Vladimiro
Giacchè | Ironie della storia. Mentre in Germania viene
festeggiato il 20° anniversario della fine della Repubblica Democratica
Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di
quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto
in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo
di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita,
Isbn edizioni, p. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo
è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una
panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero.
Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una
banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che
spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati
nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere
sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi. Questo
utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui
viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo
attuale è
più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi
tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato
mondiale.
Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha
timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro
regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità
del Capitale (tanto del
primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la
sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel
1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del
valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione
capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La
forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce
sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”;
è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore
(cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata, che se non viene
messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde
anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste
nel fatto che “i risultati del pluslavoro
- cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del
soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal
numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il
connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e
gestione sociale”.
Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono
infatti – ci spiega Merker – “conseguenza
dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere
sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene
offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle
correnti.
“A un certo punto il mercato
non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti
perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute
affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche
e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei
consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si
avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi
distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate,
lavoratori disoccupati, beni di consumo al macero e una crescente
concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal
mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le
crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema
capitalistico“l’estensione o la riduzione
della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i
bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al
profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
Secondo questo punto di vista, a differenza di quanto ci è
stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di
percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua
natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la
distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che
inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione”capitalistica.
Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se
quel “contrasto tra la produzione
sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso”
sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx
del Capitale, e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”.
La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.