Karl Marx ✆ A.d. |
Luigi Pandolfi | Sono sempre più persuaso che nel modo in cui
si presenta l’attuale fase di sviluppo del capitalismo su scala globale, con le
cicliche e perduranti crisi che l’accompagnano, alcune delle categorie e delle
intuizioni marxiane possono rivelarsi ancora utili nella comprensione di
fenomeni sociali ed economici complessi. Proprio la riscoperta del filosofo di
Treviri in questo delicato frangente, segnato dalla crisi di un’economia in cui
la componente finanziaria ha decisamente preso il sopravvento, dimostra come la
necessità di una critica dell’esistente si accompagni sempre più a quella di
riferimenti interpretativi forti, che aiutino la comprensione della realtà. La
crisi della politica non è quella che generalmente ci raccontano, parlando di
stipendi della casta o di altre cose simili: essa è data dall’incapacità della
stessa di corrispondere alle sfide di questa modernità, dal suo essere
degenerata in politicantismo. Non sto proponendo un ritorno al passato, né
credo che certi modelli di ieri siano riproponibili oggi. Non penso nemmeno che
la foto di Karl Marx debba essere di nuovo appesa sui muri delle sezioni e
venerata come si trattasse di una divinità. No. Propongo solamente una
riflessione sui dilemmi del tempo presente, avvalendomi, per quanto è possibile,
di qualche strumento che per tanti anni ha aiutato la comprensione della
realtà, tonificando per questo anche l’azione.
Per non limitarci ad
enunciazioni di principio, facciamo però qualche esempio. Il cuore della
critica marxiana delle forme di
sfruttamento nelle società capitalistiche è
quello che affronta il tema della mercificazione del lavoro e
dell’appropriazione, da parte dei capitalisti, del cosiddetto pluslavoro,
inteso come frazione di salario non corrisposto al lavoratore. Il lavoro, nelle
società capitalistiche, al pari di ogni altra merce, ha un suo valore d’uso,
vale a dire un suo grado di utilità per la società e l’economia, oltre che, di
conseguenza, un suo prezzo (valore di scambio), nel quadro delle relazioni di
mercato. Questi due fattori furono definiti da Marx anche come sostanza di
valore e grandezza di valore.
La fonte del profitto nella
società capitalistica è dunque data dal cosiddetto plusvalore, a sua volta il
prodotto della differenza tra il lavoro impiegato per una data produzione e
quello necessario alla riproduzione della forza- lavoro.
Il capitalista acquista la forza
- lavoro come qualsiasi altra merce, ad un valore che è quello necessario alla
sussistenza del lavoratore. Tale valore costituisce il cosiddetto salario. Per
un dato numero di ore, il lavoratore lavora pertanto per il suo salario, per il
tempo restante per il profitto del datore di lavoro.
Marx, prima nei Grundrisse poi nel Capitale, aveva affrontato, non senza accuratezza, la
questione dell’applicazione delle macchine al processo produttivo, chiarendo
che tale evenienza stava alla base, inevitabilmente, del tendenziale risparmio
dei tempi di lavoro e, di conseguenza, ma solo nell’immediato, di una
straordinaria massimizzazione dei profitti.
A lungo termine però, un aumento
progressivo degli investimenti sul capitale fisso (macchine), a scapito del
capitale variabile ( i salari degli operai), essendo quest’ultimo la fonte
principe di estrazione del plusvalore, avrebbe determinato una tendenziale
caduta dei profitti (Caduta tendenziale del saggio di profitto). Non
solo. Rimanendo sul punto, Marx aveva anche svelato come l’uso strategico delle
macchine, favorendo un aumento dei volumi di produzione, un accrescimento
dell’offerta di beni sul marcato, avrebbe determinato, come conseguenza, una
diminuzione del valore di scambio di quest’ultimi. Quindi una diminuzione dei
profitti.
Caduta dei profitti e
contrazione dei consumi starebbero alla radice delle crisi cicliche del
capitalismo. Crisi di sovrapproduzione, di sovrabbondanza di beni.
Per quanto attiene alle
cosiddette “previsioni” di Marx, quella che più di altre ha stupito, per
lucidità e fondatezza, è sicuramente quella relativa alla tendenza del
capitalismo a globalizzarsi e ad accentuare la sua componente finanziaria.
Proprio le recenti crisi che hanno investito il capitalismo mondiale, a partire
dalla cosiddetta “bolla americana” fino alla crisi del debito nell’Eurozona,
stanno a dimostrare come le turbolenze in ambito finanziario incidano
sull’economia produttiva.
Profetiche, a tal riguardo,
queste parole che troviamo nel secondo libro de Il Capitale:
“Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro. Tutte le Nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione.”
Queste quattro grandi questioni
- reificazione e sfruttamento del lavoro, uso strategico e massivo della
macchina e ciclicità delle crisi, mondializzazione e finanziarizzazione
dell’economia - rivestono tutt’oggi una straordinaria rilevanza, sono ancora
alcuni dei termini più pregnanti dell’attualità politica, a prescindere dalle
interpretazioni e dai giudizi che se ne danno. Applicando i concetti, le
categorie, fin qui fugacemente richiamate alla realtà del mondo contemporaneo,
ai problemi sociali ed economici del nostro tempo, ci accorgiamo ordunque che
gli stessi possono contribuire, molto più di quel che si pensi, ad illuminare il
cammino della politica.
Il capitalismo, nello stadio
attuale, sebbene globalizzato, fa i conti con la “limitatezza del mercato”: non
siamo più nell’epopea fordista, in cui predominava un’idea di mercato
illimitato, da riempire di beni di consumo. Al contrario è la saturazione del
mercato lo spettro principale che hanno davanti le grandi imprese
multinazionali. Questa circostanza, unita all’ipertecnologizzazione ed
all’informatizzazione dei processi produttivi – agli investimenti sempre più
massicci sul capitale costante,per dirla con Marx - ed alla concorrenzialità
della manodopera dei paesi in via di sviluppo, sta alla base di una
tendenziale, epocale, caduta del valore d’uso ( Utilità relativa per il sistema
produttivo) e, di conseguenza, del valore di scambio (Salario)
della merce lavoro nei paesi capitalistici avanzati.
È vero che il valore d’uso della
forza- lavoro è dato, in Marx, essenzialmente dalla sua capacità fisica di
soddisfare esigenze di produzione di beni, perciò il suo valore di scambio nel
fabbisogno alla sua riproduzione, ma nel valore di questa particolare merce,
seguendo proprio il ragionamento marxiano, c’è anche quello che chiamerei il
suo grado di indispensabilità per l’impresa, la sua utilità in rapporto al
fabbisogno di manodopera in un dato momento e in un dato contesto. Come un
altro qualsiasi oggetto, sebbene molto speciale, il lavoro, nel quadro delle
economie mercatiste, ha un suo grado di utilità nel soddisfare bisogni sociali
e produttivi ed, al tempo stesso, un suo valore di mercato, un suo prezzo.
Per quanto speciale, come lo
stesso Marx aveva chiarito, il lavoro, in questo tipo di società, è, a tutti
gli effetti, una merce, di consumo e di scambio. Se allora per qualsiasi altra
merce il valore d’uso consiste nella sua capacità di soddisfare determinati
fabbisogni, nel caso della forza-lavoro tale fabbisogno può essere identificato
anche con la domanda di manodopera. Pensiamo, in rapporto al concetto di lavoro
come merce, alle modificazioni che sono intervenute negli ultimi anni nel
mercato del lavoro. L’esempio più calzante a tal proposito sono i casi di
“somministrazione di lavoro” da parte di agenzie interinale. La
somministrazione di manodopera permette ad un soggetto definito
“utilizzatore” di rivolgersi ad un altro soggetto appositamente
autorizzato che costituisce il “somministratore”, per utilizzare il lavoro
di personale non assunto direttamente, ma dipendente del “somministratore”. In
questa fattispecie c’è una vera e propria sublimazione del concetto di reificazione
del lavoro, che viene ad essere assimilato ad un qualsiasi altro oggetto.
I fenomeni che ho prima
richiamato, tipici dell’attuale fase di sviluppo delle economie capitalistiche
mature, sono alla base, come dicevo più indietro, di una sostanziale riduzione
del valore d’uso, o, se si vuole, del grado di indispensabilità del lavoro,
inteso sia in senso assoluto come tempo necessario nei cicli produttivi, sia in
senso relativo come offerta di lavoro sul mercato.
La riduzione dell’utilità
assoluta e relativa del lavoro ha, com’è facile immaginare, una ricaduta
negativa sul corrispondente valore di scambio dello stesso, sul suo prezzo di
mercato, che chiamiamo salario. Ma anche sul suo valore sociale, con
pregiudizi, per fare il primo esempio che mi viene in mente, dei livelli di
sicurezza nei luoghi di lavoro.
La conseguenza pratica di questo
stato di cose è, in primo luogo, un aumento dei livelli di sfruttamento e di
dipendenza del lavoratore dal potere dell’impresa. Secondariamente la
contrazione dei salari e, nel caso della delocalizzazione extranazionale della
produzione, il depauperamento delle economie interne.
L’inedita possibilità di
delocalizzare segmenti sempre più significativi della produzione da parte dei
grandi gruppi industriali, costituisce da un lato una forma di beneficio
diretto per quest’ultimi, dall’altro un fattore di deterrenza sul piano
interno, da giocare in sede di negoziazione salariale e di ristrutturazione
aziendale.
E che cos’è la tendenza
all’abbattimento dei costi del lavoro, anche attraverso la delocalizzazione dei
siti produttivi, se non il rimedio alla parabola discendente del saggio di
profitto, determinata dai mutamenti nella composizione del capitale e dal
fenomeno della sovrabbondanza di merci in rapporto alle dimensioni del mercato?
Forse, o certamente, questa legge non spiegherà, come Marx invece pensava, di
che morte morirà, o potrebbe morire, il capitalismo, ma ci aiuta a comprenderne
l’intimo funzionamento.
A tutto ciò è legata infine, in
termini sistemici, la questione della forza- lavoro eccedente, il problema
della disoccupazione. A proposito di quest’ultima, Marx aveva parlato di
esercito industriale di riserva, quella variabile che, nelle economie
capitalistiche, insieme ad altri fattori, consente di tenere i salari a livelli
di sussistenza ed a garantire la riproduzione del plusvalore, quindi dello
stesso sistema capitalistico.
Si può dire che nelle nostre
società gli alti tassi di disoccupazione non sono funzionali al contenimento
della dinamica salariale ed alle strategie di ricatto dei datori di lavoro?
Che, insieme al deterrente della delocalizzazione, la pressione della
disoccupazione di massa non compensa la tendenza alla perdita di profitto? A
queste domande risponderei così: questo non è il pensiero di Marx, ma la realtà
del capitalismo, che Marx ha contribuito a disvelare, a descrivere,
semplicemente a descrivere.
Bassi salari, precarizzazione
dei rapporti di lavoro, abbassamento dei livelli di sicurezza nelle fabbriche,
disoccupazione di massa, rappresentano pertanto i termini principali
dell’attuale questione sociale, la cui lettura, senza dubbio, è facilitata dal
ricorso a talune categorie marxiane, come quelle che abbiamo testé esaminato.
Rispetto alla società
industriale degli albori, che Marx aveva analizzato da vicino, le uniche
questioni davvero nuove sono che anche il lavoro intellettuale, specializzato,
è stato assorbito dalla spirale della mercificazione e che la dipendenza dal
potere dell’impresa si presenta sempre più sotto forma di rapporti di lavoro
precari.
Anzi, proprio la precarizzazione
del lavoro, che poi si tramuta in precarizzazione dell’esistenza, costituisce
il prolungamento storico dei rapporti di lavoro alienati di cui Marx aveva
ampiamente parlato nella sua opera, l’esito fatale della loro evoluzione.
Letteralmente col termine
alienazione Marx indicava la condizione dell’operaio salariato, che, in regime
capitalistico, è estraniato dal processo produttivo che lo riguarda e dallo
stesso prodotto del lavoro: egli era, ed è, condannato a produrre beni che non
gli appartengono, a produrre non per se stesso ma per gli altri. Una condizione
che finisce per estraniarlo da se medesimo, dalla sua essenza, perché il suo
lavoro non è libero e costruttivo, come lo era per i vecchi artigiani, bensì
obbligato, meccanico, spersonalizzato.
L’alto livello di
precarizzazione del lavoro nelle nostre società, aumentando i livelli di
dipendenza del lavoratore, manuale o dell’intelletto che sia, dal potere
dell’impresa e, per certi versi, dagli stessi beni che è chiamato a produrre,
costituisce il fondamento di una forma ancora più micidiale di alienazione, di
estraniamento da se stessi, dalla propria essenza sociale.
Alla produzione di beni per gli
altri, alla tradizionale forma di estraniazione rispetto al proprio lavoro,
nella nostra epoca, si aggiunge, pertanto un altro elemento alienante: il
lavoro in forma precaria, ansiotica; ultima frontiera dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, che aliena l’individuo dalla sua vita, dal suo futuro.
Come non convenire allora sul fatto che alla base di tali questioni c’è quello
che definirei il nodo principale degli assetti socioeconomici capitalistici: il
fatto che il lavoro sia assimilato ad una qualsiasi altra merce: che tutte le
relazioni sociali tendono a mercificarsi, con pregiudizio della dignità e della
libertà dell’uomo? Che il lavoro salariato sia condannato a produrre ricchezza
per gli altri, in misura inversamente proporzionale alla sua valorizzazione
sociale?
E che dire poi, rimanendo sulle
eredità spendibili del pensiero di Marx, delle crisi periodiche del capitalismo
e degli effetti dell’economia speculativa, finanziaria, su quella reale? Anche
su questo versante il filosofo tedesco aveva visto giusto, così come aveva
visto giusto con riferimento alla concorrenza tra operai, sia sul piano interno
che su quello extranazionale, a tutto vantaggio dell’impresa.
Vale la pena, tal riguardo,
riportare un passo dello stesso Marx, la cui attualità è sorprendente:
“Su 1000 operai di uguale qualifica determinano il salario non i 950 occupati, ma i 50 disoccupati. Influsso degli irlandesi sulla condizione degli operai inglesi e dei tedeschi sulla condizione degli operai alsaziani (…)”
Parafrasando, potremmo dire
influsso degli operai serbi, o polacchi, sulla condizione degli operai
italiani. Una questione di stringente attualità! Che rimanda, oggigiorno, al
tema della delocalizzazione della produzione, la strada per beneficiare
di costi di manodopera più bassi e di più bassi livelli di sindacalizzazione
della forza lavoro, nei paesi emergenti o in via di sviluppo. Insomma ancora al
tema dello sfruttamento del lavoro salariato e del valore mercantile del
lavoro.
Potremmo stare a lungo su questi
argomenti, ma una loro trattazione più approfondita costituirebbe il contenuto
di un intero volume. Possiamo però concludere con una constatazione: nelle
società capitalistiche ancora c’è molto cammino da fare sul terreno della
mediazione tra uguaglianza formale ed uguaglianza sostanziale dei cittadini.
L’intuizione marxiana sulla contraddizione tra uguaglianza nello Stato e
disuguaglianza nella società in regime capitalistico, costituisce ancora oggi
un punto cardine per la critica degli squilibri nelle nostre società.
Non per negare, come aveva fatto
Marx, una funzione livellatrice dello Stato, ma, al contrario, per
incoraggiarla. Per sostenere politiche di trasformazione dell’esistente, volte
a liberare dalla spirale mercantile quegli spazi, qui beni, che attengono alla
sfera della libertà e della dignità dell’uomo. Tra questi innanzitutto il
lavoro, il terreno su cui si misura il grado di realizzazione della persona
umana, la sua libertà, la sua indipendenza.
Fino a quando il lavoro sarà
assimilato ad una qualsiasi altra merce, da scambiare e trattare al pari di
ogni altro bene nel quadro delle relazioni di mercato, non si potrà dire che
una società è pienamente libera e democratica.
Finché il valore del lavoro sarà
calcolato come valore d’uso e di scambio, secondo il criterio capitalistico già
esaminato, e non in base alla sua funzione sociale, in quanto attività nella
quale, contribuendo alla crescita dell’intera società, l’uomo realizza se
stesso, non si potrà parlare di libertà piena e sostanziale con riferimento
alle nostre società.
Rimuovere gli ostacoli che
limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, costituisce
tutt’ora un debito della politica nei confronti della società. Di tutte le
società. Nondimeno il problema che abbiamo oggi è proprio il dileguamento della
politica, l’assenza di grandi progetti di cambiamento, sostenuti da una visione
del mondo larga e prospettica.
Ho già detto che non mi
riferisco a dottrine millenaristiche, a nuove concezioni messianiche dello
sviluppo storico, ma a concreti programmi di riforma dell’esistente, intorno ai
quali organizzare, mobilitare, larghi strati della società, su cui fondare
un’azione di governo autenticamente riformatrice.
E in questo, ancora Marx può
venirci in soccorso, quando ci ricorda che l’economia politica sbaglia a
considerare immutabili, oggettive, le leggi dell’economia capitalistica, poiché
le stesse, così come sono realizzate dell’uomo, così dall’uomo possono essere
cambiate.
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