9/3/15

Appunti di critica marxista alle “Confessioni” di Varoufakis

Aristide Bellacicco   |   Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi hanno fatto sorgere più di una perplessità. Le sintetizzo – parzialmente e per punti – qui di seguito.

– 1. Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.”

Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio). E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore (e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.

– 2. Scrive Varoufakis:“L’Homo sapiens, nonostante abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza confronti di inflizione di orrori indicibili ai nostri fratelli, non avrebbe mai potuto immaginare il ruolo indegno che le macchine gli avrebbero assegnato in Matrix: bloccati in marchingegni che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci alimentano a forza con una miscela di nutrienti nauseanti adatti per la massima produzione di calore.”

Ora, molti di noi hanno visto “Matrix” per cui non mi dilungo sul film. Ma è fuor di dubbio che, rispetto alle macchine e al loro impatto sulla condizione umana – cioè, sul lavoro – Marx distingue nettamente il loro uso in senso capitalistico da quello – possibile – in una società dove le “macchine” siano sottratte al dominio della proprietà privata: nella prima esse diventano uno strumento di progressivo asservimento del lavoro: nella seconda potrebbero diventare uno strumento di progressiva liberazione dal lavoro. In Marx, il problema non risiede mai nella natura in sé delle cose, ma nei rapporti di produzione che assegnano alle cose – macchine comprese – il loro effettivo ruolo sociale. Fra le due diverse condizioni si sviluppa il tempo storico della rivoluzione socialista che non “facit saltus” ma si muove dentro le contraddizioni ereditate dal passato (vedi “Critica al Programma di Gotha”).

– 3. Scrive Varoufakis: “Il primo errore di Marx … fu l’essere insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Com’è che non mostrò alcuna preoccupazione che i suoi discepoli … potessero usare il potere donato loro…per abusare dei loro compagni, per costruire la propria base di potere, per conquistare posizioni di influenza, per approfittare di studenti impressionabili, eccetera?”. E poi: “Egli semplicemente non prese in considerazione la possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe spinto il capitalismo a diventare più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infettato dal virus del totalitarismo”.

Ora, qui si imputa a Marx di non aver avuto la preveggenza necessaria a intravedere i caratteri del tutto particolari che avrebbe assunto la Rivoluzione d’ottobre. Ma è un’imputazione legittima? Io penso di no e credo che, sulla base del semplice buon senso, si possa concordare con la mia posizione. A meno di non considerare Marx colpevole di tutto, compreso il delirio di Pol Pot o gli eccessi di Stalin. Ma equivarrebbe a considerare Democrito responsabile dell’invenzione e dell’utilizzo della bomba atomica. Inoltre, è davvero strano usare il termine “discepoli” riferito alla discendenza intellettuale di Marx, il quale una volta ebbe a dire, parlando di se stesso, “io non sono marxista”: ciò basti a chiarire la posizione intellettuale di un uomo che si considerava – ed era – uno scienziato e non il fondatore di una religione o di una setta iniziatica o gnostica. Infine, non sono affatto sicuro di come Marx avrebbe valutato l’esperienza sovietica: ma, certo, non in base alla fin troppo facile endiadi totalitarismo/democrazia (à la Arendt) . Immagino che avrebbe indagato, in forma storico – materialistica, le relazioni fra sottosviluppo industriale, società contadina e pregressa autocrazia e le forme politiche conseguenti e “necessarie” scaturite dal processo storico stesso.

– 4. Scrive Varoufakis:“Ci sono stati momenti in cui Marx si rese conto, e confessò, di aver sbagliato sul lato del determinismo. Una volta passato al terzo volume del Capitale…”(ecc.)

Ora, di quale determinismo si parla qui? Marx, per quanto ne so, dedicò gran parte della sua vita al tentativo di fornire, all’intero genere umano, un’analisi scientifica della forma di produzione capitalistica. Una volta scrisse: “il futuro non è affar mio”. Non sono certo le parole di un determinista. Questo non significa che tutte le affermazioni di Marx abbiano il carattere di verità incontrovertibili né che ogni suo tentativo di previsione si sia avverato: ma ciò deriva, appunto, dal carattere scientifico del suo lavoro. Inoltre, bisogna tenere presente che, a detta degli studiosi, Marx scrisse il primo libro de “Il capitale” per ultimo, e che successivamente non pubblicò nulla del pur ingente materiale già prodotto per i successivi sviluppi dell’opera. Per quale ragione? Forse stava osservando l’oggetto delle sue indagini – già allora in preda a terribili convulsioni? Forse aveva dei dubbi? In ogni caso, il lungo silenzio di Marx dopo la pubblicazione del primo libro de “Il Capitale” (circa sedici anni) è una spia eloquente, a mio avviso, di quanta attenzione egli rivolgesse all’effettivo dipanarsi storico del sistema capitalistico e del valore puramente euristico delle formule e delle equazioni a cui spesso fa ricorso.

– 5. Scrive Varoufakis:“Marx avvertì l’irreprimibile urgenza di domare persone come Citizen Weston che osavano preoccuparsi che un aumento del salario…potesse dimostrarsi una vittoria di Pirro se conseguentemente i capitalisti avessero spinto al rialzo i prezzi. Invece di solo discutere con persone come Weston, Marx era deciso a dimostrare con precisione matematica che sbagliavano, che erano antiscientifiche, grossolane, immeritevoli di seria attenzione”.

Esattamente: nel testo in questione (Salario, prezzo, profitto) Marx ribatte al rigido meccanicismo del cittadino Weston con argomenti che tendono a rintracciare la dinamica delle relazioni fra le diverse variabili prese in esame e al loro reciproco influenzarsi. E’ questo, io credo, il “modo serio” di discutere. E in effetti Marx aveva ragione: ma l’essenza del suo aver ragione non sta solo nei “risultati” – che forse sono validi ancor oggi – ma soprattutto nel metodo utilizzato, vale a dire nel non considerare mai l’universo socio-economico capitalistico come regolato da “leggi” trascendenti e assolute, valide magari, secondo l’economia volgare, per tutte le forme di produzione precedenti e dotate, perciò, di una sorta di universalità meta-storica. Al contrario, Marx pone in luce la dialettica immanente al sistema capitalistico che, diciamo così, è “costretto” a comportarsi secondo una logica dalla quale non può prescindere a meno di diventare qualcosa che esso non è. Ma, cosa ancora più importante, non è vero che Marx si “ostinasse a volere la storia, o il modello, ‘completa’, ‘conclusa’, l’’ultima parola”, come scrive Varoufakis. Non comprendo perché un marxista cada in questo equivoco. Ma forse lo comprendo e non gliene faccio una colpa: si tratta degli echi, presenti in noi tutti, di quel marxismo novecentesco che ha perduto il meglio dell’elasticità e della fluidità del pensiero di Marx sotto la spinta nefasta del dogmatismo e delle “Lezioni sul leninismo “ di G. Stalin.

– 6. La parte più interessante delle “Confessioni” di Varoufakis mi sembra, invece, quella relativa al periodo del tatcherismo. E’ lì, forse, che vengono in luce i nodi teorici più importanti che hanno via via spinto la sinistra comunista in una impasse dalla quale è lungi dall’uscire. Si potrebbe anche citare il Cile, ad esempio, o la Rivoluzione dei garofani in Portogallo . Sono questi argomenti sui quali, ancor oggi, varrebbe la pena di discutere approfonditamente a partire, io penso, dal tema della cosiddetta “centralità operaia” che tanta risonanza ebbe negli anni ’70. Si tratta di una fase nello sviluppo (o nell’inviluppo?) delle società capitaliste che forse, e in tal caso per forza di cose, sfuggì non solo all’osservazione, ma anche ai tentativi di previsione di Marx. Mi sembra, infine, che Varoufakis leghi la riflessione sul tatcherismo alla difficoltà – lealmente confessata – di proporre, oggi, un ‘agenda di sinistra “più radicale”. Non credo che nessuno di noi riesca a dargli torto su questo punto. Vedremo quello che succederà. E’ pur vero che il capitalismo è il modo più irragionevole e, insieme, più potente e maligno, che l’uomo abbia inventato per produrre e riprodurre la sua esistenza sulla terra. Ed è pur vero che la sua cecità è totale ed auto ed etero-distruttiva. Per concludere – ma senza concludere veramente – credo che l’ ipotesi di “salvare il capitalismo da se stesso” abbia una sua crepuscolare dignità. A patto però che si parli del capitalismo europeo e delle sue peculiari contraddizioni, di cui la Grecia paga attualmente il prezzo più alto. Ma è inutile nascondersi che qualsiasi ipotesi di una “ristrutturazione razionale” del capitalismo europeo deve fare i conti con la crisi del sistema di potere economico – militare nordamericano che sembra ormai orientarsi sempre di più ad una logica di guerra aperta economica e militare. Qui sta, io penso, la vera questione. Ed è terribile e dura e, se me lo consentite, richiede strumenti e capacità di analisi e organizzative che noi comunisti dobbiamo ancora, e di nuovo, costruire.
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