La tesi che viene respinta in blocco da B. e S. è la tesi che individuerebbe l’esistenza nella moderna industria monopolistica di una figura particolare, il ‘manager’, avente scopi diversi da quelli perseguiti dai padroni delle aziende, che sarebbero quelli della massimizzazione dei profitti. Secondo questa tesi i manager si proporrebbero più che altro di espandere al massimo le dimensioni dell’azienda ricorrendo ad autofinanziamenti cospicui, non distribuendo cioè una gran parte degli utili realizzati dall’azienda. Ruolo simile a quello dei manager avrebbero gli azionisti non direttamente impegnati nella direzione dell’azienda.
La via di farsi concorrenza attraverso il ribasso dei prezzi
è stata abbandonata verso i primi decenni del secolo. Attualmente i prezzi sono
in genere concordati, e la concorrenza viene fatta attraverso la qualità del
prodotto. Questo è un punto importante perché, secondo lo schema tracciato da
questi autori, uno degli sbocchi principali per l’assorbimento del sovrappiù è
proprio un complesso di spese le quali, all’interno delle imprese, mirano tutte
a esercitare una concorrenza di qualità. La possibilità di questa concorrenza
costituisce non solo un elemento strutturale importante di questa fase del
capitalismo, ma addirittura una delle basi su cui è possibile creare uno sbocco
di mercato per il plusvalore. D’altra parte il fatto che le imprese siano
grandi, che queste imprese grandi dal punto di vista giuridico siano costituite
nella forma delle società per azioni, e il fatto che la concorrenza si eserciti
sulla base della qualità più che sulla base del prezzo, ha fatto nascere nel
confronto del capitalismo monopolistico questa tesi, che Baran e Sweezy
respingono con grande energia, secondo la quale nella fase attuale della storia
del capitale vi sarebbe una separazione tra la proprietà e la gestione
economica delle imprese.
Conseguenza di quanto detto sarebbe allora che coloro che
hanno la responsabilità della direzione, che in inglese si chiamano appunto
manager, avrebbero perduto la tendenza a realizzare lo scopo caratteristico del
capitalista quando esso è contemporaneamente un direttore e gestore e un
proprietario, cioè la massimizzazione del profitto. Secondo la tesi criticata
in questa fase dello sviluppo capitalistico esisterebbe addirittura uno strato
sociale particolare, detto appunto dei manager non proprietari delle imprese
che dirigono, i quali, proprio perché non proprietari delle imprese, si
porrebbero scopi diversi da quello tipico e fondamentale della massimizzazione
del profitto. Scopi che sarebbero in via immediata: un allargamento delle
vendite, un miglioramento della qualità, uno sviluppo dell’impresa, e in via
più mediata e politica, potrebbero essere addirittura, sempre secondo questa
tesi, scopi che potrebbero essere socializzabili, cioè scopi che potrebbero
essere dalla politica imposti a questi manager senza eccessiva resistenza da
parte loro, proprio in virtù di questa loro separazione o scissione dal [fine
del] profitto.
Foto: Paul Baran & Paul Sweezy |
Nel libro c’è un capitolo in cui questa tesi viene
contestata. È ovvio che, innanzitutto, si tratta di una questione di fatto:
quindi la critica viene condotta sulla base di riferimento ai fatti. I fatti
citati nel testo sono tutti tratti dalla realtà americana, ma potrebbero essere
ripetuti per qualsiasi altro capitalismo avanzato. Essi concordano nel mostrare
che i manager, cioè questo strato sociale effettivamente esistente, in realtà
appartiene allo strato superiore dei proprietari. Non esiste affatto il
divorzio, la separazione tra gestione e proprietà, ma se mai esiste una
differenziazione all’interno della proprietà: nel senso che la proprietà delle
imprese è, per un lato, la parte che conta qualitativamente poco (quale che sia
la sua estensione quantitativa) costituita da puri proprietari (da puri
azionisti); per l’altro lato, esiste sempre, all’interno della proprietà e non
all’esterno di essa, un’altra parte, che Marx avrebbe chiamato dei capitalisti
attivi, che sono proprietari essi stessi, e che oltre ad essere proprietari
svolgono questa funzione di controllo.
Va nominata una circostanza che questi autori non sottolineano
a sufficienza – e che in America forse non è rilevante come in Europa, o come
in Italia – che è questa: molto spesso questo strato superiore di proprietari,
che è anche di dirigenti ed imprenditori, può svolgere questa sua funzione di
direzione e gestione anche essendo proprietario di una parte piccolissima del
capitale dell’impresa, essendo il resto del capitale, non posseduto da questo
strato, frazionato in una miriade di proprietari che non sono coordinati fra di
loro e che non esercitano alcun controllo sulla gestione del capitale. Si
potrebbe dire che questi capitalisti molto piccoli svolgono, più che una
funzione di direzione, una funzione di finanziamento dell’impresa attraverso i
loro risparmi. Stabilito questo punto, questi autori deducono da questa
circostanza una conseguenza che sembra ovvia, e cioè che quali che siano gli
scopi particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i
capitali che hanno sotto controllo, una cosa è sicura, che questi scopi
particolari si trovano tutti all’interno, come altrettante specificazioni di
casi particolari, di uno scopo che resta unitario e fondamentale e non diverso
dallo scopo che è sempre stato tipico del processo capitalistico, cioè la
massimizzazione del profitto rispetto, si capisce, al capitale costante.
Per cui quelle stesse pratiche che, a prima vista,
potrebbero far supporre che gli scopi perseguiti non siano quelli della
massimizzazione del profitto, quando vengono analizzati con maggiore attenzione
mostrano che, nel peggiore dei casi si tratta semplicemente di una
massimizzazione del profitto condotta semplicemente con riferimento a più
lunghi periodi di tempo di quelli che sarebbero presi in considerazione se si
volesse massimizzare il profitto immediato: cioè una massimizzazione del
profitto all’interno di piani di imprese che possono avere la durata anche di
parecchi anni. Si tratta di una massimizzazione di profitti lungo un arco di
tempo piuttosto ampio la quale, proprio perché è fatta in prospettiva, può
comportare anche una non massimizzazione immediata del profitto. Quindi tutte
le pratiche che di solito le imprese perseguono, che sono essenzialmente
l’espansione della vendita e la riduzione dei costi, sono essenzialmente intese
alla massimizzazione del profitto.
Un problema che può sorgere, e su cui questi autori pongono l’accento,
è questo: che tra la parte della proprietà che svolge anche la funzione di
direzione e la parte di proprietà che è su una posizione di assenteismo può
sorgere un conflitto, in questo senso: che mentre la pura proprietà
generalmente manifesta l’interesse a rendere massimo il dividendo sulle azioni
(in contabilità, profitto distribuito, il quale sfugge, appunto perché
distribuito, al controllo dei manager), viceversa i manager possono avere la
tendenza a rendere minimo il dividendo proprio per rendere massimo il profitto
che rimane all’interno dell’impresa, ed è da loro controllabile e controllato
per l’espansione dell’impresa stessa. Questo contrasto, che in realtà è solo
teorico, viene quasi sempre risolto a favore dei manager, per l’ovvia ragione
che hanno essi il controllo dell’impresa.
Vengono poi una serie di particolarità tecniche, di cui
l’unica che vale la pena di ricordare è questa: che qualche volta gli stessi
manager possono avere l’interesse finanziario a rendere massimo il dividendo sulle
azioni, perché questo aumenta il valore del capitale e favorisce l’acquisizione
di finanziamento dall’esterno dell’impresa.
La questione teorica rilevante che è bene premettere alla
trattazione che gli autori fanno dei vari modi di incrementare la realizzazione
del sovrappiù è questa: Baran e Sweezy sostengono (questa è anche una delle
questioni che ha dato luogo a maggiori controversie) che in questa struttura di
capitale di monopolio, diretto dallo strato superiore dei proprietari che hanno
la figura sociale dei manager, vi sarebbe una tendenza del surplus ad
aumentare. Gli autori non sono chiarissimi su questo punto, perché talvolta
parlano di una entità del sovrappiù maggiore di quella che si avrebbe se la
struttura fosse concorrenziale, qualche volta parlano di una tendenza
all’aumento del sovrappiù, qualche volta di entrambe le cose. E comunque
attribuiscono la maggiore rilevanza relativa del sovrappiù rispetto alla
struttura concorrenziale proprio al fatto che si tratta di monopoli i quali
avrebbero un profitto maggiore rispetto alle imprese di concorrenza proprio
perché possono manovrare i prezzi. L’impressione che si ricava dal testo è che
proprio questa sia la tesi degli autori.
Questa è una tesi che ha suscitato molta perplessità perché
contiene al suo interno una difficoltà di teoria che vale la pena di esporre.
La si può esporre partendo dal testo in questione, ma lo si può anche fare
partendo da un testo di Marx. Seguiamo la seconda via. È un testo del terzo
libro del Capitale, che non è molto letto: in esso però si espone una questione
relativa al monopolio che è rilevante rispetto alla questione posta dai due
autori sulla tendenza del surplus ad aumentare, o quantomeno sulla rilevanza
relativa del surplus rispetto a situazioni concorrenziali. Questo luogo di Marx
sta alla pag. 276 della edizione del Capitale
in 7 volumi degli Editori Riuniti.
Marx si esprime così: “se il livellamento del plusvalore al
profitto medio”, questo è l’effetto caratteristico della concorrenza, “incontra
ostacoli”, perché la struttura non è concorrenziale, “nelle varie sfere della
produzione, in monopoli artificiali o naturali sì da rendere possibile un
prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore delle merci”
qui il valore delle merci = quantità di lavoro contenuto e il prezzo di
produzione = prezzo che le merci avrebbero se la struttura fosse
concorrenziale, “i limiti dati dal valore delle merci non sarebbero per questo
soppressi”. In altri termini Marx dice: il valore delle merci è quello che è,
che poi il prezzo sia un prezzo di concorrenza o un prezzo di monopolio questa
è una questione ulteriore, che non toglie nulla alla circostanza che la
formazione dei prezzi deve rispettare il limite imposto dal fatto che si è
prodotta una certa quantità complessiva di valore, e questa quantità
complessiva di valore, durante il processo di formazione dei prezzi, si
distribuirà sui vari prodotti in un certo modo. C’è un modo concorrenziale di
distribuire questo valore e un modo monopolistico, ma il valore da distribuirsi
è sempre lo stesso, ed è quello ottenuto all’interno del processo produttivo.
Vediamo come questa tesi viene ulteriormente argomentata:
“Il prezzo di monopolio di determinate merci”, prodotte in condizioni di
monopolio, “trasferirebbe semplicemente alle merci aventi prezzi di monopolio
una parte del profitto degli altri produttori di merce”. In sostanza Marx dice
che quando esiste un monopolio, il maggior prezzo che questo monopolio riesce a
spuntare sul mercato, rispetto a quello che sarebbe il prezzo di concorrenza,
comporta che venga trasferito a questo monopolio una parte del valore che
altrimenti sarebbe appropriato da altri capitali. In altri termini, il prezzo
di monopolio è un trasferimento di valore da altri capitali al capitale monopolizzato:
è un modo diverso di distribuire il plusvalore all’interno della classe dei
capitalisti. Se ci fosse la concorrenza, questo plusvalore sarebbe distribuito
fra i vari capitalisti in modo da garantire la formazione del saggio generale
del profitto. Se qualche capitale è un monopolio, allora la distribuzione
avviene in modo da attribuire a quel monopolio un profitto, rispetto al
capitale, maggiore di quanto sia il profitto di altri capitalisti a scapito di
questi ultimi. “La ripartizione del plusvalore tra le diverse sfere di
produzione subirebbe indirettamente una perturbazione locale, che però
lascerebbe invariati i limiti di questo plusvalore stesso”.
Secondo Marx il monopolio interviene quindi solo nella
ripartizione del plusvalore fra capitalisti, non nella sua formazione. Poi però
si dice: “Se la merce con prezzo di monopolio entrasse nel consumo necessario
degli operai, essa aumenterebbe il salario come costo per il capitalista, e diminuirebbe
così il plusvalore, nel caso che l’operaio continuasse a ricevere il valore
della sua forza lavoro. Essa potrebbe anche abbassare il salario al di sotto
del valore della forza lavoro, ma solamente nella misura in cui il salario
fosse superiore al limite del suo minimo fisico. In questo caso il prezzo di monopolio”,
se il prezzo di monopolio fosse riferito a merci che entrano nel consumo
dell’operaio “sarebbe pagato con una detrazione dal salario reale (vale a dire
dalla massa dei valori d’uso che l’operaio riceverebbe con la stessa massa di
lavoro) e dal profitto degli altri capitalisti”. In sostanza i limiti entro i
quali il prezzo di monopolio influirebbe sulla regolazione normale dei prezzi
delle merci sarebbero nettamente determinati a potrebbero essere esattamente
calcolati.
Insomma, Marx dice che quando c’è un monopolio, che ha
perciò un profitto maggiore del saggio generale del profitto, vuol dire che
questo monopolio pompa valore da qualcun altro: dagli altri capitalisti, oppure
dai salariati (se la merce che ha prezzo di monopolio entra a comporre il
salario). Allora, i profitti straordinari che i monopolisti percepiscono non
corrispondono ad una creazione di ricchezza che non ci sarebbe se la situazione
fosse concorrenziale: la ricchezza come quantità di valore è quella che è, e
viene prodotta all’interno del processo produttivo, dopodiché nella sfera della
circolazione si formano prezzi che, se sono di monopolio, attribuiscono al
monopolio parte del valore prodotto in misura maggiore di quanto altrimenti
sarebbe accaduto.
Questa proposizione di Marx è rigidamente coerente con la
teoria del valore lavoro: il valore è il lavoro oggettivato nelle merci, e la
forma di mercato entro cui questa oggettivazione avviene non ha nessuna
rilevanza rispetto all’entità di questa oggettivazione. Il plusvalore dipende
dal modo in cui il lavoro complessivo si ripartisce fra lavoro necessario e
pluslavoro: e in questa ripartizione, salvo questo caso che stiamo
considerando, di nuovo la forma di mercato non interviene. Quando è che
interviene la forma di mercato? Quando si deve stabilire come questo plusvalore
si ripartisce fra i vari capitali, ed eventualmente tra operai e capitalisti se
il salario è interessato a prezzi di monopolio e nella misura in cui lo sia.
Torniamo al testo di Baran e Sweezy. Il modo in cui essi
pongono questa questione non è chiaro, ma possiamo evitare di affrontare l’argomento.
Quello che possiamo [infatti] dire sulla base della precisazione di Marx è
questo: la tesi secondo cui il capitale monopolistico dà luogo ad una entità
particolarmente rilevante del sovrappiù non può essere intesa nel senso che il
capitale monopolistico produce più plusvalore di quanto ne sarebbe prodotto se
la situazione, anziché essere monopolistica, fosse concorrenziale; e che
dunque, se questa tesi di Baram a Sweezy ha un significato, deve avere qualche
altro significato, ma non questo. Quali altri significati può avere? Può avere
uno dei due seguenti significati, che del resto gli autori nominano, anche se
confusamente, nel testo:
Il primo può essere ricavato dalla seguente riflessione: ciò
che Marx dice nel pezzo che abbiamo letto è naturalmente riferito ad uno stadio
che si suppone dato delle sviluppo delle forze produttive: quindi, in termini
più immediati, si riferisce ad un certo stadio dello sviluppo della tecnologia,
della produttività del lavoro. Ad un certo livello di produttività del lavoro,
se il salario è alto allora c’è un certo plusvalore, che è quello che è
indipendentemente dalle forme di mercato. Se però si potesse affermare che, nel
caso del capitale monopolistico, c’è una crescita di produttività del lavoro
maggiore di quanto accadrebbe in una situazione concorrenziale, allora la tesi
di Baran e Sweezy avrebbe un senso, pur facendo del tutto salva la tesi esposta
da Marx nel brano letto.
Non si tratterebbe del fatto che, all’interno di una certa
produttività del lavoro, il capitale monopolistico, per assurdo, possa produrre
un plusvalore maggiore di quello che possa produrre il capitale concorrenziale,
ma si tratterebbe del fatto che il capitale monopolistico aumenterebbe la base
su cui il plusvalore è prodotto, cioè la produttività del lavoro, attraverso un
più accelerato sviluppo della tecnologia. Baran e Sweezy avanzavano spesso
questa tesi, che viene esposta in questa altra forma. A loro giudizio il
capitale monopolistico accelera il processo di riduzione dei costi unitari
rispetto al capitalismo di concorrenza. Questa accelerazione della riduzione
dei costi unitari è un modo diverso per dire che accelera il processo di
aumento della produttività del lavoro. Se questa tesi è giusta, allora è chiaro
che potrebbe essere attribuita al capitalismo monopolistico una tendenza ad
aumentare il plusvalore maggiore di quanto altrimenti si avrebbe.
[Questo] primo aspetto si può dunque spiegare facendo
ricorso all’aumento della produttività del lavoro.
Il secondo aspetto [o significato] che può rendere rilevante
la tesi di Baran e Sweezy è quello che è accennato, in una forma un po’
diversa, nel passo letto da Marx, e riguarda i salari. Qui Marx prende in
considerazione la possibilità che vi sia un trasferimento di valore dai
salariati ai capitalisti in conseguenza del fatto che alcune merci salario
hanno sul mercato un prezzo di monopolio. Allora in questo caso, sebbene il
salario dal punto di vista dei valori d’uso dell’operaio rimarrebbe invariato,
dal punto di vista del valore di scambio pagato dal capitalista [esso]
aumenterebbe a favore dei capitalisti che percepiscono il prezzo di monopolio.
Per generalizzare questo discorso di Marx, si può fare
questa osservazione. Qui la questione è un po’ dubbia. Perché? Se è vero che il
capitalista che produce la merce salario monopolizzata riceve attraverso questo
prezzo di monopolio un valore aggiuntivo, è anche vero che tutti gli altri
capitalisti devono pagare un salario maggiore ai loro operai e hanno
conseguentemente una diminuzione del profitto, e si potrebbe pensare che, sia
pure attraverso la mediazione del salario, si tratti sempre di trasferimento di
profitti dai capitalisti che non producono in condizioni di monopolio ai
capitalisti che producono in condizioni di monopolio. Questo però non significa
che non vi possa realmente essere un trasferimento di valore dai salariati ai
capitalisti in regime di monopolio in virtù di un altro meccanismo, meccanismo
a cui abbiamo fatto riferimento più di una volta sia pure in contesti diversi
[in questo corso] quando abbiamo studiato le relazioni tra
salario-profitto-produttività del lavoro.
Il ragionamento da farsi, sarebbe questo: abbiamo un
processo di incremento della produttività del lavoro, quale che esso sia, più o
meno rapido. A questo processo corrisponde, o potrebbe corrispondere, un certo
incremento del salario, in corrispondenza del quale il saggio del profitto
potrebbe mantenersi inalterato. Ma noi sappiamo anche che quando si fa questo
ragionamento il salario a cui ci si riferisce deve essere inteso come salario
reale (salario reale = rapporto tra salario monetario e livello generale dei
prezzi). In regime concorrenziale il tener distinto il salario monetario dal
salario reale non è molto importante, comportando il regime concorrenziale,
proprio in virtù della concorrenza, un congruo adeguamento dei prezzi ai costi,
dei prezzi ai valori. Quindi è lo stesso sistema dei prezzi che segue
l’andamento della produttività. Ma in regime monopolistico, come noi sappiamo,
questo non è più vero; i prezzi possono essere amministrati e manovrati, e per
giunta chi amministra e manovra i prezzi può determinare un aumento del livello
generale dei prezzi attraverso l’appoggio che venga dato a questa
amministrazione dei prezzi da parte dell’autorità monetaria attraverso
l’espansione della circolazione monetaria e le [conseguenti] facilitazioni
[all’aumento] dei prezzi.
Sulla base di questi presupposti il ragionamento può essere
ripreso, e potremmo dire questo: in regime monopolistico gli adeguamenti del
salario monetario agli incrementi della produttività vengono via via
falcidiati, in misura più o meno rilevante da un incremento del livello
generale dei prezzi che è reso possibile appunto dalla mancanza di concorrenza,
e con l’appoggio delle autorità monetarie. Il che significa, in altri termini,
che i movimenti del salario reale non seguono mai da vicino i movimenti del salario
monetario in regime di monopolio. In conseguenza di ciò l’aumento della
produttività che avviene in regime di monopolio, qualunque esso sia, si
trasforma molto più facilmente in profitti addizionali che non in salari
addizionali. Questo è un problema di rapporti di forza, e possono esserci delle
fasi in cui la spinta salariale, anche in termini reali, è tale da rovesciare
questo processo. Se noi facciamo riferimento ad una situazione più o meno
normale, possiamo arrivare a questa conclusione: che nel caso del capitale
monopolistico i movimenti del salario reale non sono così scontati come nel
caso di regime concorrenziale, perché i movimenti del salario reale sono
mediati da un movimento del salario monetario che è continuamente [contrastato]
dall’aumento dei prezzi connessi al regime di monopolio. In questo senso
dinamico, nel caso del capitale monopolistico noi abbiamo un trasferimento
verso i profitti a partire dai salari del valore addizionale creato
dall’incremento della produttività lavoro.
Se si fa un confronto tra la dinamica del capitale
monopolistico e la dinamica tradizionale del capitale concorrenziale si possono
notare due fatti. [La prima circostanza è] che il capitale monopolistico, in
conseguenza di una serie di circostanze che dobbiamo ancora esaminare, ha una
tendenza all’incremento della produttività del lavoro, e quindi alla riduzione
dei costi unitari, particolarmente rapida, e probabilmente più rapida di quella
che è storicamente avvenuta in regime concorrenziale, o più rapida di quella
che accadrebbe se la situazione industriale di oggi fosse gestita in forma
concorrenziale anziché monopolistica. Questo [è importante] per non fare delle
critiche romantiche al monopolio, critiche di tipo arretrato: questa tesi che
il monopolio comporta l’arretratezza – arretratezza tecnologica, arretratezza
nella spinta allo sviluppo capitalistico – non è valida, e Baran e Sweezy la
respingono. C’è questa spinta alla produttività del lavoro maggiore in questi
due sensi, e questo fatto di per sé, a parità di altre circostanze, e in
particolare a parità di salari, comporta un aumento più rapido del profitto.
Foto: Claudio Napoleoni |
D’altra parte i salari non si possono in generale supporre
fermi perché, per ragioni sindacali e politiche, [vi è una spinta salariale]
tanto più quanto più sono ampi i margini entro i quali questa spinta può essere
esercitata, e quindi tanto più fortemente quanto più rapido è l’incremento
della produttività. A questo punto interviene la seconda circostanza. Questa
spinta salariale, la quale darebbe luogo a certi frutti se il livello dei
prezzi rimanesse stabile, non dà luogo a questi frutti perché in regime
monopolistico il livello dei prezzi tende ad aumentare. In questo caso si ha un
trasferimento dai salari ai profitti, nel senso che il salario aumenta meno di
quanto sarebbe altrimenti aumentato se il livello dei prezzi fosse rimasto
costante: cioè, il profitto è aumentato più di quanto sarebbe aumentato se
avesse dovuto vivere dentro un regime di prezzi stabili. In forza di entrambe
le circostanze si può parlare di una tendenza del capitale monopolistico ad
avere un profitto maggiore di [quanto avverrebbe con] un capitale diversamente
strutturato.
Se questo è vero si giustifica la premessa su cui il libro è
basato, anche se tutto ciò è argomentato diversamente: il problema del realizzo
di questo ‘sovrappiù’ si pone in termini gravosi al capitale proprio per la sua
tendenza ad aumentare. Ancora una volta, occorre notare come ogni pratica che
aumenta il profitto all’interno del processo di produzione pone un problema
opposto sul terreno della realizzazione. Questo problema si pone in termini
esasperati nel caso del capitale monopolistico.
Trascrizione
di una lezione di Claudio Napoleoni nell’ambito del corso di Politica economica
e finanziaria presso l’Università di Torino, tenuta il 12 maggio 1973. Le
modifiche al testo dattiloscritto sono minime e, quando più significative,
segnalate tra parentesi quadre. Si ringrazia il Fondo Claudio Napoleoni,
costituito presso l’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali Antonio
Gramsci, unitamente ad Annalisa Sala, per il consenso alla pubblicazione del
testo. Testo a cura di Riccardo Bellofiore.
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