John Maynard Keynes ✆ A.d. |
Moreno Pasquinelli |
L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in
pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia
liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura
squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo
egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti.
Il secondo, di carattere economico, considera il mercato il sistema che
meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione.
Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe
rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge
l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite
subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto
inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale
e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo
contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del
capitalismo e delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della
necessità e fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti
confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi
intellettuali di
sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di
dichiararsi marxisti.
Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del
pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la
maggior parte degli economisti (di quelli seri, non per forza di quelli che
usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si considera keynesiana.
Essendo tra quelli che più decisamente insistono sulla
centralità assoluta del discorso sulla crisi —di qui la nostra insistenza per
lo sganciamento dall’Unione europea e l’abbandono della moneta unica come
precondizioni necessarie per venirne fuori—, di questo revival keynesiano,
ne sappiamo qualcosa. Dieci economisti keynesiani su dieci condannano senza
appello le politiche delle euro-oligarchie e della Bce. Tra questi solo una
minoranza, partigiana dell’Unione, ritiene che l’euro sia compatibile con le terapie
keynesiane e implora la Bce affinché inverta la rotta. La maggioranza di loro
sostiene invece che l’euro è comunque condannato e propugna il ritorno
alle sovranità monetarie statuali. Avrete capito perché di keynesiani ne
sappiamo qualcosa: con i migliori di loro —quelli che non solo invocano
astrattamente la fine delle politiche di macelleria sociale ma che sostengono
come necessaria la riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria—
abbiamo in comune il nemico, e logica vuole che le forze si uniscano.
La teoria di Keynes
La pretesa di molti scienziati è quella di considerarsi tali
nella misura in cui essi pensano di spiegare i fatti così come sono,
standosene alla larga dai giudizi di valore. Vogliono dirci che essi sono
immuni da condizionamenti ideologici e culturali, che le loro asseverazioni
sono estranee alla dispute sociali e politiche, al di sopra di ogni visione del
mondo. Ovviamente non è vero, e Keynes non era tanto stolto dal pensarlo. Egli,
malgrado avesse colto alcune delle contraddizioni profonde insite nel sistema
capitalistico, non ha mai nascosto la sua predilezione per questo sistema, ne
ha mai fatto mistero della sua avversione verso "l'utopia comunista".
Keynes si considerava anzi il medico la cui missione era appunto curare il
capitalismo dalle sue malattie congenite, capitalismo che se lasciato a se
stesso sarebbe anzi andato incontro alla morte. La differenza con Marx, che
sosteneva come le "malattie" del capitalismo non fossero curabili, e
quindi proponeva di fare leva su di esse per abbatterlo e superarlo, non può
essere più evidente.
Questa differenza non attiene solo alla sfera politica: le
"malattie" o contraddizioni congenite del capitalismo intraviste da
Keynes non erano quelle individuate da Marx.
L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la
devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento
una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta
la neutralità della moneta considerata solo un numerario e mezzo di scambio) il
mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia
di beni che di capitali. Secondo l’ortodossia liberista poi, eventuali
perturbazioni momentanee, potevano dipendere solo da due fattori, o dalla
mancanza di rigore monetario o dall’aumento eccessivo dei salari. In sostanza:
per Keynes il mercato, lasciato a sé stesso, non assicurava né la piena
occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.
Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le
aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale
il denaro non fungeva solo da parametro per misurare valori/prezzi e come mezzo
di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione.
Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di
sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad
abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il
materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.
In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato
non solo non c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni;
non esiste alcuna garanzia che il risparmio e i profitti accumulati ritornino
nel mercato sotto forma d’investimenti; il che coodetermina la crisi, la
stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge
sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la
qual cosa accresce la quota di essi destinata al risparmio e alla
tesaurizzazione, invece che agli investimenti.
Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e
solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio
tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? E di chiudere la forbice
tra la massa accumulata di denaro che se ne sta ferma tesaurizzata e quella
decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su
due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e
colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la
liquidità”). Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato
non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una
forza esterna ad essi, l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma
pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in
quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta)
lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e
monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e
quattro.
In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti
privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria
flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così
la tesaurizzazione —o l’eccessivo accumulo di risparmi. In seconda
battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare
adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa
attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi —che per
Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. Questa politica fiscale
dovrebbe anzitutto penalizzare le rendite e la classe rentier dedita
alla speculazione finanziaria parassitaria, premiando invece il capitale
produttivo incoraggiandolo all’investimento. Infine Keynes proponeva che lo
Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una una
politica di deficit spending, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo
titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in
eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di
occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso.
Questa, esposta in modo certamente schematico ma ci
auguriamo obiettivo, la teoria economica di Keynes. Prima di Passare al
pensiero di Marx due sole considerazioni.
La prima. Ognuno considererà la teoria di Keynes una “teoria
di sinistra”. Ed essa infatti lo è, se consideriamo che la sinistra attuale
tutta, non escluse le correnti cosiddette “antagoniste”, quando espongono le
loro ricette anti-crisi, non fanno che riproporre, il più delle volte
timidamente, le proposte dell’economista inglese. Lo è se infine attribuiamo al
sostantivo “sinistra” solo un generico significato descrittivo (senza nessuna
qualificazione di classe si sarebbe detto un tempo) ed allora tutto è
“sinistra”, basta che ci si collochi al di qua del limes del
liberismo economico —per cui, se solo si fosse conseguenti, non solo settori
illuminati di borghesia sono “di sinistra”, ma pure fascisti tutti di un pezzo
o cattolici reazionari incalliti.
La seconda. Occorrerà pur sfatare la leggenda che il
capitalismo uscì dalla catastrofica crisi del ’29 grazie all’adozione delle
terapie keynesiane. Esse in effetti vennero adottate, non solo negli USA
col New Deal roosveltiano e in Gran Bretagna, ma pure nella
Germania nazista e nell’Italia fascista (parli del diavolo e spuntano le
corna). Ebbene la piena occupazione e la ripresa economica non ci furono né
negli USA né in Gran Bretagna. Ci riuscì solo la Germania, altrimenti detto
grazie al colossale piano di spesa pubblica finalizzata al riarmo e agli
ingegnosi stratagemmi di politica monetaria di Schacht. Solo dopo la seconda
grande guerra mondiale il capitalismo occidentale imboccò la via di un ciclo
lungo di accumulazione e sviluppo, quindi, solo dopo immani distruzioni di
forze produttive, le ricette keynesiane poterono dare dei risultati.
La teoria di Marx
Marx non nacque economista, ma filosofo della storia. Giunse
a sistematici e impressionanti studi economici sul capitalismo moderno dopo la
sua più importante e controversa scoperta teorica: il materialismo storico.
Il capitalismo è solo l’ultimo venuto nella processione dei
diversi sistemi sociali e, come quelli che l’hanno preceduto, anch’esso è
destinato a perire, lasciando il posto, dopo un periodo di convulsioni sociali,
ad un sistema nuovo i cui elementi esso contiene in grembo. Occorre quindi:
(1) riconoscere di ogni sistema sociale, le fasi di genesi, di sviluppo e di decadenza;
(2) individuare le contraddizioni che ogni sistema sociale, nativamente, contiene, e con ciò le ragioni, se il caso le leggi, per cui un dato sistema sociale perisce;
(3) identificare quindi le forze sociali rivoluzionarie che spezzano i vecchi rapporti sociali, che sono portatrici di un più avanzato sistema sociale e che sono destinate a prendere il sopravvento.
Il fatto che Marx abbia appoggiato la sua analisi del
capitalismo su questa base fa dire agli economisti della cattedra che essa è
priva di fondamento scientifico. Noi siamo di diverso avviso: riteniamo che
l’economia politica possa assurgere al rango di scienza solo in quanto
disciplina storico-economica. Marx criticò infatti gli economisti del suo tempo
come "ideologi borghesi", in quanto anche loro partivano da una
visione (falsa) della storia e del mondo, secondo cui il capitalismo sarebbe
eterno e immutabile —la qual cosa li spingeva a compiere un’analisi normativa e
superficiale che impediva di cogliere le più intime leggi di movimento del
capitalismo. Questa critica marxiana, come ognuno comprende, la si può
rivolgere anche a Keynes. Quest’ultimo infatti privava il sistema borghese del
suo carattere storico transeunte. Di qui l’idea che le
"disfunzioni" di cui esso è vittima fossero appianabili grazie
all’intervento correttivo e terapeutico della pubblica autorità, dello Stato
cioè, che egli considerava come ente neutrale e salvifico.
Marx la pensava diversamente, e non perché escludesse che in
linea di principio lo Stato borghese, proprio in virtù del suo essere strumento
della classe dominante nel suo insieme, non potesse svolgere un ruolo suo
proprio, a tutela dell’ordinamento sistemico anche elevandosi sopra la lotta
accanita tra le diverse frazioni del capitale. Egli riteneva che il modo
capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro
leggi principali:
(1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere;
(2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente;
(3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze sociali devastanti;
(4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.
Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del
capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione [sulle crisi
di sovrapproduzione vedi: Marx
il capitalismo e le sue crisi, e Alle
origini del declino dell’Occidente], queste possono essere parziali oppure
generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi. E’ proprio quando
l’economia incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e
forze produttive devono essere necessariamente distrutte, con
conseguenze sociali catastrofiche, con la società sospinta indietro di decenni.
Tuttavia è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa
del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di accumulazione e
crescita, destinato a sua volta a sfociare in una nuova crisi.
Lo Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici
delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, il suo intervento non
può mai essere risolutivo. In ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi
alle fisiologiche necessità della classe economicamente dominante e quindi,
dentro la crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per
scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato soffocando la sua spinta
emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a
capitalismi concorrenti.
La storia ha confermato le analisi di Marx. I suoi
detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di
un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità da nessuna parte
Marx ha sostenuto, apertis verbis, che il capitalismo fosse destinato
al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un
meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo “crollo”,
come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo
storico di convulsioni. E ove la classe antagonista a quella capitalistica si
rivelasse incapace di prendere in mano le redini della società, questa potrebbe
sprofondare in una barbarie con l’annientamento delle due principali classi in
lotta.
Non vi aspettate che Marx abbia consigliato alla borghesia
eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un
rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa
consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema —che le
crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di
produzione—, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di
oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema
socialista. Cosa infatti ci avrebbe detto Marx davanti a questa nuova crisi
generale? Ci avrebbe detto, pur tenendo conto delle tappe necessarie, di non
indugiare a cercare soluzione parziali o palliativi; ci avrebbe detto di
organizzarci ed agire per farla finita una volta per sempre col capitalismo
poiché, ammesso che esso possa uscire da questa crisi, ciò avverrebbe con costi
sociali inusitati, anzitutto a spese del lavoro salariato e del popolo
lavoratore, con la certezza che in un periodo più o meno breve ci sarebbe
trovati da capo a dodici, alle prese con un’altra crisi devastante. Ci avrebbe
detto di batterci per la sola alternativa pensabile: il socialismo.
Non dobbiamo farci ingannare dalle disquisizioni sofistiche:
l’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la
comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari
delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica,
finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico?
Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran
parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli
spirituali e culturali sarebbero menomati.
Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto,
occorre sottrarre i grandi mezzi di produzione e di scambio dal dominio
proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a
fare i suoi propri egoistici interessi, facendo diventare quei mezzi di
produzione, al parti di tutti gli altri, beni comuni, proprietà sociale.
Abbiamo dunque in mente di statizzare l’economia e di
applicare una rigida pianificazione? Per niente. La statizzazione è solo una
forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la statizzazione verticistica,
che farebbe della burocrazia statale un demiurgo autoritario, e la completa e
orizzontale autogestione, possono esistere innumerevoli soluzioni mediane. E
della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai liberisti, ne
esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in barba alla “mano
invisibile del mercato” conosce plurime forme di pianificazione —cos’altro è la
politica economica keynesiana se non una pianificazione generale?
Non solo lo Stato programma e pianifica le sue attività, e
le politiche seguite dai governi ne sono una cristallina espressione. Si prenda
l'esempio dell'Italia: lo Stato muove la metà circa del Pil, ne viene fuori che
esso non solo pianifica fin nei minimi dettagli come reperire le entrate e
aumentarle (ovvero come spennare scientificamente il popolo lavoratore
graziando i possidenti di grandi capitali, anzitutto finanziari). Fanno
altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che crollerebbero facilmente
se non pianificassero fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal
reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito.
Solo un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità
che affligge il capitalismo: lasovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile
sperpero di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di
produzione e beni (sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili
alla società e dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso
irreversibili al nostro pianeta.
Che un giorno più o meno lontano possa realizzarsi un “socialismo
perfetto”, questo lo decideranno le future generazioni. Questa generazione ha
un compito forse più modesto ma decisivo: fare da battistrada, aprire la via al
socialismo, sapendo che la rivoluzione sociale è sì una palingenesi ma non una
catarsi, che la rivoluzione è pur sempre un processo, fatto di fasi e momenti.
Sapendo che occorrerà passare per tappe successive, ognuna concatenata
all’altra, ma il cui primo atto è necessariamente strappare, per mezzo della
sollevazione del popolo lavoratore, il potere politico statale dalle mani della
classe oggi dominante, ovvero dei suoi settori più oltranzisti e liberisti.
Solo disponendo di questa leva sarà infatti possibile attuare le grandi e le
piccole trasformazioni per una società liberata dalla catene del capitale e per
una vita degna di questo nome, non solo per pochi privilegiati, ma per tutti.