Karl Marx ✆ Holzschnitt |
► Il testo è una sintesi della
relazione presentata all’Università di Bergamo, al convegno internazionale
“Reading the Grundrisse” (Leggere i Grundrisse), organizzato dal dipartimento
di Scienze Economiche, nell’ambito dell’unità di ricerca Prin 2006 (coordinata
da Mario Cingoli dell’Università di Milano Bicocca), e promosso
dall’International Symposium of Marxian Theory e dalla rivista anglosassone
“Historical Materialism”
Riccardo
Bellofiore | I
Grundrisse sono un testo fondativo. L’enorme manoscritto va preso per quel
che è: una frenetica, e geniale, stenografia intellettuale. Un testo pieno di
ambiguità che hanno permesso letture contrapposte, caratterizzate ora
dall’estremo soggettivismo, ora dall’estremo oggettivismo. A me pare che vadano
letti in modo diverso da quello corrente, a “ritroso”, sullo sfondo del Capitale. Non nella sequenza inversa,
che si è in qualche modo imposta: i Grundrisse “prima” del Capitale. Il che scivola, prima o poi, negli uni “contro” l’altro. Nei Grundrisse
Marx, che ha già ben chiara la distinzione tra “capacità lavorativa vivente” e
il lavoro in quanto tale, come “attività”, si esprime ciò non di meno con
grande ambiguità: una ambiguità che scomparirà pressoché del tutto nel Capitale.
Marx parla, un po’
sbrigativamente, di scambio del “lavoro” con il capitale, uno scambio in cui il
lavoro viene ceduto al capitale, e il capitale ottiene in questo scambio stesso
ancora lavoro. Il lavoratore per la sua prestazione ottiene nient’altro che il
“valore” di questo “lavoro”. Se si leggono queste frasi a partire dal Capitale, il loro senso si scioglie. Di
altro non si parla se non della natura duplice del rapporto sociale tra
capitale e lavoro: segnato, da un lato, dalla “compravendita” sul mercato del
lavoro della forza-lavoro acquistata dal monte salari; dall’altro, dall'”uso” della
forza-lavoro nel processo di produzione.
Il primo momento, nella circolazione, apre al secondo
momento, nella produzione: alla estrazione (potenzialmente conflittuale) del
lavoro “in movimento” dal lavoratore; una “attività” che è per sua natura “fluida”,
in divenire. Tanto la forza-lavoro quanto il lavoro vivo sono inseparabili dal
lavoratore “libero”, in quanto essere umano socialmente determinato. Certo,
quell’ambiguità apre la strada alla visione del lavoro vivo “come
soggettività”, tipica dell’operaismo “ideologico”, dove il “lavoro vivo” può
identificarsi, a scelta o insieme, con la capacità di lavoro o con il
lavoratore, e talora riferirsi invece alla attività e alla non-attività (e
quindialla fine tutto è meno che “lavoro”).
Nei Grundrisse il
capitale si identifica con la tendenza universale alla estrazione massima,
illimitata, di lavoro “eccedente”, oltre il lavoro necessario. Sta qui il germe
dell’universalità del capitale, di un mondo di bisogni sempre più sviluppati,
di una laboriosità generale – del mercato mondiale. Per capire in che senso,
non possiamo fermarci alla produzione immediata e dobbiamo considerare la
circolazione delle merci. Il valore “ideale” deve attualizzarsi sul mercato
finale delle merci. Il capitale, nella spinta a massimizzare il plusvalore, ma
dunque anche a tendere all’estremo il lavoro eccedente oltre il lavoro
necessario, finisce con il comprimere il salario in termini relativi. Nella sua
forma “pura” questa tendenza si attua per il tramite dei metodi mirati all’estrazione
di plusvalore relativo, che conduce alla riduzione della quota dei salari sul
nuovo valore aggiunto, anche se il salario reale è in aumento (purché questo
aumento non ecceda l’aumento della forza produttiva del lavoro). Certo, i
lavoratori assunti dagli “altri” capitalisti sono parte del mercato. Il singolo
capitalista, se detesta la crescita dei salari dei propri lavoratori, non è
dispiaciuto dall’aumento dei salari dei lavoratori impiegati altrove. Questo
ragionamento non può però valere per il “capitale in generale”.
Se la valorizzazione è trainata dalla domanda, come si può
superare il problema del realizzo del valore delle merci? Nei Grundrisse Marx chiarisce come già con
l’estrazione del plusvalore assoluto, ma ancor più sistematicamente con quella
del plusvalore relativo, sia impensabile l’espansione di un capitale senza che
si abbia la costituzione contemporanea di altri capitali. Il che significa la
simultanea presenza di altri punti di lavoro e altri punti di scambio.
All’estendersi “quantitativo” e all’approfondimento “qualitativo” della
divisione dello scambio nel mercato deve corrispondere, affinché l’offerta
trovi ovunque una corrispettiva e adeguata domanda, il realizzarsi effettivo di
definiti e precisi rapporti quantitativi tra i rami di produzione. Queste vere
e proprie condizioni di “equilibrio” sono legate in modo necessario a un
determinato rapporto tra lavoro eccedente e lavoro necessario: dunque, al
saggio del plusvalore che si fissa nella produzione immediata. Esse dipendono,
inoltre, da come questo plusvalore si divide in consumo (spesa del plusvalore
come reddito) e investimento (spesa del plusvalore come capitale). Alle
relazioni in termini di “valore (di scambio)” devono corrispondere particolari
relazioni in termini di “valore d’uso” (materie prime, macchinari, lavoratori
ecc.), che devono essere disponibili in quantità e qualità adeguate.
Il problema non è tanto la “casualità” dei rapporti di
scambio in sé e per sé. E’ piuttosto il fatto che il saggio di plusvalore muta
continuamente, e una riproduzione “bilanciata” e in equilibrio non può a un
certo punto che essere infranta. La crisi di “sovrapproduzione di merci”
sopravviene per ragioni “interne” al capitale: ha origine ultima nella
produzione. La crisi da meramente “possibile” diviene sempre più “probabile”: e
proprio la sua dilazione grazie al credito la renderà più devastante nel
momento in cui essa si verificherà.
Il lavoro astratto non è, semplicemente, il lavoro di un
generico produttore in una società di scambio generale di merci. E’,
soprattutto, il lavoro dei produttori separati di una società capitalistica,
del lavoratore collettivo organizzato nelle imprese, nei molti capitali in
concorrenza: è il lavoro vivo del salariato. La prestazione del lavoratore
salariato tende a perdere “ogni carattere d’arte”. Ma c’è dell’altro. Il lavoro
del lavoratore salariato è “privo di oggetto”. Caratteristica che investe tutte
le dimensioni del “lavoro”. Investe la “capacità lavorativa vivente”. Il
lavoratore non ha proprietà o possesso dei mezzi di produzione: non può
procurarsi i mezzi di sussistenza, ed è costretto ad alienare la propria
forza-lavoro al capitalista. Investe il lavoro in quanto “attività”, in quanto
l’uso di tale capacità è ormai “di altri”. In quanto prodotto di una attività
ormai essa stessa “estranea”, lo stesso valore d’uso non gli appartiene. Il
lavoratore è il “povero assoluto”, quale che sia la sua retribuzione.
Quando Marx giunge alla considerazione del modo di
produzione “specificamente” capitalistico diviene più chiaro che le proprietà
“concrete” del lavoro, così come la forza produttiva del lavoro sociale, sono
in qualche modo prodotte, dal capitale stesso, che ha preso un corpo. Un “corpo
materiale”, un “corpo meccanico”, dai tratti mostruosi, che rende interna al
lavoro oggettivato e morto l’alterità del lavoro vivo, perché immette in sé la
capacità di lavoro, e dunque i lavoratori in carne ed ossa. Quel mostro a
questo punto inizia a lavorare “come se avesse amore in corpo”. Il lavoro
“concreto” non scompare affatto. Il punto semmai è che le “qualità” concrete
vengono oramai attribuite al lavoratore collettivo, ma dunque all’impresa nel
suo complesso unitario di fattori “oggettivi” e “soggettivi”, da una volontà e
una coscienza “esterni”.
I mezzi di produzione non sono più strumenti del lavoro: al
contrario, è il lavoro che diviene strumento dei suoi strumenti. Questa
inversione è essenziale a produrre quell’incremento della forza produttiva del
lavoro sociale che si mistifica come “produttività del capitale”. Sembra
proprietà delle “cose” stesse in quanto cose (mezzi di produzione, denaro)
quella di produrre, per natura, plusvalore e plusprodotto. Questo feticismo, ci
dirà meglio il Capitale , discende dal “carattere di feticcio” del capitale:
davvero quelle “cose”, quando stanno dentro il rapporto sociale capitalistico,
hanno quelle proprietà “sovrasensibili”. Non per natura, ma per la natura del
capitale. Il “sociale” della cooperazione dentro il lavoro è imposto ai
lavoratori dal capitale. Non è affatto una illusione. La “ricchezza”, cioè i
valori d’uso, quantitativamente e qualitativamente, dipendono sempre di più
anche dall’impiego del General Intellect .
Il
“Frammento sulle macchine”, come può essere valutato? La riduzione del
tempo di lavoro cristallizzato nella merce singola significa che si riduce il
tempo di lavoro (pagato dal capitale) che è necessario destinare a riprodurre
nel tempo la classe dei lavoratori secondo un certo livello di “sussistenza”.
In forza del continuo aumento della produttività del lavoro a cui dà vita il
capitale si libera tempo “superfluo”, come tempo reso “disponibile”. Potrebbe
darsi allora quella parziale liberazione “dal” lavoro che è condizione affinché
si renda possibile la liberazione “del” lavoro stesso su cui insiste Marx in
queste stesse pagine (si leggano i brani sulla visione del lavoro in Smith).
Solo allora il lavoro potrebbe divenire il primo bisogno. Il peccato mortale
del capitalismo, per Marx, è proprio quello di negare questa possibilità. La
totalizzazione, assorbente ed esclusiva, del lavoro finisce con l’uccidere la
dimensione attiva dell’essere umano.
Il Marx del Capitale
ci dice che la dinamica immanente del capitalismo fa sì che il tempo di lavoro
“disponibile” rimanga costretto nella gabbia del tempo di lavoro eccedente. Le
stesse macchine che “incorporano” il General Intellect portano con sé un giro
di vite nell’estrazione di plusvalore assoluto. Di più, l’estensione del tempo
di lavoro si accompagna a una sua maggiore intensità. Si impone la “simultaneità”
dei tempi dello sfruttamento. Viene negata alla radice qualsiasi visione
sequenziale, in favore di una visione circolare (meglio, a “spirale”), del
rapporto tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo.
Il brano sul General Intellect e sul “crollo” della
produzione basata sul valore di scambio non può essere letto separatamente da
quella tendenza alla sovrapproduzione generale di merci che mette radicalmente
in dubbio la possibilità che il maggior valore d’uso prodotto si confermi come
valore di scambio sul mercato finale. La potenziale riduzione del tempo di
lavoro non può realizzarsi, in forza della inesausta fame di lavoro “vivo” e di
surplus-lavoro del capitale. Si potrebbe dire così. Il capitale che si espande
ha bisogno di più mercato. Un’estensione del mercato richiede uno sviluppo dei
bisogni, il che a sua volta comporta la costituzione di “individui
universalmente sviluppati”. Ma individui universalmente sviluppati si danno
solo se a un certo punto si attua una riduzione del tempo di lavoro. Solo se,
in altri termini, il tempo di lavoro disponibile non si traduce integralmente
in tempo eccedente di lavoro, ma anche in tempo dedicato ad altro che non sia
la produzione. Questo è però esattamente ciò che il capitale, in forza della
propria natura, non può consentire se non forzato dal conflitto ed entro limiti
determinati.
La tendenza alla massimizzazione del (plus)lavoro conduce al
concretizzarsi, prima o poi, di un limite al capitale posto dal capitale
stesso: perché questo significa la crisi generale dal lato della domanda, come
esito della dinamica della produzione. E’ per questo che il “furto del tempo di
lavoro altrui” diviene una “base miserabile” per lo sviluppo delle forze
produttive. Non vi è nessun meccanicismo, ma si rimanda alla crisi e alla sua
sorgente nella dinamica di classe a partire dalla produzione.
Título original:
“Come se avesse l’amore in corpo”. Rileggere i Grundrisse dopo il Capitale”