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La critica dell’economia politica, ieri e Oggi

Karl Marx ✆ João Pinheiro
Sergio Cesaratto  |  Nel lontano 1973 due valorosi economisti sraffiani aprivano un (allora) influente articolo su marxismo ed economia con la seguente ottimistica affermazione: «[c]rediamo non si possa mettere in dubbio che la teoria economica, che ha dominato praticamente incontrastata per quasi un secolo, attraversa oggi una crisi profonda»1. Purtroppo questa veniva sostenuto proprio nel mentre nelle università degli Stati Uniti si consolidava la contro-rivoluzione monetarista che avrebbe rapidamente spazzato via quella keynesiana dei primi due decenni del secondo dopoguerra, preparando culturalmente l’avvento alla fine del decennio di Reagan e Thatcher. Naturalmente il clima in Italia era ancora ben diverso. Attraverso la fondazione della Facoltà di economia di Modena e l’esperienza delle 150 ore, la critica dell’economia politica, profondamente influenzata dall’opera di Sraffa, si fondeva, per esempio, con le esperienze operaie e sindacali più avanzate2. Di lì a pochissimo le cose sarebbero evolute in direzioni ben diverse anche in Italia.
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso “dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica. Se mi si concede un
paragone azzardato, questo dibattito costituì il fronte vietnamita nell’ambito dell’analisi economica. La stessa accademia italiana, che era stata molto tiepida nei confronti della rivoluzione keynesiana (l’eccezione essendo costituita da Federico Caffè e da Paolo Sylos Labini), fu per alcuni anni conquistata dalla lezione di Sraffa3. La parabola di Luigi Spaventa è esemplificativa di come andarono le cose: da fervente sraffiano egli si schierò col tempo con molti degli elementi della contro-rivoluzione monetarista rammaricandosi degli anni settanta4 come anni perduti alla ricerca economica più seria. Oggi la situazione è dunque per molti aspetti sconfortante, con la progressiva emarginazione, se non scomparsa, degli economisti e insegnamenti critici dai dipartimenti universitari. Già dagli anni ottanta andava scemando il numero di giovani leve orientate verso studi di teoria critica. Sebbene il lumicino della teoria critica non si spenga mai, qualche giovane continua ad avvicinarsi, è diventato difficile offrire spazi di formazione non-conformista e, soprattutto, un futuro accademico. Questo può apparire paradossale alla luce della recente devastante crisi economica. Questa è stata da un lato certamente dovuta, in particolare in Europa, ad errori della politica economica; ma dall’altro ha fatto riemergere difficoltà di fondo del capitalismo come il ritorno dello spettro della stagnazione. Sebbene entrambi gli aspetti siano stati denunciati persino da economisti convenzionali5, la teoria dominante non è stata assolutamente scalfita dalla crisi ed anche le voci più critiche verso le politiche di austerità, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ben si guardano dal rimettere in discussione dottrine che, del resto, loro stessi hanno contribuito ad affermare.
Nello piegare la parabola dell’economia eterodossa v’è per certi versi anche una responsabilità dell’economia critica, non sempre all’altezza della sfida. Certamente meno colpevole è stata la scuola sraffiana, che del rigore analitico ha fatto la propria bandiera. Col senno di poi, la stagione alta dell’economia critica è stata troppo breve per aver consentito in Italia e altrove una mole di studi fra i quali il filtro del tempo avrebbe selezionato quelli più promettenti. Se il quadro non è confortante, di positivo v’è un notevole interesse nel pubblico, specie giovanile, verso le tematiche economiche non ortodosse. Questo interesse si manifesta soprattutto nei social network, blog ecc. e in Italia è molto connesso all’insofferenza verso le politiche economiche europee. La differenza con gli anni settanta è che lì ci si muoveva – sebbene in maniera innovativa – nell’ambito delle strutture ideologiche e organizzative del movimento operaio, il che dava compattezza e spessore alla comunicazione intellettuale. Ora la situazione è più fluida, e l’informazione appare frammentata e poco approfondita, scandita dai tempi dei post su facebook, guidata spesso da guru mediatici con messaggi taumaturgici. Proprio a fronte di questa dispersione e frettolosità dei messaggi, appare dunque interessante ripercorrere quelli che sono stati i capisaldi del contributo sraffiano o Classico-Keynesiano alla teoria economica critica, e i sui possibili sviluppi anche a fronte di altre impostazioni eterodosse.

2. La teoria dominante

Pur spacciandosi per scienziati sulla frontiera, gli economisti convenzionali si rifanno (e sempre più si rifanno, verrebbe da aggiungere) a una teoria che prese forma, grosso modo, verso il 1870, la cosiddetta rivoluzione marginalista.6 Alla base di questa teoria v’è l’idea che l’economia sia formata da individui che rivestono i ruolo di proprietari dei “fattori della produzione” (lavoro, capitale e terra) e di consumatori. Nella prima veste essi ricevono un reddito (salario, profitto o rendita) commisurato all’apporto che il “fattore produttivo” posseduto da ciascun soggetto ha apportato alla produzione (il cosiddetto “prodotto marginale”) Questo apporto può essere matematicamente determinato attraverso il “calcolo marginale”. I prodotti marginali danno luogo a curve di domanda dei fattori decrescenti rispetto al prezzo del fattore.7 Nella figura 1 è per esempio illustrata la curva di domanda di lavoro. Essa unitamente alla curva di offerta – che per semplicità disegniamo verticale – determina il salario di equilibrio o “naturale”. Al salario naturale tutta l’offerta di lavoro trova occupazione.


Poiché ciascun fattore riceve in base al contributo apportato, nessun “fattore” sfrutta un altro fattore e ciascuno riceve il “giusto”. In questo modo la “rivoluzione marginalista” ritenne di aver affondato la teoria marxiana (e ricardiana) dello sfruttamento8. Versioni più “democratiche” della teoria marginalista – la cosiddetta “economia del benessere”9 – ammettono che il calcolo marginalista può condurre a una distribuzione del reddito “naturale” o “di equilibrio” sfacciatamente squilibrata a sfavore dei lavoratori. Il suggerimento dell’Economia del benessere è dunque quello di correggere le “dotazioni iniziali” dei fattori sì da accrescere la remunerazione del fattore lavoro. Questo potrebbe essere fatto attraverso una tassa di successione che vada a diminuire la dotazione di capitale dei giovani rampolli dei capitalisti e usando i proventi per accrescere l’istruzione dei figli dei lavoratori sì da accrescerne la dotazione di “capitale umano”. Si tratta di correttivi interessanti, ma che non mutano le caratteristiche di fondo della teoria dominante.

Un’importantissima implicazione di questa teoria è che se i fattori della produzione accettano la loro remunerazione “naturale”, essi sono pienamente occupati, come s’è visto nel caso del lavoro (figura 1). Una volta effettuata la produzione impiegando pienamente i fattori e distribuiti loro i redditi secondo la regola marginale, la teoria marginalista ritiene inoltre che tutti i redditi verranno spesi nell’acquisto della produzione10. In tal modo tutta la produzione viene venduta. Le imprese sono soddisfatte, per cui i periodo successivo esse confermeranno la piena occupazione dei fattori.

La teoria marginalista crede dunque nella Legge di Say o Legge degli sbocchi secondo la quale tutta la produzione trova un mercato poiché genera redditi e spesa del medesimo valore della produzione (“l’offerta crea la propria domanda”).

Secondo la teoria marginalista una causa di disoccupazione è invece in salari troppo elevati. Se, come nella figura 2, i lavoratori godessero di salari sindacali troppo elevati, la domanda per il loro servizi si ridurrebbe a O’. Il tratto PO-O’ sarebbe costituito da disoccupati involontari, vale a dire lavoratori che vorrebbero lavorare al salario naturale ma non possono farlo in quanto i sindacati e le leggi che li proteggono impediscono al salario sindacale di scendere. Questi grafici sono alla base della tesi dominante che la flessibilità del mercato del lavoro – vale a dire lo smantellamento delle tutele sindacali e nei riguardi dei licenziamenti – accrescerebbe l’occupazione.



E’ vero, ammettono i marginalisti, che parte del reddito non è consumato bensì risparmiato (cioè non si traduce direttamente in domanda). Ma questo non è un problema, anzi. Il risparmio è la fonte del fattore produttivo “capitale”. Identifichiamoli per semplicità 11. Avremo allora un grafico (figura 3) del tutto simile a quello della figura 1 i cui la curva decrescente è la curva di domanda di capitale (risparmio) che le imprese esprimono per effettuare gli investimenti (ampliamenti della capacità produttiva). Tanto più il prezzo di affitto del capitale o tasso di interesse, è basso, tanto più esse domanderanno capitale (risparmio)12. Data l’offerta di capitale (risparmio), v’è certamente un tasso di interesse al quale le imprese assorbono tutto il capitale (risparmio) offerto dalle famiglie. Dunque, quello che queste ultime non spendono in beni di consumo, lo presteranno alle imprese che lo impiegheranno per acquistare beni di investimento e tutta la produzione troverà uno sbocco. Il risparmio è dunque un atto positivo che consente all’economia di accrescere la propria capacità produttiva.



Ultimo aspetto della teoria marginalista che vale la pena ricordare riguarda il ruolo della moneta. Nella teoria marginalista essa svolge il mero ruolo di facilitare gli scambi. La sua quantità va rigorosamente tenuta sotto controllo poiché un suo immotivato aumento – per esempio concedendo prestiti alle imprese a un tasso di interesse sotto quello naturale – genererebbe solo un aumento dei prezzi, cioè inflazione in quanto l’economia marcia già con la piena occupazione di lavoro e impianti (capitale). Se non fosse in pieno impiego, questo sarebbe colpa delle rigidità nel mercato del lavoro ed è lì che si dovrebbe agire. Questo è il succo del “monetarismo” ed è il motivo per cui la politica monetaria dagli anni ottanta è stata in molti paesi conferita a banche centrali “indipendenti” con il solo scopo loro assegnato di tenere l’inflazione ai minimi termini. Se le banche centrali si occupassero anche di occupazione genererebbero solo danni. Lo statuto della Banca Centrale Europea si rifà, per esempio, a queste tesi monetariste.

3. La rivoluzione (incompiuta) Keyenesiana

Una prima sfida alla teoria marginalista è venuta da Keynes anche in seguito al palese fallimento della teoria dominante a fronte della crisi economica degli anni 1930. Keynes non mette in discussione i capisaldi della teoria tradizionale e questo consentirà la ricollocazione della sua teoria come caso speciale della teoria dominante, l’opposto dell’intento di Keynes nello scrivere la Teoria Generale (1936). Keynes critica l’idea sopra esposta che un’economia di mercato non possa soffrire di problemi di domanda. In particolare egli considera gli investimenti delle imprese una componente particolarmente instabile e tale da non assorbire in maniera completa l’offerta di risparmio di pieno impiego. Con un esempio: se reddito e produzione nazionale di piena occupazione sono 1000 miliardi di euro, di cui 800 sono domandati come beni di consumo e 200 risparmiati, ne consegue che gli investimenti devono anche essere 200 affinché tutta la produzione sia venduta. Se gli investimenti fossero solo 100, un decimo della produzione rimarrebbe invenduta e la successiva riduzione dell’output genererebbe disoccupazione (che quindi non dipenderebbe da salari troppo elevati, come nella figura 2, ma da investimenti troppo bassi).

Keynes afferma qualcosa in più: sono le decisioni di investimento degli imprenditori a mettere in moto l’economia. Queste decisioni di spesa generano a loro volta reddito che in parte va in spesa per beni di consumo e in parte viene risparmiato attraverso un processo noto come moltiplicatore del reddito. Se ne deduce che, contrariamente alla teoria marginalista, sono gli investimenti a generare i risparmi e non viceversa. Se gli investimenti sono 100 essi genereranno un reddito tale da dar luogo a 100 di risparmi. Se gli investimenti raddoppiassero, raddoppierebbero reddito e risparmi. Questa dell’inversione della relazione fra investimenti e risparmi è il cuore analitico della rivoluzione keynesiana. Esso ha anche un significato, anche morale, trasgressivo: dal punto di vista macroeconomico il risparmio è un fatto negativo. Un suo aumento a parità di investimenti determina una caduta del reddito e dell’occupazione.13

Dal punto di vista della politica economica il cuore della rivoluzione Keynesiana è nel ruolo assegnato alla politica di bilancio e a quella monetaria nel mantenere la piena occupazione. Se infatti gli investimenti privati sono insufficienti, per sostenere spesa e produzione non resterà che ricorrere a una maggiore spesa pubblica e a politiche monetarie espansive. Queste ultime, attraverso bassi tassi di interesse, renderanno poco costoso allo Stato il ricorso alla spesa in disavanzo c sosterranno la spesa privata, per esempio la domanda di abitazioni.

4. Il ritorno ai Classici e la controversia sul capitale

Il famoso libretto di Sraffa Produzioni di merci a mezzo di merci è del 1960. Sraffa vi stava lavorando dalla seconda metà degli anni venti sin da quando dovette lasciare l’Italia inviso al fascismo, chiamato a Cambridge da Keynes a cui era stato introdotto da Salvemini. Sraffa fu però estraneo alla rivoluzione Keynesiana, pur appartenendo alla cerchia più vicina all’economista inglese. La direzione critica intrapresa da Sraffa, più di fondo, andava infatti verso il recupero del punto di vista nei riguardi della teoria della distribuzione del reddito che, a suo avviso, aveva accumunato gli economisti Classici fino a Marx, ovvero la teoria del sovrappiù.

Per sovrappiù (S) si intende quella parte del prodotto sociale (P) di cui l’economia può liberamente disporre una volta accantonate le merci (N) – inclusi le sussistenze per i lavoratori - necessarie per riprodurre su scala invariata quel prodotto sociale: S = P – N (si veda P.Garegnani, Marx e gli economisti classici, Einaudi, 1981).

Se qualcuno avesse letto l’avvincente Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond (Einaudi 2006) vedrà come quello studioso ponga l’emergere del sovrappiù in determinate regioni geografiche come base dello sviluppo di civiltà superiori. E’ il sovrappiù che permette a una parte della popolazione di vivere senza dover badare alla produzione di sussistenze, potendo così dedicarsi all’organizzazione politica e militare, alla scienza e alla tecnica, al pensiero e all’arte. Se poi voi leggeste l’economista classico Turgot, vi accorgereste che, forte del concetto di sovrappiù, egli anticipa di 200 anni l’analisi di Diamond14. Negli economisti classici non v’è una distribuzione del reddito “naturale” come nei marginalisti. Supponiamo per esempio che i capitalisti si approprino di tutto il sovrappiù S. Un aumento del potere contrattuale dei lavoratori, in seguito per esempio a un periodo di crescita economica, potrebbe però far salire il salario e dunque l’ammontare di merci di cui i lavoratori si appropriano (ovvero N aumenta). La distribuzione del reddito dipende dunque fondamentalmente dai rapporti di forza fra le classi sociali, e questi rapporti sono molto influenzati dal livello della disoccupazione (l’esercito industriale di riserva di Marx)15.

La riscoperta della teoria del sovrappiù fu esposta da Sraffa nell’introduzione del 1951 alle opere complete di David Ricardo su cui aveva scrupolosamente lavorato su incarico di Keynes nei due decenni precedenti. Tale edizione gli valse nel 1961 la medaglia d’oro dell’Accademia svedese delle scienze, un onore che Sraffa condivide solo con Keynes e Myrdal16. Nel riscoprire l’impostazione del sovrappiù Sraffa riproduce il medesimo sforzo che Marx aveva già compiuto un’ottantina di anni prima. La questione se Sraffa sia giunto alla teoria del sovrappiù indipendentemente da Marx o meno è politicamente delicata. L’indipendenza rafforzerebbe in un certo senso la riscoperta (come se due esploratori indipendenti inviassero due dispacci simili che descrivono una medesima scoperta geografica). In merito lo studio sulle carte di Sraffa è in corso.

La riscoperta della teoria del sovrappiù implicava risolvere alcune questioni relative alla misurazione dei prezzi lasciate insolute da Ricardo e Marx (si veda Garegnani 1981). Le difficoltà che costoro avevano incontrato nel misurare il valore delle merci attraverso il lavoro contenuto era stato non casualmente addotto da alcuni economisti marginalisti come un motivo di abbandono di quell’impostazione17. I marxisti dal canto loro avevano fatto quadrato attorno alla teoria del valore lavoro (e molti di loro continuano oggi). Sraffa suggerì nel 1960 una soluzione alla determinazione dei prezzi e della distribuzione del reddito che comportava, tuttavia, l’abbandono della teoria del valore lavoro. Questo ha dato luogo ad accese dispute non ancora sopite18.

In Produzione di merci Sraffa mise anche in luce le difficoltà della teoria marginalista del capitale di cui accenneremo ora brevemente. Alcuni e più evidenti problemi erano ben noti già ai fondatori di quella teoria. Come s’è detto, essa prende le mosse dalla quantità dei “fattori produttivi” posseduta dai soggetti economici. Alcuni di questi fattori sono misurabili come quantità fisiche. Il lavoro di una certa qualità è per esempio misurabile in ore lavoro, e la quantità di terra con certe caratteristiche in ettari19. Non è questo il caso dello stock di capitale. Esso consiste di attrezzature eterogenee, come aratri, trattori, macchinari e migliaia di altri elementi. Lo stock di capitale è dunque misurabile solo come un valore, moltiplicando la quantità di ciascun elemento per il suo prezzo e sommando, precisamente come ci insegnavano in prima elementare per calcolare la spesa della mamma al mercato. Il problema è che ancora non conosciamo i prezzi dei beni. Vale a dire, per determinare prezzi e distribuzione, dovremmo conoscere il valore dello stock di capitale, ma per conoscere il valore dello stock di capitale dovremmo già conoscere prezzi e distribuzione: un evidente circolo vizioso20. Sraffa mise in luce altre problematiche e in particolare il complesso fenomeno del “ritorno delle tecniche” che sarebbe però troppo complicato trattare esaurientemente in questa sede. Quello che si può dire è che l’implicazione della critica di Sraffa è che è impossibile tracciare una funzione di domanda di capitale decrescente come nella figura 3. In altri termini, mentre per gli economisti marginalisti a minori tassi di interesse le imprese domanderebbero più capitale (vorrebbero cioè investire di più, assorbendo più risparmio), cioè sarebbero stimolati ad adottare tecniche che usano più capitale rispetto al lavoro,21 Sraffa dimostra che ciò non accade necessariamente. Vale a dire minori tassi di interesse potrebbero far diminuire e non aumentare la domanda di capitale.

Questi risultati condussero alla celebre “controversia fra le due Cambridge”, fra la Cambridge inglese e il famoso MIT americano che ha sede a Cambridge nel Massachusetts. Mentre nella Cambridge inglese v’era il fiore dei seguaci di Keynes, oltre a Sraffa che aveva attirato via via eccellenti giovani economisti italiani, nella Cambridge americana v’era il fiore degli economisti della “sintesi neoclassica” (Modigliani, Solow, Tobin) il cui decano era Paul Samuelson.22Famously Samuelson ammise alla fine che la Cambridge inglese (ma dovremmo dire italiana!) aveva ragione.

5. Dove andiamo?

Garegnani ed altri hanno tratto importanti implicazioni della controversia sul capitale, due in particolare23:
a) la determinazione “armonica” della distribuzione del reddito da parte della teoria “neoclassica” è errata, e ciò avvalora la ripresa dell’approccio “conflittuale” degli economisti classici;
b) non è vero quanto sostenuto dalla teoria neoclassica che non vi sono problemi sistematici di domanda; in quanto la flessibilità del tasso di interesse non è sufficiente ad assicurare che tutta l’offerta di risparmio di pieno impiego sia assorbita dagli investimenti (la figura 3 è sbagliata). Questa conclusione consente di salvaguardare le conclusioni principali della teoria di Keynes dal riassorbimento nella teoria marginalista.

Nonostante il clamore suscitato, fatto è però che contenuti ed esiti della controversia sul capitale sono stati progressivamente rimossi dai curricula universitari, negli Stati Uniti come in Europa, Italia, inclusa, sicché giovani che abbiano studiato economia negli ultimi vent’anni difficilmente ne avranno sentito parlare. “Sraffa chi?” è una ben nota tattica per annichilire gli avversari. Per alcuni anni, tuttavia, i risultati di Sraffa hanno rafforzato gli indirizzi di ricerca eterodossi, certo in un clima sociale progressista che reclamava analisi critiche. La forza delle critiche di Sraffa alla teoria dominante fu che erano analitiche, non ideologiche. Pur nell’ambito delle crescenti difficoltà ricordate nella prima sezione il lavoro critico va ancor oggi avanti, per esempio nei riguardi dell’estensione di Keynes ai problemi di crescita economica. Anche il lavoro di critica sulla teoria del capitale non si è arrestato, mentre agli inizi è quello sulla teoria monetaria, un indirizzo coltivato da altre scuole eterodosse, - in Italia per esempio da quella dello scomparso Augusto Graziani – e che necessità di molte chiarificazioni24.

Sergio Cesaratto, laureato alla Sapienza con Pierangelo Garegnani nel 1981, è ora professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea, Dipartimento di Economia Politica e Statistica, Università di Siena.
E-mail: 
sergio.cesaratto@unisi.it; pagina web: http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto; blog:http://politicaeconomiablog.blogspot.com.

Note al testo
1 A.Ginzburg, F.Vianello, “Il fascino discreto della teoria economica”, in Rinascita, 31, 3 agosto 1973, ripubblicato in AAVV, Marxismo ed economia. Un dibattito di «Rinascita», Venezia, Marsilio, 1974 (disponibile qui: http://www.fernandovianello.unimore.it/site/home/una-selezione-di-scritti.html); citazione a pag. 15.
2 Sulla storia della facoltà di economia di Modena si veda il contributo di Fernando Vianello in La formazione degli economisti in Italia 1950-1975, a cura di GiuseppeGarofaloeAugusto Graziani, Il Mulino, Bologna 2004). Ça va sans dire che questa facoltà è da tempo assolutamente “normalizzata”.
3V.Piero Bini, “Violare gli equilibri. Gli economisti italiani di sinistra nella crisi degli anni Settanta del Novecento” in Rivista di Politica Economica, 2013/1; pp. 75-112
4I riferimenti ai decenni sono ovviamente allo scorso secolo.
5 Circa la stagnazione, il riferimento è all’eco di un intervento dall’eminente economista di Harvard ed ex segretario al Tesoro americano Larry Summers (v. Cesaratto, Il futuro del capitalismo, http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/12/il-futuro-del-capitalismo.html)
6 L’aggettivo “marginalista” deriva dall’ampio uso del calcolo differenziale in questa teoria. Il termine “neoclassico” è successivo. Garegnani, l’allievo prediletto di Piero Sraffa, avvertiva di evitare l’uso di questo termine volto a far supporre una continuità fra marginalisti ed economisti classici (come Smith e Ricardo) le cui teorie, al contrario, i primi volevano sostituire.
7 Questo perché tanto più utilizziamo di un fattore produttivo, data la quantità disponibile degli altri, tanto minori gli apporti produttivi delle unità aggiuntive (o marginali) del fattore variabile.
8 In effetti ben prima di Marx le teorie di Ricardo avevano fatto presa nel movimento operaio attraverso i “socialisti ricardani”. La teoria di Ricardo non individuava una distribuzione del reddito “giusta” o “naturale”. Essa era dunque modificabile. Gli economisti borghesi identificarono ben presto il potere sovversivo di questa teoria, specie perché espressa dal più rigoroso degli economisti borghesi sino a quel momento. Ragione per cui dopo la morte di Ricardo cominciò una ricerca affannosa di una teoria alternativa che emerse però solo cinquanta anni dopo. Vagiti di questa teoria sono in quella che Marx definì “economia volgare”.
9 L’Economia del benessere e l’economia Keynesiana, ma non l’economia critica, furono l’orizzonte culturale di Federico Caffè. La grandezza di questo economista, la sua intima eterodossia in primo luogo umana e politica, travalica tuttavia le dispute dottrinarie.
10 Com’è noto dalla contabilità nazionale, il valore della produzione è pari a quella dei redditi distribuiti.
11 Il risparmio è un flusso (definito per unità di tempo), mentre il capitale è uno stock. Il risparmio è il flusso che alimenta la vasca (lo stock di capitale). Risparmio e capitale possono essere identificati a rigore solo se il capitale è tutto consumato in un solo ciclo produttivo.
12 Dosi aggiuntive di capitale avranno anch’esse produttività marginale decrescente, come nel caso del lavoro, per cui esse verranno impiegate solo a minori tassi di interesse.
13 Più precisamente si deve parlare di un aumento della propensione al risparmio, cioè della quota di reddito che i soggetti risparmiano. Se tale quota aumenta, serve un reddito minore per generare l’ammontare di risparmio uguale agli investimenti dati. Per Keynes non v’è infatti ragione per cui se i soggetti intendono risparmiare di più le imprese intendono investire di più.
14 Si veda Cesaratto http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2012/08/a-surplus-approach-to-institutions.html
15Imprescindibile è la lettura del saggio di Michal Kalecki “Aspetti politici del pieno impiego” (1943) che trovate qui: http://www.econ-pol.unisi.it/petri/Kalecki.doc. Kalecki si può definire il Keynes marxista in quanto formulò in contemporanea tesi simili a quelle della Teoria Generale. Nel saggio citato l’economista polacco spiega perché il capitalismo è incompatibile con la piena occupazione (in sintesi, la potrebbe realizzare ma a costo di rafforzare troppo la classe lavoratrice).
16 Com’è noto, il cosiddetto premio Nobel per l’economia è conferito dalla Banca di Svezia ed è per questo da molti considerato un Nobel spurio, incluso da membri della famiglia Nobel. L’introduzione a cui abbiamo sopra accennato fu nei fatti scritta da Maurice Dobb che raccolse le idee che Sraffa, in seguito alle sue cautele scientifiche, aveva difficoltà a stendere. Il suo proverbiale acume fece di Sraffa un compagno ideale di conversazione di Wittgenstein, un aspetto anche molto studiato, v. per esempio B.McGuinness, “What Wittgenstein Owed to Sraffa”, in Chiodi G. e Ditta L. (curatori), Sraffa or an alternative economics, Palgrave Macmillan, Basinstoke 2008; o il saggio di Amartya Sen che considera anche i rapporti fra Sraffa e Gramscihttp://humanities.cn/Recommended/mathodology/SenSraffaGramsci.pdf. Su quest’ultima relazione nel quadro dei difficili rapporti fra Gramsci e il PCI – ricordiamo che Sraffa visitò regolarmente Gramsci in carcere – si è innestata un’annosa polemica discussa da Giancarlo De Vivo – un rigoroso studioso sraffiano – in quest’articolo: http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/gramsci-sraffa-e-la-famigerata-lettera-di-ruggero-grieco-1/.
17 Il lavoro contenuto è il lavoro direttamente e indirettamente occorrente per produrre una merce. Il lavoro indiretto è quello contenuto nei mezzi di produzione. L’importanza del problema della misurazione dei valori (prezzi) lo si coglie guardando all’equazione del sovrappiù S = P – N. Le tre grandezze sono ciascuna aggregati di merci diverse fra loro. Ne potremmo conoscere la quantità fisica, per esempio: P = (10 tonnellate di grano, 10 aratri e 8 gioielli); N = (8 di grano e 8 aratri); S = (2 aratri e 8 gioielli). Com’è noto, tuttavia, non si possono addizionare o sottrarre mele e pere, dobbiamo dunque assegnare un unico valore a S, P ed N. Per esempio per misurare S con un’unica grandezza (un valore), dovremmo moltiplicare i due aratri per il prezzo degli aratri, gli otto gioielli per il prezzo dei gioielli, e sommare. Ricardo e Marx suggerivano di misurare il prezzo dell’aratro attraverso il lavoro contenuto in un aratro e analogamente per le altre merci. Si dimostra però che questa misurazione è inesatta.
18 In Italia il culmine fu un convegno tenuto nel febbraio 1978 all’Università di Modena. Lo straordinario settimanale del PCI Rinascita ospitò durante gli anni ‘70 molti contributi delle parti in causa.
19 Lavori o terre di diversa qualità potrebbero essere trattati come fattori produttivi diversi.
20 Nel caso del capitale non sarebbe lecito trattare ciascun bene capitale fisico (aratri, trattori…) come un fattore a sé evitando così di sommarli in valore. Se lo facessimo verrebbe fuori che ciascun bene capitale ha una remunerazione (un saggio di interesse o di profitto) diversa da quella degli altri beni capitali, ma questo è illegittimo. Infatti mentre è legittimo ottenere che il salario di lavoratori con differente qualifica sia diverso, i beni capitali derivano, come visto sopra, da un unico humus che è il risparmio, e la remunerazione del risparmio (tasso di interesse o di profitto) deve esser unica, qualunque sia la forma fisica in cui il risparmio viene investito (aratri, trattori …). La strada di considerare i beni capitali come una collezione di fattori produttivi definiti in forma fisica fu intrapresa da uno dei grandi fondatori del marginalismo, Léon Walras. Vilfredo Pareto che subentrò a Walras nella cattedra di economia a Losanna evitò del tutto il problema non trattando del problema del capitale. Questi problemi di teoria del capitale furono riportati alla luce indipendentemente da Sraffa e nella dalla tesi di dottorato di Pierangelo Garegnani a Cambridge (Il capitale nelle teorie della distribuzione, Giuffré 1960). Sulla figura di Garegnani, l’allievo prediletto di Sraffa, si veda Roberto Ciccone: http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2012/11/ciccone-su-garegnani-un-anno-dalla.html.
21 Se il saggio di interesse diminuisce il casto del capitale diminuisce e le imprese utilizzano più capitale per una data quantità di lavoro.
22 Gli economisti della sintesi cercarono di salvaguardare alcuni precetti pratici di Keynes pur riconducendone la lezione a un caso particolare della teoria neoclassica. Un altro grande teorico della sintesi, John Hicks, era invece a Oxford. Samuelson che aveva grande stima di Sraffa e Garegnani continuò a discutere con quest’ultimo sino alla sua scomparsa (v. Heinz D. Kurz(Editor) (2013)The Theory of Value and Distribution in Economics: Discussions between Pierangelo Garegnani and Paul Samuelson, Routledge, London 2013).
23Garegnani P., Valore e domanda effettiva, Einaudi, Torino 1979.
24 Né manca l’impegno nel dibattito pubblico. Per esempio molti autori sraffiani, fra cui Massimo Pivetti, Giancarlo De Vivo e Antonella Stirati, hanno contribuito all’ e-book Oltre l'austerità, a cura di S. Cesaratto e di M.Pivetti, download gratuito da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi.