Karl Marx ✆ João Pinheiro |
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi
del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la
domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla
teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso
“dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica. Se mi si concede
un
paragone azzardato, questo dibattito costituì il fronte vietnamita nell’ambito dell’analisi economica. La stessa accademia italiana, che era stata molto tiepida nei confronti della rivoluzione keynesiana (l’eccezione essendo costituita da Federico Caffè e da Paolo Sylos Labini), fu per alcuni anni conquistata dalla lezione di Sraffa3. La parabola di Luigi Spaventa è esemplificativa di come andarono le cose: da fervente sraffiano egli si schierò col tempo con molti degli elementi della contro-rivoluzione monetarista rammaricandosi degli anni settanta4 come anni perduti alla ricerca economica più seria. Oggi la situazione è dunque per molti aspetti sconfortante, con la progressiva emarginazione, se non scomparsa, degli economisti e insegnamenti critici dai dipartimenti universitari. Già dagli anni ottanta andava scemando il numero di giovani leve orientate verso studi di teoria critica. Sebbene il lumicino della teoria critica non si spenga mai, qualche giovane continua ad avvicinarsi, è diventato difficile offrire spazi di formazione non-conformista e, soprattutto, un futuro accademico. Questo può apparire paradossale alla luce della recente devastante crisi economica. Questa è stata da un lato certamente dovuta, in particolare in Europa, ad errori della politica economica; ma dall’altro ha fatto riemergere difficoltà di fondo del capitalismo come il ritorno dello spettro della stagnazione. Sebbene entrambi gli aspetti siano stati denunciati persino da economisti convenzionali5, la teoria dominante non è stata assolutamente scalfita dalla crisi ed anche le voci più critiche verso le politiche di austerità, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ben si guardano dal rimettere in discussione dottrine che, del resto, loro stessi hanno contribuito ad affermare.
paragone azzardato, questo dibattito costituì il fronte vietnamita nell’ambito dell’analisi economica. La stessa accademia italiana, che era stata molto tiepida nei confronti della rivoluzione keynesiana (l’eccezione essendo costituita da Federico Caffè e da Paolo Sylos Labini), fu per alcuni anni conquistata dalla lezione di Sraffa3. La parabola di Luigi Spaventa è esemplificativa di come andarono le cose: da fervente sraffiano egli si schierò col tempo con molti degli elementi della contro-rivoluzione monetarista rammaricandosi degli anni settanta4 come anni perduti alla ricerca economica più seria. Oggi la situazione è dunque per molti aspetti sconfortante, con la progressiva emarginazione, se non scomparsa, degli economisti e insegnamenti critici dai dipartimenti universitari. Già dagli anni ottanta andava scemando il numero di giovani leve orientate verso studi di teoria critica. Sebbene il lumicino della teoria critica non si spenga mai, qualche giovane continua ad avvicinarsi, è diventato difficile offrire spazi di formazione non-conformista e, soprattutto, un futuro accademico. Questo può apparire paradossale alla luce della recente devastante crisi economica. Questa è stata da un lato certamente dovuta, in particolare in Europa, ad errori della politica economica; ma dall’altro ha fatto riemergere difficoltà di fondo del capitalismo come il ritorno dello spettro della stagnazione. Sebbene entrambi gli aspetti siano stati denunciati persino da economisti convenzionali5, la teoria dominante non è stata assolutamente scalfita dalla crisi ed anche le voci più critiche verso le politiche di austerità, come Paul Krugman o Joseph Stiglitz, ben si guardano dal rimettere in discussione dottrine che, del resto, loro stessi hanno contribuito ad affermare.
Nello piegare la parabola dell’economia eterodossa v’è per certi
versi anche una responsabilità dell’economia critica, non sempre all’altezza
della sfida. Certamente meno colpevole è stata la scuola sraffiana, che del
rigore analitico ha fatto la propria bandiera. Col senno di poi, la stagione
alta dell’economia critica è stata troppo breve per aver consentito in Italia e
altrove una mole di studi fra i quali il filtro del tempo avrebbe selezionato
quelli più promettenti. Se il quadro non è confortante, di positivo v’è un
notevole interesse nel pubblico, specie giovanile, verso le tematiche
economiche non ortodosse. Questo interesse si manifesta soprattutto nei social
network, blog ecc. e in Italia è molto connesso all’insofferenza verso le
politiche economiche europee. La differenza con gli anni settanta è che lì ci si
muoveva – sebbene in maniera innovativa – nell’ambito delle strutture
ideologiche e organizzative del movimento operaio, il che dava compattezza e
spessore alla comunicazione intellettuale. Ora la situazione è più fluida, e
l’informazione appare frammentata e poco approfondita, scandita dai tempi dei
post su facebook, guidata spesso da guru mediatici con messaggi taumaturgici.
Proprio a fronte di questa dispersione e frettolosità dei messaggi, appare
dunque interessante ripercorrere quelli che sono stati i capisaldi del
contributo sraffiano o Classico-Keynesiano alla teoria economica critica, e i
sui possibili sviluppi anche a fronte di altre impostazioni eterodosse.
2. La teoria dominante
Pur spacciandosi per scienziati sulla frontiera, gli economisti
convenzionali si rifanno (e sempre più si rifanno, verrebbe da aggiungere) a
una teoria che prese forma, grosso modo, verso il 1870, la cosiddetta
rivoluzione marginalista.6 Alla base di questa teoria v’è l’idea che l’economia sia formata da
individui che rivestono i ruolo di proprietari dei “fattori della produzione”
(lavoro, capitale e terra) e di consumatori. Nella prima veste essi ricevono un
reddito (salario, profitto o rendita) commisurato all’apporto che il “fattore
produttivo” posseduto da ciascun soggetto ha apportato alla produzione (il
cosiddetto “prodotto marginale”) Questo apporto può essere matematicamente
determinato attraverso il “calcolo marginale”. I prodotti marginali danno luogo
a curve di domanda dei fattori decrescenti rispetto al prezzo del fattore.7 Nella figura 1 è per esempio illustrata la curva di domanda di
lavoro. Essa unitamente alla curva di offerta – che per semplicità disegniamo
verticale – determina il salario di equilibrio o “naturale”. Al salario
naturale tutta l’offerta di lavoro trova occupazione.
Poiché ciascun fattore
riceve in base al contributo apportato, nessun “fattore” sfrutta un altro
fattore e ciascuno riceve il “giusto”. In questo modo la “rivoluzione
marginalista” ritenne di aver affondato la teoria marxiana (e ricardiana) dello
sfruttamento8. Versioni più “democratiche” della
teoria marginalista – la cosiddetta “economia del benessere”9 – ammettono che il calcolo marginalista può condurre a
una distribuzione del reddito “naturale” o “di equilibrio” sfacciatamente
squilibrata a sfavore dei lavoratori. Il suggerimento dell’Economia del
benessere è dunque quello di correggere le “dotazioni iniziali” dei fattori sì
da accrescere la remunerazione del fattore lavoro. Questo potrebbe essere fatto
attraverso una tassa di successione che vada a diminuire la dotazione di
capitale dei giovani rampolli dei capitalisti e usando i proventi per
accrescere l’istruzione dei figli dei lavoratori sì da accrescerne la dotazione
di “capitale umano”. Si tratta di correttivi interessanti, ma che non mutano le
caratteristiche di fondo della teoria dominante.
Un’importantissima implicazione di questa teoria è che se i fattori
della produzione accettano la loro remunerazione “naturale”, essi sono
pienamente occupati, come s’è visto nel caso del lavoro (figura 1). Una volta
effettuata la produzione impiegando pienamente i fattori e distribuiti loro i
redditi secondo la regola marginale, la teoria marginalista ritiene inoltre che
tutti i redditi verranno spesi nell’acquisto della produzione10. In tal modo tutta la produzione
viene venduta. Le imprese sono soddisfatte, per cui i periodo successivo esse
confermeranno la piena occupazione dei fattori.
La teoria marginalista crede dunque nella Legge di Say o Legge degli
sbocchi secondo la quale tutta la
produzione trova un mercato poiché genera redditi e spesa del medesimo valore
della produzione (“l’offerta crea la propria domanda”).
Secondo la teoria marginalista una causa di disoccupazione è invece
in salari troppo elevati. Se, come nella figura 2, i lavoratori godessero di
salari sindacali troppo elevati, la domanda per il loro servizi si ridurrebbe a
O’. Il tratto PO-O’ sarebbe costituito da disoccupati involontari, vale a dire
lavoratori che vorrebbero lavorare al salario naturale ma non possono farlo in
quanto i sindacati e le leggi che li proteggono impediscono al salario
sindacale di scendere. Questi grafici sono alla base della tesi dominante che
la flessibilità del mercato del lavoro – vale a dire lo smantellamento delle
tutele sindacali e nei riguardi dei licenziamenti – accrescerebbe
l’occupazione.
E’ vero, ammettono i marginalisti, che parte del reddito non è
consumato bensì risparmiato (cioè non si traduce direttamente in domanda). Ma questo non
è un problema, anzi. Il risparmio è la fonte del fattore produttivo “capitale”.
Identifichiamoli per semplicità 11. Avremo allora un grafico
(figura 3) del tutto simile a quello della figura 1 i cui la curva decrescente
è la curva di domanda di capitale (risparmio) che le imprese esprimono per
effettuare gli investimenti (ampliamenti della capacità produttiva). Tanto più
il prezzo di affitto del capitale o tasso di interesse, è basso, tanto più esse
domanderanno capitale (risparmio)12. Data l’offerta di capitale
(risparmio), v’è certamente un tasso di interesse al quale le imprese assorbono
tutto il capitale (risparmio) offerto dalle famiglie. Dunque, quello che queste
ultime non spendono in beni di consumo, lo presteranno alle imprese che lo
impiegheranno per acquistare beni di investimento e tutta la produzione troverà
uno sbocco. Il risparmio è dunque un atto positivo che consente all’economia di
accrescere la propria capacità produttiva.
Ultimo aspetto della teoria marginalista che vale la pena ricordare
riguarda il ruolo della moneta. Nella teoria marginalista essa svolge il mero
ruolo di facilitare gli scambi. La sua quantità va rigorosamente tenuta sotto
controllo poiché un suo immotivato aumento – per esempio concedendo prestiti
alle imprese a un tasso di interesse sotto quello naturale – genererebbe solo
un aumento dei prezzi, cioè inflazione in quanto l’economia marcia già con la
piena occupazione di lavoro e impianti (capitale). Se non fosse in pieno
impiego, questo sarebbe colpa delle rigidità nel mercato del lavoro ed è lì che
si dovrebbe agire. Questo è il succo del “monetarismo” ed è il motivo per cui
la politica monetaria dagli anni ottanta è stata in molti paesi conferita a banche
centrali “indipendenti” con il solo scopo loro assegnato di tenere l’inflazione
ai minimi termini. Se le banche centrali si occupassero anche di occupazione
genererebbero solo danni. Lo statuto della Banca Centrale Europea si rifà, per
esempio, a queste tesi monetariste.
3. La rivoluzione
(incompiuta) Keyenesiana
Una prima sfida alla teoria marginalista è venuta da Keynes anche in
seguito al palese fallimento della teoria dominante a fronte della crisi
economica degli anni 1930. Keynes non mette in discussione i capisaldi della
teoria tradizionale e questo consentirà la ricollocazione della sua teoria come
caso speciale della teoria dominante, l’opposto dell’intento di Keynes nello
scrivere la Teoria Generale (1936). Keynes critica l’idea sopra esposta che
un’economia di mercato non possa soffrire di problemi di domanda. In
particolare egli considera gli investimenti delle imprese una componente
particolarmente instabile e tale da non assorbire in maniera completa l’offerta
di risparmio di pieno impiego. Con un esempio: se reddito e produzione
nazionale di piena occupazione sono 1000 miliardi di euro, di cui 800 sono
domandati come beni di consumo e 200 risparmiati, ne consegue che gli
investimenti devono anche essere 200 affinché tutta la produzione sia venduta.
Se gli investimenti fossero solo 100, un decimo della produzione rimarrebbe
invenduta e la successiva riduzione dell’output genererebbe disoccupazione (che
quindi non dipenderebbe da salari troppo elevati, come nella figura 2, ma da
investimenti troppo bassi).
Keynes afferma qualcosa in più: sono le decisioni di investimento
degli imprenditori a mettere in moto l’economia. Queste decisioni di spesa
generano a loro volta reddito che in parte va in spesa per beni di consumo e in
parte viene risparmiato attraverso un processo noto come moltiplicatore del
reddito. Se ne deduce che,
contrariamente alla teoria marginalista, sono gli investimenti a generare i
risparmi e non viceversa. Se gli investimenti sono 100 essi genereranno un
reddito tale da dar luogo a 100 di risparmi. Se gli investimenti
raddoppiassero, raddoppierebbero reddito e risparmi. Questa dell’inversione
della relazione fra investimenti e risparmi è il cuore analitico della
rivoluzione keynesiana. Esso ha anche un significato, anche morale,
trasgressivo: dal punto di vista macroeconomico il risparmio è un fatto
negativo. Un suo aumento a parità di investimenti determina una caduta del
reddito e dell’occupazione.13
Dal punto di vista della politica economica il cuore della
rivoluzione Keynesiana è nel ruolo assegnato alla politica di bilancio e a
quella monetaria nel mantenere la piena occupazione. Se infatti gli
investimenti privati sono insufficienti, per sostenere spesa e produzione non
resterà che ricorrere a una maggiore spesa pubblica e a politiche monetarie
espansive. Queste ultime, attraverso bassi tassi di interesse, renderanno poco
costoso allo Stato il ricorso alla spesa in disavanzo c sosterranno la spesa
privata, per esempio la domanda di abitazioni.
4. Il ritorno ai Classici e
la controversia sul capitale
Il famoso libretto di Sraffa Produzioni di
merci a mezzo di merci è del 1960. Sraffa vi stava lavorando dalla seconda metà degli anni
venti sin da quando dovette lasciare l’Italia inviso al fascismo, chiamato a
Cambridge da Keynes a cui era stato introdotto da Salvemini. Sraffa fu però
estraneo alla rivoluzione Keynesiana, pur appartenendo alla cerchia più vicina
all’economista inglese. La direzione critica intrapresa da Sraffa, più di
fondo, andava infatti verso il recupero del punto di vista nei riguardi della
teoria della distribuzione del reddito che, a suo avviso, aveva accumunato gli
economisti Classici fino a Marx, ovvero la teoria del
sovrappiù.
Per sovrappiù (S) si intende quella parte del prodotto sociale (P) di
cui l’economia può liberamente disporre una volta accantonate le merci (N) –
inclusi le sussistenze per i lavoratori - necessarie per riprodurre su scala
invariata quel prodotto sociale: S = P – N (si veda P.Garegnani, Marx e gli
economisti classici,
Einaudi, 1981).
Se qualcuno avesse letto l’avvincente Armi, acciaio e
malattie di
Jared Diamond (Einaudi 2006) vedrà come quello studioso ponga l’emergere del
sovrappiù in determinate regioni geografiche come base dello sviluppo di
civiltà superiori. E’ il sovrappiù che permette a una parte della popolazione
di vivere senza dover badare alla produzione di sussistenze, potendo così
dedicarsi all’organizzazione politica e militare, alla scienza e alla tecnica,
al pensiero e all’arte. Se poi voi leggeste l’economista classico Turgot, vi
accorgereste che, forte del concetto di sovrappiù, egli anticipa di 200 anni
l’analisi di Diamond14. Negli economisti classici non v’è
una distribuzione del reddito “naturale” come nei marginalisti. Supponiamo per
esempio che i capitalisti si approprino di tutto il sovrappiù S. Un aumento del
potere contrattuale dei lavoratori, in seguito per esempio a un periodo di
crescita economica, potrebbe però far salire il salario e dunque l’ammontare di
merci di cui i lavoratori si appropriano (ovvero N aumenta). La distribuzione
del reddito dipende dunque fondamentalmente dai rapporti di forza fra le classi
sociali, e questi rapporti sono molto influenzati dal livello della
disoccupazione (l’esercito industriale di riserva di Marx)15.
La riscoperta della teoria del sovrappiù fu esposta da Sraffa
nell’introduzione del 1951 alle opere complete di David Ricardo su cui aveva
scrupolosamente lavorato su incarico di Keynes nei due decenni precedenti. Tale
edizione gli valse nel 1961 la medaglia d’oro dell’Accademia svedese delle
scienze, un onore che Sraffa condivide solo con Keynes e Myrdal16. Nel riscoprire l’impostazione del
sovrappiù Sraffa riproduce il medesimo sforzo che Marx aveva già compiuto
un’ottantina di anni prima. La questione se Sraffa sia giunto alla teoria del
sovrappiù indipendentemente da Marx o meno è politicamente delicata.
L’indipendenza rafforzerebbe in un certo senso la riscoperta (come se due
esploratori indipendenti inviassero due dispacci simili che descrivono una
medesima scoperta geografica). In merito lo studio sulle carte di Sraffa è in
corso.
La riscoperta della teoria del sovrappiù implicava risolvere alcune
questioni relative alla misurazione dei prezzi lasciate insolute da Ricardo e
Marx (si veda Garegnani 1981). Le difficoltà che costoro avevano incontrato nel
misurare il valore delle merci attraverso il lavoro contenuto era stato non casualmente
addotto da alcuni economisti marginalisti come un motivo di abbandono di
quell’impostazione17. I marxisti dal canto loro avevano
fatto quadrato attorno alla teoria del valore lavoro (e molti di loro
continuano oggi). Sraffa suggerì nel 1960 una soluzione alla determinazione dei
prezzi e della distribuzione del reddito che comportava, tuttavia, l’abbandono
della teoria del valore lavoro. Questo ha dato luogo ad accese dispute non
ancora sopite18.
In Produzione di merci Sraffa mise anche in luce le difficoltà della teoria
marginalista del capitale di cui accenneremo ora brevemente. Alcuni e più
evidenti problemi erano ben noti già ai fondatori di quella teoria. Come s’è
detto, essa prende le mosse dalla quantità dei “fattori produttivi” posseduta dai
soggetti economici. Alcuni di questi fattori sono misurabili come quantità
fisiche. Il lavoro di una certa qualità è per esempio misurabile in ore lavoro,
e la quantità di terra con certe caratteristiche in ettari19. Non è questo il caso dello stock
di capitale. Esso consiste di attrezzature eterogenee, come aratri, trattori,
macchinari e migliaia di altri elementi. Lo stock di capitale è dunque
misurabile solo come un valore, moltiplicando la quantità di ciascun elemento per il suo prezzo e
sommando, precisamente come ci insegnavano in prima elementare per calcolare la
spesa della mamma al mercato. Il problema è che ancora non conosciamo i
prezzi dei beni. Vale
a dire, per determinare prezzi e distribuzione, dovremmo conoscere il valore
dello stock di capitale, ma per conoscere il valore dello stock di capitale
dovremmo già conoscere prezzi e distribuzione: un evidente circolo vizioso20. Sraffa mise in luce altre
problematiche e in particolare il complesso fenomeno del “ritorno delle
tecniche” che sarebbe però troppo complicato trattare esaurientemente in questa
sede. Quello che si può dire è che l’implicazione della critica di Sraffa è che
è impossibile tracciare una funzione di domanda di capitale decrescente come
nella figura 3. In altri termini, mentre per gli economisti marginalisti a
minori tassi di interesse le imprese domanderebbero più capitale (vorrebbero
cioè investire di più, assorbendo più risparmio), cioè sarebbero stimolati ad
adottare tecniche che usano più capitale rispetto al lavoro,21 Sraffa dimostra che ciò non accade necessariamente.
Vale a dire minori tassi di interesse potrebbero far diminuire e non aumentare
la domanda di capitale.
Questi risultati condussero alla celebre “controversia fra le due
Cambridge”, fra la Cambridge inglese e il famoso MIT americano che ha sede a
Cambridge nel Massachusetts. Mentre nella Cambridge inglese v’era il fiore dei
seguaci di Keynes, oltre a Sraffa che aveva attirato via via eccellenti giovani
economisti italiani, nella Cambridge americana v’era il fiore degli economisti
della “sintesi neoclassica” (Modigliani, Solow, Tobin) il cui decano era Paul
Samuelson.22Famously Samuelson ammise alla fine che la Cambridge inglese
(ma dovremmo dire italiana!) aveva ragione.
5. Dove andiamo?
Garegnani ed altri hanno
tratto importanti implicazioni della controversia sul capitale, due in
particolare23:
a) la determinazione “armonica” della distribuzione del reddito da
parte della teoria “neoclassica” è errata, e ciò avvalora la ripresa
dell’approccio “conflittuale” degli economisti classici;
b) non è vero quanto sostenuto dalla teoria neoclassica che non vi
sono problemi sistematici di domanda; in quanto la flessibilità del tasso di
interesse non è sufficiente ad assicurare che tutta l’offerta di risparmio di
pieno impiego sia assorbita dagli investimenti (la figura 3 è sbagliata).
Questa conclusione consente di salvaguardare le conclusioni principali della
teoria di Keynes dal riassorbimento nella teoria marginalista.
Nonostante il clamore suscitato, fatto è però che contenuti ed esiti
della controversia sul capitale sono stati progressivamente rimossi dai
curricula universitari, negli Stati Uniti come in Europa, Italia, inclusa,
sicché giovani che abbiano studiato economia negli ultimi vent’anni
difficilmente ne avranno sentito parlare. “Sraffa chi?” è una ben nota tattica
per annichilire gli avversari. Per alcuni anni, tuttavia, i risultati di Sraffa
hanno rafforzato gli indirizzi di ricerca eterodossi, certo in un clima sociale
progressista che reclamava analisi critiche. La forza delle critiche di Sraffa
alla teoria dominante fu che erano analitiche, non ideologiche. Pur nell’ambito
delle crescenti difficoltà ricordate nella prima sezione il lavoro critico va
ancor oggi avanti, per esempio nei riguardi dell’estensione di Keynes ai
problemi di crescita economica. Anche il lavoro di critica sulla teoria del
capitale non si è arrestato, mentre agli inizi è quello sulla teoria monetaria,
un indirizzo coltivato da altre scuole eterodosse, - in Italia per esempio da
quella dello scomparso Augusto Graziani – e che necessità di molte
chiarificazioni24.
Sergio Cesaratto, laureato alla Sapienza con Pierangelo Garegnani nel
1981, è ora professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e
di Politica monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea, Dipartimento di
Economia Politica e Statistica, Università di Siena.
E-mail: sergio.cesaratto@unisi.it; pagina web: http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto; blog:http://politicaeconomiablog.blogspot.com.
Note al testo
E-mail: sergio.cesaratto@unisi.it; pagina web: http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto; blog:http://politicaeconomiablog.blogspot.com.
Note al testo
1 A.Ginzburg,
F.Vianello, “Il fascino discreto della teoria
economica”, in Rinascita,
31, 3 agosto 1973, ripubblicato in AAVV, Marxismo ed economia. Un
dibattito di «Rinascita», Venezia, Marsilio, 1974 (disponibile qui: http://www.fernandovianello.unimore.it/site/home/una-selezione-di-scritti.html); citazione a pag. 15.
2 Sulla storia della
facoltà di economia di Modena si veda il contributo di Fernando Vianello in La
formazione degli economisti in Italia 1950-1975, a cura di GiuseppeGarofaloeAugusto
Graziani, Il Mulino, Bologna 2004). Ça va sans dire che questa
facoltà è da tempo assolutamente “normalizzata”.
3V.Piero
Bini, “Violare gli equilibri. Gli economisti italiani di sinistra nella
crisi degli anni Settanta del Novecento” in Rivista di
Politica Economica, 2013/1; pp.
75-112
4I riferimenti ai decenni
sono ovviamente allo scorso secolo.
5 Circa la stagnazione,
il riferimento è all’eco di un intervento dall’eminente economista di Harvard
ed ex segretario al Tesoro americano Larry Summers (v. Cesaratto, Il
futuro del capitalismo,
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/12/il-futuro-del-capitalismo.html)
6 L’aggettivo
“marginalista” deriva dall’ampio uso del calcolo differenziale in questa
teoria. Il termine “neoclassico” è successivo. Garegnani, l’allievo prediletto
di Piero Sraffa, avvertiva di evitare l’uso di questo termine volto a far
supporre una continuità fra marginalisti ed economisti classici (come Smith e
Ricardo) le cui teorie, al contrario, i primi volevano sostituire.
7 Questo perché tanto
più utilizziamo di un fattore produttivo, data la quantità disponibile degli
altri, tanto minori gli apporti produttivi delle unità aggiuntive (o marginali)
del fattore variabile.
8 In effetti ben prima
di Marx le teorie di Ricardo avevano fatto presa nel movimento operaio
attraverso i “socialisti ricardani”. La teoria di Ricardo non individuava una
distribuzione del reddito “giusta” o “naturale”. Essa era dunque modificabile.
Gli economisti borghesi identificarono ben presto il potere sovversivo di
questa teoria, specie perché espressa dal più rigoroso degli economisti
borghesi sino a quel momento. Ragione per cui dopo la morte di Ricardo cominciò
una ricerca affannosa di una teoria alternativa che emerse però solo cinquanta
anni dopo. Vagiti di questa teoria sono in quella che Marx definì “economia
volgare”.
9 L’Economia del
benessere e l’economia Keynesiana, ma non l’economia critica, furono
l’orizzonte culturale di Federico Caffè. La grandezza di questo economista, la
sua intima eterodossia in primo luogo umana e politica, travalica tuttavia le
dispute dottrinarie.
10 Com’è noto dalla
contabilità nazionale, il valore della produzione è pari a quella dei redditi
distribuiti.
11 Il risparmio è un
flusso (definito per unità di tempo), mentre il capitale è uno stock. Il
risparmio è il flusso che alimenta la vasca (lo stock di capitale). Risparmio e
capitale possono essere identificati a rigore solo se il capitale è tutto
consumato in un solo ciclo produttivo.
12 Dosi aggiuntive di
capitale avranno anch’esse produttività marginale decrescente, come nel caso
del lavoro, per cui esse verranno impiegate solo a minori tassi di interesse.
13 Più precisamente si
deve parlare di un aumento della propensione al risparmio, cioè
della quota di reddito che i soggetti risparmiano. Se tale quota aumenta, serve
un reddito minore per generare l’ammontare di risparmio uguale agli
investimenti dati. Per Keynes non v’è infatti ragione per cui se i soggetti
intendono risparmiare di più le imprese intendono investire di più.
14 Si veda Cesaratto
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2012/08/a-surplus-approach-to-institutions.html
15Imprescindibile è la
lettura del saggio di Michal Kalecki “Aspetti politici del pieno impiego”
(1943) che trovate qui: http://www.econ-pol.unisi.it/petri/Kalecki.doc. Kalecki si può definire
il Keynes marxista in quanto formulò in contemporanea tesi simili a quelle
della Teoria Generale. Nel saggio citato l’economista polacco
spiega perché il capitalismo è incompatibile con la piena occupazione (in
sintesi, la potrebbe realizzare ma a costo di rafforzare troppo la classe
lavoratrice).
16 Com’è noto, il cosiddetto
premio Nobel per l’economia è conferito dalla Banca di Svezia ed è per questo
da molti considerato un Nobel spurio, incluso da membri della famiglia Nobel.
L’introduzione a cui abbiamo sopra accennato fu nei fatti scritta da
Maurice Dobb che raccolse le idee che Sraffa, in seguito alle sue cautele
scientifiche, aveva difficoltà a stendere. Il suo proverbiale acume fece di
Sraffa un compagno ideale di conversazione di Wittgenstein, un aspetto anche
molto studiato, v. per esempio B.McGuinness, “What Wittgenstein Owed to
Sraffa”, in Chiodi G. e Ditta L. (curatori), Sraffa or an alternative
economics, Palgrave Macmillan, Basinstoke 2008; o il saggio di Amartya Sen
che considera anche i rapporti fra Sraffa e Gramscihttp://humanities.cn/Recommended/mathodology/SenSraffaGramsci.pdf. Su quest’ultima relazione
nel quadro dei difficili rapporti fra Gramsci e il PCI – ricordiamo che Sraffa
visitò regolarmente Gramsci in carcere – si è innestata un’annosa polemica
discussa da Giancarlo De Vivo – un rigoroso studioso sraffiano – in
quest’articolo: http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/gramsci-sraffa-e-la-famigerata-lettera-di-ruggero-grieco-1/.
17 Il lavoro contenuto è
il lavoro direttamente e indirettamente occorrente per produrre una merce. Il
lavoro indiretto è quello contenuto nei mezzi di produzione.
L’importanza del problema della misurazione dei valori (prezzi) lo si coglie
guardando all’equazione del sovrappiù S = P – N. Le tre grandezze sono ciascuna
aggregati di merci diverse fra loro. Ne potremmo conoscere la quantità fisica,
per esempio: P = (10 tonnellate di grano, 10 aratri e 8 gioielli); N = (8 di
grano e 8 aratri); S = (2 aratri e 8 gioielli). Com’è noto, tuttavia, non si
possono addizionare o sottrarre mele e pere, dobbiamo dunque assegnare un unico
valore a S, P ed N. Per esempio per misurare S con un’unica grandezza (un
valore), dovremmo moltiplicare i due aratri per il prezzo degli aratri, gli
otto gioielli per il prezzo dei gioielli, e sommare. Ricardo e Marx suggerivano
di misurare il prezzo dell’aratro attraverso il lavoro contenuto in un aratro e
analogamente per le altre merci. Si dimostra però che questa misurazione è
inesatta.
18 In Italia il culmine
fu un convegno tenuto nel febbraio 1978 all’Università di Modena. Lo
straordinario settimanale del PCI Rinascita ospitò durante gli
anni ‘70 molti contributi delle parti in causa.
19 Lavori o terre di
diversa qualità potrebbero essere trattati come fattori produttivi diversi.
20 Nel caso del capitale
non sarebbe lecito trattare ciascun bene capitale fisico (aratri, trattori…)
come un fattore a sé evitando così di sommarli in valore. Se lo facessimo
verrebbe fuori che ciascun bene capitale ha una remunerazione (un saggio di
interesse o di profitto) diversa da quella degli altri beni capitali, ma questo
è illegittimo. Infatti mentre è legittimo ottenere che il salario di lavoratori
con differente qualifica sia diverso, i beni capitali derivano, come visto
sopra, da un unico humus che è il risparmio, e la remunerazione del risparmio
(tasso di interesse o di profitto) deve esser unica, qualunque sia la forma
fisica in cui il risparmio viene investito (aratri, trattori …). La strada di
considerare i beni capitali come una collezione di fattori produttivi definiti
in forma fisica fu intrapresa da uno dei grandi fondatori del marginalismo,
Léon Walras. Vilfredo Pareto che subentrò a Walras nella cattedra di economia a
Losanna evitò del tutto il problema non trattando del problema del capitale.
Questi problemi di teoria del capitale furono riportati alla luce
indipendentemente da Sraffa e nella dalla tesi di dottorato di Pierangelo
Garegnani a Cambridge (Il capitale nelle teorie della distribuzione,
Giuffré 1960). Sulla figura di Garegnani, l’allievo prediletto di Sraffa, si
veda Roberto Ciccone: http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2012/11/ciccone-su-garegnani-un-anno-dalla.html.
21 Se il saggio di
interesse diminuisce il casto del capitale diminuisce e le imprese utilizzano
più capitale per una data quantità di lavoro.
22 Gli
economisti della sintesi cercarono di salvaguardare alcuni precetti
pratici di Keynes pur riconducendone la lezione a un caso particolare della
teoria neoclassica. Un altro grande teorico della sintesi, John Hicks, era
invece a Oxford. Samuelson che aveva grande stima di Sraffa e Garegnani
continuò a discutere con quest’ultimo sino alla sua scomparsa (v. Heinz D. Kurz(Editor) (2013)The Theory of Value and
Distribution in Economics: Discussions between Pierangelo Garegnani and Paul
Samuelson, Routledge, London 2013).
23Garegnani P., Valore
e domanda effettiva, Einaudi, Torino 1979.
24 Né manca l’impegno
nel dibattito pubblico. Per esempio molti autori sraffiani, fra cui Massimo
Pivetti, Giancarlo De Vivo e Antonella Stirati, hanno contribuito all’ e-book Oltre
l'austerità, a cura di S. Cesaratto e di M.Pivetti, download gratuito da:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi.