19/4/15

Il capitale monopolistico di Baran & Sweezy e la teoria marxiana del valore

Claudio Napoleoni   |   [Affronterò ora la questione dei caratteri generali del volume di Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico.] Il volume affronta il problema del realizzo del plusvalore, in riferimento alla forma che il capitalismo assume nella sua fase attuale caratterizzata dalla sempre maggiore diffusione del monopolio. In questa fase i problemi del realizzo assumono una particolare rilevanza. Il plusvalore in questa fase è più grande che nelle fasi precedenti. A seguito dell’acuirsi dei problemi di realizzo il capitale è costretto a cercare sempre nuove vie per raggiungere i suoi scopi. Vengono qui esaminate le vie che il capitale segue per superare queste sue contraddizioni, per la verità assai rilevanti e tali da generare comunque problemi sociali rilevantissimi. Questa fase di sviluppo del capitalismo in definitiva viene ad essere caratterizzata da una crisi immanente, continua, causata da una serie di diseconomie che sono implicite nel sistema económico. Per economia monopolistica si intende una economia in cui le singole imprese sono in grado di influenzare direttamente i prezzi di vendita. In questa fase le imprese, pur non rinunciando a farsi concorrenza, tuttavia in genere non scelgono la via di farsi concorrenza giocando al ribasso dei prezzi, in quanto ciò da un lato non consentirebbe una vittoria sicura, dall’altro lato causerebbe rilevanti perdite.

La tesi che viene respinta in blocco da B. e S. è la tesi che individuerebbe l’esistenza nella moderna industria monopolistica di una figura particolare, il ‘manager’, avente scopi diversi da quelli perseguiti dai padroni delle aziende, che sarebbero quelli della massimizzazione dei profitti. Secondo questa tesi i manager si proporrebbero più che altro di espandere al massimo le dimensioni dell’azienda ricorrendo ad autofinanziamenti cospicui, non distribuendo cioè una gran parte degli utili realizzati dall’azienda. Ruolo simile a quello dei manager avrebbero gli azionisti non direttamente impegnati nella direzione dell’azienda.

La via di farsi concorrenza attraverso il ribasso dei prezzi è stata abbandonata verso i primi decenni del secolo. Attualmente i prezzi sono in genere concordati, e la concorrenza viene fatta attraverso la qualità del prodotto. Questo è un punto importante perché, secondo lo schema tracciato da questi autori, uno degli sbocchi principali per l’assorbimento del sovrappiù è proprio un complesso di spese le quali, all’interno delle imprese, mirano tutte a esercitare una concorrenza di qualità. La possibilità di questa concorrenza costituisce non solo un elemento strutturale importante di questa fase del capitalismo, ma addirittura una delle basi su cui è possibile creare uno sbocco di mercato per il plusvalore. D’altra parte il fatto che le imprese siano grandi, che queste imprese grandi dal punto di vista giuridico siano costituite nella forma delle società per azioni, e il fatto che la concorrenza si eserciti sulla base della qualità più che sulla base del prezzo, ha fatto nascere nel confronto del capitalismo monopolistico questa tesi, che Baran e Sweezy respingono con grande energia, secondo la quale nella fase attuale della storia del capitale vi sarebbe una separazione tra la proprietà e la gestione economica delle imprese.

Conseguenza di quanto detto sarebbe allora che coloro che hanno la responsabilità della direzione, che in inglese si chiamano appunto manager, avrebbero perduto la tendenza a realizzare lo scopo caratteristico del capitalista quando esso è contemporaneamente un direttore e gestore e un proprietario, cioè la massimizzazione del profitto. Secondo la tesi criticata in questa fase dello sviluppo capitalistico esisterebbe addirittura uno strato sociale particolare, detto appunto dei manager non proprietari delle imprese che dirigono, i quali, proprio perché non proprietari delle imprese, si porrebbero scopi diversi da quello tipico e fondamentale della massimizzazione del profitto. Scopi che sarebbero in via immediata: un allargamento delle vendite, un miglioramento della qualità, uno sviluppo dell’impresa, e in via più mediata e politica, potrebbero essere addirittura, sempre secondo questa tesi, scopi che potrebbero essere socializzabili, cioè scopi che potrebbero essere dalla politica imposti a questi manager senza eccessiva resistenza da parte loro, proprio in virtù di questa loro separazione o scissione dal [fine del] profitto.

Foto: Paul Baran & Paul Sweezy 
Nel libro c’è un capitolo in cui questa tesi viene contestata. È ovvio che, innanzitutto, si tratta di una questione di fatto: quindi la critica viene condotta sulla base di riferimento ai fatti. I fatti citati nel testo sono tutti tratti dalla realtà americana, ma potrebbero essere ripetuti per qualsiasi altro capitalismo avanzato. Essi concordano nel mostrare che i manager, cioè questo strato sociale effettivamente esistente, in realtà appartiene allo strato superiore dei proprietari. Non esiste affatto il divorzio, la separazione tra gestione e proprietà, ma se mai esiste una differenziazione all’interno della proprietà: nel senso che la proprietà delle imprese è, per un lato, la parte che conta qualitativamente poco (quale che sia la sua estensione quantitativa) costituita da puri proprietari (da puri azionisti); per l’altro lato, esiste sempre, all’interno della proprietà e non all’esterno di essa, un’altra parte, che Marx avrebbe chiamato dei capitalisti attivi, che sono proprietari essi stessi, e che oltre ad essere proprietari svolgono questa funzione di controllo.

Va nominata una circostanza che questi autori non sottolineano a sufficienza – e che in America forse non è rilevante come in Europa, o come in Italia – che è questa: molto spesso questo strato superiore di proprietari, che è anche di dirigenti ed imprenditori, può svolgere questa sua funzione di direzione e gestione anche essendo proprietario di una parte piccolissima del capitale dell’impresa, essendo il resto del capitale, non posseduto da questo strato, frazionato in una miriade di proprietari che non sono coordinati fra di loro e che non esercitano alcun controllo sulla gestione del capitale. Si potrebbe dire che questi capitalisti molto piccoli svolgono, più che una funzione di direzione, una funzione di finanziamento dell’impresa attraverso i loro risparmi. Stabilito questo punto, questi autori deducono da questa circostanza una conseguenza che sembra ovvia, e cioè che quali che siano gli scopi particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i capitali che hanno sotto controllo, una cosa è sicura, che questi scopi particolari si trovano tutti all’interno, come altrettante specificazioni di casi particolari, di uno scopo che resta unitario e fondamentale e non diverso dallo scopo che è sempre stato tipico del processo capitalistico, cioè la massimizzazione del profitto rispetto, si capisce, al capitale costante.

Per cui quelle stesse pratiche che, a prima vista, potrebbero far supporre che gli scopi perseguiti non siano quelli della massimizzazione del profitto, quando vengono analizzati con maggiore attenzione mostrano che, nel peggiore dei casi si tratta semplicemente di una massimizzazione del profitto condotta semplicemente con riferimento a più lunghi periodi di tempo di quelli che sarebbero presi in considerazione se si volesse massimizzare il profitto immediato: cioè una massimizzazione del profitto all’interno di piani di imprese che possono avere la durata anche di parecchi anni. Si tratta di una massimizzazione di profitti lungo un arco di tempo piuttosto ampio la quale, proprio perché è fatta in prospettiva, può comportare anche una non massimizzazione immediata del profitto. Quindi tutte le pratiche che di solito le imprese perseguono, che sono essenzialmente l’espansione della vendita e la riduzione dei costi, sono essenzialmente intese alla massimizzazione del profitto.

Un problema che può sorgere, e su cui questi autori pongono l’accento, è questo: che tra la parte della proprietà che svolge anche la funzione di direzione e la parte di proprietà che è su una posizione di assenteismo può sorgere un conflitto, in questo senso: che mentre la pura proprietà generalmente manifesta l’interesse a rendere massimo il dividendo sulle azioni (in contabilità, profitto distribuito, il quale sfugge, appunto perché distribuito, al controllo dei manager), viceversa i manager possono avere la tendenza a rendere minimo il dividendo proprio per rendere massimo il profitto che rimane all’interno dell’impresa, ed è da loro controllabile e controllato per l’espansione dell’impresa stessa. Questo contrasto, che in realtà è solo teorico, viene quasi sempre risolto a favore dei manager, per l’ovvia ragione che hanno essi il controllo dell’impresa.

Vengono poi una serie di particolarità tecniche, di cui l’unica che vale la pena di ricordare è questa: che qualche volta gli stessi manager possono avere l’interesse finanziario a rendere massimo il dividendo sulle azioni, perché questo aumenta il valore del capitale e favorisce l’acquisizione di finanziamento dall’esterno dell’impresa.

La questione teorica rilevante che è bene premettere alla trattazione che gli autori fanno dei vari modi di incrementare la realizzazione del sovrappiù è questa: Baran e Sweezy sostengono (questa è anche una delle questioni che ha dato luogo a maggiori controversie) che in questa struttura di capitale di monopolio, diretto dallo strato superiore dei proprietari che hanno la figura sociale dei manager, vi sarebbe una tendenza del surplus ad aumentare. Gli autori non sono chiarissimi su questo punto, perché talvolta parlano di una entità del sovrappiù maggiore di quella che si avrebbe se la struttura fosse concorrenziale, qualche volta parlano di una tendenza all’aumento del sovrappiù, qualche volta di entrambe le cose. E comunque attribuiscono la maggiore rilevanza relativa del sovrappiù rispetto alla struttura concorrenziale proprio al fatto che si tratta di monopoli i quali avrebbero un profitto maggiore rispetto alle imprese di concorrenza proprio perché possono manovrare i prezzi. L’impressione che si ricava dal testo è che proprio questa sia la tesi degli autori.

Questa è una tesi che ha suscitato molta perplessità perché contiene al suo interno una difficoltà di teoria che vale la pena di esporre. La si può esporre partendo dal testo in questione, ma lo si può anche fare partendo da un testo di Marx. Seguiamo la seconda via. È un testo del terzo libro del Capitale, che non è molto letto: in esso però si espone una questione relativa al monopolio che è rilevante rispetto alla questione posta dai due autori sulla tendenza del surplus ad aumentare, o quantomeno sulla rilevanza relativa del surplus rispetto a situazioni concorrenziali. Questo luogo di Marx sta alla pag. 276 della edizione del Capitale in 7 volumi degli Editori Riuniti.

Marx si esprime così: “se il livellamento del plusvalore al profitto medio”, questo è l’effetto caratteristico della concorrenza, “incontra ostacoli”, perché la struttura non è concorrenziale, “nelle varie sfere della produzione, in monopoli artificiali o naturali sì da rendere possibile un prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore delle merci” qui il valore delle merci = quantità di lavoro contenuto e il prezzo di produzione = prezzo che le merci avrebbero se la struttura fosse concorrenziale, “i limiti dati dal valore delle merci non sarebbero per questo soppressi”. In altri termini Marx dice: il valore delle merci è quello che è, che poi il prezzo sia un prezzo di concorrenza o un prezzo di monopolio questa è una questione ulteriore, che non toglie nulla alla circostanza che la formazione dei prezzi deve rispettare il limite imposto dal fatto che si è prodotta una certa quantità complessiva di valore, e questa quantità complessiva di valore, durante il processo di formazione dei prezzi, si distribuirà sui vari prodotti in un certo modo. C’è un modo concorrenziale di distribuire questo valore e un modo monopolistico, ma il valore da distribuirsi è sempre lo stesso, ed è quello ottenuto all’interno del processo produttivo.

Vediamo come questa tesi viene ulteriormente argomentata: “Il prezzo di monopolio di determinate merci”, prodotte in condizioni di monopolio, “trasferirebbe semplicemente alle merci aventi prezzi di monopolio una parte del profitto degli altri produttori di merce”. In sostanza Marx dice che quando esiste un monopolio, il maggior prezzo che questo monopolio riesce a spuntare sul mercato, rispetto a quello che sarebbe il prezzo di concorrenza, comporta che venga trasferito a questo monopolio una parte del valore che altrimenti sarebbe appropriato da altri capitali. In altri termini, il prezzo di monopolio è un trasferimento di valore da altri capitali al capitale monopolizzato: è un modo diverso di distribuire il plusvalore all’interno della classe dei capitalisti. Se ci fosse la concorrenza, questo plusvalore sarebbe distribuito fra i vari capitalisti in modo da garantire la formazione del saggio generale del profitto. Se qualche capitale è un monopolio, allora la distribuzione avviene in modo da attribuire a quel monopolio un profitto, rispetto al capitale, maggiore di quanto sia il profitto di altri capitalisti a scapito di questi ultimi. “La ripartizione del plusvalore tra le diverse sfere di produzione subirebbe indirettamente una perturbazione locale, che però lascerebbe invariati i limiti di questo plusvalore stesso”.

Secondo Marx il monopolio interviene quindi solo nella ripartizione del plusvalore fra capitalisti, non nella sua formazione. Poi però si dice: “Se la merce con prezzo di monopolio entrasse nel consumo necessario degli operai, essa aumenterebbe il salario come costo per il capitalista, e diminuirebbe così il plusvalore, nel caso che l’operaio continuasse a ricevere il valore della sua forza lavoro. Essa potrebbe anche abbassare il salario al di sotto del valore della forza lavoro, ma solamente nella misura in cui il salario fosse superiore al limite del suo minimo fisico. In questo caso il prezzo di monopolio”, se il prezzo di monopolio fosse riferito a merci che entrano nel consumo dell’operaio “sarebbe pagato con una detrazione dal salario reale (vale a dire dalla massa dei valori d’uso che l’operaio riceverebbe con la stessa massa di lavoro) e dal profitto degli altri capitalisti”. In sostanza i limiti entro i quali il prezzo di monopolio influirebbe sulla regolazione normale dei prezzi delle merci sarebbero nettamente determinati a potrebbero essere esattamente calcolati.

Insomma, Marx dice che quando c’è un monopolio, che ha perciò un profitto maggiore del saggio generale del profitto, vuol dire che questo monopolio pompa valore da qualcun altro: dagli altri capitalisti, oppure dai salariati (se la merce che ha prezzo di monopolio entra a comporre il salario). Allora, i profitti straordinari che i monopolisti percepiscono non corrispondono ad una creazione di ricchezza che non ci sarebbe se la situazione fosse concorrenziale: la ricchezza come quantità di valore è quella che è, e viene prodotta all’interno del processo produttivo, dopodiché nella sfera della circolazione si formano prezzi che, se sono di monopolio, attribuiscono al monopolio parte del valore prodotto in misura maggiore di quanto altrimenti sarebbe accaduto.

Questa proposizione di Marx è rigidamente coerente con la teoria del valore lavoro: il valore è il lavoro oggettivato nelle merci, e la forma di mercato entro cui questa oggettivazione avviene non ha nessuna rilevanza rispetto all’entità di questa oggettivazione. Il plusvalore dipende dal modo in cui il lavoro complessivo si ripartisce fra lavoro necessario e pluslavoro: e in questa ripartizione, salvo questo caso che stiamo considerando, di nuovo la forma di mercato non interviene. Quando è che interviene la forma di mercato? Quando si deve stabilire come questo plusvalore si ripartisce fra i vari capitali, ed eventualmente tra operai e capitalisti se il salario è interessato a prezzi di monopolio e nella misura in cui lo sia.

Torniamo al testo di Baran e Sweezy. Il modo in cui essi pongono questa questione non è chiaro, ma possiamo evitare di affrontare l’argomento. Quello che possiamo [infatti] dire sulla base della precisazione di Marx è questo: la tesi secondo cui il capitale monopolistico dà luogo ad una entità particolarmente rilevante del sovrappiù non può essere intesa nel senso che il capitale monopolistico produce più plusvalore di quanto ne sarebbe prodotto se la situazione, anziché essere monopolistica, fosse concorrenziale; e che dunque, se questa tesi di Baram a Sweezy ha un significato, deve avere qualche altro significato, ma non questo. Quali altri significati può avere? Può avere uno dei due seguenti significati, che del resto gli autori nominano, anche se confusamente, nel testo:

Il primo può essere ricavato dalla seguente riflessione: ciò che Marx dice nel pezzo che abbiamo letto è naturalmente riferito ad uno stadio che si suppone dato delle sviluppo delle forze produttive: quindi, in termini più immediati, si riferisce ad un certo stadio dello sviluppo della tecnologia, della produttività del lavoro. Ad un certo livello di produttività del lavoro, se il salario è alto allora c’è un certo plusvalore, che è quello che è indipendentemente dalle forme di mercato. Se però si potesse affermare che, nel caso del capitale monopolistico, c’è una crescita di produttività del lavoro maggiore di quanto accadrebbe in una situazione concorrenziale, allora la tesi di Baran e Sweezy avrebbe un senso, pur facendo del tutto salva la tesi esposta da Marx nel brano letto.

Non si tratterebbe del fatto che, all’interno di una certa produttività del lavoro, il capitale monopolistico, per assurdo, possa produrre un plusvalore maggiore di quello che possa produrre il capitale concorrenziale, ma si tratterebbe del fatto che il capitale monopolistico aumenterebbe la base su cui il plusvalore è prodotto, cioè la produttività del lavoro, attraverso un più accelerato sviluppo della tecnologia. Baran e Sweezy avanzavano spesso questa tesi, che viene esposta in questa altra forma. A loro giudizio il capitale monopolistico accelera il processo di riduzione dei costi unitari rispetto al capitalismo di concorrenza. Questa accelerazione della riduzione dei costi unitari è un modo diverso per dire che accelera il processo di aumento della produttività del lavoro. Se questa tesi è giusta, allora è chiaro che potrebbe essere attribuita al capitalismo monopolistico una tendenza ad aumentare il plusvalore maggiore di quanto altrimenti si avrebbe.

[Questo] primo aspetto si può dunque spiegare facendo ricorso all’aumento della produttività del lavoro.

Il secondo aspetto [o significato] che può rendere rilevante la tesi di Baran e Sweezy è quello che è accennato, in una forma un po’ diversa, nel passo letto da Marx, e riguarda i salari. Qui Marx prende in considerazione la possibilità che vi sia un trasferimento di valore dai salariati ai capitalisti in conseguenza del fatto che alcune merci salario hanno sul mercato un prezzo di monopolio. Allora in questo caso, sebbene il salario dal punto di vista dei valori d’uso dell’operaio rimarrebbe invariato, dal punto di vista del valore di scambio pagato dal capitalista [esso] aumenterebbe a favore dei capitalisti che percepiscono il prezzo di monopolio.

Per generalizzare questo discorso di Marx, si può fare questa osservazione. Qui la questione è un po’ dubbia. Perché? Se è vero che il capitalista che produce la merce salario monopolizzata riceve attraverso questo prezzo di monopolio un valore aggiuntivo, è anche vero che tutti gli altri capitalisti devono pagare un salario maggiore ai loro operai e hanno conseguentemente una diminuzione del profitto, e si potrebbe pensare che, sia pure attraverso la mediazione del salario, si tratti sempre di trasferimento di profitti dai capitalisti che non producono in condizioni di monopolio ai capitalisti che producono in condizioni di monopolio. Questo però non significa che non vi possa realmente essere un trasferimento di valore dai salariati ai capitalisti in regime di monopolio in virtù di un altro meccanismo, meccanismo a cui abbiamo fatto riferimento più di una volta sia pure in contesti diversi [in questo corso] quando abbiamo studiato le relazioni tra salario-profitto-produttività del lavoro.

Il ragionamento da farsi, sarebbe questo: abbiamo un processo di incremento della produttività del lavoro, quale che esso sia, più o meno rapido. A questo processo corrisponde, o potrebbe corrispondere, un certo incremento del salario, in corrispondenza del quale il saggio del profitto potrebbe mantenersi inalterato. Ma noi sappiamo anche che quando si fa questo ragionamento il salario a cui ci si riferisce deve essere inteso come salario reale (salario reale = rapporto tra salario monetario e livello generale dei prezzi). In regime concorrenziale il tener distinto il salario monetario dal salario reale non è molto importante, comportando il regime concorrenziale, proprio in virtù della concorrenza, un congruo adeguamento dei prezzi ai costi, dei prezzi ai valori. Quindi è lo stesso sistema dei prezzi che segue l’andamento della produttività. Ma in regime monopolistico, come noi sappiamo, questo non è più vero; i prezzi possono essere amministrati e manovrati, e per giunta chi amministra e manovra i prezzi può determinare un aumento del livello generale dei prezzi attraverso l’appoggio che venga dato a questa amministrazione dei prezzi da parte dell’autorità monetaria attraverso l’espansione della circolazione monetaria e le [conseguenti] facilitazioni [all’aumento] dei prezzi.

Sulla base di questi presupposti il ragionamento può essere ripreso, e potremmo dire questo: in regime monopolistico gli adeguamenti del salario monetario agli incrementi della produttività vengono via via falcidiati, in misura più o meno rilevante da un incremento del livello generale dei prezzi che è reso possibile appunto dalla mancanza di concorrenza, e con l’appoggio delle autorità monetarie. Il che significa, in altri termini, che i movimenti del salario reale non seguono mai da vicino i movimenti del salario monetario in regime di monopolio. In conseguenza di ciò l’aumento della produttività che avviene in regime di monopolio, qualunque esso sia, si trasforma molto più facilmente in profitti addizionali che non in salari addizionali. Questo è un problema di rapporti di forza, e possono esserci delle fasi in cui la spinta salariale, anche in termini reali, è tale da rovesciare questo processo. Se noi facciamo riferimento ad una situazione più o meno normale, possiamo arrivare a questa conclusione: che nel caso del capitale monopolistico i movimenti del salario reale non sono così scontati come nel caso di regime concorrenziale, perché i movimenti del salario reale sono mediati da un movimento del salario monetario che è continuamente [contrastato] dall’aumento dei prezzi connessi al regime di monopolio. In questo senso dinamico, nel caso del capitale monopolistico noi abbiamo un trasferimento verso i profitti a partire dai salari del valore addizionale creato dall’incremento della produttività lavoro.

Se si fa un confronto tra la dinamica del capitale monopolistico e la dinamica tradizionale del capitale concorrenziale si possono notare due fatti. [La prima circostanza è] che il capitale monopolistico, in conseguenza di una serie di circostanze che dobbiamo ancora esaminare, ha una tendenza all’incremento della produttività del lavoro, e quindi alla riduzione dei costi unitari, particolarmente rapida, e probabilmente più rapida di quella che è storicamente avvenuta in regime concorrenziale, o più rapida di quella che accadrebbe se la situazione industriale di oggi fosse gestita in forma concorrenziale anziché monopolistica. Questo [è importante] per non fare delle critiche romantiche al monopolio, critiche di tipo arretrato: questa tesi che il monopolio comporta l’arretratezza – arretratezza tecnologica, arretratezza nella spinta allo sviluppo capitalistico – non è valida, e Baran e Sweezy la respingono. C’è questa spinta alla produttività del lavoro maggiore in questi due sensi, e questo fatto di per sé, a parità di altre circostanze, e in particolare a parità di salari, comporta un aumento più rapido del profitto.

Foto: Claudio Napoleoni
D’altra parte i salari non si possono in generale supporre fermi perché, per ragioni sindacali e politiche, [vi è una spinta salariale] tanto più quanto più sono ampi i margini entro i quali questa spinta può essere esercitata, e quindi tanto più fortemente quanto più rapido è l’incremento della produttività. A questo punto interviene la seconda circostanza. Questa spinta salariale, la quale darebbe luogo a certi frutti se il livello dei prezzi rimanesse stabile, non dà luogo a questi frutti perché in regime monopolistico il livello dei prezzi tende ad aumentare. In questo caso si ha un trasferimento dai salari ai profitti, nel senso che il salario aumenta meno di quanto sarebbe altrimenti aumentato se il livello dei prezzi fosse rimasto costante: cioè, il profitto è aumentato più di quanto sarebbe aumentato se avesse dovuto vivere dentro un regime di prezzi stabili. In forza di entrambe le circostanze si può parlare di una tendenza del capitale monopolistico ad avere un profitto maggiore di [quanto avverrebbe con] un capitale diversamente strutturato.

Se questo è vero si giustifica la premessa su cui il libro è basato, anche se tutto ciò è argomentato diversamente: il problema del realizzo di questo ‘sovrappiù’ si pone in termini gravosi al capitale proprio per la sua tendenza ad aumentare. Ancora una volta, occorre notare come ogni pratica che aumenta il profitto all’interno del processo di produzione pone un problema opposto sul terreno della realizzazione. Questo problema si pone in termini esasperati nel caso del capitale monopolistico.

Trascrizione di una lezione di Claudio Napoleoni nell’ambito del corso di Politica economica e finanziaria presso l’Università di Torino, tenuta il 12 maggio 1973. Le modifiche al testo dattiloscritto sono minime e, quando più significative, segnalate tra parentesi quadre. Si ringrazia il Fondo Claudio Napoleoni, costituito presso l’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali Antonio Gramsci, unitamente ad Annalisa Sala, per il consenso alla pubblicazione del testo. Testo a cura di Riccardo Bellofiore.




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