra” del moderno paradigma ecologico. E una storia che si dipana tra l’Urss e gli Stati Uniti nel periodo tra le guerre mondiali.
Vladimir Vernadskij, l’autore del moderno concetto di Biosfera, nel suo libro in francese pubblicato nel 1924, La Géochimie, in cui per la prima volta espone l’analisi del ruolo della materia vivente nei cicli che animano la superficie terrestre e che costituiscono un insieme di interrelazioni strettissime, fa esplicitamente il nome di Sergej Podolinskij tra i precursori delle sue idee (76). Vernadskij, la cui figura e il cui lavoro pionieristico nei confronti dell’attuale ecologia globale si sta scoprendo solo in quest’ultimo decennio in Occidente, è a sua volta la fonte da cui trae ispirazione il più brillante teorico della scuola russa di ecologia tra le due guerre, l’ucraino Vladimir Vladimirovic Stanchinskij (1882-1942) (77). Anche la sua figura, il suo nome, per non dire del suo lavoro, sono quasi del tutto sconosciuti in Occidente, benché egli possa vantare il merito di aver formulato con un decennio di anticipo le linee fondamentali della teoria dell’ecosistema.
Stanchinskij presenta il suo punto di vista in alcuni saggi pubblicati in Urss tra il 1929 e il 1931; esso “rappresenta, almeno inizialmente, un tentativo di ridurre i fenomeni biologici a un denominatore comune di natura fisica: l’energia” (Weiner, 1988, p. 80). Il suo punto di partenza è la premessa che “la quantità della materia vivente nella biosfera è direttamente dipendente dall’ammontare di energia solare convertita dalle piante autotrofe”; gli autotrofi sono “la base economica del mondo vivente”; la biosfera consiste di sottosistemi – le biocenosi – ciascuna delle quali è costituita di una sua specifica “base economica” e di una altrettanto specifica “sovrastruttura” costituita dagli organismi che prelevano la loro sussistenza dai produttori primari alla base della scala trofica. L’“equilibrio dinamico” che si può constatare in ogni biocenosi ha la sua chiave di spiegazione nell’esistenza “tra le componenti autotrofe ed eterotrofe della biocenosi, tra gli erbivori e i carnivori, tra ospiti e parassiti ecc., … di relazioni definite, proporzionali” le quali, osserva Stanchinskij, non sono state “fino ad oggi studiate da nessuno” (V.V.Stanchinskij, O nekotorykh osnovnykh poniatiiakh zoologii v svete sovremennoi ekologii, 1929; citato da Weiner, 1988, p. 81). Successivamente, in un articolo del 1931, Stanchinskij presenta un vero e proprio modello matematico descrivente il bilancio energetico annuo di una biocenosi teorica: “era la prima volta che una tale formulazione veniva tentata” (Weiner, 1988, p. 81).
Ma il lavoro promettente di Stanchinskij viene stroncato nel 1933 dall’affermarsi dello stalinismo anche nel mondo scientifico. Era iniziato il periodo buio nel quale si sarebbe preteso di uniformare la ricerca scientifica a un modello ideologico prestabilito e sanzionato per decreto del Cremlino. Vittima della persecuzione oscurantista promossa contro di lui e contro il suo approccio da Isai Prezent e da Trofim Lysenko (che dopo la liquidazione dell’ecologia sarebbero passati ad attaccare Nikolaj Vavilov e la genetica mendeliana), Stanchinskij viene rimosso dai suoi incarichi e incarcerato, e le sue idee vengono messe al bando per una ventina d’anni dalle università dell’Unione Sovietica (78).
Malgrado questo destino oscuro del suo ispiratore, Douglas Weiner (lo studioso americano al quale si deve il primo studio complessivo sull’ecologia sovietica negli anni Venti) segnala l’esistenza di un contatto, di un rapporto tra studiosi russi della scuola di Stanchinskij e studiosi americani dell’università di Yale, dove operava George Evelyn Hutchinson uno studioso che avrebbe svolto una funzione di primo piano nel promuovere gli studi ecologici e il nuovo paradigma ecosistemico nei decenni successivi.
Il lavoro di Victor Ivlev, un idrobiologo russo influenzato dalle idee di Stanchinskij, che esamina i consumi e l’efficienza energetica dei vermi oligoceti del litorale del Mar Caspio, viene utilizzato da Raymond Lindeman (sotto la supervisione di George Evelyn Hutchinson) nel suo sviluppo indipendente della teoria dell’ecosistema all’inizio degli anni Quaranta negli Stati Uniti (Weiner, 1988, p. 222) (79).
Confessiamo che non ci dispiace l’idea che quel saggio dimenticato del 1880, che un giovane esule si affannava a sottoporre all’attenzione delle più prestigiose menti della sua epoca ricevendone scarsa considerazione, possa esser stato, per una strada lunga e tortuosa, all’origine di alcune delle idee scientifiche più importanti della nostra epoca.
Note
(1) Il presente lavoro, per quanto frutto anche di ricerche personali, è fortemente debitore nei confronti di Juan Martinez-Alier, il cui libro Economia ecologica, pubblicato nel maggio 1991 in italiano, ha portato l’autore di queste note e, credo, la stragrande maggioranza dei lettori, a conoscenza dell’esistenza di un “caso” Podolinskij. Alcune idee di questo scritto, in una forma meno elaborata e più divulgativa, sono già state esposte in un articolo sul “Calendario del popolo” (Bagarolo, 1991-b).
(2) Originario di una famiglia benestante (il padre era un importante funzionario dell’amministrazione postale russa), Sergej Podolinskij[Сергі́й Подоли́нський in ucraino, Сергей Андреевич Подолинский in russo, Serghij Podolynskyi in tedesco, Sergei Podolinsky nei testi in francese e in inglese] (1850-1891) entrò nell’orbita del movimento populista ucraino negli anni in cui frequentava a Kiev gli studi superiori di scienze naturali. Durante un viaggio in Europa occidentale con Ziber (1844-88), uno tra i primi economisti ad aderire alle idee marxiste, ebbe modo di incontrare Marx ed Engels a Londra, nell’estate 1972, presentato la Pëtr Lavrov (1823-1900). Nel settembre dello stesso anno assistette da osservatore al congresso dell’Aia della I Internazionale, simpatizzando per gli anarchici. Successivamente collaborò alla rivista degli esuli russi raccolti attorno a Lavrov, “Vpered”. Contemporaneamente frequentava a Zurigo medicina con l’importante fisiologo Ludimar Hermann (1838-1914). Dopo un breve rientro in patria nel corso del quale ebbe modo di partecipare alla’“andata al popolo” dei narodniki, nel 1876 prese la laurea in medicina a Breslavia, con Rudolf Peter Heinrich Heidenhain (1834-97), studioso di istologia, già collaboratore di Emil Du-Bois Reymond (1818-96) e in rapporti con Hermann a Zurigo. Due anni dopo – nel frattempo si era sposato a Kiev con la figlia di un proprietario terriero – dovette rifugiarsi nuovamente all’estero per sfuggire al giro di vite repressivo del governo zarista. Da Montpellier, in Francia, dove si era stabilito, continuò a partecipare attivamente alla vita del movimento ucraino, in contatto con Michail Dragomanov (1841-95), col quale fece uscire a Ginevra la rivista “Hromada” (Comune). Nello stesso tempo era attivo nei circoli socialisti europei: redattore della rivista francese di Benoît Malon (1841-93) “Revue Socialiste”, scrisse anche per la stampa di altri paesi. Fu anche in rapporto con Andrea Costa e la rivista milanese di Enrico Bignami “La Plebe”. Nel periodo 1878-1881 pubblicò vari lavori su temi diversi (uno sull’industria e un altro sull’agricoltura e la proprietà fondiaria in Ucraina, uno studio sulle condizioni sanitarie delle popolazioni ucraine, un articolo contro il darwinismo sociale). Del 1880 è il saggio su energia e produzione di cui ci stiamo occupando. Purtroppo, nel 1881 fu colpito da una malattia psichica che gli impedì quasi subito ogni capacità di lavoro e lo condusse, dieci anni dopo, alla morte. Per questi dati biografici, si veda Juan Martinez-Alier, 1991, soprattutto il paragrafo “Un narodnik” (pp. 86-98) scritto in collaborazione con Klaus Schlupmann; e Mauro Borromeo, 1991, pp. 131-7. Maggiori cenni biografici in QUESTA NOTA.
(3) Podolinskij presentò le sue idee in versioni diverse ma simili in russo (Trud cheloveka i ego otnoshenie kraspredeleniiu energii, in “Slovo”, n. 4/5, 1880, San Pietroburgo); in francese (Le socialisme et l’unité des forces physiques, in “Revue Socialiste”, n. 8, 1880, Parigi); in italiano (Il socialismo e l’unità delle forze fisiche, in “La Plebe” nuova serie, nn. 3 e 4, 1881, Milano; ripubblicato recentemente da Mauro Borromeo in “Quaderni di storia ecologica”, n. 1, dicembre 1991, Milano); e in tedesco (Der Sozialismus und die Einhe der physichen Kräft, in “Arbeiter-wochen-chronik”, nn. 32-33 e 37, 1881, Budapest; e Menschliche Arbeit und Einheit der Kraft, in “Die Neue Zeit”, I, 1883, Stoccarda, pp. 413-24 e 449-457). Abbiamo potuto consultare per il nostro articolo le versioni pubblicate sulla “Plebe”, sulla “Revue Socialiste” e sulla “Neue Zeit” (abbiamo anche preparato, con l’aiuto di Fernando Visentin, la traduzione in italiano della versione tedesca comparsa sulla “Neue Zeit”, che speriamo di poter presto pubblicare insieme con una versione ampliata di questo nostro saggio). Dal confronto sinottico tra le tre versioni, si ricava una sostanziale unità tra di esse, pur con qualche differenza. La versione francese è la più stringata delle tre; quella italiana ne è una traduzione con qualche aggiunta; quella tedesca, invece, da un lato appare censurata (spariscono i riferimenti a Marx e al socialismo: va ricordato che dal 1878 erano in vigore in Germania le leggi antisocialiste), dall’altro appare significativamente accresciuta nella mole (circa il doppio di quella francese) e negli argomenti. In particolare vengono diffusamente trattati i temi (assenti nelle altre due versioni) delle fonti energetiche terrestri, del “ciclo della vita”, della determinazione sperimentale dell’efficienza lavorativa dell’organismo umano, della definizione del lavoro utile con riferimento all’opinione degli economisti (vengono citati A. Smith, F. Quesnay, J-B. Say, S. de Sismondi e J. Steuart). Purtroppo non abbiamo potuto estendere il controllo al testo russo (forse la versione originaria da cui P. ha ricavato le altre) la quale secondo quanto mi ha comunicato Martinez-Alier (colloquio personale a Milano, 3 dicembre 1991), è di gran lunga la più ampia di tutte (una settantina di pagine).
(4) Eduard Bernstein, ad es., ne aveva lodato in una lettera a Lavrov l’articolo contro il darwinismo sociale (Martinez-Alier, 1991, p. 94). In Italia. in uno scritto del 1886 dedicato alla formazione di un gruppo di giovani militanti, Filippo Turati fa il nome di Podolinskij accanto a quelli di Marx, Engels, Cernysevskij, Bakunin, Kropotkin, Malon, Guesde, Lassalle, Kautsky e alcuni altri, come maestri su cui si sono formati “i socialisti nostri” (italiani); si veda Turati, 1886; ora in Cortesi, 1 962, p. 310.
(5) L’espressione, riferita proprio alle idee di Podolinskij (e di Patrick Geddes), è impiegata da Jean-Paul Deléage; si veda Deléage, 1991-b, p. 70.
(6) Lo scambio epistolare con Podolinskij era sfuggito, fino a pochi anni fa, ai biografi e agli studiosi di Marx, forse perché di questa corrispondenza non sono state trovate tracce nelle carte dell’autore del Capitale. La vicenda di questo contatto è stata brevemente ricostruita da Juan Martinez-Alier e Klaus Schlupmann (in Martinez-Alier, 1991, pp. 95-6), ai quali si deve anche la pubblicazione delle due lettere di Podolinskij a Marx. Le lettere che si trovano attualmente presso l’Istituto di storia sociale di Amsterdam – sono in tedesco. La prima porta la data del 30 marzo 1880: “Illustrissimo Signore [Hochgeeherter Herr]” scrive Podolinskij a Marx. “E’ per me motivo di particolare piacere essere in grado di inviarvi un breve scritto, cui diede il primo stimolo la vostra opera “Da Kapital””. Dopo aver ricordato il precedente incontro a Londra nell’estate del 1872. Podolinskij annuncia la pubblicazione dell’articolo nella “Revue Socialiste” e l’intenzione di scrivere un lavoro più ampio, in francese o in tedesco (è questo, forse, un preannuncio del saggio che comparirà tre anni più tardi nella “Neue Zeit”). La seconda lettera porta la data dell’8 aprile 1880 e fa riferimento ad una risposta di Marx che non ci è nota, in cui venivano espresse delle preoccupazioni per la salute dell’interlocutore (ciò potrebbe significare che Marx conosceva, almeno indirettamente, l’intellettuale ucraino in esilio a Montpellier e, inoltre, che i problemi di salute di quest’ultimo si erano già manifestati). Podolinskij rassicurava Marx a questo proposito, e concludeva con la frase che abbiamo citato sopra: “Con particolare impazienza sono in attesa del vostro parere sul mio tentativo di armonizzare il pluslavoro [Mehrarbeit] con le attuali teorie fisiche”. Ci corre l’obbligo di ringraziare qui Andrea Panaccione, della redazione di “Giano”, che ci ha procurato queste lettere, e l’Istituto di storia sociale di Amsterdam che ha gentilmente consentito di prenderne visione. Contiamo di pubblicarle prossimamente assieme alla traduzione del saggio della “Neue Zeit”.
(7) Di origine rumena (è nato nel 1906 a Costanza), Nicholas Georgescu-Roegen ha studiato negli anni Trenta statistica alla Sorbona ed economia con Schumpeter negli Stati Uniti. Dal 1946 definitivamente in America, divenne ordinario di economia alla Vanderbilt University (Georgia) dove lavora attualmente come Professore Emerito. Autore di una acuta critica epistemologica della teoria del consumatore negli anni Trenta, nel dopoguerra si è occupato dei fondamenti e dei metodi della teoria economica. Dalla metà degli anni Sessanta ha sviluppato, in questo ambito, una critica radicale dell’approccio economico tradizionale (“economia standard” secondo la sua definizione) in quanto incapace di integrare il principio di entropia e quindi di rappresentarsi correttamente i fenomeni fisico-biologici dei quali anche i processi economici fanno parte. Ha così sviluppato nei suoi scritti (Georgescu Roegen, 1971, 1973 e 1982) un nuovo approccio che egli chiama “bioeconomico”. L’idea centrale che lo ispira è quella che la produzione è un processo che trasforma materia-energia in condizioni di bassa entropia in materia-energia caratterizzate da alta entropia.
(8) Gli scritti fondamentali di Marx in cui prende forma in modo definitivo quella che egli definisce a la “critica dell’economia politica’’ si collocano tutti (tralasciando qui di considerare opere importanti ancora precedenti come i Manoscritti economico-filosofici, la Miseria della filosofia, ecc.) fra il 1857 (anno della famosa Einleitung, introduzione, che delinea il metodo d’indagine e il programma di ricerca di Marx) e il 1867, anno di pubblicazione del primo libro del Capitale. In questo intervallo di tempo si situa la stesura dei Grundrisse (1857-58), dell’opera che anticipa la prima sezione del primo libro del Capitale, e cioè Per la critica dell’economia politica (pubblicata nel 1859), e di altri voluminosi manoscritti dai quali saranno tratti, dopo la morte di Marx, il secondo (1885) e il terzo libro (1894) del Capitale, pubblicati da Engels; le Teorie sul plusvalore, pubblicate da Kautsky nel 1905-10 a partire da manoscritti del 1862-63; e, recentemente, i Manoscritti del 1861-63 sulla tecnologia e le macchine. Sul rapporto tra studio delle scienze naturali ed elaborazione della critica dell’economia politica, decisive testimonianze si ricavano dalla corrispondenza di Marx ed Engels. Sappiamo da queste fonti che Marx dava grande importanza ai recenti sviluppi scientifici nel campo della chimica agraria (ma non solo) che egli riteneva “più importanti che tutti gli economisti presi insieme” per quel che riguarda la rendita (lettera di Marx ad Engels del 13 febbraio 1866). Altri documenti importanti: lettere di Marx ad Engels del 20 febbraio 1866, del 3 gennaio 1868 e del 25 marzo 1868.
[Oggi sappiamo che il lavoro di Podolinskij suscitò l'interesse di Marx il quale lo lesse e lo commentò. Sappiamo dai suoi estratti che probabilmente Marx ebbe per le mani un abbozzo incompleto del testo che Podolinskij avrebbe pubblicato in quello stesso anno sulla "Revue Socialiste". Questi commenti saranno pubblicati in un prossimo volume delle MEGA (l'edizione storico-critica delle Opere complete di Marx ed Engels). Una valutazione delle note di Marx a Podolinskij è disponibile nel saggio di John Bellamy Foster e Paul Burkett Ecological Economics and Classical Marxism: The "Podolinsky Business" Reconsidered, in "Organization & Environment" marzo 2004. Nota di t.b., luglio 2010].
(9) La corrispondenza di Marx ed Engels, gli appunti del secondo per la Dialettica della Natura e per l’Anti-Dühring, e la cronologia degli estratti (purtroppo ancora inediti) di Marx dalle opere di scienze naturali che andava leggendo (Colmam 1931) ci consentono di avere un’idea del momento in cui essi vennero a conoscenza, o discussero, di alcuni dei risultati scientifici più notevoli della loro epoca, e delle conoscenze che essi avevano in questi campi. Ci consentono anche di farci un’idea della viva attenzione, partecipe ma tutt’altro che acritica, con cui seguirono gli sviluppi delle scienze della natura in un periodo, fra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta del secolo scorso, di risultati rivoluzionari. Purtroppo non tutti i materiali esistenti sono disponibili: mancano le opere scientifiche annotate e sottolineate da Marx ed Engels, i numerosi quaderni di estratti frutto delle loro letture, una parte della loro stessa corrispondenza (ad es. quella di Engels con Schorlemmer) (Lefebvre, 1974, p. 7-8). Manca pure un esauriente lavoro di ricostruzione dei rapporti tra lo sviluppo del pensiero marx-engelsiano e la storia delle scienze naturali e della filosofia della natura. Due pregevoli tentativi di cominciare a colmare questo vuoto vanno qui ricordati: Vidoni, 1982 e 1985.
Con tutto ciò, diamo qui alcuni riferimenti cronologici del momento in cui Marx ed Engels si confrontarono con alcuni dei risultati scientifici più rilevanti per la nostra indagine, cioè gli studi sul metabolismo vegetale e animale, quelli di fisiologia del lavoro, e i principi della termodinamica.
Fisiologia e chimica agraria. Marx si occupa di queste materia fin dagli anni Cinquanta: Sessanta sulle opere del naturalista Jacob Moleschott (1822-93), del fisiologo materialista Ludwig Buchner (1824-99), dei naturalisti Theodor Schwann (1810-82), Jacob Mathias Schleiden (1804-81) e di altri (Lefebvre, 1974, pp. 29-3). In merito alla chimica agraria legge nello stesso periodo Justus von Liebig (1803-73), Christian Friederich Schömbein (1799-1868), Karl Nikolaus Fraas (1810-75) e James Finlay Weir Johnston (1796-1855). Marx torna su questi temi negli anni 1876-77, nel corso della rielaborazione della sezione dedicata alla rendita del terzo libro del Capitale. Nel 1876-78 legge anche alcuni lavori dei fisiologi Adolf Fick (1829-1901) Johannes Ranke (1836-1916) ed Emil Du Bois-Reymond. Nello stesso periodo Engels segue con continuità la rivista “Nature” e discute di questi temi con l’amico Karl Schorlemmer (1834-92), già allievo di Liebig, insegnante di chimica organica in Inghilterra (Colman, 1931, e Lefebvre, 1974).
Termodinamica. Il primo cenno al principio di conservazione dell’energia e dell’equivalenza fra le diverse forme di energia si trova in una lettera di Engels a Marx del 14 luglio 1858, in cui fra l’altro si legge questa osservazione: “Certo è che studiando fisiologia comparata si arriva a uno sdegnoso disprezzo per la concezione idealistica che pone l’uomo al di sopra degli altri animali”. A metà degli anni Sessanta Marx legge alcuni lavori dei fisici William Grove (1811-96) e di John Tyndall (1820-93). II primo riferimento all’entropia compare in una lettera di Engels a Marx del 21 marzo 1869, nella quale si definisce “altamente insulsa” la teoria che prevede la fine dell’universo per raffreddamento e che presuppone, di conseguenza uno stato iniziale caldo opera divina. Il giudizio sembra formulato sulla base di una conoscenza di seconda mano. Solo negli anni Settanta Engels legge direttamente le opere di William Thomson (1824-1907), Peter Tait (1831-1901), Robert Mayer (1814-78), Herman von Helmholtz (1821-94) e Clerk Maxwell (1831-79). Le perplessità sul secondo principio della termodinamica sono ribadite in un appunto del 1875 della Dialettica della natura (Engels, 1873-86, p. 563-4), ma già nella bozza di introduzione per l’Anti-Dühring, del 1875-76, le riserve sembrano superate (“Tutto ciò che nasce è degno di perire” scrive Engels, citando Hegel, con riferimento all’universo) con l’accoglimento dell’ipotesi dell’astronomo italiano Angelo Secchi (1818-78) che ipotizza l’esistenza di forze naturali capaci di restituire l’universo al suo stato iniziale, escludendo così interpretazioni “creazioniste”. Da segnalare infine che in una lettera a Danielson del 15 ottobre 1888 Engels afferma che il diciannovesimo secolo è “il secolo di Darwin, Mayer, Joule e Clausius”, dichiarazione significativa dell’importanza che egli attribuiva alle scienze naturali e ai principi scientifici fondamentali da esse stabiliti.
(10) Perché Marx non prende in considerazione (così sembra) lo scritto di Podolinskij prima del dicembre 1882? Impossibile rispondere sulla base dei dati biografici conosciuti. Non furono anni facili per Marx, travagliati da seri problemi di salute che interrompevano spesso il suo lavoro, dalla grave malattia della moglie e dai lutti familiari (la moglie di Marx, Jenny von Westphalen, muore il 2 dicembre 1881; la figlia maggiore Jenny muore a sua volta l’11gennaio 1883). Tuttavia Marx restò intellettualmente attivo almeno fino all’estate del 1881. Nella primavera-estate del 1880 Marx si occupò del nascente partito operaio francese preparando anche un questionario per gli operai pubblicato in giugno sulla “Revue Socialiste”; nell’inverno 1880-81 stese gli appunti sull’opera dell’etnologo americano Henry Lewis Morgan (1818-81); nel febbraio-marzo 1881 ebbe la corrispondenza con la rivoluzionaria russa Vera Zasulic (1851 1919); ancora nel 1882 scrisse l’introduzione alla seconda edizione russa del Manifesto del partito comunista. Dalla fine di ottobre del 1882 Marx risiedeva a Ventnor, nell’isola di Wight, per cercare di alleviare i malanni polmonari, e si teneva in costante contatto epistolare con Engels a Londra. Per questi dati biografici: MacLellan, 1976.
(11) Dalla corrispondenza sappiamo che Marx ebbe per le mani a Ventnor alcuni numeri della “Plebe” (lettera a Engels del 4 dicembre 1882; si veda anche Bosio, 1972, pp. 226-27), e che in quei mesi frequentava la casa di Engels a Londra un giovane narodnik russo, Lev Nikolajevic Hartmann (1850-1908), appassionato di elettricità, passione commentata con indulgenza da Engels (Marx-Engels, 1953, VI, pp. 398-413).
(12) Che Engels risponda ad una richiesta di Marx si ricava come impressione dalle lettere del primo (in Marx-Engels, 1953, VI, pp. 414-18). Segnaliamo che si collega al “caso” Podolinskij anche la richiesta di Marx alla figlia Eleanor (lettera del 23 dicembre 1882) di fargli avere il libro del fisiologo tedesco Johannes Ranke Grundzüge der Physiologie des Menschen (Lefebvre, 1974, p. 112), del quale Marx aveva già fatto degli estratti nel 1876 (Colman, 1931).
(13) Le lettere di Engels su Podolinskij furono pubblicate per prima prima volta da A. Bebel e E. Bernstein nel 1919; quindi dall’austromarxista Otto Jenssen nel 1925; negli anni Trenta esse furono pubblicate anche in inglese. Furono pure citate dal “dialettico” I.K. Luppol nella rivista “Sotto le bandiere del marxismo” negli anni Venti in Urss (Martinez-Alier, 1991).
(14) Il principio di conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica) afferma che nelle trasformazioni da una forma all’altra la quantità totale di energia si conserva. Esso è stato enunciato inizialmente da Robert Mayer nel 1842 come equivalenza fra lavoro e calore.
(15) Rudolf Julius Emanuel Clausius (1822-88), fisico tedesco, enunciò nel 1850 il secondo principio della termodinamica rielaborato nel 1865 nel concetto di entropia.
(16) La nozione di entropia può essere definita in modi diversi; ad es. come indice dell’energia degradata (cioè non più utilizzabile per compiere un lavoro) in un processo termodinamico. In questo senso, ogni trasformazione energetica irreversibile in un sistema fisico isolato (che non riceve energia dall’esterno) provoca un aumento di entropia.
(17) L’energia è generalmente definita come la capacità di compiere un lavoro. In termini più rigorosi è la funzione di stato di un sistema fisico isolato che si mantiene costante nel corso delle trasformazioni del sistema stesso.
(18) Robert Gustav Kirchhoff (1824-87), fisico tedesco, inventore dello spettroscopio. La legge di Kirchhoff definisce il rapporto tra energia assorbita ed irradiata da un qualsiasi corpo. Sul bilancio termico terrestre, sulle trasformazioni del flusso solare sulla superficie terrestre, si veda Conti, 1988 e Nebbia, 1991.
(19) Col termine “analisi dell’energia” si intende la contabilità dei flussi energetici nei sistemi naturali, sociali e tecnologici, utilizzata in genere per conoscere i costi energetici dei processi produttivi o la produttività energetica degli ecosistemi.
(20) Gustav-Adolphe Hirn (1815-90), fisico tedesco, formulò indipendentemente da Mayer e da Joule l’equivalente meccanico del calore nel 1846; fu autore di importanti ricerche sperimentali.
(21) Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-94), scienziato tedesco, fisiologo e fisico. Diede sistematizzazione teorica al primo principio della termodinamica nel 1847.
(22) Una macchina termica è un dispositivo per trasformare l’energia termica di un fluido (il vapore, ad es.) in lavoro meccanico. Esempio tipico, la macchina a vapore. Dagli studi per perfezionare le macchine a vapore sorse nella prima metà dell’Ottocento la termodinamica. Sadi-Nicolas-Léonard Carnot (1796-1832), fisico francese, svolse un ruolo chiave in questo sviluppo, soprattutto con la sua memoria del 1824, Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, in cui si preannunciava il secondo principio, nell’asserzione che non è possibile produrre lavoro dal calore senza perdite (cioè è impossibile un ciclo calore-lavoro meccanico-calore completamente reversibile, ovvero è impossibile la macchina termica perfetta).
(23) Jan Ingenhousz (1730-99), naturalista olandese, scopritore del meccanismo della fotosintesi (1779-1796).
(24) Kreislauf des Lebens è anche il titolo di uno scritto del 1852 del naturalista olandese Jacob Moleschott dal quale Marx trasse il termine Stoffwechsel (ricambio organico, metabolismo). Così vi si presentava la “circolazione della materia”: “Ciò che l’uomo elimina, nutre la pianta. La pianta trasforma l’aria in elementi solidi e nutre l’animale. I carnivori si nutrono di erbivori, per diventare a loro volta preda della morte e diffondere nuova vita nel mondo delle piante. A questo scambio della materia si è dato il nome di ricambio organico (Stoffwechsel).” (Schmidt, 1973, p. 80). Questa immagine della natura era emersa dagli studi dei chimici e dei fisiologi dalla fine del diciottesimo alla metà del diciannovesimo secolo lungo la linea Priestley, Ingenhousz, Th. de Saussure, Lavoisier. Claude Bernard, Dumas, Boussingault, Liebig (si veda su questo Deléage 1991-b, pp. 50-6). Per la teoria dell’ecosistema si rimanda all’ultima parte dell’articolo.
(25) Robert Thomas Malthus (1766-1834), economista inglese, autore nel 1798 del famoso Saggio sul principio di popolazione in cui si enuncia la “legge” secondo cui la popolazione tende a crescere sempre oltre le risorse disponibili. Malthus aveva voluto vedere in questa “legge” la dimostrazione che povertà e ricchezza sono conseguenza di una legge di natura, che quindi è vano cercare di porvi rimedio, che i poveri sono tali in ultima analisi per colpa propria che i tentativi di migliorare le condizioni sociali combattendo la povertà sfociano in risultati perversi. A suo tempo Marx aveva criticato soprattutto la pretesa “naturalità” della legge della popolazione, non l’esistenza in astratto di limiti naturali. Anche il tema dell’energia fornì argomenti per rimettere in auge il punto di vista maltusiano, interpretando l’enunciato del fisico tedesco Ludwig Boltzman (1844-1906): “la lotta per la vita è principalmente una competizione per l’energia disponibile” (del 1886), che riguarda essenzialmente la competizione interspecifica, come principio di competizione intraspecifica applicato alla specie umana. Un punto di vista simile è ricomparso negli anni Sessanta (ad es. nell’“etica della scialuppa di salvataggio” di Garrett Hardin) e di fatto ispira oggi le ideologie razziste e le stesse politiche imperialistiche più o meno discriminatorie.
(26) Già nel Capitale Marx aveva ad es. affermato che alla produttività del lavoro “non si deve connettere nessuna idea mistica”, ma che essa dipende, fatta astrazione dei fattori sociali, dalla struttura fisiologica dell’organismo umano e dalle risorse ambientali (Marx, 1867 I, p. 558-9). Nella Critica al programma di Gotha (1875), all’affermazione del testo programmatico del nuovo partito socialdemocratico che “il lavoro è la fonte di ogni ricchezza”, Marx ribatte che non il lavoro ma “la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questo consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza lavoro umana.” (Marx, 1875, p. 23).
(27) Marx, è noto, criticava le formule, di origine utopistica e lassalliana, “reddito integrale del lavoro” e “giusta ripartizione”, perché prive di base scientifica. Su tutto questo, Marx, 1875. pp. 27-33.
(28) Engels formula il suo parere sullo scritto di Podolinskij senza averlo davanti: “Non ho fra le mani la cosa, ma l’ho letta l’altro giorno in italiano sulla “Plebe””, afferma nella lettera a Marx del 19 dicembre 1882.
(29) “L’animale arriva al massimo a raccogliere, l’uomo produce (…) Ciò impedisce di trasferire, così, senz’altro, le leggi di vita delle società animali alla società umana”, ecc. (Engels, 1873-86, pp. 584-6). Questo appunto è del 1875, contemporaneo alla lettera a Lavrov (12 dicembre 1875) di analogo contenuto (Lefebvre, 1974, pp. 83-7).
(30) Un passo del 1875 ha diretta attinenza con i tempi discussi nelle lettere a Marx della fine del 1882: si veda Engels, 1873-86, pp. 587-8.
(31) In un scritto del 1886 Engels afferma esplicitamente (si sta parlando della convertibilità di tutte le forme di energia): “Noi possiamo ugualmente misurare il consumo di energia e gli apporti di energia di un organismo vivente, ed esprimerli in una unità scelta a piacere, ad es. in calorie. L’unità di ogni movimento nella natura non è più una affermazione filosofica, ma un fatto scientifico.” (Engels, 1873-86, p. 484).
(32) “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media regola e controlla il ricambio organico (Stoffwechsel) fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita”. (Marx, 1867, I, p. 211).
“Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. (…) Nella sua produzione l’uomo può soltanto operare come la natura stessa: cioè unicamente modificare le forme dei materiali [sottolineature di Marx]. E ancora: in questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce della ricchezza materiale. Come dice William Petty il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre.” (Marx, 1867, I, p. 75).
(33) “Se il lavoratore ha bisogno di tutto il suo tempo per produrre i mezzi di sussistenza necessari alla conservazione di se stesso e della sua specie non gli rimane tempo per lavorare gratuitamente per terze persone. Senza un certo grado di produttività del lavoro, niente tempo disponibile di quel tipo per il lavoratore, senza tempo eccedente niente pluslavoro e quindi niente capitalisti, ma anche niente padroni di schiavi, niente baroni feudali: in una parola niente classe dei grandi proprietari.” (Marx. 1867, I, p. 558). Significativo anche quel che segue: “Così si può parlare di una base naturale del plusvalore, ma solo nel senso generalissimo che nessun ostacolo naturale assoluto può trattenere una persona dal rimuovere da sé e dal caricare su di un’altra il lavoro necessario per la propria esistenza (…). A questa produttività naturale e spontanea del lavoro non si deve connettere nessuna idea mistica, come è accaduto talvolta.” Marx spiega che, fatta astrazione del grado di sviluppo tecnico di una determinata società, questa produttività naturale è in stretta relazione con la struttura fisiologica dell’uomo e con le risorse disponibili nell’ambiente circostante (Marx, 1867, I, pp. 558-9).
(34) Credo inoltre che si debba ammettere, almeno come ipotesi di ricerca, che l’incomprensione iniziale di Engels e l’atteggiamento dei marxisti successivi non abbiano necessariamente la stessa spiegazione. E che il problema non sia riducibile, pertanto, alla ricerca di un presunto “peccato originale” antiecologico del marxismo che spiegherebbe tutto quanto è seguito. La sordità verso Podolinskij sarebbe così emblematica dell’incapacità dei marxisti di fare i conti con l’ambientalismo, dell’ideologia produttivistica prevalsa nel movimento operaio, dei disastri ambientali della staliniana “costruzione del socialismo”, della scelta filonucleare del Pcf e del Pci, della difesa del posto di lavoro nel caso delle fabbriche che inquinano e così via. Credo invece che ognuno di questi momenti richieda una analisi concreta della situazione determinata capace di ricostruire caso per caso la costellazione di fattori che hanno prodotto un certo esito e non un altro. Non abbiamo qui lo spazio per fare questo lavoro. Qui ci limitiamo a considerare il “punto di partenza”: la “coscienza ecologica” di Marx ed Engels.
(35) Ernst Haeckel (1834-1919), naturalista tedesco, divulgatore del darwinismo, coniò il termine “ecologia” (dal greco oikos = casa, e logos = discorso, scienza) nel 1866 definendola come l’economia dei viventi, la scienza del rapporto degli organismi col loro ambiente (nell’opera Generelle Morphologie der Organismen) (Acot, 1989, p. 42-3).
(36) L’espressione è di Deléage (Deléage, 1991 b, p. 5).
(37) Si veda a questo proposito Acot, 1989; Deléage, 1991-b.
(38) Un ruolo importante nella formazione della “coscienza ecologica” dell’impatto umano sugli ambienti naturali è giocato nell’Ottocento da discipline come la botanica e la geografia. Non c’è, a quel che so, un’opera in italiano che ricostruisce questi sviluppi. Un primo approccio molto interessante è costituito dalla bella introduzione di Fabienne Vallino allo splendido volume della riedizione anastatica di George Perkins Marsh, L’uomo e la natura, comparso inizialmente in inglese nel 1964. Nell’ambito del nostro discorso la figura di G.P. Marsh (1801-82) merita un’attenzione particolare, in quanto egli espresse forse il punto più avanzato della “coscienza ecologica” del diciannovesimo secolo, e sarebbe estremamente interessante (e forse sorprendente) tracciare un parallelo tra il suo pensiero e alcune riflessioni engelsiane sul rapporto uomo-natura. Marsh, originario di una famiglia dell’aristocrazia del New England, fu studioso di molteplici interessi teorici e pratici (fu tra l’altro ambasciatore degli Stati Uniti presso il Regno d’Italia dal 1861 alla morte). Il pensiero di Man and nature è all’origine del conservazionismo americano (che porta nel 1872 alla nascita del primo parco nazionale, Yellowstone) ed ebbe vasta risonanza anche altrove (ad es. in Russia, vedi Weiner, 1988, p. 8, dove fu tradotto nel 1866). La miglior sintesi che si possa farne è la dichiarazione con cui si apre la prefazione dell’edizione originale: “Lo scopo del presente libro è quello d’indicare la natura e, approssimativamente, l’estensione dei cambiamenti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisiche del globo che abitiamo; mostrare i pericoli che può produrre l’imprudenza, e la necessità di precauzioni in tutte quelle opere che, in grandi proporzioni, s’interpongono nelle disposizioni spontanee del mondo organico od inorganico; suggerire la possibilità e l’importanza del ristabilimento delle armonie perturbate, e il miglioramento materiale di regioni rovinate ed esaurite; e illustrare incidentalmente il principio che l’uomo è, tanto nel genere quanto nel grado, una potenza di un ordine più elevato non sia qualunque altra forma di vita animata che al pari di lui si nutre alla mensa della generosa natura”.
(39) Piani di “trasformazione della natura” cominciano a vedere la luce in Urss nei primi anni Trenta, durante il primo piano quinquennale. “Grande trasformatore della natura” era il titolo onorifico attribuito a Lysenko (“grande trasformatore della storia” era invece Stalin, naturalmente…). Su tutta questa materia, Weiner 1988.
(40) Soprattutto in Italia, dove anche tra i marxisti ha avuto in passato una brutta considerazione il materialismo scientifico; osservazioni interessanti in proposito in Minazzi-Timpanaro, 1991.
(41) Sono moltissime, nei Manoscritti parigini, le suggestioni “ecologiche”: l’unità uomo-natura (Marx, 1844, pp. 76-77), l’uomo come essere naturale caratterizzato da bisogni e facoltà (pp. 171-3), la nascita dell’umanità dalla natura come processo storico, ad opera del lavoro (p. 121), l’unità tra scienza della natura e scienza dell’uomo (p.122), l’alienazione dei bisogni nella società mercantile (p. 127), il degrado della condizione dei lavoratori nella città industriali (p. 129) ecc.
(42) Particolarmente significativo un passo che è quasi la fondazione dl un’antropologia ecologica: “Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalla modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini.” (Marx-Engels, 1846, p. 8).
(43) “Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma di società.” (Marx, 1857, p. 175) Discorso metodologico irrinunciabile.
(44) Si veda alla nota 32; più in generale è l’intero capitolo quinto del primo libro che merita una rilettura attenta.
(45) In particolare nello scritto Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia (Engels, 1873-86, soprattutto pp. 446-70).
(46) Cfr. Marx, 1867, I, p. 214; Engels, 1873-86, p. 463 e 467.
(47) Ad es. lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868, i passi già citati della Dialettica della natura, le stesse lettere di Engels su Podolinskij ecc.
(48) Cfr. Engels, 1873-86, pp. 466-70. Anche Marx nel Capitale (vedi alle note successive).
(49) Lo scritto di Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra (del novembre 1844 marzo 1845) contiene decine di pagine di analisi del degrado delle condizioni urbane, igieniche e abitative, sugli ambienti di lavoro, sulle malattie e sugli infortuni professionali nell’Inghilterra della rivoluzione industriale: pagine insuperate di ecologia umana. Un passaggio: “L’atmosfera di Londra non potrà mai essere pura e ricca di ossigeno come quella di una zona rurale; due milioni e mezzo di polmoni e duecentocinquanta mila camini ammassati in uno spazio di tre-quattro miglia quadrate consumano un’enorme quantità di ossigeno, che si rinnova soltanto con difficoltà, poiché l’edilizia cittadina in sé e per sé rende difficile la circolazione d’aria. L’anidride carbonica prodotta dalla respirazione e dalla combustione grazie al suo peso specifico permane nelle strade, e la corrente d’aria principale passa sopra le case. I polmoni degli abitanti non ricevono l’intero quantitativo di ossigeno di cui avrebbero bisogno e ciò produce una prostrazione fisica e intellettuale e un abbassamento dell’energia vitale. Per questo motivo, gli abitanti delle grandi città sono sì meno esposti alle malattie acute, particolarmente infiammatorie, che non gli abitanti delle campagne, i quali vivono in un’atmosfera libera e normale, ma in compenso soffrono molto di più di mal anni cronici.” (Engels,1845, p. 329) La critica dell’urbanizzazione torna nel Capitale (ad es., I, p. 551 e III, p. 135) e nell’Anti-Dühring (Engels, 1878, p. 285): “La città industriale trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo.”
(50) Cfr. Marx, 1867, I, p. 552-3; III, p. 716 (nota), p. 719, pp. 925-6.
(51) Processi che consistono nel prelievo dall’ambiente di risorse materiali ed energetiche pregiate e nella loro restituzione come scarti, rifiuti, emissioni (liquide o gassose) incontrollate e inquinanti; nella congestione di spazi fisicamente limitati; nel degrado degli ecosistemi i cui meccanismi di autoregolazione sono vulnerabili alla scala di impatto dell’uomo tecnologico; nell’alterazione dei cicli biogeochimici della Biosfera dai quali dipendono la stabilità dell’ambiente globale e le condizioni della vita umana stessa sul pianeta.
(52) Si pensi al brevetto sui “prodotti” dell’ingegneria genetica (specie transgeniche, ecc.) e il fenomeno in espansione degli “uteri in affitto”.
(53) Abbiamo svolto sul n. 8 di “Giano” una riflessione su uno dei più notevoli, ma anche più discutibili, contributi a questa riflessione, Hans Jonas, Il principio responsabilità (Bagarolo, 1991-a)
(54) “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.” (Marx, 1867, III, p. 887).
(55) “La soppressione dell’antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie.” (Engels, 1878, p. 286).
(56) Ad es. le lettere di Engels a Bernstein del I Marzo 1883 (in Lefebvre, 1974, p. 113-4) sulle possibilità aperte dall’elettricità nel campo del superamento della contraddizione città-campagna; quella dell’11 aprile 1893 al geologo inglese George Lamplugh (Lefebvre, 1974, p. 124-5) o la testimonianza di William Liebknecht sulle passeggiate domenicali sui prati e le colline fuori Londra della famiglia Marx (Parsons, 1977, p. 41).
(57) Gli ultimi mesi di Marx (muore il 14 marzo 1883) furono tristissimi: gli muore nel gennaio la figlia maggiore Jenny, a febbraio è preda di una nuova fase acuta dei suoi disturbi polmonari. Engels invece continuò più a lungo a lavorare attivamente, interessandosi in vari momenti di argomenti che potevano intersecarsi con quelli sollevati da Podolinskij: ad es. la stesura del libro sull’Origine della famiglia, sulla base degli appunti di Marx e dell’opera di Lewis Morgan Ancient Society. Morgan propone, infatti, e Engels accoglie, uno schema evolutivo dell’umanità (fondato sulle tre grandi tappe dello stato selvaggio, della barbarie e della civiltà) formulato a partire dall’incremento della produttività del lavoro nel procurare i beni di sussistenza essenziali; schema nel quale sono tappe fondamentali le rivoluzioni “energetiche” del controllo del fuoco, della pastorizia e dell’agricoltura, che si prestavano ad essere reinterpretate alla luce dello scritto di Podolinskij.
(58) Le semplificazioni del tipo forze produttive = tecnologia, oppure forze produttive = sviluppo economico, da cui segue sviluppo delle forze produttive = crescita economica, comportano il risultato di omologare il pensiero marxista all’approccio dell’“economia standard”, rendendolo ben poco utile per una “critica dell’economia politica” capace di fare i conti con le problematiche ecologiche.
(59) Mi pare eccessiva e infondata l’affermazione di Jean-Paul Deléage che Marx abbia del tutto tralasciato l’analisi del ruolo della natura nei processi economici concentrandosi sulla relazione tra lavoro e capitale (Deléage, 1991-a, p. 81). Ingiustificata anche l’affermazione che per Marx il capitalismo avrebbe solo “limiti interni” (Debeir-Deléage-Hemery, 1987, pp. 17-8), che travisa, a mio modo di vedere, i passi di Marx a cui fa riferimento. Per Marx il capitale è non tanto in grado di superare i limiti naturali, quanto incapace di riconoscerli (nozione ben diversa!). In generale, va ribadito (contro affermazioni in contrario piuttosto frequenti) che per Marx la natura non è mero sfondo inerte, non è solo arsenale di strumenti o magazzino di materiali, ma è anche forza attiva (dalla parte degli input) e natura degradata, “sfruttata”, depauperata, inquinata (dal lato degli output) nel processo di produzione e ciò si ripercuote sul ruolo di “forza produttiva” della ricchezza della natura stessa. E’ essenziale distinguere la natura come agente di produzione della ricchezza come valore d’uso (in cui essa entra), dalla ricchezza come valore di scambio (nella quale essa non viene computata dal processo sociale che determina il valore).
(60) Dal punto di vista termodinamico, il processo produttivo è sempre una perdita netta, una distruzione: rappresenta la degradazione disordinata di un certo flusso energetico e di un certo ammontare di materiali. Anche quando apparentemente avviene il contrario (in effetti, ogni attività produttiva conferisce un ordine maggiore ad un insieme di materia-energia: costruire un’auto a partire dal minerale di ferro, dal petrolio, ecc. significa costituire un sistema fisico più ordinato di quello iniziale), ciò avviene al prezzo inevitabile di un accrescimento dell’entropia ambientale (nel nostro esempio, tutta la spesa energetica dissipata e tutti i materiali scartati tra i quali, alla fine, i rottami della stessa automobile). Podolinskij l’aveva intuito. Sorge ovviamente una domanda: ma allora chi “paga” questo “prezzo”? Podolinskij dava correttamente la risposta: il Sole, questa sorta di enorme centrale termonucleare posta ad una distanza di relativa sicurezza dal nostro pianeta. Ciò significa, però, che il flusso solare è anche la nostra unica vera ricchezza permanente, mentre i combustibili fossili sono fonti esauribili e finite: una volta bruciati, un barile di petrolio o una tonnellata di carbone, sono irrevocabilmente perduti e l’energia chimica da essi liberata, esaurito un certo numero di conversioni più o meno efficienti, viene irrimediabilmente perduta per sempre (va anzi ad accrescere l’effetto serra).
(61) Il tema andrebbe approfondito. Su uno dei “punti caldi” di questo problema, quello dei rendimenti in agricoltura, si può documentare che esiste in Marx una linea di ragionamento più complessa della semplice affermazione che il lavoro umano aumenta i rendimenti agricoli. Egli distingue due componenti della forza produttiva del lavoro, una naturale (per analizzare la quale sarebbe stato utilissimo l’approccio di Podolinskij!) legata alla fertilità naturale del terreno (cioè a fattori intrinseci alla costituzione della natura) e una sociale, legata ai fattori sociali (rapporti sociali, scienza, ecc.). Ora, Marx formula l’ipotesi che in agricoltura ci possa essere un movimento di queste due componenti in direzione opposta, e che, oltre un certo limite, la componente sociale (la tecnologia, ecc.) non sia più in grado di compensare la tendenza alla diminuzione della forza produttiva naturale. L’analogia con l’analisi contemporanea in termini di energia è lampante (si veda Marx, III, p. 875).
(62) Ad es., sperando nella scoperta della “lampada di Aladino’’ rappresentata dalla fusione termonucleare controllata…
(63) Ad es., il rapido degrado degli ecosistemi agricoli in seguito al crescente uso di fertilizzanti (degrado che si diffonde come inquinamento alle acque superficiali e sotterranee e ai mari come eutrofizzazione); i drammatici fenomeni dell’assottigliamento dello strato protettivo dell’ozono atmosferico e dell’incremento di origine umana dell’effetto serra dell’atmosfera.
(64) “A ogni passo ci viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato.” (Engels, 1873-86, p. 468).
(65) I riferimenti per questa interpretazione sono numerosi, e si possono trovare soprattutto nei Grundrisse e nel Capitolo VI inedito, oltre che nel Capitale; non diamo qui tutti i riferimenti d’altra parle abbastanza noti; ci accontentiamo di un passo tra i più significativi che si conclude con: “La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dall’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso e della società sono passati sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.” (Marx, 1858-59, pp. 400-3).
(66) “Quando si parla dunque di produzione, si parla sempre di produzione a un determinato stadio dello sviluppo sociale, si parla della produzione di individui sociali (…) Ma tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione.” (Marx, 1857, pp. 172-3).
(67) L’intreccio dialettico fra determinanti naturali e determinanti sociali è illustrato in concreto nel passo che segue quello che abbiamo citato sopra sulla “base naturale” del pluslavoro (Marx, 1867, 1, pp. 561-3). Karl Polanyi (1866-1964), economista ed antropologo americano di origine ungherese, autore dell’opera La grande trasformazione (1944), ha analizzato l’emergere dell’economia capitalistica e del mercato autoregolato, e degli effetti distruttivi sull’uomo e sulla natura di questo processo, determinati dal venir meno del controllo delle norme tradizionali entro le quali i processi economici erano in precedenza “incorporati”.
(68) Anche le forze produttive non materiali (conoscenza scientifica, informatica, ecc.) vanno considerate nella loro forma concreta, “incorporala” nei rapporti sociali esistenti. In quest’ambito, non c’è da stupirsi se esse esplicano una funzione di moltiplicazione delle “forze distruttive” piuttosto che il contrario (funzionano dunque da “acceleratori di entropia”…). Un esempio clamoroso che non ha bisogno di commenti: il ruolo giocato dall’aspetto tecnologico-informatico nella Guerra del Golfo…
(69) L’esigenza di fare riferimento a un concetto di progresso “differenziato” rispetto a quello unilineare prevalso nella tradizione positivistica borghese-imperialistica è affermato da Ernst Bloch (si veda Bloch, 1990).
(70) Anche Marx ed Engels, benché nutrissero una certa fiducia sulle possibilità della specie umana e sulla realizzabilità di una nuova fase della civiltà, superiore a quella che conoscevano, erano tutt’altro che ingenui adoratori del “progresso” (cfr. Bagarolo, 1989, e anche 1991-a). Di più: “Un ripensamento della storia del socialismo e del marxismo rivela una problematica insospettata o non approfondita dalla scolastica del progresso certo e rettilineo e del comunismo trionfante”: è la problematica che Cortesi definisce del “sospetto sulla storia”, che considera costantemente la possibilità dell’involuzione e della catastrofe (si veda il capitolo “Socialismo o barbarie” in Cortesi, 1984). Tutta la storia del ventesimo secolo, oltre che la minaccia ambientale, rendono questa problematica particolarmente attuale.
(71) Influenzata dall’energetica di Ostwald, la corrente “empiriomonista’’ del marxismo russo (Bogdanov ecc.) accolse precocemente il tema dell’energia (la sua importanza cruciale come forza produttiva) ma in una chiave più tecnocratica che ecologica (entropica). Così Bucharin, nel 1921, può mettere l’energia al centro degli scambi società-natura (Bucharin, 1977a) e nel 1931 citare Vernadskij (Bucharin, 1977-b), ma continuare ad ignorare gli aspetti propriamente ecologici di questa problematica.
(72) Il libro più volte citato di Martinez-Alier ricostruisce questi episodi. Storia quanto mai interessante ed istruttiva, che suscita domande alle quali non è semplice rispondere. Da una parte infatti, sfila una serie di studiosi, in genere dotati di titoli accademici di prim’ordine, che hanno richiamato l’attenzione sui nessi fra processi economici e ambiente: dall’altro, c’è la sordità o il rifiuto degli economisti ufficiali (e anche di quelli di orientamento marxista). Significativo che una incomprensione simile a quella che toccò a Podolinskij con Engels sia capitata anche ad altri due studiosi, Patrick Geddes (1854-1932) e Frederick Soddy (1877-1956), che per parte loro si erano rivolti a due altri “padri fondatori” dell’approccio economico tradizionale, e cioè rispettivamente a Leon Walras (1834-1910), uno dei fondatori della scuola marginalista dell’equilibrio economico generale, e a John Maynard Keynes (1883-1946), “riformatore” della politica economica di questa stessa scuola negli anni Trenta del ventesimo secolo.
Le critiche di Geddes e Soddy all’approccio tradizionale sono quanto mai perspicue ed acute: ciò non tolse che il clima ideologico e sociale le rendesse “irrilevanti” (d’altra parte esse sono ignorate ancora adesso nei santuari dell’economia ufficiale: si veda a questo proposito l’indagine di Carla Ravioli Il pianeta degli economisti, ecc.).
(73) Alfred Lotka, formatosi in Europa, compì la sua carriera accademica negli Stati Uniti. Influenzato da Wilhelm Ostwald (1853-1932), vide nell’energia la chiave di volta del sistema della natura e dello sviluppo della società umana. Fondamentale il suo teso del 1975 Elements of Phisical Biology. A Lotka si deve la distinzione, ormai classica, tra organi endosomatici (propri di tutti i viventi) e organi esosomatici (gli strumenti che si costruisce la specie umana), cui corrisponde la distinzione tra usi endosomatici (biologici) e usi esosomatici (tecnologici) dell’energia (Martinez-Alier 1991, Deléage 1991-h).
(74) Vladimir Ivanovic Vernadskij è forse lo scienziato russo e sovietico più famoso della prima metà del ventesimo secolo. Mineralogista e geochimico, erede della tradizione russa di Dokuchaev (fondatore della pedologia, la scienza del suolo) e in contatto con i massimi studiosi occidentali, accettò di collaborare col nuovo regime malgrado le riserve che nutriva verso di esso. Svolse un ruolo fondamentale nell’organizzare le istituzioni sovietiche di ricerca scientifica. Proprio negli anni della guerra e della rivoluzione avviò lo studio sulla “materia vivente” e sul suo ruolo sulla superficie terrestre che sfocia nella riformulazione della nozione di Biosfera (nello scritto La Géochimie pubblicato in francese nel 1924, e soprattutto in Biosfera, pubblicato in russo nel 1926, e tradotto in francese tre anni dopo).
Sulla sua figura si veda Grinevald, 1990 e Deléage, 1991-b.
(75) Sulla nozione di ecosistema in Lindeman: “L’ecosistema, per Lindeman, e attraversato da un flusso di energia di provenienza solare che tramite gli organismi autotrofi, le piante dotate di clorofilla, trasforma il supporto inorganico in organico, il biotopo in biocenosi. Le reti trofiche, in questa corale a più voci, distribuiscono l’energia celeste tra gli organismi eterotrofi, piante parassite e animali, mentre, a latere, i cosiddetti demolitori riportano gli organismi all’inorganico, riconvertendo la biocenosi nel biotopo…” (Celli, 1990) Forse vale la pena di menzionare qui, sotto la rubrica “disavventure dei precursori”, che il citato articolo di Lindeman era stato in un primo tempo respinto dalla rivista, in base al giudizio espresso da due affermati limnologici ai quali esso era stato sottoposto per un parere dal direttore editoriale (Cook 1977). Esso non ebbe inoltre alcuna eco immediata. Solo negli anni Cinquanta, dopo l’opera di sistematizzazione dei fratelli Eugene e Howard Odum, Foundamentals of Ecology (1953), la nuova impostazione (che unifica il campo disciplinare dell’ecologia, fino a quel momento suddiviso in ambiti diversi dalla diversità di metodi e approcci concettuali) viene universalmente riconosciuta (Acot, 1989, p. 113).
(76) L’energia assume un carattere speciale m rapporto alla vita, scrive Vernadskij nel paragrafo dedicato a “énergie de la matiére vivante et le principe de Carnot”; ciò è stato intuito dai fondatori della termodinamica, Mayer, Thomson, Helmholtz, ma solo “uno studioso ucraino morto giovane, S. Podolinskij, ha compreso a pieno la portata di queste idee e ha cercato di applicarle allo studio dei fenomeni economici.” (Vernadskij 1924, pp. 334-5).
(77) Douglas Weiner, lo studioso americano a cui dobbiamo un interessantissimo libro sull’ecologia sovietica negli anni Venti, così lo presenta: “Il brillante ma ora quasi dimenticato ecologo del periodo precedente la seconda guerra mondiale, che aprì l’intero campo dell’energetica ecologica.” (Weiner 1988, p. 71) Laureatosi a Heidelberg nel 1906, durante la guerra civile Stanchinskij si dedicò a organizzare l’università di Smolensk e a promuovere gli studi di zoologia. Divenne nel 1929 direttore scientifico di Askania-Nova, riserva naturalistica dell’Ucraina meridionale, che cercò di trasformare in un centro di ricerca teorica e pratica sull’ecologia della steppa e in un centro di protezione dell’ambiente naturale. Nello stesso periodo ricopriva importanti incarichi accademici presso l’università di Kharkov, era animatore dell’associazione pansovietica di protezione della natura e, dal 1931, direttore con l’amico Daniil Nikolaevic Kashkarov della prima rivista sovietica di ecologia teorica, “Zhurnal ekologii i biotsenologii” (giornale di ecologia e biocenotica). Egli ricopriva insomma un ruolo di punta sia in campo teorico sia in campo pratico. Anche per questo, dopo il 1931 e le direttive di Stalin sulla “bolscevizzazione” delle scienze e della cultura, Stanchinskij fu tra i primi ad essere preso di mira dagli uomini di fiducia dell’apparato nel settore biologico, in primo luogo Isai Prezent (tutore e alleato dell’emergente Trofim Denisovic Lysenko). Attaccato pretestuosamente, Stanchinskij fu dapprima estromesso dai suoi incarichi accademici (1933), quindi arrestato. Ricomparve in una posizione del tutto marginale nel 1938. Morì nel 1942, oscuramente, mentre incombeva l’invasione nazista. Di grande valore la sua produzione scientifica. Secondo Weiner, Stanchinskij anticipò il concetto di ecosistema fondato sulle relazioni trofiche, del quale, per primo, propose una modellizzazione matematica e al quale ispirò un lavoro di ricerca comparativa sulla produttività biologica di colture diverse. Inoltre cercò anche di integrare insieme approccio genetico evoluzionistico e approccio ecologico anche anticipando il lavoro in questo senso di G.E. Hutchinson e Robert MacArthur negli anni Sessanta (Weiner, 1988, pp. 80-2 e 285).
(78) Il lavoro di Weiner smentisce il luogo comune della sordità del comunismo verso i problemi ambientali e ci restituisce un quadro più articolato e per certi aspetti sorprendente dell’operato della rivoluzione russa in questo campo. Ad una prima fase caratterizzata da decisioni positive nel campo della protezione ambientale e dall’apertura verso una fiorentissima scuola ecologica (fase il cui merito è interamente ascrivibile alla sensibilità di una parte del gruppo dirigente comunista, di Lenin e del commissario del popolo all’istruzione Anatolij Vasilevic Lunacharskij, innanzi tutto), subentrò una svolta drammatica nei primi anni Trenta, allorché il potere stalinista decise che nulla e nessuno doveva ostacolare l’industrializzazione a tappe forzate o scalfire le motivazioni ufficiali di quella politica. Per questo, la prestigiosa scuola di ecologia – che cominciava a farsi apprezzare fuori dall’Urss con i lavori di G.F. Gauze, di D.N. Kashkarov, di V. Bukovskij, di L.G. Ramenskij, di V.N. Sukachev e di altri – doveva essere messa in riga e i recalcitranti stroncati.
(79) Lindeman, in ogni caso, conosceva il lavoro di Vernadskij, che cita nel suo articolo: “Il punto di vista trofico-dinamico, adottato in questo scritto, [è] strettamente imparentato con l’approccio biogeochimico di Vernadsky.” (The Trophic-Dynamic Aspect of Ecology, in Kormondy, 1965, p. 179). Il lavoro di Vladimir Vernadskij era conosciuto a Yale (dove insegnava Hutchinson e lavorò Lindeman nel 1941-2) forse attraverso il figlio, George Vernadsky, che vi insegnava storia russa (Martinez-Alier, 1991, p. 311-12).
Riferimenti bibliografici
Avvertenza. L’indicazione cronologica dei testi è fatta sulla base della data dell’edizione che è stata consultata. Nel caso di testi stranieri tradotti vengono riportati anche il titolo e la data dell’edizione originale. Si è fatto eccezione a questi criteri per le sole opere di Marx e di Engels, per le quali si è preferito elencarle nell’ordine cronologico di composizione (fanno eccezione all’eccezione le lettere e le selezioni tematiche: queste ultime sono riportate sotto il nome del curatore).
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Questo post riproduce un saggio del 1992 comparso originariamente nella rivista “Giano. Pace ambiente e problemi globali” (n. 10 – aprile 1992).
Esso costituiva l’apertura e l’introduzione di un confronto a più voci sul tema “marxismo ed ecologia” in cui intervennero Laura Conti (“L’uomo non è solo forza muscolare”), Giorgio Nebbia (“L’energia come altro indicatore del valore delle merci”), Gianfranco Pala (“La cattiva infinità dell’utopia verde”) e Giuseppe Prestipino (“Scienza e natura nella formazione del valore”).
E’ stato anche tradotto in francese ed è comparso col titolo Encore sur marxisme et écologie nella rivista “Quatrième Internationale”, n. 44, maggio-giugno 1992, pp. 7-31.