24/9/14

Rileggere i ‘Grundrisse’ dopo il Capitale

Karl Marx ✆ Holzschnitt
Il testo è una sintesi della relazione presentata all’Università di Bergamo, al convegno internazionale “Reading the Grundrisse” (Leggere i Grundrisse), organizzato dal dipartimento di Scienze Economiche, nell’ambito dell’unità di ricerca Prin 2006 (coordinata da Mario Cingoli dell’Università di Milano Bicocca), e promosso dall’International Symposium of Marxian Theory e dalla rivista anglosassone “Historical Materialism”

Riccardo Bellofiore   |   I Grundrisse sono un testo fondativo. L’enorme manoscritto va preso per quel che è: una frenetica, e geniale, stenografia intellettuale. Un testo pieno di ambiguità che hanno permesso letture contrapposte, caratterizzate ora dall’estremo soggettivismo, ora dall’estremo oggettivismo. A me pare che vadano letti in modo diverso da quello corrente, a “ritroso”, sullo sfondo del Capitale. Non nella sequenza inversa, che si è in qualche modo imposta: i Grundrisse “prima” del Capitale. Il che scivola, prima o poi, negli uni “contro” l’altro. Nei Grundrisse Marx, che ha già ben chiara la distinzione tra “capacità lavorativa vivente” e il lavoro in quanto tale, come “attività”, si esprime ciò non di meno con grande ambiguità: una ambiguità che scomparirà pressoché del tutto nel Capitale

Marx parla, un po’ sbrigativamente, di scambio del “lavoro” con il capitale, uno scambio in cui il lavoro viene ceduto al capitale, e il capitale ottiene in questo scambio stesso ancora lavoro. Il lavoratore per la sua prestazione ottiene nient’altro che il “valore” di questo “lavoro”. Se si leggono queste frasi a partire dal Capitale, il loro senso si scioglie. Di altro non si parla se non della natura duplice del rapporto sociale tra capitale e lavoro: segnato, da un lato, dalla “compravendita” sul mercato del lavoro della forza-lavoro acquistata dal monte salari; dall’altro, dall'”uso” della forza-lavoro nel processo di produzione.

Il primo momento, nella circolazione, apre al secondo momento, nella produzione: alla estrazione (potenzialmente conflittuale) del lavoro “in movimento” dal lavoratore; una “attività” che è per sua natura “fluida”, in divenire. Tanto la forza-lavoro quanto il lavoro vivo sono inseparabili dal lavoratore “libero”, in quanto essere umano socialmente determinato. Certo, quell’ambiguità apre la strada alla visione del lavoro vivo “come soggettività”, tipica dell’operaismo “ideologico”, dove il “lavoro vivo” può identificarsi, a scelta o insieme, con la capacità di lavoro o con il lavoratore, e talora riferirsi invece alla attività e alla non-attività (e quindialla fine tutto è meno che “lavoro”).

Nei Grundrisse il capitale si identifica con la tendenza universale alla estrazione massima, illimitata, di lavoro “eccedente”, oltre il lavoro necessario. Sta qui il germe dell’universalità del capitale, di un mondo di bisogni sempre più sviluppati, di una laboriosità generale – del mercato mondiale. Per capire in che senso, non possiamo fermarci alla produzione immediata e dobbiamo considerare la circolazione delle merci. Il valore “ideale” deve attualizzarsi sul mercato finale delle merci. Il capitale, nella spinta a massimizzare il plusvalore, ma dunque anche a tendere all’estremo il lavoro eccedente oltre il lavoro necessario, finisce con il comprimere il salario in termini relativi. Nella sua forma “pura” questa tendenza si attua per il tramite dei metodi mirati all’estrazione di plusvalore relativo, che conduce alla riduzione della quota dei salari sul nuovo valore aggiunto, anche se il salario reale è in aumento (purché questo aumento non ecceda l’aumento della forza produttiva del lavoro). Certo, i lavoratori assunti dagli “altri” capitalisti sono parte del mercato. Il singolo capitalista, se detesta la crescita dei salari dei propri lavoratori, non è dispiaciuto dall’aumento dei salari dei lavoratori impiegati altrove. Questo ragionamento non può però valere per il “capitale in generale”.

Se la valorizzazione è trainata dalla domanda, come si può superare il problema del realizzo del valore delle merci? Nei Grundrisse Marx chiarisce come già con l’estrazione del plusvalore assoluto, ma ancor più sistematicamente con quella del plusvalore relativo, sia impensabile l’espansione di un capitale senza che si abbia la costituzione contemporanea di altri capitali. Il che significa la simultanea presenza di altri punti di lavoro e altri punti di scambio. All’estendersi “quantitativo” e all’approfondimento “qualitativo” della divisione dello scambio nel mercato deve corrispondere, affinché l’offerta trovi ovunque una corrispettiva e adeguata domanda, il realizzarsi effettivo di definiti e precisi rapporti quantitativi tra i rami di produzione. Queste vere e proprie condizioni di “equilibrio” sono legate in modo necessario a un determinato rapporto tra lavoro eccedente e lavoro necessario: dunque, al saggio del plusvalore che si fissa nella produzione immediata. Esse dipendono, inoltre, da come questo plusvalore si divide in consumo (spesa del plusvalore come reddito) e investimento (spesa del plusvalore come capitale). Alle relazioni in termini di “valore (di scambio)” devono corrispondere particolari relazioni in termini di “valore d’uso” (materie prime, macchinari, lavoratori ecc.), che devono essere disponibili in quantità e qualità adeguate.

Il problema non è tanto la “casualità” dei rapporti di scambio in sé e per sé. E’ piuttosto il fatto che il saggio di plusvalore muta continuamente, e una riproduzione “bilanciata” e in equilibrio non può a un certo punto che essere infranta. La crisi di “sovrapproduzione di merci” sopravviene per ragioni “interne” al capitale: ha origine ultima nella produzione. La crisi da meramente “possibile” diviene sempre più “probabile”: e proprio la sua dilazione grazie al credito la renderà più devastante nel momento in cui essa si verificherà.

Il lavoro astratto non è, semplicemente, il lavoro di un generico produttore in una società di scambio generale di merci. E’, soprattutto, il lavoro dei produttori separati di una società capitalistica, del lavoratore collettivo organizzato nelle imprese, nei molti capitali in concorrenza: è il lavoro vivo del salariato. La prestazione del lavoratore salariato tende a perdere “ogni carattere d’arte”. Ma c’è dell’altro. Il lavoro del lavoratore salariato è “privo di oggetto”. Caratteristica che investe tutte le dimensioni del “lavoro”. Investe la “capacità lavorativa vivente”. Il lavoratore non ha proprietà o possesso dei mezzi di produzione: non può procurarsi i mezzi di sussistenza, ed è costretto ad alienare la propria forza-lavoro al capitalista. Investe il lavoro in quanto “attività”, in quanto l’uso di tale capacità è ormai “di altri”. In quanto prodotto di una attività ormai essa stessa “estranea”, lo stesso valore d’uso non gli appartiene. Il lavoratore è il “povero assoluto”, quale che sia la sua retribuzione.

Quando Marx giunge alla considerazione del modo di produzione “specificamente” capitalistico diviene più chiaro che le proprietà “concrete” del lavoro, così come la forza produttiva del lavoro sociale, sono in qualche modo prodotte, dal capitale stesso, che ha preso un corpo. Un “corpo materiale”, un “corpo meccanico”, dai tratti mostruosi, che rende interna al lavoro oggettivato e morto l’alterità del lavoro vivo, perché immette in sé la capacità di lavoro, e dunque i lavoratori in carne ed ossa. Quel mostro a questo punto inizia a lavorare “come se avesse amore in corpo”. Il lavoro “concreto” non scompare affatto. Il punto semmai è che le “qualità” concrete vengono oramai attribuite al lavoratore collettivo, ma dunque all’impresa nel suo complesso unitario di fattori “oggettivi” e “soggettivi”, da una volontà e una coscienza “esterni”.

I mezzi di produzione non sono più strumenti del lavoro: al contrario, è il lavoro che diviene strumento dei suoi strumenti. Questa inversione è essenziale a produrre quell’incremento della forza produttiva del lavoro sociale che si mistifica come “produttività del capitale”. Sembra proprietà delle “cose” stesse in quanto cose (mezzi di produzione, denaro) quella di produrre, per natura, plusvalore e plusprodotto. Questo feticismo, ci dirà meglio il Capitale , discende dal “carattere di feticcio” del capitale: davvero quelle “cose”, quando stanno dentro il rapporto sociale capitalistico, hanno quelle proprietà “sovrasensibili”. Non per natura, ma per la natura del capitale. Il “sociale” della cooperazione dentro il lavoro è imposto ai lavoratori dal capitale. Non è affatto una illusione. La “ricchezza”, cioè i valori d’uso, quantitativamente e qualitativamente, dipendono sempre di più anche dall’impiego del General Intellect .

Il “Frammento sulle macchine”, come può essere valutato? La riduzione del tempo di lavoro cristallizzato nella merce singola significa che si riduce il tempo di lavoro (pagato dal capitale) che è necessario destinare a riprodurre nel tempo la classe dei lavoratori secondo un certo livello di “sussistenza”. In forza del continuo aumento della produttività del lavoro a cui dà vita il capitale si libera tempo “superfluo”, come tempo reso “disponibile”. Potrebbe darsi allora quella parziale liberazione “dal” lavoro che è condizione affinché si renda possibile la liberazione “del” lavoro stesso su cui insiste Marx in queste stesse pagine (si leggano i brani sulla visione del lavoro in Smith). Solo allora il lavoro potrebbe divenire il primo bisogno. Il peccato mortale del capitalismo, per Marx, è proprio quello di negare questa possibilità. La totalizzazione, assorbente ed esclusiva, del lavoro finisce con l’uccidere la dimensione attiva dell’essere umano.

Il Marx del Capitale ci dice che la dinamica immanente del capitalismo fa sì che il tempo di lavoro “disponibile” rimanga costretto nella gabbia del tempo di lavoro eccedente. Le stesse macchine che “incorporano” il General Intellect portano con sé un giro di vite nell’estrazione di plusvalore assoluto. Di più, l’estensione del tempo di lavoro si accompagna a una sua maggiore intensità. Si impone la “simultaneità” dei tempi dello sfruttamento. Viene negata alla radice qualsiasi visione sequenziale, in favore di una visione circolare (meglio, a “spirale”), del rapporto tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo.

Il brano sul General Intellect e sul “crollo” della produzione basata sul valore di scambio non può essere letto separatamente da quella tendenza alla sovrapproduzione generale di merci che mette radicalmente in dubbio la possibilità che il maggior valore d’uso prodotto si confermi come valore di scambio sul mercato finale. La potenziale riduzione del tempo di lavoro non può realizzarsi, in forza della inesausta fame di lavoro “vivo” e di surplus-lavoro del capitale. Si potrebbe dire così. Il capitale che si espande ha bisogno di più mercato. Un’estensione del mercato richiede uno sviluppo dei bisogni, il che a sua volta comporta la costituzione di “individui universalmente sviluppati”. Ma individui universalmente sviluppati si danno solo se a un certo punto si attua una riduzione del tempo di lavoro. Solo se, in altri termini, il tempo di lavoro disponibile non si traduce integralmente in tempo eccedente di lavoro, ma anche in tempo dedicato ad altro che non sia la produzione. Questo è però esattamente ciò che il capitale, in forza della propria natura, non può consentire se non forzato dal conflitto ed entro limiti determinati.

La tendenza alla massimizzazione del (plus)lavoro conduce al concretizzarsi, prima o poi, di un limite al capitale posto dal capitale stesso: perché questo significa la crisi generale dal lato della domanda, come esito della dinamica della produzione. E’ per questo che il “furto del tempo di lavoro altrui” diviene una “base miserabile” per lo sviluppo delle forze produttive. Non vi è nessun meccanicismo, ma si rimanda alla crisi e alla sua sorgente nella dinamica di classe a partire dalla produzione.

Título original: “Come se avesse l’amore in corpo”. Rileggere i Grundrisse dopo il Capitale”