Karl Marx ✆ Lesco Griffe |
Stefano Bracaletti | La definizione «marxismo analitico» (analytical marxism) si è ormai imposta per identificare
alcuni autori che, tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni
ottanta, hanno tentato una lettura dei testi marxiani e di vari concetti chiave
del materialismo storico – quali sfruttamento, classe e coscienza di classe,
forze produttive e rapporti di produzione – con gli strumenti della filosofia
analitica (G. Cohen) e alla luce di una serie di sviluppi delle scienze sociali
del 900, in particolare di alcuni paradigmi che cominciano ad affermarsi
pienamente a partire dagli anni 60. Questi paradigmi sono l’individualismo
metodologico e il concetto di microfondazione (J. Elster), la teoria dei giochi
e la teoria della scelta razionale (J. Roemer). Centrale è anche, per quanto
riguarda la proposta teorica di G. Cohen, il concetto di spiegazione
funzionale, non tanto nella sua versione sociologica, così come codificata da
R.K. Merton in Teoria e struttura sociale[1], ma con riferimento alle analisi di K.
Hempel ed E. Nagel[2], volte a chiarire possibilità e limiti di
questa forma di spiegazione in un ambito più generale e ad elaborarne una
versione epistemologicamente raffinata, in grado di sottrarsi, almeno parzialmente,
alle molte critiche formulate nei suoi confronti. Un obiettivo polemico dei
paradigmi suaccennati, infatti, è
proprio la spiegazione funzionale ingenua. Con questa espressione ci si riferisce, in generale, alla strategia di spiegare qualcosa – si tratti di un comportamento singolo o collettivo, un’istituzione, un gruppo o una classe sociale – attraverso le (presunte) conseguenze positive che ha su qualche altra cosa, a sua volta un gruppo, una classe, un’istituzione o addirittura un sistema sociale in senso ampio. Più analiticamente, possiamo distinguere tra una forma di spiegazione funzionale sincronica, in cui un’istituzione – lo Stato ad esempio – è spiegata attraverso i suoi effetti (la riproduzione del capitalismo), e una diacronica, cioè una forma di teleologia, in cui un supposto stato futuro della società – ad esempio il comunismo – spiega il presente come sua preparazione: il capitalismo crea le basi materiali del comunismo[3].
proprio la spiegazione funzionale ingenua. Con questa espressione ci si riferisce, in generale, alla strategia di spiegare qualcosa – si tratti di un comportamento singolo o collettivo, un’istituzione, un gruppo o una classe sociale – attraverso le (presunte) conseguenze positive che ha su qualche altra cosa, a sua volta un gruppo, una classe, un’istituzione o addirittura un sistema sociale in senso ampio. Più analiticamente, possiamo distinguere tra una forma di spiegazione funzionale sincronica, in cui un’istituzione – lo Stato ad esempio – è spiegata attraverso i suoi effetti (la riproduzione del capitalismo), e una diacronica, cioè una forma di teleologia, in cui un supposto stato futuro della società – ad esempio il comunismo – spiega il presente come sua preparazione: il capitalismo crea le basi materiali del comunismo[3].
In opposizione a questo modo di
procedere, l’individualismo metodologico, quale modello generale di spiegazione
nelle scienze sociali, considera i fenomeni sociali come il risultato della
combinazione di azioni, credenze o atteggiamenti individuali. Il concetto di
microfondazione specifica che, in particolare dove si enuncia una relazione
funzionale tra variabili o si tenta di spiegare l’affermarsi di un interesse
collettivo è necessario mettere in luce i meccanismi a livello individuale che,
sotto opportune condizioni e attraverso varie forme di aggregazione, danno
luogo al fenomeno complesso. Riuscire a specificare i meccanismi di livello
individuale che permettono alla relazione funzionale di instaurarsi e di
perdurare e all’interesse collettivo di affermarsi, impedisce l’introduzione,
in questo tipo di spiegazioni, della forma di teleologia caratteristica della
spiegazione funzionale ingenua a cui accenavamo. Impedisce, cioè, di dare per
implicito il fatto che un comportamento o un’istituzione si realizzino perché
hanno la funzione latente (cioè non riconosciuta e non voluta dagli attori
sociali) di essere utili a una certa classe o gruppo sociale. Facendo propri
questi due aspetti la spiegazione dei fatti sociali deve, secondo Elster,
strutturarsi in tre passaggi: «la spiegazione causale degli stati mentali come
i desideri e le credenze; poi la spiegazione intenzionale dell’azione
individuale in termini di credenze e desideri soggiacenti. Infine la
spiegazione causale dei fenomeni aggregati o globali a partire dalle azioni
individuali che contribuiscono alla loro formazione»[4].
Da un punto di vista storiografico il
marxismo analitico è stato interpretato sia come una risposta al marxismo
althusseriano (o, più generale, strutturalista) e alle sue pretese teoriche in
parte ritenute eccessive, sia come una ripresa dei temi della razionalità e
della soggettività. Tuttavia, nonostante la diversità dello stile
argomentativo, entrambi hanno in comune la critica alla teleologia. Invero,
come osserva A. Callinicos, Althusser ha in un certo senso preparato la strada
al marxismo analitico mostrando l’irriducibilità di Marx ad Hegel e liberando
il materialismo storico dai residui di pensiero hegeliani. Lo sforzo di
Althusser e Balibar, in Leggere Il Capitale[5], di ricostruire il materialismo storico in
termini strettamente non-hegeliani aveva infatti costituito il punto di avvio
per un riesame critico, una chiarificazione sistematica e per una più
coerente riformulazione teorica dei concetti base del materialismo storico, e
tali operazioni sono ciò che E. O. Wright considera come caratteristiche
fondamentali del marxismo analitico. Il fallimento del progetto althusseriano,
percepito come una sorta di prova dall’esito negativo, – osserva Callinicos –
ha dato maggiore sostanza a quella che A. Levine e E. O. Wright chiamano «la
conclusione provvisoria» alla quale, negli ultimi decenni, era giunto lo studio
scrupoloso di Marx da parte di ricercatori di formazione analitica. Secondo
questa conclusione, nonostante i numerosi proclami, la metodologia di Marx non
presenta caratteristiche particolari, almeno là dove essa approda a conclusioni
solide e ben argomentate[6].
Riguardo ad alcune tematiche
caratteristiche del marxismo analitico, vale la pena di osservare che il
problema del rapporto tra agire intenzionale, scelta individuale e processi
socio-economici oggettivi aveva cominciato ad assumere rilevanza anche
nell’ambito di posizioni assai meno eterodosse di quelle qui presentate. G. Lukács
nell’Ontologia dell’essere sociale [7] aveva tentato di mostrare come Marx
non dimentica mai che dietro le «leggi economiche» esistono sempre posizioni
intenzionali di singoli individui, le quali possono però produrre risultati non
intenzionali. Insistere sul rapporto tra posizioni teleologiche degli individui
e leggi economiche significa non solo rifiutare ogni forma di economicismo ma
anche ogni sorta di teleologia oggettiva che pone, dietro i fenomeni economici
e sociali, una misteriosa necessità non collegata alle intenzioni e agli scopi
degli esseri umani che agiscono. L’interpretazione che Lukács cerca di dare di
Marx può quindi essere considerata una presa di posizione ante litteram contro le forme di spiegazione
funzionalista ingenua.
Sono anche, in particolare, gli anni
in cui J. Habermas sviluppa, nell’Etica del discorso[8] e nellaTeoria dell’agire comunicativo[9], le tematiche
della razionalità e della soggettività, dopo aver già elaborato nel suo testo
del 1976, Per la ricostruzione del materialismo storico[10], uno schema dell’evoluzione storica non
rigidamente basato sullo sviluppo delle forze produttive e sul loro rapporto
con le relazioni di produzione, ma volto piuttosto a concepire una forma di
sviluppo autonomo della coscienza morale in cui ontogenesi e filogenesi
risultino collegate. Mentre Habermas è però più interessato a definire uno
spazio trascendentale di comunicazione libero dal dominio e che valga perciò
come punto di riferimento ideale dei processi d’intesa concreti e di processi
democratici più generali, i soggetti che il marxismo analitico analizza sono
collocati in un quadro conflittuale, in cui centrale è l’agire razionale auto-interessato
e le dinamiche strategiche che permeano l’interazione. In questo quadro l’unica
intesa possibile è un provvisorio coagularsi di interessi in una forma di
azione collettiva.
1. «Rendere Marx sensato?». Teleologia e microfondazione
1.1 J. Elster, nel suo testo Making sense of Marx, legge i testi marxiani alla luce
della contrapposizione «individualismo metodologico» / «spiegazione funzionale
ingenua e teleologia».
Analizzando vari
passi, tratti da diverse opere, egli cerca di mostrare che Marx è caduto spesso
in varie forme di spiegazione funzionale e teleologica, mentre ciò che di
valido ha scritto può essere ricondotto ai principi dell’individualismo
metodologico e al concetto di microfondazione, così come precedentemente
definiti. Lo schema teleologico risulterebbe perspicuo, ad esempio, in alcuni
passi deiManoscritti economico-filosofici del 1844 e dei Manoscritti del 1861-1863 che
identificano l’alienazione e la sua soppressione come l’essenza
dello sviluppo umano. I tratti generali di questo schema sono noti.
In una prima fase l’alienazione – intesa come situazione di non
controllo dell’individuo sulle proprie condizioni di vita e di lavoro e sui
frutti di quest’ultimo, e quindi di dipendenza materiale da altri, di
impossibilità di soddisfare i propri bisogni e di sviluppare in modo creativo
la propria personalità – si afferma in modo necessario a favore dei capitalisti, i quali
possono soddisfare i loro bisogni e, attraverso lo sviluppo delle forze
produttive che essi favoriscono, sono veicolo di civilizzazione. L’operaio
costituisce la base materiale necessaria di questo sviluppo e di questa
civilizzazione ma solo in quanto operaio collettivo appropriato al capitale.
Come individuo singolo, invece, il suo lavoro non gli appartiene ed egli non
può andare oltre la mera sussistenza e il soddisfacimento delle pure funzioni
vitali elementari. La soppressione dell’alienazione, cioè la futura società
comunista, sancirà la possibilità, per ogni essere umano, di essere padrone del
proprio lavoro e dei suoi frutti, di realizzare i propri bisogni e sviluppare
la propria piena individualità. Elster cita anche altri passi dei Grundrisse e delle Teorie sul plusvalore in cui si fa accenno,
ancora, ad una periodizzazione della storia di tipo hegeliano, nella quale,
all’iniziale unità dell’uomo con i mezzi di produzione basata su relazioni di
dipendenza personale oppure sulla proprietà comune, subentra, con la forma
capitalistica, la separazione tra lavoro e mezzi di produzione cui farà
seguito, con il comunismo, il recupero della precedente unità in una forma più
elevata, non lacerata da forme di dominio personale, quale fine di tutto il
processo.
É indubbio che nei passi citati vi
sia una dimensione teleologica, ma bisogna considerare il fatto che essi sono
tratti da testi o non destinati alla pubblicazione – nessuno sa dunque che
forma avrebbero avuto se Marx fosse riuscito a darli alle stampe, che cosa
avrebbe lasciato e che cosa avrebbe eliminato – oppure, come i Manoscritti del 1844, da tesi appartenenti alla
fase giovanile del suo pensiero, fase rispetto alla quale il tema della
teleologia e dell’influsso hegeliano è già stato oggetto di un ampio dibattito.
Di conseguenza, è difficile comprendere l’insistenza e l’asprezza della
polemica condotta da Elster, autore che, peraltro, opera a volte una strana
scelta di citazioni. Trascurando quasi del tutto la linea interpretativa che fa
capo all’Ideologia tedesca – testo in cui Marx
polemizza con i filosofi che hanno rappresentato il processo storico come la
storia dell’«Uomo» e non degli uomini concreti e che hanno visto ogni stadio
dello sviluppo storico come scopo di quelli precedenti – Elster si sofferma in
maniera minuziosa su passi tratti da alcuni articoli scritti da Marx per
il New York Daily Tribune, che hanno, secondo lui, forti
accenti teleologici. In tal senso invita ad esempio a soffermarsi su quanto
Marx afferma sul suo atteggiamento verso la Turchia, ossia che la Russia «non
fu che la schiava inconsapevole e riluttante del fato moderno, la rivoluzione»[11] o che la dominazione britannica in
India fu «lo strumento inconsapevole della storia» per provocare la rivoluzione
in Asia[12]. A ben guardare però
queste espressioni sembrano svolgere una funzione (consapevolmente) narrativa e
retorica giustificata dalla cornice giornalistica[13] e, come fa osservare A.Wood[14], non si trovano mai all’interno di
insiemi di asserzioni programmatiche più generali sul materialismo storico né
tantomeno in loro applicazioni. Appare quindi abbastanza
azzardato collegarle a una visione teleologica generale dello sviluppo storico.
Elster cita poi vari passi tratti
sia, come nel caso precedente, dai Manoscritti del 1844 e da articoli di
giornale, che dal testo Le lotte di classe in Francia e, ancora, dal primo (in
particolare dal capitolo sulla giornata lavorativa) e dal terzo libro del
Capitale, nei quali, a suo parere, Marx utilizza una forma di spiegazione funzionale
ingenua oppure oscilla tra quest’ultima e una forma di spiegazione
microfondata [15]. In particolare, dal terzo libro del
Capitale, Elster cita un passo molto noto sulla mobilità sociale:
Questa circostanza, che costituisce
oggetto di tanta ammirazione da parte degli economisti apologeti, ossia che un
uomo senza ricchezza, ma dotato di energia, di solidità, capacità e competenza
commerciale, si possa così trasformare in un capitalista – e il valore
commerciale di ogni individuo è in generale più o meno giustamente valutato nel
modo di produzione capitalistico – sebbene porti continuamente in campo e in
concorrenza con in capitalisti individuali già esistenti una schiera non
gradita di nuovi cavalieri di fortuna, rafforza la supremazia del capitale
stesso, ne amplia le basi e gli permette di reclutare al suo servizio sempre
nuove forze dagli strati più bassi della società. Precisamente come la Chiesa
cattolica nel Medioevo costituiva la sua gerarchia con i migliori cervelli del
popolo senza preoccuparsi del ceto, della nascita, del censo, costituiva uno
dei mezzi principali per consolidare la supremazia dei preti ed opprimere i
laici. [16]
Secondo Elster, Marx spiega qui la
mobilità sociale per mezzo dei suoi effetti positivi per la classe dominante e
si limita a individuare qualcosa come un meccanismo solo avvalendosi dei vaghi concetti
di «azione» e «interesse» del «capitale», nel senso di sistema capitalistico
nel suo insieme. Quest’espressione avrebbe un senso se il «capitale» fosse in
qualche modo definibile come un attore collettivo. In questo caso, si potrebbe
attribuirgli l’elaborazione di un piano con cui, di fatto, vengono
consapevolmente selezionati i talenti migliori delle classi inferiori al fine
preciso di rinnovare e rafforzare la classe superiore. Il «capitale» – sempre
nel senso di sistema capitalistico complessivo – non è tuttavia trattabile, da
un punto di vista strettamente analitico, come un attore collettivo, mentre lo
è, almeno in linea di principio, la Chiesa, così come qualsiasi altra
organizzazione sociale[17].
Si può tuttavia osservare che in
questo passo, così come in realtà negli altri citati, i fenomeni descritti non
sono spiegati da Marx esclusivamente attraverso le loro conseguenze favorevoli.
Nel passo sulla mobilità sociale, ad esempio, Marx asserisce che la mobilità
sociale ha conseguenze benefiche per il capitalismo – cosa che difficilmente
può essere messa in dubbio – e non già che la mobilità sociale si verifica nel
capitalismo perché ha degli effetti benefici sul sistema. Marx applica dunque
il paradigma funzionale debole, precedentemente ricordato[18], che non presenta alcuna difficoltà
epistemologica. Inoltre come diversi autori, tra cui D. Schweickart [19], hanno sottolineato, non è dato trovare
nel pensatore tedesco, una presa di posizione teorica, di tipo più generale,
secondo la quale un certo evento è spiegabile tramite le sue conseguenze.
1.2.
Intrecciato alla critica al presunto uso, da parte di Marx, di forme di
spiegazione funzionale ingenua, è il tentativo di ritrovare, nei testi
marxiani, analisi che cercano di mettere in evidenza le azioni e le scelte
dell’individuo in quanto entità non completamente condizionata da una struttura
sociale soverchiante. Sono sviluppati in maniera acuta, dal punto di vista
delle dinamiche individuali, diversi concetti tra cui quelli di libertà e
alienazione, anche se a volte è rilevabile un’enfasi forse eccessiva sulle
alternative e sulle possibilità/libertà di scelta del singolo individuo[20].
Le parti di Making sense of Marx dove
tuttavia è possibile cogliere meglio, a nostro avviso, il senso dell’analisi in
termini di microfondazione così come i pregi e i limiti di un approccio basato
sull’individualismo metodologico, sono quelle dove Elster prende in
considerazione la teoria economica marxiana e quei passi della opera di Marx
dove quest’ultimo ha posto direttamente o indirettamente il problema
dell’ideologia, nonché, infine, quelli dove si è soffermato sulla descrizione
delle classi sociali e delle loro dinamiche.
In termini economici, secondo le
assunzioni dell’individualismo metodologico in senso stretto (reali sono solo
gli individui, le loro intenzioni e i loro stati mentali), reali sono solo i
prezzi e non i valori perché coloro che agiscono sul mercato prendono decisioni
significative e consapevoli esclusivamente in base ai prezzi. Ciò spinge Elster
a un drastico e, secondo noi, non sufficiente motivato rifiuto della teoria del
valore. Al di là della critica dal punto di vista logico-metodologico appena
accennata e di qualche riferimento più che tradizionale ai suoi punti di
debolezza, manca, in effetti, in Making sense of Marx, un confronto e una seria
critica a una serie di sviluppi che la teoria del valore ha avuto nella
riflessione teorica successiva a Marx. Questi sviluppi mostrano posizioni
contrastanti. Da una parte troviamo chi sostiene che il nesso causale che
collega valori e prezzi di produzione è piuttosto labile, e può essere
abbandonato senza alterare sostanzialmente le tesi di fondo del Capitale;
dall’altra, chi invece sostiene che, pur essendo rilevabili delle incoerenze
nel procedimento di trasformazione, la teoria del valore rimane fondamentale,
al di là del semplice problema della determinazione dei rapporti di scambio tra
le merci. Questo dibattito è probabilmente tutt’altro che definitivo, ma ha il
merito di chiarire che l’abbandono della teoria del valore non è così scontato
come un suo critico estremo, quale Elster si dimostra essere, potrebbe pensare[21].
Il suaccennato rifiuto da parte di
Elster della teoria del valore insieme, ancora una volta, alla polemica sulla
spiegazione funzionale e teleologica sembra tra l’altro favorire, anche in
questa parte del testo, una determinata strategia espositiva. Per quanto
riguarda il denaro, ad esempio, Elster riporta solo quei passaggi dei
Grundrisse nei quali – secondo lui – Marx lo descrive come un’entità mistica
autonoma, dotata di un proprio movimento dialettico, e nei quali la negazione
dei principi dell’individualismo metodologico giungerebbe al suo massimo grado.
Questa interpretazione trascura gli aspetti più empirici dell’analisi di Marx
sviluppati nel Capitale, dove Marx si occupa in modo approfondito e con
acutezza di problemi monetari, ritenendoli importanti per comprendere la
dinamica di breve periodo dell’economia capitalistica. I fenomeni monetari
contribuiscono in modo specifico, secondo Marx, alle fluttuazioni economiche,
anche quelle riguardanti l’economia reale[22]. Le analisi di Marx sui problemi monetari
connessi al ciclo sono perfettamente compatibili con un’impostazione basata
sulla premessa del comportamento razionale degli individui. È discutibile,
inoltre, che Marx abbia messo in pratica – come Elster sostiene sempre a
proposito di alcuni passi dei Grundrisse sul denaro – un processo di
ipostatizzazione mistica delle categorie economiche; ha invece cercato di
cogliere un processo di ipostatizzazione reale messo in atto da individui reali
secondo ipotesi coerenti con l’individualismo metodologico.
In generale, allora, per quanto
riguarda la teoria economica di Marx, Elster salva solo quelle analisi che
contengono, secondo lui, spunti coerenti con l’individualismo metodologico e
con il concetto di microfondazione, cioè, come già abbiamo sottolineato, con
un’impostazione che parte dal comportamento razionale dei singoli individui e
da esso deduce entità collettive e fenomeni di livello globale o aggregato.
Questa impostazione si ritrova, secondo Elster, in alcune intuizioni sul
progresso tecnico e la scelta delle tecniche di produzione, nell’analisi del
processo di equalizzazione dei saggi del profitto oltre che nella struttura
logica della teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto. Queste
due spiegazioni in particolare, così come sono formulate da Marx nel terzo
libro del Capitale, sono fondate in modo corretto a livello delle motivazioni e
delle azioni individuali, si basano cioè sul comportamento razionale dei
capitalisti e da questo deducono grandezze aggregate. L’equalizzazione dei
saggi del profitto avviene, infatti, attraverso lo spostamento di capitali tra
i vari settori messo in atto dagli imprenditori razionalmente motivati a
investire in quelli ad alto saggio del profitto. Attraverso una miriade di
movimenti di questo tipo, regolati da domanda e offerta (in alcuni settori che
erano ad alto saggio la domanda comincia a cadere a causa dell’eccesso di
capitali investiti, causando lo spostamento di capitali verso altri settori
dove la domanda è ancora alta) si arriva appunto alla formazione di un saggio
medio.
Per quanto riguarda la caduta del
saggio di profitto, il singolo capitalista è razionale nell’introdurre
innovazioni che risparmiano lavoro. Ciò gli permette, infatti, di oggettivare
meno lavoro nelle merci da lui prodotte e quindi di venderle ad un valore
individuale inferiore al valore sociale, cioè di venderle allo stesso prezzo di
mercato anche se i costi di produzione sono minori, ottenendo così un
sovra-profitto. Poiché però, ovviamente, questo processo è messo in atto da
tutti i capitalisti, nel lungo periodo si avrà complessivamente una riduzione
della quantità di lavoro impiegata nei processi produttivi, cioè del capitale
variabile, e un aumento del capitale costante. Questo fatto avrà come
conseguenza, un aumento della composizione organica data appunto dal rapporto
tra capitale costante e capitale variabile (c/v). Anche il saggio di plusvalore
(p/v=s) aumenta, in particolare a causa dell’aumento della produttività
dell’industria che produce beni-salario. Si consideri ora la formula del saggio
di profitto data da r=p/(c+v). Se si divide ogni termine (sia a numeratore che
a denominatore) per v essa diventa: r=s/(c+1), cioè saggio del
plusvalore/(composizione organica del capitale + 1). Da questa formula, se
l’aumento della composizione organica del capitale è, sul lungo periodo,
maggiore del saggio di plusvalore, si ottiene la tendenza alla riduzione del
saggio di profitto. Un fenomeno aggregato, che riguarda cioè il sistema
economico nel suo insieme, è quindi spiegato partendo dal livello micro della
razionalità individuale, ovvero la ricerca del profitto da parte dei singoli
capitalisti che causa appunto l’aumento della composizione organica.
Non entriamo qui nel merito della
discussione che si è svolta sulla validità di questa legge. Marx stesso aveva
evidenziato una serie di cause antagoniste alla caduta del saggio del profitto,
tra cui il fatto che l’aumento della composizione organica e quindi l’aumento
della produttività, a causa dello sviluppo tecnologico e della progressiva
meccanizzazione della produzione, si verifica in tutti i settori dell’economia.
Si riduce, quindi, il valore non solo dei beni salario ma anche quello dei beni
capitali. Per questa ragione la composizione organica in termini di valore
potrebbe aumentare in modo lento, o non aumentare affatto. Questa riduzione del
valore dei beni capitali potrebbe quindi costituire non – come la definiva Marx
– una «causa antagonistica» alla riduzione della composizione organica espressa
in valore, che col tempo affievolirà i suoi effetti, ma un ostacolo assoluto.
Un altro aspetto significativo è l’andamento del saggio del plusvalore. Per
Marx, come si è evidenziato esponendo la struttura della legge stessa, non
necessariamente esso è costante, a causa della continua innovazione tecnologica
che tende a far diminuire il valore dei beni salario. Nella sua visione,
tuttavia, questo fatto compensa la progressiva riduzione del capitale variabile
(cioè del numero di operai effettivamente impiegati) soltanto parzialmente, nel
senso che il saggio del plusvalore non può aumentare oltre un certo limite.
Questo limite, però, se si assume una crescente produttività del lavoro e i
salari quasi sempre su livelli di sussistenza, non è per nulla definito. È
quindi un fatto empirico determinare la direzione in cui il saggio del profitto
si muove. Sul piano strettamente analitico non si può sostenere a priori niente
di preciso[23]. Elster, comunque, salva
solo la struttura logica della legge negando ad essa qualsiasi validità
empirica. Secondo diversi autori, tuttavia, partendo da alcune premesse, come
la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la teoria della caduta
tendenziale del saggio del profitto risulterebbe verificabile empiricamente[24]. In ogni caso, l’insieme di analisi che
va sotto il nome di «teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto»,
staccato dalla sua cornice apocalittica, può diventare la base di una teoria
del ciclo economico con minori pretese ma più controllabile. Ad esempio,
secondo la teoria economica recente, all’origine dell’inflazione e dei periodi
di ristagno vi è la spirale prezzi-salari. Una politica dei redditi, in accordo
con le organizzazioni dei lavoratori, è considerata il mezzo più efficace per
rendere stabile il livello di occupazione. Marx, pur partendo da un modello di
capitalismo di pura concorrenza, riteneva che il salario, nei periodi di
espansione, sarebbe salito al di sopra del costo della forza lavoro e avrebbe
tolto incentivi a nuovi investimenti. Egli diede così avvio alle spiegazioni
«endogene» del ciclo economico oggi ampiamente accettate[25].
Per quanto riguarda l’ideologia,
nelle parti della sua opera dove si è soffermato su questo problema, Marx
generalmente non ha usato, secondo Elster, spiegazioni funzionaliste ingenue –
cioè non ha dato per scontato che una certa visione della realtà si affermi
solo in quanto utile a una certa classe sociale – ma è stato coerente con
una forma di spiegazione intenzionale, descrivendo meccanismi alla cui base ci
sono individui, i loro interessi i loro stati cognitivi ed emozionali.
È possibile ritrovare in Marx la
descrizione di quattro tipi di meccanismi ideologici[26] aventi, quale comune denominatore,
la comprensione del tutto dal punto di vista della parte o, da un punto di
vista leggermente diverso, la generalizzazione a un ambiente globale di
caratteristiche valide solo localmente. Abbiamo allora: 1) l’inversione tra
soggetto e predicato. Si tratta di un meccanismo cognitivo-motivazionale, nel
quale cioè la spiegazione delle credenze è in parte basata sulla posizione
sociale e in parte sull’interesse. Ne costituisce un esempio la critica alla
religione ripresa da Feuerbach, a sua volta criticato da Marx per il limite
della sua concezione dell’uomo, completamente astratto dai rapporti sociali.
Secondo Feurbach, com’è noto, alla base della religione si trova un meccanismo
di proiezione: l’uomo proietta i suoi attributi (forza, capacità, amore,
intelligenza) nella figura della divinità, rendendola così una potenza autonoma.
Il discorso feuerbachiano viene sviluppato da Marx nel concetto di alienazione
in ambito economico-sociale, in cui, come nella religione, l’uomo è schiavo del
proprio prodotto. Un ulteriore aspetto di quest’inversione è l’astrazione. Con
questo termine Marx interpreta, nell’Ideologia tedesca, gli effetti della
divisione del lavoro, divisione a causa della quale gli agenti di ogni sfera
della produzione non materiale (diritto, politica, religione, morale) fissano
il loro ambito di competenza come assoluto, facendone il riferimento ultimo e
la forza propulsiva della realtà. Il secondo meccanismo è 2) la
rappresentazione dell’interesse particolare di una classe come interesse
generale della società, in particolare nei periodi rivoluzionari. Si tratta di
un meccanismo «caldo», cioè motivazionale dove la spiegazione delle credenze è
basata sull’interesse. Da vari passi dell’Ideologia tedesca, del Diciotto
brumaio, de Le Lotte di classe in Francia emerge, in effetti, come Marx
ritenesse necessario un meccanismo «caldo» di formazione delle credenze in
vista dell’azione politica, più precisamente una forma di wishful thinking,
cioè di illusione cognitiva per la quale sovrastimiamo la possibilità di
realizzarsi di ciò che torna a nostro vantaggio. Esiste certamente una base
oggettiva delle coalizioni tra classi, nel senso che gli interessi della classe
che prende l’iniziativa coincidono parzialmente con quelle delle classi che
sono chiamate a collaborare. Questa base deve essere tuttavia promossa e
affermata attraverso l’illusione dell’universalità dell’azione politica. Questa
universalità viene sia propagandata e sostenuta dai politici della classe che
sale al potere, sia accettata, almeno parzialmente, da coloro che ad essi danno
appoggio. Abbiamo poi 3) l’imperialismo concettuale, meccanismo «freddo», in
cui la spiegazione delle credenze è basata sulla posizione sociale. Si verifica
quando una forma sociale o una parte di essa, in generale considerata meno
avanzata, viene giudicata con categorie proprie di un’altra forma sociale o di
una sua parte, considerata, al contrario, più avanzata. In particolare, Elster
richiama il fatto che, nelle Teorie sul plusvalore, Marx mette in guardia
contro l’applicazione di categorie capitalistiche all’artigiano indipendente o
al contadino piccolo proprietario, cioè contro l’applicazione di categorie
capitalistiche ai settori non capitalistici di un’economia prevalentemente
capitalistica. Alla base di questo errore c’è l’illusione ideologica che i
mezzi di produzione siano sempre e comunque capitale.
Il meccanismo generale che è alla
base di questi tre esempi, cioè la generalizzazione di caratteristiche locali
ad una realtà globale si ritrova anche in forma autonoma. In questo caso 4) la
spiegazione delle credenze è basata sulla posizione sociale. Si tratta
dell’errore per cui, dal fatto che un certo predicato o un insieme di predicati
risulta vero se applicato a un singolo agente, si deduce che sia vero anche
quando viene applicato alla totalità degli agenti. Elster cita qui un passo del
terzo libro del Capitale in cui Marx coglie questa fallacia in relazione
all’uso del capitale come capitale impiegato nella produzione o come capitale
che produce interesse[27]. Dal fatto che ognuno possa
individualmente usare il proprio capitale non in attività produttive ma come
capitale che viene prestato fruttando un interesse, è errato credere che tutti
possano farlo. Se ciò si verificasse la produzione reale si arresterebbe e la
struttura economica capitalistica non esisterebbe più come tale.
Analisi coerenti con il principio
dell’individualismo metodologico si ritrovano anche nella parte delle Teorie
sul plusvalore in cui Marx esamina le teorie dei mercantilisti e degli
economisti da lui definiti «volgari», dal punto di vista degli errori cognitivi
alla base di esse. Elster ha parole di notevole apprezzamento per queste
analisi[28]. Sussiste però a nostro
avviso una contraddizione tra questa valutazione positiva e il rifiuto
sostanziale da parte di Elster della teoria del valore, cui abbiamo
precedentemente accennato. Invero, la critica da parte di Marx agli economisti da
lui definiti «volgari» si definisce proprio a partire dalla teoria del valore,
che si accetti o no questa teoria. In essa, la rendita e il profitto sono viste
come parte del plusvalore, a sua volta sottrazione dal valore complessivo
oggettivato dall’operaio, in opposizione alla visione degli economisti
«volgari» che ritengono, al contrario, che salario profitto e rendita siano una
giusta retribuzione per il contributo dei fattori produttivi lavoro, capitale e
terra. Essi generalizzano, così, il punto di vista superficiale degli agenti
della produzione, ognuno dei quali considera necessaria, da un punto di vista
funzionale, la propria partecipazione al processo produttivo. Questo problema
né solleva un altro più profondo e cioè la compatibilità della teoria del
valore con i principi dell’individualismo metodologico. Come si ricorderà,
analizzando il modo in cui Elster legge la teoria economica marxiana, abbiamo
cercato di mostrare che il concetto di feticismo può essere conciliabile con i
presupposti ontologici dell’individualismo metodologico. Il problema, per
quanto riguarda la teoria del valore, è costituito dal rapporto tra valori e
prezzi di produzione. Come già abbiamo avuto modo di sottolineare, dal punto di
vista di una concezione economica coerente con una forma individualismo
metodologico in senso stretto (reali sono solo le azioni di individui basate su
intenzioni coscienti), reali sono solo i prezzi perché coloro che agiscono sul
mercato prendono decisioni significative esclusivamente in base ad essi. In una
concezione siffatta i valori devono necessariamente essere considerati entità
sconosciute agli agenti economici, entità che, in altri termini, non entrano
nei loro calcoli e nelle loro valutazioni e non influenzano minimamente le
dinamiche dell’economia; in una parola: entità «metafisiche». Tuttavia, ciò che
Marx voleva dimostrare è proprio il fatto che le dinamiche del valore si
impongono alle spalle degli agenti produttivi e che questi hanno, come
nell’esempio che abbiamo esaminato, una visione superficiale e contraddittoria
della realtà economica basata solo sui prezzi. O si liquida questo aspetto –
come Elster effettivamente fa – quale «residuo hegeliano» del pensiero di Marx,
oppure, da questo punto di vista, l’individualismo metodologico sembra
difficilmente conciliabile con la teoria del valore e, in senso più ampio, con
la metodologia marxiana.
Nel capitolo di Making sense of Marx
dedicato ai vari spunti marxiani riguardanti una possibile analisi delle classi
sociali, Elster si propone di considerare queste ultime come possibili attori
collettivi. Ed è questo principio che ispira anche la sua interpretazione dei
testi marxiani, sebbene questa parte sia quella che più si allontana dal filo
testuale, spostandosi piuttosto verso un tentativo di elaborazione autonoma del
concetto di coscienza di classe e della possibilità di una sua microfondazione.
Ciò significa spiegarla in base alle motivazioni e agli interessi dei singoli
individui, alle condizioni che favoriscono od ostacolano appunto la presa di
coscienza di questi interessi e che permettono che essi possano
«coagularsi» nell’azione collettiva, senza presupporre che questa
coscienza sia data a priori semplicemente in virtù di una particolare
collocazione nella struttura sociale. In particolare, riguardo al problema
della coscienza di classe, Elster cita alcuni passi in cui Marx sembrerebbe
oscillare tra due visioni di questo fenomeno. Da una parte, una visione
microfondata, secondo la quale gli sforzi che i lavoratori compiono per ottenere
benefici economici cambiano i lavoratori stessi, creando in essi il desiderio
di andare oltre questi benefici in nome di obiettivi politici. Gli interessi di
più ampio respiro, quindi, non emergono prima dell’organizzarsi stesso dei
lavoratori, volto a confrontarsi con i capitalisti sugli interessi più
immediati[29]. Dall’altra, una visione
teleologica dove quegli sforzi hanno solo la funzione di tramite necessario per
creare la coscienza di classe e per promuovere la rivoluzione politica,
indipendentemente dai concreti risultati economici. Si osservi comunque che
anche in questo caso si tratta di opere non destinate alla pubblicazione o
comunque di scritti di circostanza. Dal punto di vista testuale la
ricostruzione di Elster del concetto di coscienza di classe parte richiamando
un famoso passo del Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte in cui Marx parla della
condizione di reciproco isolamento dei contadini francesi definiti come «patate
in un sacco» e in opposizione alla quale enuncia i tre requisiti fondamentali
affinché si possa parlare di classe per sé. Questi requisiti sono la comunanza
di interessi, la presenza di legami nazionali e l’organizzazione politica.
Prima di arrivare alla classe per sé, tuttavia, è possibile, secondo Elster,
identificare due categorie intermedie, e cioè, innanzitutto, la classe per
altri, nel senso dell’identità di un gruppo di persone che si forma
semplicemente attraverso l’opposizione a un altro gruppo. A questo proposito,
Elster fa l’esempio – tratto dall’antropologia – di un membro di una
determinata tribù che vede i membri di un’altra tribù come un gruppo
indifferenziato verso il quale egli ha lo stesso schema di comportamento. Egli
non dimentica di far osservare che Marx ha comunque sfiorato questo concetto,
parlando della classe lavoratrice inglese come classe in opposizione al
capitale, ma non ancora per sé, e della borghesia tedesca che già si trova in
conflitto con il proletariato, senza essere politicamente costituita come
classe[30]. Un secondo livello è la
solidarietà. La contrattazione collettiva è un esempio di solidarietà così
come, sempre in questo ambito, il rifiuto che una parte della classe operaia
può opporre allo stipulare un accordo con i padroni, a proprio vantaggio ma a
svantaggio degli altri lavoratori. Elster definisce allora la coscienza di
classe in senso affermativo (cioè non definita, come nel caso della classe per
altri, per negazione) come «la capacità di superare il problema del free-rider
nella realizzazione degli interessi di classe»[31]. Il conflitto principale è quindi quello
tra l’interesse del singolo individuo e l’interesse della classe. Tuttavia
anche la classe può essere tentata di comportarsi come free-rider, rispetto ai
suoi interessi a lungo termine.
Un altro aspetto fondamentale per
comprendere le motivazioni all’azione collettiva sempre dal punto di vista
della microfondazione sono i guadagni e le perdite di chi vi si impegna. Chi
agisce deve quindi valutare: a) il guadagno che gli deriva dalla cooperazione,
b) Il guadagno che gli deriva comportandosi da free-rider, c) La perdita che
gli deriva se è lui il solo a impegnarvisi. Chiaramente, la probabilità
dell’azione collettiva aumenta all’aumentare di a) e diminuisce all’aumentare
di b) e c). Sempre dal punto di vista dei requisiti in vista dell’azione
collettiva, ulteriori aspetti di una microfondazione della coscienza di classe
risultano essere: 1) la comprensione che i membri della classe hanno della
situazione in cui si trovano, delle cause che l’hanno determinata e dell’identità
delle altre classi; 2) la capacità di andare oltre il conflitto immediato,
faccia a faccia, e di capire le varie mediazioni che si oppongono alla
comprensione delle vere responsabilità dello sfruttamento (i lavoratori,
infatti, non interagiscono direttamente con i proprietari dell’impresa ma con i
managers). Un ostacolo al realizzarsi di queste condizioni può essere,
tuttavia, la mancanza, nella vita quotidiana, di un’assoluta certezza di dove
giace la linea di demarcazione tra le classi. Altre determinanti della
motivazione all’azione collettiva sono: 1) l’ampiezza del gruppo; 2)
l’isolamento o la vicinanza dei potenziali soggetti dell’azione collettiva; 3)
Il livello di turnover del gruppo[32].
L’insieme di fattori così
evidenziati, quali determinanti dell’azione collettiva e della formazione della
coscienza di classe, deve a sua volta essere integrato da alcuni presupposti
metodologici di carattere più generale. Questi presupposti sono: 1) non
presumere, a priori, che l’azione collettiva porti dei benefici al gruppo ma
considerare, innanzitutto, il singolo attore e attribuirgli un comportamento
razionale e autointeressato. Questo è il primo livello su cui deve situarsi la
spiegazione; 2) se così non si riesce a spiegare la sua partecipazione
all’azione collettiva, occorre considerare delle possibili motivazioni
altruistiche. Se neppure in questo modo si giunge a una spiegazione
soddisfacente, è sensato introdurre motivazioni irrazionali[33]. Il modello base in cui questi
presupposti si incarnano è il gioco del dilemma del prigioniero in cui la non
cooperazione è la strategia dominante. In esso la cooperazione può
emergere in due forme distinte, a seconda che il gioco abbia come
soggetto la classe operaia o la classe capitalista. Nel primo caso – il dilemma
del prigioniero diventa un gioco di assicurazione. Nel secondo diventa un gioco
ripetuto indefinitamente. Il passaggio dalla strategia dominante, egoistica,
all’altruismo avviene, in entrambi i casi, attraverso la regola-principio
«coopera solo se l’altro coopera nel primo round», oppure, da un altro punto di
vista, «coopera solo se ti aspetti che l’altro cooperi». Si può parlare,
quindi, di preferenza condizionale per la cooperazione, che per realizzarsi
necessita di informazioni sulle motivazioni dell’altro.
Come abbiamo poco sopra osservato,
questa parte è quella che più si allontana dal filo dell’analisi testuale. Per
quanto interessante, quindi, non è chiaro lo statuto dell’insieme di concetti
che abbiamo esposto all’interno del lavoro propriamente ricostruttivo
elsteriano. A volte rimangono accenni isolati, perciò non si riesce a cogliere
completamente quale relazione abbiano con il testo e il pensiero marxiano, come
nel caso delle considerazioni svolte da Elster sui presupposti dell’azione
collettiva e di alcuni accenni a quella che egli chiama «tecnologia dell’azione
collettiva» e che comprende un insieme di analisi più tecniche sui costi e i
benefici dell’azione collettiva e sulla sua formazione. Altre volte questi
concetti sono visti come almeno compatibili con l’approccio marxiano anche se
Marx non li ha usati. Così ad esempio, afferma Elster, Marx nelle sue analisi
non accenna mai all’isolamento, al turnover, alla dimensione o all’omogeneità
del gruppo come fattori che possono influenzare l’azione collettiva, ma essi
risulterebbero perfettamente compatibili con le sue concezioni generali[34]. Altre volte ancora Elster lo accusa di
non aver saputo cogliere alcuni problemi, lasciando sottintendere che alla base
vi sia, come al solito, una carenza del quadro metodologico d’insieme[35]. Così, sempre a proposito del problema
del free rider applicato alla classe come attore collettivo, egli scrive: «se i
gruppi d’interesse latenti risolvono il loro problema del free rider e riescono
a organizzarsi, può sorgere tra i gruppi un problema di free riding di ordine
superiore. Ogni gruppo ha interesse ad accrescere la sua parte del prodotto
sociale, anche se, così facendo, riduce il totale da suddividere a causa delle
perdite secche associate ai monopoli, ai costi di contrattazione ecc. Marx non
ha mai preso in considerazione questa eventualità»[36].
Certo, è piuttosto problematico
collegare, in maniera non estrinseca, questi concetti così tecnici e specifici
e, in generale, questo tipo di analisi, che presuppongono lo sviluppo di una
vasta parte delle scienze sociali di questo secolo, a un pensatore come Marx
che aveva un diverso quadro teorico di riferimento e altre preoccupazioni sia
metodologiche che di ordine sostanziale. Tuttavia, al di là di qualche
forzatura legata all’impostazione «micro» (come abbiamo sottolineato, non
sembra facile per il singolo individuo, nell’immediatezza della vita
quotidiana, riuscire a calcolare i costi e i benefici dell’azione collettiva.
Gli si attribuisce una razionalità quasi impossibile da avere in molte
situazioni) le intenzioni di Elster sono qui fondamentalmente apprezzabili.
Marx, infatti, sottolinea che un insieme di individui diventa un fattore
d’importanza sociale significativa, quando intraprende un’azione collettiva e
assume quindi una dimensione politica. Le difficoltà cominciano, in effetti,
proprio qui. Marx è stato consapevole del rapporto profondamente problematico
tra classe in senso strutturale – intesa cioè come caratteristiche di un
insieme di individui generate da un dato sistema economico – e classe come
attore dinamico del processo storico. Egli ha prestato, tuttavia, un’attenzione
molto minore al secondo gruppo di problemi e al modo in cui le classi assumono
forme sociali e politiche «attive» e definite. In generale, inoltre, il nesso
tra coscienza dello sfruttamento e coscienza della possibilità di un
cambiamento dell’ordine economico sembra essere, nelle società odierne,
piuttosto labile. La prima forma di coscienza è abbastanza diffusa la seconda
si verifica invece raramente[37]. Le analisi di Elster danno un contributo
al chiarimento di questi aspetti anche se, data la prospettiva
metodologica di fondo, rimangono in ombra molti problemi con cui la teoria
marxista ha dovuto confrontarsi quando ha cercato di spiegare, da un punto di
vista non soltanto formale, il sorgere o meno della coscienza di classe nei
lavoratori[38].
1.3.
A conclusione della nostra esposizione, vogliamo soffermarci più
approfonditamente sul concetto di individualismo metodologico e di quello
connesso di riduzionismo quali chiavi di lettura delle analisi marxiane.
Seguendo J. Sensat, possiamo fissare alcuni requisiti che devono definire in
modo più preciso l’individualismo metodologico. Questi aspetti sono: 1) individualismo ontologico; 2) psicologismo; 3) generalità delle
leggi che riguardano il livello di spiegazione individuale; 4) a-socialismo[39].
Il requisito dell’individualismo ontologico implica che solo
gli individui in carne ed ossa siano reali, e solo ad essi siano pertanto
attribuibili proprietà di vario livello. Non esistono cioè proprietà che
riguardano pensieri, intenzioni, stati mentali di entità sopraindividuali. Le
spiegazioni a livello individuale devono inoltre richiamarsi sempre a una forma
di psicologismo, devono, in altri termini, porre come
primarie le disposizioni cognitive e motivazionali del soggetto in un
determinato contesto. Questo contesto può anche essere sociale, ma deve in ogni
caso essere definito psicologicamente. Ad esempio, reti di potere in termini di
preferenze, intenzioni e aspettative reciproche delle persone, quindi, per
chiarire, non in termini giuridici, sulla base di codici e regolamenti, né in
termini di risorse. La generalità delle
leggi fondamentali che riguardano il livello di spiegazione individuale è il
terzo requisito. Esse devono essere applicabili a qualsiasi contesto e non solo
a situazioni specifiche. Così ad esempio, se volessimo spiegare la reazione di
rabbia di x verso i propri capi, quale
risposta a una mancata promozione, dovremmo fare riferimento non a una
particolare disposizione di x (è ambizioso
e quindi è rimasto particolarmente deluso), né alla particolare dinamica legata
all’ambiente di lavoro (è normale, se non si riceve una promozione che ci
si aspettava, sviluppare rabbia contro i propri superiori), ma a una
disposizione generale dell’essere umano che prescinde da tratti particolari del
carattere del singolo attore e dal particolare ambiente in cui è situato. Essa
può essere enunciata come segue[40]: se l’azione di un individuo
non riceve la ricompensa che questi si attendeva o dà luogo a un castigo
imprevisto, l’individuo metterà in atto con più probabilità un comportamento
aggressivo e giudicherà più validi i risultati di questo comportamento. Il
criterio appena definito è determinante per definire un effettivo livello
individuale di spiegazione, livello che deve quindi portare questa dimensione
di generalità nell’approccio al comportamento in contesti sociali. Il quarto
requisito è l’a-socialismo (asocialism). Esso
richiede, in modo rigoroso, che il vocabolario usato al livello di spiegazione
individuale non comprenda attributi sociali dei soggetti. Si deve, cioè,
riuscire a definire gli stati mentali, fisici ed emozionali degli individui
senza far riferimento alle dinamiche relazionali ed istituzionali in cui questi
individui sono coinvolti, quindi in termini esclusivamente psicologici. Il
vincolo dell’a-socialismo non nega che gli eventi sociali
possano determinare negli individui credenze e desideri. Il problema è semmai
la natura di quelle credenze e di quei desideri: detto altrimenti, il problema
è, usando il vocabolario adeguato, se sia possibile definirli in modo autonomo
rispetto al livello della realtà sociale, oppure se qualsiasi loro occorrenza
debba essere spiegata come non determinabile indipendentemente da un processo
sociale di qualche tipo.
Indipendentemente dalla possibilità e
dall’utilità di verificare se una teoria sociale soddisfi o no questi requisiti,
l’analisi di Marx non può essere inserita in una metodologia che rispetti i
punti summenzionati, eccezion fatta per l’individualismo ontologico. Nel
pensatore tedesco si ritrova infatti una netta opposizione a un tipo di analisi
sovrastorica e generalizzante. Illuminante a questo proposito è l’analisi
svolta, sempre da Sensat, del modo in cui Marx tratta il concetto
di concorrenza. Marx, senza rifiutare l’individualismo ontologico, rifiuta però
una descrizione a-sociale della concorrenza.
Quest’ultima è una caratteristica immanente del capitalismo sviluppato e non
qualcosa di contingente, che si aggiunge, per così dire, dall’esterno,
attraverso decisioni individuali dei capitalisti. Non è possibile definire il
capitalista come ruolo sociale senza la relazione di concorrenza[41]. Il fatto di cercare in tutti i modi di
tener bassi i salari, ad esempio, non è una scelta rispetto alla quale il
capitalista potrebbe avere alternative. Anche se i singoli capitalisti possono,
in effetti, percepire la concorrenza come qualcosa che esercita una costrizione
contro il loro presunto libero arbitrio, non avrebbe senso affermare che se non
fossero costretti dalla concorrenza, essi non farebbero ogni sforzo per
limitare i salari e pagherebbero di più gli operai. Infatti se non ci fosse la
concorrenza che impone questa dinamica significherebbe che l’economia non è di
tipo capitalistico e quindi non esisterebbero neppure i capitalisti e i
lavoratori salariati. Allo stesso modo, quando Marx, nell’Introduzione al primo
libro delCapitale, afferma di trattare il capitalista
esclusivamente come personificazione di una categoria economica e come
portatore di relazioni e di interessi di classe, sta negando la possibilità di
una forma di riduzionismo psicologico. Esistono leggi di una determinata sfera
sociale (in questo caso leggi del mercato) che sono indipendenti dalle
motivazioni individuali e alle quali ci si deve adattare qualsiasi possano essere
queste motivazioni. Queste leggi quindi costituiscono un livello esplicativo
sociale soverchiante, rappresentato dalla necessità di essere competitivi
attraverso varie strategie e quindi dalla necessità di reinvestire
continuamente i profitti per riprodurre il ciclo denaro–merce–maggiore denaro.
Ad esso possono corrispondere, a livello psicologico, varie motivazioni:
semplice sete di denaro, di prestigio sociale e di potere, oppure accumulazione
di denaro con l’intenzione, da un certo momento in poi, di vivere di rendita e
coltivare i propri hobbies, di avviare un progetto di beneficenza o persino,
per assurdo, di finanziare la rivoluzione proletaria. Marx quindi, senza negare
possibilità d’azione al singolo individuo, cerca di collegarla a delle strutture
sociali dotate di una loro autonomia e stabilità[42]. D’altra parte Marx esclude anche il
concetto di generalità. Come precedentemente precisato, esso specifica che le
leggi fondamentali che riguardano il livello di spiegazione individuale non
devono essere applicabili soltanto a delle situazioni sociali particolari,
dovendo essere appunto generali. Infatti, nel Capitale, Marx nega
utilità esplicativa al concetto di produzione in generale, espressione che
dovrebbe indicare un insieme di leggi sovrastoriche della produzione. Queste
ultime, pur essendo in qualche modo determinabili, non contribuiscono, se non
in maniera trascurabile, alla comprensione del funzionamento di un determinato
modo di produzione. In conclusione Marx può dunque essere considerato un
anti-riduzionista. L’antiriduzionismo riconosce l’importanza di considerare il
microlivello nella spiegazione dei fatti sociali, ma tiene ferma
l’irriducibilità delle spiegazioni di macrolivello.
2. Una lettura “analitica” della
Prefazione del 1859. Priorità delle forze produttive e spiegazione
funzionale.
2.1. Gerald A. Cohen nel suo libro Karl Marx’s theory of history. A defence[43], tenta di applicare la spiegazione
funzionale al materialismo storico, proponendone una versione
epistemologicamente «avvertita» attraverso i concetti di fatto disposizionale
(dispositional fact) e legge di conseguenza (consequence law). Una consequence
law è un’asserzione condizionale il cui antecedente è un’asserzione causale
ipotetica, definita appunto fatto disposizionale. Formalmente: se si dà il caso
che, se un evento del tipo E accade, esso provoca l’evento F (fatto
disposizionale), allora un evento del tipo E accade[44]. Il condizionale «se E allora F» –
se un evento del tipo E accade, esso provoca l’evento F – viene definito fatto
disposizionale perché generalizza la disposizione/propensità di un certo
evento, in certe condizioni ad avere un certo effetto. Più specificamente esso
generalizza la disposizione/propensità, in una determinata società, di
una certa pratica o di una certa istituzione a causare un determinato effetto
utile ed esprime quindi una forma di regolarità. Esso deve pertanto riferirsi a
un fatto empiricamente osservato od osservabile. Allo scopo di mettere in
risalto questo aspetto, la consequence law può essere enunciata anche come
segue: l’evento e si è verificato a causa della sua propensità (disposizione) a
causare l’evento f perché ogni volta che la classe di eventi E causa la classe
di eventi F la classe di eventi E si verifica (fatto disposizionale)[45].
Consideriamo, per esempio,
l’affermazione «la danza della pioggia ha, in situazioni di tensione, la
funzione di ristabilire la coesione sociale». Essa, così come è enunciata, è un
asserzione funzionale ingenua, perché spiega il verificarsi della danza della
pioggia con il fatto che essa serve per ristabilire la coesione. Proviamo ora a
tradurla in una legge di conseguenza. Il punto fondamentale, come già
accennato, per poter enunciare una legge di conseguenza è la messa in luce del
fatto disposizionale. Devono allora darsi le due seguenti condizioni: 1)
deve essere stato accertato empiricamente che, ogni volta che si creano situazioni
di tensione, una determinata società, con determinate caratteristiche, mette in
atto una forma di interazione sociale definita danza della pioggia. Oppure, in
forma più debole, deve essere stato accertato empiricamente che, ogni volta che
si creano situazioni di tensione, una determinata società, con determinate
caratteristiche mette in atto alcune forme rituali tra le quali ci può essere
la danza della pioggia; 2) deve essere stato accertato empiricamente che, in
seguito a queste pratiche, si ristabilisce la coesione. Se effettivamente la 1)
e la 2) sono state accertate, possiamo enunciare la consequence law nella forma richiamata poco sopra:
se si dà il caso che, se E accade esso
provoca F (fatto disposizionale), allora E accade. Passando al caso concreto: se si dà il
caso che, se la danza della pioggia viene messa in atto essa causa un
alleviamento della tensione, allora la danza viene messa in atto. In
simboli:
( E F ) E
Il fatto disposizionale, che
nell’esempio è l’asserzione condizionale (se quella determinata società mette
in atto la danza della pioggia, o un’altra pratica rituale analoga, la sua
coesione sociale si ristabilisce), generalizza la disposizione/propensità della
danza della pioggia in quella società a ristabilire la coesione. Oppure:
generalizza la disposizione/propensità di varie pratiche rituali tra cui la
danza della pioggia, in quella società, a ristabilire la coesione.
L’evento e danza della pioggia si è verificato a causa
della sua propensità (disposizione) a causare l’evento f coesione sociale perché ogni volta
che la classe di eventi E (insieme di
pratiche rituali) causa la classe di eventi F (alleviamento tensione, coesione sociale…) la
classe di eventi E si verifica. Il fatto
disposizionale riguarda solo quella particolare società. Essa possiede
caratteristiche tali che sviluppa certe pratiche piuttosto che altre per
ristabilire la coesione[46].
Secondo Cohen la spiegazione
funzionale, nella forma della legge di conseguenza appena analizzata, riesce a
risolvere un problema di relazione causa-effetto insito nelle enunciazioni
tradizionali del materialismo storico[47]. In esse si manifesta infatti una forma
di reciprocità non simmetrica di cui non è chiaro lo statuto logico.
Consideriamo le note asserzioni:
1) l’affermarsi di determinate forze produttive determina (causa) l’affermarsi di determinate relazioni produzioni. Essa può anche essere formulata in modo più generale: il livello di sviluppo delle forze produttive di una società spiega la natura della sua struttura economica;
2) le relazioni di produzione favoriscono lo sviluppo delle forze produttive. O anche, come ne caso precedente: la struttura economica di una società favorisce lo sviluppo delle forze produttive;
3) L’affermarsi di determinate relazioni di produzione determina (causa) l’affermarsi di determinati rapporti giuridici e politici. O anche: la struttura economica di una società spiega la natura della sua sovrastruttura.
4) I rapporti giuridici e politici favoriscono lo stabilità delle relazioni di produzione. O anche: la sovrastruttura di una società favorisce la stabilità della struttura economica.
Nella prima asserzione viene
affermata la priorità dello sviluppo delle forze produttive che determinano
causalmente l’affermarsi di determinata relazioni. Allo stesso tempo però,
nella seconda asserzione, viene asserito che i rapporti favoriscono questo
sviluppo. Le relazioni di produzione, quindi, non sembrano essere qualcosa di
secondario rispetto alle forze produttive, anche perché rispetto a un certo di
tipo di forze produttive sono adatte solo determinate relazioni di produzione
e, senza il venire in essere proprio di queste relazioni, quelle forze non si
svilupperebbero o comunque non potrebbero funzionare in maniera proficua. La
schiavitù, ad esempio, sarebbe incompatibile con una società basata su una tecnologia
avanzata. Il rapporto che le relazioni intrattengono con le forze produttive –
espresso appunto nel verbo «favorire» – non è però dello stesso tipo
strettamente causale di quellom che le forze produttive intrattengono con le
relazioni. Lo stesso discorso vale per il rapporto tra relazioni di produzione
e rapporti giuridici e politici. In pratica, si afferma che un certo evento ne
causa un altro e nello stesso tempo che quest’ultimo è necessario al sussistere
del primo, anche se non c’è simmetria, cioè non
si dà lo stesso rapporto di causa-effetto dal secondo al primo che si dà dal
primo al secondo. È appunto il modello della spiegazione funzionale che riesce,
secondo Cohen, a chiarire il tipo di rapporto che sussiste tra le relazioni di
produzione e le forze produttive e la sua non simmetria. Riprendendo quindi gli
schemi precedenti:
1) L’evento e – l’instaurarsi di determinate relazioni di produzione – si è verificato a causa della sua propensità (disposizione) a causare l’evento f – lo sviluppo delle forze produttive – perché ogni volta che la classe di eventi E causa la classe di eventi F la classe di eventi E si verifica (fatto disposizionale). Oppure: se si dà il caso che, qualora in una determinata società determinate relazioni di produzione si affermino, esse favoriscono lo sviluppo delle forze produttive, allora quelle relazioni si affermano.
2) L’evento e – l’entrata in vigore di determinati rapporti giuridici e sociali – si è verificato a causa della sua propensità (disposizione) a causare l’evento f – la stabilità di determinate relazioni di produzione – perché ogni volta che la classe di eventi E causa la classe di eventi F la classe di eventi Esi verifica (fatto disposizionale). Oppure: se si dà il caso che, qualora in una determinata società un insieme di rapporti giuridici entri in vigore, esso contribuisce alla stabilità delle relazioni di produzione, allora quel insieme di rapporti entra in vigore.
Nella 1) il fatto disposizionale
espresso dal condizionale «se in una determinata società l’affermarsi di
determinate relazioni di produzione favorisce lo sviluppo delle forze
produttive, allora quelle relazioni si affermano» generalizza la
disposizione/propensità di determinate relazioni di produzione a favorire lo
sviluppo delle forze produttive. Allo stesso modo nella 2) il fatto
disposizionale espresso dal condizionale «se in una determinata società, un
insieme di rapporti giuridici ha come effetto di contribuire alla stabilità
delle relazioni di produzione, allora quei rapporti giuridici si affermano»
generalizza la disposizione/propensità di determinati rapporti giuridici a
contribuire alla stabilità delle relazioni di produzione.
2.2 Una
volta chiarita la logica della spiegazione funzionale e la sua applicabilità a
un determinato ambito di problemi, il lavoro interpretativo di Cohen sui testi
marxiani è volto a mostrare come, a partire da questi, sia possibile formulare
le tesi centrali del materialismo storico attraverso la costruzione di insiemi
coerenti di proposizioni, legate insieme da regole logico-deduttive, sulla base
di termini il cui significato è definito in modo rigoroso. Questo insieme di
termini riguarda in particolare i concetti di forza produttiva e di relazioni
di produzione e permette, da un lato, di chiarirne l’ambito di applicabilità e,
dall’altro, di spiegarne il rapporto, secondo il tipico modo di procedere della
filosofia analitica.
G. Kirkpatrick chiarisce
molto bene il rapporto che la ricostruzione testuale di Cohen intrattiene con
questa tradizione di pensiero:
Nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein pone con urgenza l’esigenza filosofica di chiarezza per quanto riguarda il problema dei differenti significati che le parole hanno in diversi contesti. La sua soluzione è quella di rinunciare definitivamente ai tentativi di fondazione ultima del significato che devono essere sostituiti dall’analisi che le parole hanno in contesti ristretti. L’analisi del linguaggio deve concentrarsi sui giochi linguistici all’interno dei quali ogni termine ha un senso ben definito, confermato dalla coerenza nel comportamento di coloro che usano questo termine, e ad esso rispondono, in quel limitato contesto. In maniera corrispondente, l’uso da parte di Cohen della filosofia analitica nella sua ricostruzione di Marx definisce la teoria di quest’ultimo come un insieme di descrizioni operative in un ambito ristretto, analogamente alla concezione wittgensteiniana dei giochi linguistici. Nel lavoro di Cohen l’enfasi è posta sul tentativo di stabilire un insieme di definizioni che costituisce la base di una teoria della storia, grazie alla loro precisione analitica rigorosamente circoscritta[48].
Il primo passo consiste allora in una
delimitazione netta di quali entità possono essere ricomprese nel concetto di
forza produttiva e quali devono esserne escluse. A questo scopo, Cohen
definisce le forze produttive da tre diversi punti di vista: estensionale –
quali oggetti e quali fenomeni possono essere catalogati sotto il concetto di
forza produttiva? – intensionale – quali proprietà sono condivise dagli oggetti
che cadono sotto il concetto di forza produttiva e quindi quale
definizione di essa possiamo dare, in modo da capire se un certo oggetto, durante
un suo uso determinato, è una forza produttiva oppure no? – e teorico.
Quest’ultimo specifica come viene usato il concetto di forza produttiva
all’interno della teoria del materialismo storico. Dal punto di vista
estensionale abbiamo da una parte i mezzi di produzione – a loro volta
suddivisi in strumenti di produzione, spazi in cui la produzione si svolge e
materiale grezzo – e, dall’altra, la forza lavoro. Nel concetto di forza
lavoro, considerata come forza produttiva, rientrano naturalmente le facoltà di
coloro che producono: forza fisica, capacità, conoscenza, inventiva ecc.[49]. Dal punto di vista intensionale, per
qualificarsi quale forza produttiva «un oggetto deve essere passibile di uso da
parte di un agente della produzione in modo tale che la suddetta produzione si
verifichi (almeno parzialmente) come risultato del suo uso e in modo tale che
sia possibile definire il contributo di questo oggetto alla produzione come
disegno intenzionale di qualcuno»[50]. Dal punto di vista teorico, infine,
abbiamo quattro condizioni: un oggetto può definirsi una forza produttiva se 1)
la sua proprietà da parte di qualcuno contribuisce a definire la posizione di
costui all’interno della struttura economica della società; 2) si sviluppa nel
corso della storia; 3) contribuisce a spiegare la relazioni di produzione della
società in cui si è sviluppato; 4) il suo sviluppo può essere ostacolato o
favorito dalle relazioni di produzione in cui è inserito[51].
Le forze produttive così
definite costituiscono, insieme alle persone, gli elementi delle
relazioni di produzione. Le relazioni di produzione possono essere tra una
persona (o gruppo di persone) e un’altra persona (o gruppo di persone) o tra
una persona (o gruppo di persone) e una forza produttiva (o gruppo di forze
produttive). Le relazioni di produzione sono, quindi, sia relazioni di
proprietà di persone su forze produttive o su persone, sia relazioni tra
persone che presuppongono quelle relazioni di proprietà. Con il termine
«proprietà», Cohen intende non un rapporto legale ma un rapporto di controllo
effettivo. Su questa base è possibile elaborare uno schema dei possibili
diversi rapporti di proprietà, a seconda che l’individuo non possegga/possegga
parzialmente/possegga totalmente i mezzi di produzione con i quali opera.
In questo schema[52], che comprende tutte le varie tipologie
che si sono storicamente affermate, lo status di subordinazione è fondamentale
per definire il proletario. Infatti, si può essere possessori della forza
lavoro e non possessori dei mezzi di produzione senza essere proletari, com’è
il caso dei liberi professionisti. Da queste definizioni e da queste analisi
emerge, secondo Cohen, una distinzione più profonda tra proprietà
materiali/fisiche e sociali degli oggetti e degli individui, ben nota
nell’ambito di tutta l’opera marxiana. Vengono citati a questo proposito vari
passi dei Grundrisse, del Capitale e delle Teorie sul plusvalore.
Per esempio, essere uno schiavo, (per un essere umano) essere capitale (per un
mezzo di produzione), sono proprietà che emergono solo all’interno di
determinate relazioni economiche e sono quindi proprietà relazionali. Cohen
cita il seguente famoso passo di Marx da Lavoro salariato e capitale:
un negro è un negro. Egli diviene schiavo soltanto in determinati rapporti di produzione. Un filatoio meccanico è una macchina per filare il cotone. Esso diviene capitale soltanto in determinati rapporti di produzione. Strappato a queste relazioni esso non costituisce capitale più di quanto l’oro di per sé costituisca denaro[53].
Secondo E.M. Wood[54], tuttavia, Cohen, insistendo
su questa opposizione, altera il senso del discorso marxiano. Marx, fa
notare la Wood, non è interessato all’opposizione tra «materiale» e «sociale»
ma a definire il «materiale» attraverso il «sociale». Fondamentale in questo
senso è la sua critica agli economisti classici che partono dal livello
materiale, identificato come «produzione in generale», e in seguito considerano
il processo di produzione capitalistico come se fosse questa produzione in
generale, e non una forma storicamente determinata, e come se il capitale
stesso fosse un’entità fisica e non un rapporto sociale. Marx vuole quindi
mostrare ciò che l’astrazione nasconde, non ciò che essa svela. Paradossalmente
quindi, secondo la Wood, Cohen – non comprendendo questo aspetto – compie lo
stesso errore che Marx critica. Le osservazioni della Wood non colgono però
l’impostazione di fondo del lavoro di Cohen che consiste – come già abbiamo
avuto modo di sottolineare – nel definire campi del discorso diversi a livello
analitico, in cui ogni definizione, alla Wittgenstein, riceve il suo senso solo
all’interno del campo stesso, così come la forma di spiegazione in atto trova
legittimità solo in relazione a quel preciso insieme di definizioni. Secondo
quest’impostazione le proprietà relazionali o sociali, all’interno della
determinata struttura economica in cui sorgono, hanno la stessa importanza
delle proprietà materiali. Ad esempio, quindi, non è logicamente corretto
affermare che un uomo non è uno schiavo come tale o che dei mezzi di produzione
non sono capitale in sé. Le varie entità fisiche (vale naturalmente per le
forze produttive) hanno differenti insiemi di proprietà – un insieme di
proprietà sociali ed un insieme di proprietà materiali – entrambe ad un certo
tempo t, altrettanto reali ed effettuali, anche se possono
essere prese e analizzate separatamente. Nessuna caratteristica sociale inoltre
può essere dedotta da caratteristiche materiali Una connotazione distintiva
proposta da Cohen di una descrizione sociale è allora la seguente: «una
descrizione è sociale se e solo se comporta l’ascrivere a persone – specificate
o non specificate – diritti e poteri nei confronti di altre persone» [55].
Poter definire con precisione due
insiemi distinti di caratteristiche, sociali e materiali, fornisce il punto di
partenza per una spiegazione storica che si collochi su un piano di sufficiente
universalità. Questo significa che, attraverso le categorie finora evidenziate,
si riescono ad afferrare i caratteri fondamentali di qualsiasi società. Su questo
schema di base possono poi essere integrati i fattori storico-sociali
contingenti. Cohen, sottolinea ancora Kirkpatrick «situa le descrizioni di tipo
storico sul confine tra i resoconti scientifici di fenomeni materiali e le
descrizioni sociali dell’interazione umana. Oggetti naturali come rocce, acqua,
mare ecc, rientrano nella teoria della storia all’interno di descrizioni che
mettono in luce la loro relazione con la riproduzione sociale umana, come
“materie prime” o “mezzi di produzione”. In modo simile, i fenomeni sociali
rientrano nella teoria della storia all’interno di descrizioni che insistono
sulla loro qualità di categorie generali e costanti, piuttosto che sugli
aspetti più limitati relativi ad un’epoca»[56].
2.3 Una
volta definita, secondo le linee che abbiamo esposto, la possibilità di una descrizione
esclusivamente materiale della società, Cohen si propone –
attraverso una serrata analisi dellaPrefazione alla critica
dell’economia politica e, in seguito, cercando di estendere i
risultati ottenuti alle analisi di Marx sulla struttura economica capitalistica
– di mostrare come il concetto di sviluppo delle forze produttive sia centrale
in tutta l’opera marxiana, come Marx attribuisca priorità a queste ultime
rispetto alle relazioni di produzione e come, infine, si possa sostenere questa
priorità in modo logicamente coerente.
Dalla Prefazione alla critica
dell’economia politica – scomponibile in sei asserzioni fondamentali[57] – emergono, secondo Cohen, due idee
centrali e cioè che 1) le forze produttive tendono a svilupparsi nel corso
della storia e 2) la natura delle relazioni di produzione di una società è
spiegata dal livello di sviluppo delle sue forze produttive. La prima è
definita da Cohen tesi dello sviluppo (development thesis), la seconda tesi
della supremazia [sottinteso: delle forze produttive] (primacy thesis). La
development thesis rappresenta, secondo Cohen, lo sfondo teorico di tutte le sei
asserzioni della Prefazione. La primacy thesis è invece riscontrabile nella
prima asserzione. Ciò che essa afferma – secondo Cohen – con l’espressione «le
relazioni di produzione corrispondono alle forze produttive», è che le prime
sono come effettivamente sono in quanto funzionali (nel senso di «favorevoli
allo sviluppo») alle seconde. In altri termini, la tesi sostanziale di Cohen è
che il concetto di corrispondenza, espresso nella prima asserzione, deve essere
preso in senso non simmetrico. Le forze produttive sono il polo primario e sono
quindi le relazioni di produzione che mutano in caso di conflitto. La
corrispondenza asimmetrica assume la forma della spiegazione funzionale. L’uso
di quest’ultima ha la sua radice logica in questa non-simmetria e allo stesso
tempo la fonda, secondo le linee precedentemente viste[58].
Spostandosi dal piano esclusivamente
logico-sintattico, Cohen tenta anche di fornire alla development thesis una
forma di microfondazione, mettendo sostanzialmente in atto una strategia
esplicativa psicologista, secondo la quale spiegare un fenomeno sociale
significa ricondurlo a un insieme di asserzioni di tipo psicologico generale e
sulle circostanze materiali. Il concetto di sviluppo delle forze produttive,
fino a questo momento considerato come un dato ultimo, è allora collegato a tre
asserzioni astratte sulla natura umana. Le asserzioni proposte da Cohen sono:
a) gli uomini sono razionali; b) la situazione storica degli uomini è una
situazione di scarsità; c) gli uomini hanno l’intelligenza che permette loro di
migliorare la situazione in cui si trovano[59]. Esse possono fornire una spiegazione di
ciò che, secondo Cohen, l’evidenza storica mostra chiaramente, e cioè che le
forze produttive non solo vengono progressivamente sostituite da forme sempre
più avanzate ma, effettivamente, tranne che in casi eccezionali, non
regrediscono mai.
J. Elster richiama tuttavia
l’attenzione proprio sulla mancanza, nel testo, di un’evidenza storica precisa
a favore della development thesis, esprimendo alcune riserve sulla possibilità
di riferirsi con certezza ad un incessante ed universale sviluppo delle forze
produttive: «Cohen non menziona le ragioni psicologiche ed istituzionali che in
molti periodi storici hanno impedito il progresso tecnico, come la mancanza di
obiettivi d’investimento (in mancanza del sistema dei brevetti) o la mancanza
di motivazioni all’investimento (come avvenne per la non-diffusione del mulino
ad acqua nell’antica Roma). Il materialismo storico, nella visione di Cohen,
afferma l’esistenza di un progresso tecnico senza interruzioni nel corso della
storia, anche se a un tasso ineguale. In alternativa, si potrebbe sostenere che
le forze produttive sono state largamente statiche fino a tempi recenti, quando
l’avvento del capitalismo ha reso possibile una rottura rivoluzionaria. Ciò
sarebbe coerente con i molti passi nei quali Marx insiste sul carattere
conservatore dei precedenti modi di produzione, anche se in disaccordo con le
affermazioni più generali della Prefazione del 1859»[60].
L’analisi della Prefazione prosegue
mettendo in luce tutti i possibili nessi logici tra le varie asserzioni,
mantenendo sempre come riferimento la forma della spiegazione funzionale e le
tre asserzioni sulla razionalità umana. La nostra chiave di lettura di queste
analisi, che riassume e tenta ad un tempo di sviluppare autonomamente lo sforzo
interpretativo di Cohen sui nessi logici della prefazione, cercando di
precisare il concetto di contraddizione, può essere presentata secondo le linee
seguenti[61]: se, in virtù delle tre
asserzioni summenzionate, le forze produttive hanno la tendenza a svilupparsi
(development thesis) e, secondo la logica della spiegazione funzionale, i
rapporti di produzione hanno una certa forma perché essa serve a favorire
questo sviluppo (asserzione 1 e primacy thesis) potrà succedere che, a un certo
momento, questo rapporto di funzionalità si incrini e si determini un’instabilità
delle relazioni di produzione. L’adeguamento può non essere immediato e
ovviamente possono esserci resistenze su molteplici piani. Entro certi limiti,
tuttavia, esso sarà possibile con modificazioni non sostanziali dei rapporti.
Quelle che sono semplici disfunzionalità possono però trasformarsi in
conflitto, che possiamo considerare come un contrasto non risolvibile sulla
base di quei rapporti (asserzione 2), qualora si verifichino le condizioni
seguenti: le forze produttive per le quali c’è spazio all’interno di quei
determinati rapporti si sono sviluppate (asserzione 5) e nuove condizioni
materiali sono mature all’interno della società (asserzione 6). In questo caso
i rapporti divengono ostacoli insormontabili allo sviluppo delle forze
(asserzione 3). Si danno allora due casi: α) le forze produttive cessano di
svilupparsi; β) le relazioni cambiano. Il caso α) non è possibile perché nelle
forze è insita la tendenza allo sviluppo ed inoltre la corrispondenza non è
simmetrica, ma le forze produttive sono il dato primario, mentre le relazioni
devono adeguarsi (primacy thesis). Subentra quindi un’epoca di rivoluzione
sociale (asserzione 4); nel caso β) le relazioni cambiano e le forze produttive
possono riprendere a progredire[62].
La limpidezza delle argomentazioni
fin qui esposte non deve però trarre in inganno. Si tratta infatti di un
livello esclusivamente logico-sintattico che si ridimensiona considerevolmente
non appena tentiamo un confronto tra la coerenza logica sviluppata sui
testi marxiani e l’aspetto più concreto dell’evidenza storica ed empirica. A
questo proposito, le critiche e le osservazioni più significative sono
probabilmente quelle sviluppate da A. Levine, E. Sober e E. O. Wright che si
sono ampiamente soffermati sulle difficoltà del rapporto tra razionalità, agire
collettivo e i due livelli delle forze produttive e delle relazioni di
produzione, mettendo in dubbio l’idea – alla base della development thesis – di una razionalità
sovrastorica e di una scarsità assoluta come motivi dell’agire umano, espressa
nelle tre asserzioni sulla razionalità umana formulate da Cohen. Riguardo alla
scarsità, ad esempio, ogni epoca storica e ogni classe sociale sembrano avere
un proprio termine di riferimento, espresso dalle abitudini di vita così come
dagli stili di consumo: quante calorie sono necessarie per una dieta adeguata,
quanto e con quanta intensità si può lavorare, la durata media della vita.
Anche la stessa razionalità sembra determinata dai rapporti di produzione ed
appartenere, comunque, ad un soggetto socialmente definito, guidato da fini
determinati storicamente e definibili razionali esclusivamente per lui, in
quanto membro di una determinata classe sociale. Così, ad esempio, a causare il
miglioramento dei mezzi di produzione in epoca feudale non fu un’astratta
istanza razionale a lottare contro la scarsità naturale e ad aumentare la
produttività, ma la razionalità «concreta» dei signori feudali, che volevano
estrarre un maggior surplus dai
contadini per finanziare le proprie continue guerre per la supremazia sui
territori. Il contadino feudale non beneficiava minimamente del
lentissimo sviluppo delle forze produttive in questo periodo e la sua
razionalità concreta, se avesse avuto i mezzi per renderla storicamente
effettuale, lo avrebbe con ogni probabilità spinto a scegliere un assetto
sociale senza sviluppo delle forze produttive ma senza la sottomissione ai
signori[63].
Un altro punto significativo riguarda
l’assenza, nel discorso di Cohen, di un riferimento ad un soggetto reale,
storicamente determinato in grado di stabilire un rapporto tra razionalità
astratta e prassi sociale e che, quindi, svolga un ruolo effettivo nel
cambiamento dei rapporti di produzione. Così, nel modo di produzione asiatico
la particolare struttura dello Stato e delle forze produttive stesse determinò
un’evidente incompatibilità tra queste e le relazioni di produzione cosicché lo
sviluppo delle prime rimase stagnante per secoli. Nonostante ciò, non si arrivò
mai a una situazione di contraddizione, che, secondo lo schema di Cohen,
avrebbe dovuto implicare una sorta di automatica attività volta al cambiamento.
A causa, infatti, della centralizzazione del potere statale, della mancanza di
autonomia politica delle città e dell’appartenenza dei mercanti alla classe
dominante, non riuscì ad emergere, come invece avvenne in occidente, una classe
imprenditoriale protocapitalistica, cioè un attore razionale collettivo che,
lottando contro la classe al potere e promuovendo lo sviluppo delle forze
produttive, si rivelasse realmente in grado di farsi carico di quel cambiamento[64].
Inoltre, non è immediato sostenere
che, nel caso di una contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione, sono questi ultimi che devono necessariamente modificarsi. Non è
possibile, infatti, evitare il problema dell’agire razionale della classe che
dovrebbe attuare il cambiamento sociale, in altri termini, il problema delle
sue capacità e possibilità d’azione. Una classe sociale può avere interesse al
cambiamento dei rapporti sociali, ma non possederne le capacità e le risorse
necessarie. Nel caso della classe lavoratrice, inoltre, queste stesse capacità,
com’è storicamente ed empiricamente dimostrabile, dipendono da una serie di
fattori non legati allo sviluppo delle forze produttive, bensì di ordine
ideologico e politico, che possono anche agire in senso sfavorevole. Ne sono un
esempio i processi sistematici di segmentazione del mercato del lavoro, le
divisioni razziali ed etniche con effetti sulle differenze occupazionali
all’interno della stessa classe. Lo stesso sviluppo delle forze produttive può
agire negativamente sulla classe operaia, indebolendola, come, di fatto, è
avvenuto negli ultimi 30 anni nei paesi a sviluppo capitalistico avanzato.
Così, è un dato di fatto che, grazie agli straordinari progressi nelle
telecomunicazioni e nei trasporti, la borghesia ha potuto organizzare la
produzione su scala globale, sfruttando i paesi dove il costo del lavoro è più
basso. Produzione diretta e sua coordinazione tecnica restano così separate e
ciò rende più facile il controllo sui lavoratori. L’enorme sviluppo della
tecnologia bellica, infine, ha reso molto più difficile l’azione di movimenti
insurrezionali di qualsiasi tipo. Più in generale, i costi connessi al processo
di cambiamento potrebbero essere talmente elevati da scoraggiare qualsiasi
attore razionale, anche se il risultato, in caso di successo, fosse per lui
vantaggioso. Se, quindi, le capacità e le possibilità d’azione della classe
operaia – cioè dell’attore razionale che dovrebbe risolvere la contraddizione
tra forze e relazioni di produzione a favore delle prime – dipendono da fattori
e dinamiche proprie delle relazioni di produzione e non possono essere derivate
dallo sviluppo delle forze produttive come tali, diventa estremamente problematico
attribuire logicamente un primato alle forze produttive sostenendo che le
relazioni sono spiegate in modo funzionale dalla loro tendenza a favorire lo
sviluppo delle prime[65].
Il determinismo tecnologico di Cohen
potrebbe forse trovare un riscontro storico-empirico in alcune analisi nelle
quali la tesi che l’elemento fondamentale per comprendere la struttura e lo
sviluppo e di una società risiede nella sua tecnologia, è sostenuta da ampie
ricerche comparate[66]. Rimane tuttavia il problema di fornire
delle solide motivazioni teoriche del perché attribuire priorità assoluta alla
tecnologia, quale fattore che condiziona in modo determinante gli altri livelli
della riproduzione sociale e, a livello epistemologico, rimangono i problemi
richiamati nel corso dell’esposizione, legati al particolare rapporto che
sussiste tra forze e relazioni di produzione e alla sostanziale difficoltà, se
non impossibilità, di dare priorità alle prime pur nella forma della
spiegazione funzionale. Sotto questo aspetto allora, anche se la tesi,
sostenuta da Marx nella Prefazione del 1859, secondo
la quale esiste una tendenza delle forze produttive a svilupparsi e una
tendenza dei rapporti di produzione, del diritto e della politica ad adattarsi
a questo sviluppo, può, se collegata con la ricerca empirica, e verificata
società per società, essere plausibile, il rapporto tra questi due livelli
potrebbe essere del tutto irriducibile, dal punto di vista storico, economico e
sociologico, ad enunciazioni di tipo generale. Tuttavia, anche se gli automatismi descritti in Karl Marx’s theory of history difficilmente
possono essere proposti fuori da un ambito linguistico-testuale, pena il
rischio di una forma di meccanicismo ormai insostenibile, il lavoro
ricostruttivo di Cohen, rappresenta un importante contributo sulle possibilità
e sui limiti del concetto di spiegazione funzionale applicata al materialismo
storico. Esso, inoltre, come abbiamo avuto modo di vedere, propone,
specialmente nella prima parte, illuminanti analisi ed esempi di cosa
effettivamente siano le forze produttive e le relazioni di produzione e sui
loro rapporti effettivi, nonché, se si accetta l’impostazione analitica, una
chiarificazione del livello di astrazione a cui può muoversi una possibile
teoria della storia.
3. Sfruttamento, scambio ineguale e
assetti alternativi.
3.1. Nell’opera A general theory of exploitation and class[67], J.E. Roemer mette al centro della sua
riflessione il concetto di sfruttamento, usando come riferimento la definizione
classica: un agente è sfruttato/sfruttatore se il lavoro che ritira dal mercato
attraverso il suo reddito è minore/maggiore del lavoro che ha erogato.
Rimanendo fedeli a questo presupposto, è possibile costruire un modello che
permetta, eventualmente con alcune rinunce sul piano teorico, di identificare
in modo inequivocabile agenti sfruttati e agenti sfruttatori? É
possibile, inoltre, definire lo sfruttamento in maniera non teleologica, cioè
non dare per scontato che esso si verifichi solo perché ci sono persone povere
e persone ricche e/o perché è utile a queste ultime?
Per rispondere a questi
interrogativi, Roemer propone in sostanza il concetto di «scambio ineguale» –
nel quale agenti dotati di differenti tecnologie, una più avanzata[68] e l’altra meno avanzata, scambiano i
loro prodotti – inquadrato in un modello di equilibrio generale. Lo
sfruttamento viene cioè definito rispetto a situazioni nelle quali agenti ottimizzanti,
dotati appunto di differenti tecnologie, si incontrano su mercati competitivi,
nei quali non c’è eccesso di domanda di lavoro, non ci sono capitali che
rimangono inutilizzati o imprese che falliscono, quindi non c’è disoccupazione
e non ci sono merci invendute. A partire da questi presupposti – di cui ora
chiariremo il senso – e dalla possibilità di definire un tempo di lavoro
sociale medio, vengono poi proposti tre differenti modelli che specificano lo
sfruttamento in diversi assetti istituzionali.
Nel primo modello[69], anche senza l’esistenza di un mercato
dove il lavoro sia venduto e acquistato, ma attraverso il semplice scambio di
merci, l’agente che usa la tecnologia più avanzata si appropria di una quantità
di ore di lavoro maggiore della quantità da lui oggettivata (o, da un altro
punto di vista, lavora meno del tempo di lavoro medio) e quindi, secondo la
definizione, risulta uno sfruttatore. L’agente che usa la tecnologia meno
avanzata si appropria di una quantità di ore di lavoro minore della quantità da
lui oggettivata (o, da un altro punto di vista, lavora più del tempo di lavoro
medio) e quindi, secondo la definizione, risulta sfruttato. Per afferrare
meglio questo punto, immaginiamo una situazione astratta, nella quale esistono
solo due agenti economici X e Y. X produce beni di sussistenza con una
tecnologia avanzata. Egli produce un paniere medio, nel quale c’è tutto il
necessario per esattamente 2 persone per un mese al livello di sussistenza, in,
per ipotesi, 30 ore esatte (15 ore per se stesso e 15 ore per Y). Y possiede
una manifattura artigianale di vestiti che impiega una tecnologia non
sviluppata. Facciamo l’ipotesi che i vestiti debbano essere sostituiti una
volta al mese. Il tempo di lavoro è qui di 60 ore (30 ore per produrre i propri
vestiti e 30 ore per quelli di Y). Il tempo complessivo di lavoro di questa
economia è 90 ore, cioè 30+60. Il tempo di lavoro medio sociale è 90/2 = 45. Possiamo
interpretare questo lavoro medio come se X lavorasse nella sua industria per 15
ore, producendo mezzi di sussistenza per sé stesso e poi si recasse nella
manifattura di abbigliamento e lavorasse 30 ore producendo vestiti per sé
stesso. Lo stesso discorso, invertito, vale per Y. Rispetto a questo tempo
medio, a causa della diversa proprietà su differenti tecnologie – che non
permette una divisione del tempo di lavoro egualitaria come quella ora
accennata – e sulla base dello scambio, X lavora 15 ore in meno mentre Y
15 ore in più. X è quindi sfruttatore, Y è sfruttato. Ciò che viene scambiato è
un paniere di vestiti di 30 ore di lavoro contro un paniere di cibo di 15 ore.
In pratica X da a Y 15 ore oggettivate in cibo e Y dà a X 30 ore oggettivate in
vestiti. Si tratta chiaramente di uno scambio ineguale, Y, tuttavia, non
potrebbe pretendere più cibo sulla base dell’argomentazione che i suoi vestiti
contengono 15 ore di lavoro in più, e quindi dovrebbero essere scambiati contro
una quantità maggiore della merce prodotta da X, perché è il tempo di lavoro
complessivo medio che impone i termini dello scambio. Il secondo e il
terzo modello presentano entrambi un mercato del lavoro. Il secondo[70] è un’economia di pura sussistenza
stazionaria, senza accumulazione. Il terzo è invece un’economia con
accumulazione, ed è quello che più si avvicina ad un economia capitalistica
reale. Presupposto di entrambi i modelli, come si è detto, è che gli
agenti cerchino di ottimizzare, cioè impiegare al meglio le proprie dotazioni. Ciò significa minimizzare
il lavoro speso e, per chi è in possesso delle risorse adeguate, mettere in
atto quei processi produttivi che garantiscono il massimo saggio di profitto.
In questi modelli, se esiste una
struttura di preferenze non anomala – per cui potrebbe darsi che una persona
con grandi dotazioni voglia per qualche motivo lavorare – e cioè gli
attori vogliono minimizzare il lavoro erogato e quindi quest’ultimo diminuisce
con la loro ricchezza, è allora possibile vedere emergere delle classi sociali
ed enunciare un principio di corrispondenza tra classe e
ricchezza[71]. Gli agenti
ricchi non lavorano e per impiegare al meglio le loro risorse, cioè il loro
capitale, assumono lavoro tentando di impiegare le tecnologie che danno il
massimo saggio di profitto, oppure tentano di prestare denaro al massimo saggio
d’interesse. Gli agenti non ricchi, completamente privi di risorse, devono
invece, ovviamente, erogare lavoro per ottimizzare (nel senso che le
alternative o non esistono o sono eccessivamente rischiose o aleatorie). Vi è
poi un insieme di agenti che non ha sufficienti dotazioni per trarre il proprio
sostentamento esclusivamente dall’assunzione di lavoro, e che quindi ottimizza
lavorando in proprio. Nei tradizionali modelli marxiani, questo insieme è
identificato come «piccola borghesia». La struttura di classe è allora
definibile in modo non ambiguo, con gli agenti meno dotati di ricchezza, cioè
il proletariato, alla base e gli agenti più dotati, la borghesia, alla sommità
e la piccola borghesia nella fascia intermedia. La collocazione appena vista,
cioè, appunto, l’appartenenza di classe – ed è questo un punto fondamentale
– non è legata in questo modello a fattori strutturali (che tuttavia
presenti sullo sfondo visto che si parla di «dotazioni») ma al vendere o non
vendere lavoro. Si può quindi affermare, una volta definito il presupposto del
comportamento ottimizzante, che chi ha grandi dotazioni, per ottimizzare,
necessariamente assume lavoro, chi non le ha, necessariamente vende lavoro. Stabilito
quindi, attraverso il principio della corrispondenza classe-ricchezza, che gli
agenti ricchi non lavorano ma assumono lavoro per ottimizzare, possiamo
enunciare, sulla base del nucleo del rapporto di scambio ineguale (chi ha
grandi dotazioni usa una tecnologia avanzata e ritira dal mercato una maggiore
quantità di lavoro di quella che ha oggettivato) un principio di corrispondenza tra classe e sfruttamento[72]: chi assume
lavoro è sfruttatore e chi lo vende è sfruttato.
All’interno di questo modello, la
«piccola borghesia», cioè gli agenti che lavorano in proprio e vendono
direttamente le proprie merci senza vendere ne acquistare lavoro (e quindi come
forma generale possono essere paragonati al primo modello di scambio presentato)
possono risultare neutrali rispetto allo sfruttamento, cioè possono non essere
né sfruttati né sfruttatori. Questo avviene se le merci che essi vendono
contengono esattamente il lavoro sociale medio, cioè, in termini marxiani, se i
prezzi sono proporzionali ai valori. In questo caso abbiamo un unico valore che
corrisponde all’agente non sfruttato né sfruttatore. Se i prezzi non sono
proporzionali ai valori abbiamo diversi valori di ricchezza che corrispondono a
questo insieme di agenti; a questo insieme di valori di ricchezza corrispondono
merci vendute che possono contenere più o meno lavoro sociale medio e i cui
possessori possono essere, nella mediazione sociale del mercato, sfruttati o
sfruttatori. È quindi importante sottolineare che non vale l’opposto del
principio della corrispondenza tra classe e sfruttamento. Dal fatto che
se X vende/compra lavoro è sfruttato/sfruttatore non segue che se X è
sfruttato/sfruttatore necessariamente vende/compra lavoro[73].
Si osservi che, nel secondo modello
che abbiamo presentato, il presupposto dell’agente ottimizzante serve proprio
per escludere strutture di preferenze anomale. Cosa succede infatti se una
persona ricca vende lavoro, cioè se neghiamo la corrispondenza tra classe e
ricchezza? Potremmo ancora affermare che questa persona è sfruttata? Sulla base
del semplice scambio ineguale di lavoro potremmo affermarlo, se essa si
limitasse ovviamente ad acquistare merci sul mercato soltanto con il suo
reddito da lavoro. Se usufruisse di rendite finanziarie o immobiliari, si
avrebbe la situazione in cui X non è sfruttato pur vendendo lavoro, perché il
lavoro contenuto nelle merci che può acquistare con il suo reddito è maggiore
del lavoro che ha oggettivato durante la sua giornata lavorativa. Di
conseguenza, se si verifica che X non è sfruttato pur vendendo lavoro, si
avrebbe una negazione del principio che definisce una corrispondenza tra essere
sfruttato e vendere lavoro. Se accettassimo l’ipotesi che X usa solo il proprio
reddito da lavoro, avremmo la situazione controintuitiva per cui una persona
ricca risulta sfruttata. Si avrebbe una negazione del rapporto tra il fatto di
avere grandi dotazioni e il fatto di non lavorare (e di assumere lavoro),
quindi non si potrebbe più stabilire un rapporto tra vendere/acquistare lavoro
e appartenenza di classe e non si potrebbe più collegare l’appartenenza di
classe all’essere sfruttati o sfruttatori. Il presupposto dell’agente ottimizzante
è allora necessario 1) per definire una chiara appartenenza di classe riferita
all’azione di vendere o non vendere lavoro e quindi la corrispondenza tra
classe e ricchezza, poiché intuitivamente chi assume lavoro ha sufficienti
dotazioni di capitale per farlo, cioè è ricco e preferisce, appunto, non
lavorare; 2) per definire indirettamente attraverso questa appartenenza di
classe, in modo inequivocabile, l’essere sfruttato o sfruttatore in base al
vendere o non vendere lavoro. Senza questi presupposti, lo sfruttamento
potrebbe comunque realizzarsi per motivi contingenti – per esempio merci
vendute al di sopra o al di sotto del loro valore – ma non potrebbe essere
legato a una struttura di azione sociale definita e prevedibile identificata
dalla corrispondenza classe-ricchezza.
D’altra parte, se i modelli non
fossero definiti in una cornice di equilibrio generale, il concetto di
comportamento ottimizzante, a prescindere dal problema delle preferenze,
sarebbe tale solo sulla carta, in astratto; detto altrimenti i piani
ottimizzanti degli agenti potrebbero non realizzarsi effettivamente. Ci
sarebbero agenti che non riescono a far fruttare il loro capitale, altri che
non riescono ad ottenere il saggio di profitto rispetto al quale avevano
programmato i loro piani di investimento, dovendo magari iniziare a erogare
lavoro e «scivolando» così in una classe inferiore. Altri ancora che invece non
riuscirebbero a vendere la loro forza lavoro, rimanendo disoccupati. Anche in
casi del genere, pur se le preferenze fossero normali, le classi non
risulterebbero più nettamente delimitate e definite e quindi neppure la
suddivisione in sfruttati e sfruttatori. Lo sfruttamento non potrebbe più
essere visto come il risultato che emerge da un processo sociale di scambio
messo in atto da agenti a) in possesso di
differenti dotazioni, b) che
ottimizzano, c) in mercati competitivi.
Assumere i presupposti del comportamento ottimizzante e dell’equilibrio
economico serve proprio per mostrare che, indipendentemente da tutte le situazioni
concrete nelle quali essi sono costantemente violati – e quindi, lo ripetiamo,
l’essere sfruttati o sfruttatori può verificarsi per motivi contingenti –,
basta assumere a), b)
e c) per avere una netta suddivisione in classi e in
agenti sfruttati e sfruttatori. Secondo quanto richiamato all’inizio, siamo ora
in grado di capire come effettivamente lo sfruttamento, in questi modelli, non
sia considerato un dato strutturale e, per così dire, presupposto a priori e
non si realizzi in maniera teleologica ma emerga, piuttosto, in modo coerente
con i presupposti dell’individualismo metodologico, come risultato globale,
macro, dal livello micro rappresentato dal comportamento di agenti che in
mercati competitivi tentano di ottimizzare (cioè minimizzare il lavoro erogato
e ottenere il massimo saggio del profitto). Come già precisato, se
un agente ricco vendesse lavoro ci sarebbe un collegamento tra classe e
ricchezza negato sul piano della prassi, per cui, come si è appena visto,
l’agente ricco risulterebbe sfruttato, oppure ci sarebbe un agente che vende
lavoro senza essere sfruttato.
I primi due modelli presentati da
Roemer si riferiscono ad un’economia nella quale non c’è accumulazione e nella
quale i panieri consumati dai lavoratori corrispondono a preferenze di pura
sussistenza. Il terzo modello analizzato[74] è quello più vicino ad un’economia
capitalistica reale con accumulazione di capitale, nella quale gli agenti possono
in effetti avere preferenze non di pura sussistenza e ricevere più di un
salario di sussistenza. Per estendere a questi modelli i risultati che abbiamo
esposto – cioè la possibilità di identificare con certezza agenti sfruttati e
agenti sfruttatori – è necessario formulare una nuova definizione di
sfruttamento, indipendente dalle preferenze di pura sussistenza. Consideriamo
tutti i panieri possibili che l’agente X può acquistare con il reddito di cui è
in possesso; valutiamo la quantità di lavoro in ciascuno di essi oggettivato e
identifichiamo quello che contiene la quantità massima/minima di lavoro
oggettivato. Se questa quantità è comunque minore/maggiore della quantità di
lavoro oggettivata da v durante la
sua giornata lavorativa, v è un agente
sfruttato/sfruttatore[75]. La necessità di questa nuova
definizione di sfruttamento risiede nel fatto che, non trattandosi più di
un economia di pura sussistenza, il paniere di consumo degli agenti non è
fisso. I loro gusti e le loro preferenze sono quindi, entro certi limiti,
liberi di cambiare. Ma se un agente potesse da sfruttato diventare sfruttatore
e viceversa, semplicemente cambiando i gusti e le preferenze (quindi
acquistando merci diverse), la necessità e le connotazioni etiche del
concetto di sfruttamento andrebbero perdute.
A questo proposito, Jon Elster
sottolinea giustamente che nell’analisi di Roemer sia l’appartenenza di classe
che lo sfruttamento sono definiti in maniera modale. Un individuo è capitalista
se per ottimizzare deve assumere
forza lavoro. Non è forzato dalle circostanze a farlo, ma se vuole ottenere il
massimo reddito dalle sue dotazioni deve comportarsi così. Allo stesso modo, un
agente è sfruttato non perché il lavoro oggettivato nelle merci che compra è
minore del lavoro che ha erogato, ma perché il lavoro contenuto in qualsiasi
merce che può comprare è minore di
quello che ha erogato. In questo modo lo sfruttamento diventa indipendente
dalle preferenze di consumo[76]. Anche in questo modello, se i prezzi
sono proporzionali ai valori, associato alla classe «piccola borghesia» c’è un
solo valore di ricchezza a cui corrisponde un agente che non è né sfruttato né
sfruttatore. Se i prezzi non sono proporzionali ai valori, proprio in virtù
della nuova definizione di sfruttamento, l’«area grigia» di agenti che non sono
neutrali rispetto allo sfruttamento (in quanto alcuni di essi acquistano un
paniere di beni che contiene più lavoro di quanto ne abbiano speso e sono
quindi definibili sfruttatori pur non assumendo lavoro, mentre altri, al
contrario, acquistano un paniere che contiene meno lavoro di quanto ne abbiano
speso e sono quindi definibili sfruttati pur non vendendo lavoro) e per i quali
quindi non vale l’inverso del principio, è più ampia rispetto al modello di
semplice sussistenza.
Nel modello con accumulazione si
evidenziano alcuni problemi. Gli agenti infatti, non avendo, come si è detto,
preferenze di pura sussistenza, possono decidere di lavorare più a lungo.
Questo può facilitare il darsi delle preferenze anomale cui abbiamo accennato
prima. Una persona potrebbe accumulare ricchezza al punto da poter impiegare il
lavoro altrui e mantenere poi la sua stessa struttura di preferenze cosicché il
lavoro che eroga non diminuirebbe con la ricchezza. La corrispondenza
classe-ricchezza può allora venir meno e, indirettamente, anche la
corrispondenza classe-sfruttamento, in quanto non sarebbe più possibile
identificare con precisione agenti sfruttati e agenti sfruttatori. Tuttavia,
pur con le limitazioni appena accennate, Roemer ritiene che la sua analisi
possa rappresentare una risposta alle critiche neoliberali al concetto di
appropriazione ingiusta e di sfruttamento. Per esempio, R. Nozick ha sostenuto
che può esserci un clean path all’accumulazione
originaria e quindi un possesso legittimo di capitale e che, in generale, se il
capitale che un individuo possiede è realmente frutto delle sue abilità, della
sua forza e della capacità di differire le gratificazioni, il titolo di
proprietà su di esso è legittimo. Nei modelli di Roemer, invece, sulla base
esclusivamente di una differente dotazione di risorse di qualsiasi genere
(reali o finanziarie) e attraverso una forma di scambio sociale, cioè la
mediazione di un mercato competitivo, indipendentemente dal modo giusto o
ingiusto con cui quelle risorse sono state acquisite, alcuni agenti,
necessariamente, si appropriano di una quantità di lavoro maggiore di quanta ne
abbiano immessa nel mercato risultando così sfruttatori, mentre altri si
appropriano di una quantità di lavoro minore di quanta ne abbiano immessa nel
mercato emergendo come sfruttati, e ciò indipendentemente dalla loro volontà e
dalla loro coscienza. Questo meccanismo, oltre che nei modelli con
mercato del lavoro, può verificarsi sia, come abbiamo visto, in un’economia
senza mercato del lavoro, sia attraverso la semplice mediazione creditizia[77].
Lo scambio tra capitale e lavoro non
è quindi fondamentale, nell’analisi di Roemer, per definire il concetto di
sfruttamento, che risulta essere un rapporto più generale tra individuo e
società. Proprio perché lo scambio tra capitale e lavoro non è fondamentale per
definire lo sfruttamento, Roemer non attribuisce importanza al processo
lavorativo, del tutto assente dalla sua analisi, e alle forme di dominio e
controllo presenti in esso allo scopo di aumentare la produttività della forza
lavoro. In sostanza, cioè, Roemer non si preoccupa del problema dell’estrazione
di plusvalore che è invece il fulcro dell’analisi marxiana. In quest’analisi,
com’è noto, viene mostrato come, dall’incontro dell’elemento forza lavoro con
l’elemento capitale, attraverso il dato istituzionale «esterno» di una giornata
lavorativa opportunamente fissata a un certo numero di ore, e attraverso
sostanziali forme di intensificazione del lavoro e di controllo messe in atto
sul luogo di lavoro, emerge un surplus, di cui il sistema legale garantisce
l’approprazione alla classe dei possessori dei mezzi di produzione. Ciò che
rimane, nei modelli analizzati, dell’impostazione marxiana classica è, allora,
solo la definizione di sfruttamento basata sul rapporto tra lavoro ritirato dal
e immesso nel mercato. Nell’insieme, Roemer adotta quindi una
visione sostanzialmente neoclassica, già adombrata nell’uso dello schema di
equilibrio generale, abbandonando anche il concetto di valore come fondamento
dei prezzi di produzione[78].
Secondo la visione tradizionale degli
economisti neoclassici, le forme di dominio e controllo sul luogo di lavoro
sono dovute sostanzialmente a delle imperfezioni contrattuali. Nello scambio
tra capitale e lavoro, data la fluidità e la disomogeneità della forza lavoro
stessa, è difficile determinare con esattezza in anticipo come essa sarà usata
nel processo lavorativo. Per questa ragione, è lasciato ampio margine ai
capitalisti per forme di controllo e di intensificazione del lavoro di vario
tipo. Dal punto di vista teorico, quindi, le forme di dominio sul luogo di
lavoro potrebbero essere eliminate realizzando dei contratti perfetti che
riuscissero a rendere il più possibile definito e «fisso» il rapporto tra forza
lavoro e lavoro erogato. In contratti del genere verrebbe specificato fin nel
minimo dettaglio come la forza lavoro dovrebbe essere usata nel processo
lavorativo, in modo che ogni momento della giornata lavorativa e ogni mansione
siano fissati e definiti in anticipo. Questi contratti potrebbero imporre
condizioni e ritmi estremamente alienanti ma, all’interno della fictio juris di questo mondo perfetto, sarebbe
salvaguardato il libero arbitrio del lavoratore il quale, perfettamente
informato fin dall’inizio di quale sarà la situazione di lavoro, sarebbe in
grado di accettare o rifiutare. inoltre, sul luogo di lavoro la
necessità di una forma di sorveglianza sarebbe minima posto che, qualora il
lavoratore contravvenisse alle regole imposte dal contratto, potrebbe essere
immediatamente licenziato e sostituito[79].
Trascurando per un momento l’irrealtà
di un simile scenario, visti i costi insostenibili, in termini di tempo e di
difficoltà di formazione e di integrazione, legati al probabile continuo turn over di lavoratori, ammettiamo per un momento
che un contratto come quello descritto sia possibile. Dobbiamo considerare due
possibilità: la prima è che il contratto lasci ampia libertà all’operaio, e
quindi non ci siano regole rigide su vari aspetti del lavoro, né ritmi di
attività particolarmente gravosi. In questo caso però o non c’è plusvalore e
non c’è accumulazione, oppure ci troviamo in un contesto non competitivo, nel
quale l’accumulazione può procedere a ritmi più lenti rispetto a quelli imposti
da una realtà concorrenziale, che impone innovazioni continue per aumentare il
tempo di lavoro non pagato e diminuire i prezzi delle merci. É evidente però
che questo scenario non corrisponde più ad un’economia capitalistica. La
seconda possibilità, come già è stato richiamato, è che il contratto imponga a
priori, proprio perché non prevede la possibilità di un forma di controllo
diretta, modalità e ritmi particolarmente rigidi e alienanti. In questo caso
l’unica ragione per cui, in una logica rational choice, un
individuo accetterebbe tale contratto è il fatto di non avere alternative o il
fatto che queste alternative, ammesso che esistano, risultano troppo rischiose
e aleatorie. In questo caso però deve esserci – come nel modello marxiano
classico – una variabile esterna che agisce da regolatore e da «guardiano», cioè
la disoccupazione o, come si esprimeva Marx, l’esercito industriale di riserva,
quale elemento strutturale e non transitorio della realtà capitalistica. La sua
esistenza costringe i lavoratori ad accettare determinate condizioni di lavoro
e bassi salari ed influisce anche sulla contrattazione collettiva. Integrare
questo aspetto, tuttavia, colloca necessariamente l’analisi ad un livello di
astrazione inferiore rispetto alle intenzioni originarie dell’autore[80]. I modelli con il mercato del lavoro e
con le classi sociali, inoltre, sono già modelli di capitalismo avanzato
– le classi sociali sono legate in modo deterministico ai mezzi di produzione,
c’è un mercato del lavoro e soprattutto un mercato del credito – senza gli
elementi di disturbo che caratterizzano un’economia capitalistica reale:
competizione, squilibri tra domanda e offerta, conflitto sociale nei luoghi di
lavoro[81].
Le difficoltà inerenti
all’astrattezza della costruzione teorica di Roemer sono sottolineate anche da
A. Przeworsky. Il modello di capitalismo di Roemer è concepito – egli sostiene
– secondo uno schema di cicli isolati, che si riproducono uno dopo l’altro in
modo identico nel tempo senza che vari la distribuzione del reddito [82]. Da questo punto di vista, l’aver
rinunciato alla centralità del processo lavorativo porta Roemer a postulare un
rapporto diretto tra distribuzione attuale del reddito e dotazioni iniziali di
ricchezza in particolare nel caso dei capitalisti. Dal punto di vista di questi
ultimi, tuttavia, il raggiungere un determinato reddito partendo da una certa
dotazione iniziale di ricchezza, dipende proprio dalla loro capacità di
estrarre, in vari modi, plusvalore nel processo produttivo. Il collegamento
automatico, implicito nei modelli di Roemer, tra ricchezza iniziale e finale è,
nel caso del capitalisti, del tutto aleatorio[83]. Secondo E.O.Wright, invece, il concetto
di dominio e di controllo nel processo lavorativo è essenziale per definire il
concetto di classe. Egli sottolinea che le relazioni di appropriazione reale
che caratterizzano una classe sociale e le relazioni di dominio sono
interconnesse e che l’appropriazione senza il dominio e il dominio senza l’appropriazione
creerebbero una situazione incompatibile con la stabilità delle relazioni di
produzione. É proprio l’aspetto del dominio che distingue una relazione di
classe rispetto alla semplice disuguaglianza[84]. Per quanto riguarda, infine, i due
principi della corrispondenza classe-ricchezza e classe-sfruttamento, anche se
permettono, dati certi presupposti, di dedurre la posizione di classe guardando
semplicemente la ricchezza dell’agente, e lo sfruttamento guardando la
posizione di classe, occorre sottolineare, ancora una volta, che essi possono
essere ritenuti validi solo in riferimento a situazioni di equilibrio, cioè
stati dell’economia in cui, come abbiamo sottolineato più volte, ogni agente è
riuscito ad usare completamente le proprie dotazioni e in cui domanda e offerta
si equilibrano. Essi non si applicano a situazioni di competizione imperfetta,
ossia di non equilibrio. Eppure queste ultime rasppresentano nondimeno le
situazioni preponderanti nella vita economica reale con monopoli, oligopoli,
squilibri tra domanda e offerta, agenti che non riescono ad usare le proprie
dotazioni e, quindi, fallimenti di imprese e disoccupazione. Non è quindi
possibile dire come si comporterebbero agenti «ottimizzanti» in queste
situazioni. Per quanto riguarda il concetto di comportamento
ottimizzante può suscitare infine qualche perplessità il modo in cui Roemer
«deduce» da esso e dalle dotazioni degli agenti la loro posizione di classe.
Deve esserci stato, infatti, un momento originario in cui le dotazioni, e
quindi le classi, si sono costituite, che non può essere spiegato dal
comportamento ottimizzante stesso.
3.2
Nell’ultima parte della sua opera A general theory of
exploitation and class,[85] Roemer elabora una teoria dello
sfruttamento che prescinde dal valore lavoro per richiamarsi ai concetti della
teoria delle coalizioni, ramo della teoria dei giochi. La nuova teoria,
dovrebbe servire, tra l’altro, a risolvere alcune situazioni ambigue legate
alla definizione di sfruttamento come scambio ineguale di lavoro sulle quali ci
siamo già soffermati. Il nucleo della teoria classica dello sfruttamento
proposta da Roemer, era sostanzialmente che appartenenza di classe e ricchezza
possono essere considerate buone approssimazioni l’una dell’altra: si può
ragionevolmente identificare l’assumere lavoro con l’essere ricchi e il vendere
lavoro con l’essere «poveri», cioè privi di dotazioni. L’assunzione che il
lavoro prestato diminuisca con l’aumento della ricchezza è ragionevole dal
punto di vista storico ed è intuitiva. Da un punto di vista strettamente
logico, però questa assunzione, secondo Roemer, non tiene[86].
Come abbiamo avuto modo di
sottolineare, infatti, possono esserci situazioni, dovute a preferenze
«anomale», in cui all’aumento della ricchezza si associa un aumento del lavoro
che l’agente desidera erogare. Per comprendere più in dettaglio questa
possibilità, si consideri il seguente modello, nel quale è usata una tecnologia
ad alta intensità di capitale. Essa richiede una giornata di lavoro e un’unità
di capitale grano per produrre un’unità di grano come prodotto netto, cioè come
puro mezzo di sussistenza che permette di vivere una settimana. Il tempo di
lavoro necessario del modello è dunque un giorno e la settimana rappresenta
l’unità temporale. Immaginiamo una situazione in cui ci sono due agenti, J e K,
con una differente distribuzione iniziale di capitale-grano. J possiede 3
unità, K 1 unità. Usando entrambi la tecnologia ad alta intensità di capitale
essi lavorano, rispettivamente, J tre giorni, producendo tre unità di grano, di
cui 1 da consumare e le altre 2 da accumulare (oppure, ma non in questo caso,
anch’esse da consumare oltre le necessità di sussistenza), K un giorno,
producendo un’unità di grano. I due agenti hanno, tuttavia, una struttura di
preferenze molto diversa l’uno rispetto all’altro. J, infatti, che è riuscito
ad accumulare le 3 unità di capitale attraverso il duro lavoro, ha ormai fatto
propria una morale calvinista rigida che lo spinge a lavorare e arricchirsi
ancora di più. Invece di lavorare tre giorni usando le sue 3 unità di capitale,
producendo per il consumo e l’accumulazione 3 unità di grano come prodotto
netto, preferirebbe lavorare quattro giorni e consumare e accumulare più di 3
unità, diciamo 3 e 1/3 unità di grano. K, invece, essendo di indole pigra,
preferirebbe non lavorare assolutamente passando piuttosto il tempo a leggere.
Poiché spende poche energie, preferirebbe anche consumare meno di un’unità di
grano e precisamente 2/3. Essi possono allora migliorare la loro situazione
attraverso il seguente accordo: J lavora un giorno in più per K, ricevendo come
salario proprio 1/3 di grano a cui K è disposto a rinunciare. Rimangono 2/3 di
grano a K che ha lavorato esattamente 0 giorni. Poiché, come abbiamo precisato,
il tempo di lavoro necessario in questo modello è un giorno, cioè ogni agente
dovrebbe lavorare un giorno per produrre i propri mezzi di sussistenza, K
sfrutta J in senso marxiano, in quanto vive del lavoro non pagato di J.
Tuttavia J è il più dotato e K il meno dotato[87]. In generale, quindi, se si ammette,
almeno in linea teorica, l’esistenza di questo tipo di preferenze, lo
sfruttamento non è più una buona approssimazione della ricchezza e della
collocazione di classe.
Un’altra situazione ambigua – che
costituisce la base delle critiche neoliberali alla teoria dello sfruttamento –
è quella per cui possono generarsi situazioni di sfruttamento da un’originaria
eguaglianza di dotazioni. Si tratta di una variante, o meglio di un ulteriore
sviluppo, del problema che il modello presentato precedentemente cerca di
cogliere. La disuguaglianza si crea a causa delle diverse preferenze per il
tempo libero dei due agenti nel periodo iniziale, uno di essi lavora infatti
più dell’altro. Da essa emerge poi lo sfruttamento nel senso tradizionale:
colui che ha accumulato capitale assume l’altro riuscendo ad ottenere un
pluslavoro. L’idea centrale di questa nuova teoria è che una
persona o un gruppo sono sfruttati se esiste una determinata situazione
alternativa (conditionally feasible alternative), nella quale essi
si troverebbero meglio. La situazione alternativa può essere variamente
definita, specificando la nuova distribuzione di ricchezza di cui ogni gruppo o
individuo si troverebbe a godere in essa. Più analiticamente: si
definisce un gioco, vale a dire una particolare
situazione sociale, in cui alcuni individui o gruppi interagiscono secondo
determinate regole, e si definiscono delle coalizioni. Ognuna di queste
coalizioni può partecipare al gioco o ritirarsi sotto certe condizioni
(sostanzialmente, nuovi assetti istituzionali e quindi indirettamente nuove
distribuzioni di dotazioni) e ottenere ricompense (pay-offs) diverse (in senso lato, il guadagno o la
perdita in termini di ricchezza materiale, benessere, salute, ecc).
Definiamo V(S) la ricompensa che la
coalizione S riceve nel gioco V, ritirandosi sotto certe condizioni. Se questa
ricompensa risulta maggiore del reddito che essa riceve normalmente, la
coalizione S si definisce sfruttata. Nel linguaggio della teoria dei giochi si
definiscenucleo (core) di un gioco
l’insieme di allocazioni di ricchezza per cui nessuna coalizione è sfruttata.
Una certa distribuzione del reddito, cioè, è nel nucleo del gioco V se ogni coalizione, ritirandosi con il suopay-off V(S), non può stare
meglio di quanto stia normalmente. Se, viceversa, una coalizione S sta meglio ritirandosi con il pay-off V(S) di quanto
stia con la sua attuale distribuzione del reddito, si dice – sempre nel
linguaggio della teoria dei giochi – che la coalizione può «bloccare» questa
distribuzione del reddito. Una coalizione «bloccante» è una coalizione
sfruttata. Viceversa, se una coalizione, ritirandosi con un determinato pay-off sta peggio, è una coalizione sfruttatrice.
A seconda dei particolari tipi di nucleo che definiamo, si avranno differenti
condizioni di ritiro e quindi differenti tipi di sfruttamento. Si osservi che
ogni definizione di nucleo corrisponde, per così dire, a una particolare
intuizione sulla giustizia distributiva. Una situazione di sfruttamento,
quindi, si definisce sempre in base a una distribuzione più evoluta, dal punto
di vista dell’uguaglianza, di beni alienabili e non alienabili[88]. Seguendo questi criteri è allora
possibile identificare diversi tipi di sfruttamento: feudale, capitalista,
socialista, sfruttamento da status e da bisogno (tutte le definizioni che
seguono si possono applicare in termini relazionali, definendo cioè – come
appena specificato – due coalizioni , S e il suo
complementoS’, per capire chi è sfruttato e chi è
sfruttatore).
Definendo il nucleo secondo dei
criteri tradizionali di proprietà privata, possiamo cogliere lo sfruttamento
feudale. Secondo le allocazioni di questo nucleo, nessuno degli agenti feudali
risulta sfruttato. Il servo ha il suo piccolo pezzo di terra da cui trae
sostentamento e non lavora sulla terra del signore. Il signore non dispone più
del lavoro del servo ma rimane con la sua ricchezza monetaria e i suoi
possedimenti. Allo stato effettivo delle cose, allora, la coalizione dei servi,
è sfruttata perché se si ritirasse con le dotazioni definite in questo tipo di
nucleo starebbe chiaramente meglio. Il suo pay-offsarebbe
infatti positivo, in quanto potrebbe tenersi i frutti del proprio lavoro di cui
prima si appropriava il signore. Il signore, dovendo rinunciare al lavoro del
servo, starebbe peggio. Il suo pay-off sarebbe
negativo, perderebbe i frutti del lavoro del servo, di cui prima si
appropriava. Se non esistono ancora delle forme di rendita finanziaria, sarebbe
costretto a mettersi a lavorare o vendere delle proprietà. Quindi il servo è
sfruttato il signore è sfruttatore[89].
Lo sfruttamento capitalista[90] si può cogliere collocando nel
nucleo, cioè nella distribuzione alternativa di dotazioni, una distribuzione
nella quale la ricchezza materiale e finanziaria è ripartita pro capite in
maniera egualitaria, quindi, indirettamente, il tempo di lavoro complessivo non
è più appropriato da una parte ristretta della società. Possiamo definirlo
nucleo socialista. Secondo questa allocazione, nessuno degli agenti capitalisti
– proprietari e operai – è sfruttato. Nella situazione attuale, invece,
la coalizione degli operai è una coalizione sfruttata, perché, se si ritirasse
sotto le condizioni appena definite, starebbe meglio. Il suo pay-off, infatti, sarebbe positivo, avrebbe il possesso
del proprio tempo di lavoro. Viceversa, la coalizione dei capitalisti è una
coalizione sfruttatrice, perché, se si ritirasse, sempre sotto quelle
condizioni di equa ridistribuzione, starebbe peggio. Il suo pay-off sarebbe ovviamente negativo, perderebbe il
possesso e il controllo del lavoro dell’operaio.
E’ possibile, secondo Roemer,
definire anche altri tipi di sfruttamento meno immediati. Così, all’interno di
una società che ha ridistribuito in maniera egualitaria la ricchezza materiale
– chiamiamola solo per semplicità «socialista» – sarebbe possibile raffinare
ulteriormente la sensibilità alla disuguaglianza ammettendo l’idea,
controintuitiva dal punto di vista dell’etica capitalistica, che chi possiede
intelligenza e talento «sfrutta» chi non li possiede perché ha lavori migliori
e meglio retribuiti. In questo caso il nucleo è rappresentato da quell’insieme
di allocazioni che comprende, oltre che una ridistribuzione materiale, come nel
caso precedente, anche una «redistribuzione» di intelligenza e talento.
Possiamo allora definire una forma di sfruttamento «socialista»
sostenendo che una coalizione è sfruttata se la sua situazione migliorerebbe
qualora si ritirasse con la sua quota pro capite di beni non alienabili –
intelligenza e talento – una volta che quelli alienabili sono già stati
distribuiti[91]. La distribuzione del
reddito socialista non è nel nucleo del gioco perché se la coalizione delle
persone che ne sono prive si ritirasse con una redistribuzione procapite di
intelligenza e talento starebbe meglio[92].
Abbiamo poi lo sfruttamento da status
(status exploitation) e lo sfruttamento da bisogno (need exploitation)[93]. Lo sfruttamento da status tenta di
cogliere quelle situazioni di ingiustizia – che in particolare si verificano in
società a direzione fortemente centralizzata come sono state quelle del
comunismo reale, ma che potrebbe avere un’applicazione più ampia – in cui
alcune persone hanno un insieme di privilegi semplicemente grazie alla loro
appartenenza a un gruppo, in particolare, nel caso degli ex paesi comunisti,
una burocrazia. Questi privilegi sono garantiti dal possibile uso diretto o
indiretto del potere e della forza. Potremmo definire il nucleo, cioè la
distribuzione alternativa di dotazioni, come segue: l’insieme di allocazioni
che comprendono una redistribuzione dello status e quindi una redistribuzione
dei benefici di chi fino a quel momento aveva usato la sua posizione per
esercitare un’indebita influenza, purché chi ora ne può usufruire non eserciti
a sua volta un privilegio a spese di altri, cioè non ottenga altri benefici in
modo indebito sempre attraverso lo status.
Lo sfruttamento da bisogno definisce
infine le situazioni in cui un individuo non è in grado – a causa di handicap
fisici o psichici, età ecc. – di lavorare o in generale di essere socialmente
utile. Egli è allora soggetto a una forma di sfruttamento da bisogno nel senso
che, ad esempio, le persone che hanno una malattia grave o una forma di
invalidità, pur avendo gli stessi bisogni delle persone sane possono, sulla
base di un determinato assetto sociale, non essere in grado di soddisfarli. Una
struttura sociale più evoluta deve appunto definire un’allocazione di risorse
che eviti questa situazione. Il nucleo in questo caso è definibile come
l’insieme di allocazioni che comprendono una redistribuzione ulteriore di
ricchezza a favore di handicappati e malati. La dotazione di risorse di coloro
che soffrono di un handicap o di una malattia non è nel nucleo perché se la
persona si ritirasse con le nuove dotazioni appena descritte starebbe meglio.
Anche in questi ultimi due casi, designando delle coalizioni, si può poi
applicare la solita definizione per capire se una coalizione è sfruttata o
sfruttatrice dal punto di vista dello status o del bisogno.
Nello schema di Roemer, ognuna delle
forme di sfruttamento descritte corrisponde ad un particolare modo di produzione.
Ognuna, come già abbiamo richiamato, è criticata dal punto di vista ideologico
dello sviluppo successivo (cioè l’ideologia capitalistica attacca quella
feudale, quella socialista attacca quella capitalista, ecc.) e ogni modo di
produzione elimina la forma di sfruttamento precedente. Questa eliminazione
progressiva delle forme di sfruttamento costituisce il primo aspetto di una
teoria della storia che Roemer precisa in vari testi[94] e che presenta vari aspetti
problematici a causa dello schema rational choice nella
quale è inserita. Possiamo allora pensare ai vari raffinamenti non come a stadi
di una sequenza storica sociale necessaria ma come a giochi alternativi non
ordinati temporalmente, che possono anche coesistere tra loro. Lo sfruttamento
feudale può sussistere ancora accanto a quello capitalista, così come lo
sfruttamento socialista può sussistere accanto a quello capitalista. In alcune
parti del mondo, infatti, esistono ancora forme più o meno manifeste di
schiavitù. In generale, se guardiamo ai rapporti tra nazioni sviluppate e
nazioni non sviluppate, vediamo che questi sono caratterizzati da grandi
differenze di capacità e di accesso a dotazioni di capitale che si realizzano e
si riproducono attraverso il credito, il commercio internazionale, il mercato
del lavoro e attraverso forme più o meno dirette di dominio politico.
Nell’ambito di questi rapporti è possibile mettere in luce proprio la compresenza
di forme di sfruttamento feudale, capitalista e socialista[95].
Roemer sviluppa anche[96] alcuni modelli nei quali è applicata
concretamente al capitalismo la teoria dello sfruttamento in termini di
condizioni di ritiro. Questi modelli devono essere compresi tenendo presente il
principio dell’individualismo metodologico, cioè quel principio per cui l’agire
di una classe si spiega in base alla razionalità dell’agire dei singoli
individui che la compongono, senza presupporre, in maniera strutturalista, che
questa razionalità sia una proprietà di soggetti collettivi già costituiti. Il
concetto di classe trova in questo modo una possibilità di collegamento con gli
interessi concreti degli individui. Come al solito, sono definite delle
coalizioni – nella fattispecie capitalisti, operai e contadini – e,
successivamente, tutti i possibili rapporti tra queste coalizioni, in
relazione a differenti condizioni di ritiro, ossia ai diversi assetti sociali
alternativi con relative e diverse distribuzioni di ricchezza. Questa
impostazione solleva tuttavia il problema non trascurabile dell’informazione,
vale a dire, di che cosa, ciascun soggetto, è in grado di sapere sui futuri
stati dell’economia, sulle condizioni ipotetiche future e sui futuri equilibri.
Nello schema di Roemer, inoltre, i
lavoratori sono anch’essi individui razionali che cercano di sfruttare al
meglio le loro risorse. Da questo punto di vista, come ha sottolineato ancora
A. Przeworsky, il loro interesse è aumentare il reddito e riuscire a passare in
un’altra classe sociale. Anche ammettendo che il passaggio al socialismo fosse
considerato un’alternativa razionale, in quanto effettivamente in grado, sulla
base dei nuovi rapporti di proprietà e di una nuova organizzazione del processo
produttivo, di aumentare il reddito dei lavoratori, decidere di lottare per
esso potrebbe comunque non costituire un’azione razionale, proprio dal punto di
vista della massimizzazione del reddito. La transizione, infatti, ammesso
ovviamente che abbia successo, potrebbe imporre un’elevatissima, per quanto
temporanea, perdita di benessere sia ai lavoratori che al resto della società[97]. Rimanendo fedele allo schema della
rational choice, Roemer non ha introdotto nessuna motivazione etica che spinga
gli individui a desiderare il passaggio ad un altro modo di produzione. Senza
motivazioni etiche, sembra però difficile dare una base a un’azione volta al
cambiamento dei rapporti di produzione. All’interno di uno schema rational
choice, infatti, non risulta mai conveniente per l’individuo scegliere di
lottare per un diverso assetto dei rapporti di produzione, ma solo cercare di
migliorare la propria condizione all’interno della società così com’è. É
tutt’altro che semplice, comunque, riuscire ad identificare una motivazione all’azione
che si situi in un ideale punto di equilibrio tra agire determinato da
interessi concreti e principi universalistici. Le ricerche di Roemer non
riescono forse a collegare in modo completamente soddisfacente l’istanza etica
– posta, come abbiamo visto, sul piano astratto della progressiva eliminazione
delle varie forme di sfruttamento – alla prassi degli individui concreti. Esse
hanno tuttavia il merito di aver messo in risalto questo problema e di aver
portato – come ha sottolineato J. Bidet – una valida critica alla metafisica
dei grandi soggetti. I suoi limiti – osserva ancora Bidet – probabilmente
insiti in un approccio rational choice, consistono, in particolare per quanto
riguarda Roemer, nell’aver messo da parte troppo nettamente gli aspetti
strutturali dello sfruttamento e nell’aver ridotto quest’ultimo a una forma di
disuguaglianza togliendo, come abbiamo richiamato più volte, importanza agli
aspetti concreti della appropriazione di tempo nel processo lavorativo. Roemer,
inoltre, nella nuova teoria basata sulle condizioni di ritiro ha dato eccessiva
importanza a un approccio controfattuale – nel quale la razionalità del teorico
si sovrappone alla realtà – e ha privilegiato in maniera sostanziale i rapporti
di distribuzione rispetto a quelli di produzione, rinunciando completamente al
concetto di contraddizione[98]. Più in generale, sempre riguardo alla
nuova teoria, gli esempi sulle particolari strutture di preferenze che
costituirebbero il motivo principale per la sua introduzione, sembrano
descrivere situazioni talmente eccezionali da non giustificare in maniera
convincente l’abbandono della teoria dello sfruttamento basata sullo scambio
ineguale di lavoro. La differenza di preferenze e capacità sembra davvero avere
un impatto molto lieve sulla realtà dello sfruttamento[99].
4. Conclusione
Nell’insieme, le ricerche degli
autori che abbiamo analizzato presentano, a nostro avviso, i pregi e i limiti
di un’impostazione che rientra nella tradizione della filosofia analitica. Il
tentativo di instaurare un dialogo con le scienze sociali contemporanee,
la psicologia e la teoria economica, si rivela fecondo; il rigore e la
precisione linguistica permettono di dare forma a quelle che altrimenti
rimarrebbero vaghe intuizioni, di esplicitare problemi e interrogativi. Il
prezzo, per ciascun autore con sfumature diverse, è tuttavia un elevato livello
di astrazione che porta ad accentuare eccessivamente l’aspetto metodologico e a
dimenticare, a volte, l’importanza della concreta dimensione storica sociale di
molti fenomeni. É forse anche a causa di questa astrazione che, come abbiamo
osservato all’inizio, risulta del tutto assente nel marxismo analitico un
confronto approfondito con la tradizione marxista del novecento, rispetto alla
quale esso sembra, in generale, autocollocarsi in una sorta di isolamento
intellettuale.
A questo proposito, riguardo al
problema dei residui hegeliani nel pensiero di Marx, avevamo osservato (vedi 1.
I), come a volte stupisca l’insistenza e l’asprezza polemica di Elster su
questo argomento, essendo il tema della teleologia e dell’influsso hegeliano
nelle opere giovanili di Marx e del suo reale significato nell’ambito dello
sviluppo del pensiero marxiano già stato oggetto di un’ampia analisi critica di
cui non troviamo nel testo neppure un accenno. Tra le posizioni meno
speculative e più epistemologicamente consapevoli, che hanno insistito sulla
continuità tra Hegel e Marx, riscontrabile anche nelle opere della maturità di
quest’ultimo, segnaliamo in Italia G. Bedeschi. Alla base del concetto di
sfruttamento, e quindi di quello di plusvalore, categoria centrale del Capitale,resta sempre il concetto di lavoro alienato,
incomprensibile, secondo Bedeschi, senza tener presente la dialettica hegeliana[100]. I limiti teorici dei tentativi di un
innesto hegeliano su tematiche marxiane, risultano invece evidenti e
inaggirabili nel famoso libro di G. Lukács Storia e coscienza di classe che
vede nel proletariato, grazie alla sua particolare posizione nel processo
produttivo, una sorta di surrogato materialistico dello Spirito hegeliano che
giunge ad autocoscienza. Più fertili di spunti risultano, a nostro avviso, le
posizioni che hanno messo l’accento sulla «rottura» tra Marx ed Hegel come
quella di Althusser che, come si è accennato in apertura, pur con i suo limiti,
ha indicato, nel già citato Leggere il Capitale e
in Per Marx[101], una nuova direzione da
seguire, ripresa con altri strumenti dagli autori che abbiamo analizzato.
Secondo Althusser, la concezione marxiana della dialettica è completamente
diversa da quella hegeliana. La dialettica hegeliana muove infatti da un’unità
originaria che si scinde in due elementi opposti e produce, attraverso la sua
autoevoluzione, tutto il processo successivo. Essa non si perde mai tuttavia in
questo processo, perché la sua complessità e la sua pluralità sono solo
apparenti, sono solo l’aspetto superficiale del fenomeno. Per Marx, invece, il
semplice trova la sua esistenza soltanto all’interno di una struttura
complessa. In questa struttura complessa le differenze non si danno, come in
Hegel, solo per essere negate. La contraddizione principale (tra capitale e
lavoro, tra forze produttive e rapporti di produzione) sussiste accanto a
contraddizioni secondarie che sono altrettanto reali e agiscono sulla
contraddizione principale. Quest’ultima risulta, per usare il linguaggio di
Althusser, «surdeterminata». Per questo la contraddizione tra capitale e
lavoro, anche se fondamentale, può non giocare, in una data formazione sociale,
il ruolo dominante. Una posizione significativa sempre a favore del distacco di
Marx da Hegel è stata quella di G. Della Volpe, che nella sua opera Logica come scienza storica[102] vede il metodo di Marx – fatto di
astrazioni determinate e storiche – come radicalmente diverso dalla dialettica
speculativa hegeliana, ma anche, è il caso di sottolinearlo, dal positivismo e
dalla sua venerazione per i fatti. Manca in effetti, nel lavoro di
Elster, nonostante la polemica sulla teleologia, un confronto con questi autori
e queste problematiche.
Per quanto riguada Karl Marx’s theory of history, le tesi di Cohen,
seppur proposte con uno un stile argomentativo molto diverso, evocano nondimeno
le posizioni assunte in ambito strutturalista da M. Godelier. In due suoi noti
articoli[103] Godelier ha
sottolineato che la contraddizione tra le due strutture rappresentate dalle
forze produttive e dai rapporti di produzione è più importante, per la
comprensione della dinamica profonda dell’economia, rispetto a quella, interna
ai rapporti di produzione borghesi stessi, tra capitalisti e operai.[104] Nell’introduzione a Karl Marx’s theory of history Cohen critica
– con l’eccezione dello studio di Balibar I concetti fondamentali del
materialismo storico – lo strutturalismo marxista e, in
particolare, Althusser. È tuttavia significativo il fatto che nel dibattito
svoltosi tra Godelier stesso e L. Sève, quest’ultimo abbia criticato Godelier
con argomentazioni simili a quelle impiegate da Levine e Wright nei confronti
di Cohen. In particolare Sève ha sostenuto che, nella visione di Godelier, il
passaggio ad una diversa forma di società avviene secondo il modello «quasi
cibernetico» di un’incompatibilità funzionale tra due strutture, quelle appunto
delle forze produttive e dei rapporti di produzione senza nessun riferimento a
un attore sociale reale che determini il cambiamento[105].
Sempre per quanto riguarda Cohen, un
confronto critico con le posizioni di J. Habermas, avrebbe potuto rivelarsi,
con riferimento a molti aspetti, chiarificatore. Habermas, infatti, nel suo già
citato testo Per la ricostruzione del materialismo storico,
critica radicalmente l’idea di una teoria della storia basata esclusivamente
sullo sviluppo delle forze produttive (come quella che si trova in Karl Marx’s theory of history e che
si concretizza nello schema dell’evoluzione «unilineare, necessaria, continua e
ascendente di un macrosoggetto»[106]), proponendo invece una teoria nella
quale sono decisivi i diversi livelli di coscienza morale che presenta una
forma di sviluppo e autonomo. In aggiunta, si noti come anche la sequenza delle
diverse forme di sfruttamento e la loro eliminazione – che, come abbiamo più
volte sottolineato, dovrebbe, secondo Roemer, costituire il collegamento tra materialismo
storico ed etica – potrebbe trovare in questa teoria una forma di
microfondazione più completa e non collegata esclusivamente allo sviluppo delle
forze produttive. Rispetto tuttavia agli sviluppi del pensiero di Habermas, che
nel suo testo posteriore l’Etica del discorso ha
collocato i processi d’intesa in uno spazio trascendentale, il marxismo
analitico ha avuto il merito di riportare in primo piano, come avevamo
accennato in apertura, le dinamiche effettive dell’agire, dove l’intesa (ed,
eventualmente, l’azione) possono svilupparsi a partire da interessi concreti e
non solo da una discussione razionale basata sul rispetto di un insieme di
regole procedurali e caratterizzata da una realizzabilità quanto mai
problematica. Più in generale, al marxismo analitico deve essere riconosciuto,
nonostante gli aspetti non privi di difficoltà messi in luce, di aver fatto
emergere, all’interno di un’impostazione e di una tradizione diversa da quella
liberale, il problema dell’individuo, dei suoi rapporti con la struttura
sociale, dei suoi vincoli e delle sue possibilità.
[2] Vedi K. Hempel, Logica dell’analisi funzionale, Istituto Superiore di
Scienze Sociali, Trento 1967 e E. Nagel, La struttura della scienza,
Milano, Feltrinelli 1984.
[3] Più in generale, la spiegazione
funzionale, presenta, secondo Ester, tre paradigmi, così riassumibili:
1)
Tutte le istituzioni e i comportamenti hanno delle funzioni latenti, cioè delle
conseguenze che non sono volute né riconosciute e che sono positive per alcune
strutture economiche o politiche (paradigma funzionale debole).
2)
Tutte le istituzioni e i comportamenti che hanno delle funzioni latenti sono
anche spiegati da queste funzioni (paradigma funzionale principale).
3)
Tutte le istituzioni e i comportamenti hanno delle funzioni latenti e sono
anche spiegati da queste funzioni (paradigma funzionale forte);
vedi J. Elster, Explaining technical change, Cambridge
University Press, Cambridge 1983, p. 57 e J.
Elster, «Marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi» in S. Petrucciani e F. S.
Trincia (a cura di), Marx in America. Individui,
etica, scelte razionali, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 181-183.
Il
paradigma funzionale debole non spiega l’esistenza di un’istituzione o di un
comportamento attraverso le sue conseguenze positive ma afferma che queste
conseguenze semplicemente ci sono, anche se non sono desiderate e riconosciute.
Esso, quindi, non presenta particolari problemi. Naturalmente la sua forza
esplicativa è limitata. Il paradigma funzionale principale non afferma che
tutte le istituzioni sono spiegate dalle loro funzioni latenti, perché possono
esserci, in effetti, delle istituzioni che non ne hanno. Esso può risultare valido
se si riesce a specificare un meccanismo con cui l’effetto (positivo) riproduce
la causa che lo ha determinato, anche senza la consapevolezza degli attori
coinvolti nel processo. La versione ingenua e ideologica della spiegazione
funzionale è il paradigma funzionale forte che trova largo uso, secondo Elster,
nella sociologia e nella politologia marxiste. Esse tendono a postulare, nelle
dinamiche sociali, una valenza positiva – in termini economici, psicologici,
culturali – per un determinato gruppo o classe sociale (in particolare quella
dominante), senza che coloro che ne fanno parte abbiano agito con l’intenzione
di raggiungere questo risultato. È come se queste dinamiche, quindi, avessero
uno scopo senza un soggetto sociale che ne sia consapevolmente portatore.
[4] J. Elster, Making sense of Marx,
Cambridge University Press, Cambridge 1985. Trad. fr. Karl Marx. Une interprétation analytique, PUF,
Paris 1989, p. 18. Nel presente saggio si farà riferimento
all’edizione francese.
[5] L. Althusser – E. Balibar, Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1968.
[6] A. Callinicos, «Le marxisme
analytique anglo-saxon: introduction au marxisme analytique», «Actuel Marx» 7
(1990), pp. 18-19.
[7] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma
1981.
[8] J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari 1985.
[9] J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna
1986.
[11] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., p. 36. Questa
frase si trova in un articolo per il New York Daily Tribune,
datato 10 giugno 1853, in K. Marx – F. Engels, Opere,
vol. XII, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 111-115.
[12] Ibidem. Anche questa
frase si trova in un articolo per il New York Daily Tribune,
datato 25 giugno 1853, in K. Marx – F. Engels, Opere,
vol. XII, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 129-135.
[13] R. Boudon, ad esempio, che non è certo
accondiscendente verso l’uso di forme surrettizie di funzionalismo ingenuo e di
teleologia, basti pensare alla sua polemica verso Foucault, propone di
considerare Marx come un pensatore che scriveva consapevolmente con intenti
differenti e per lettori diversi (R. Boudon, Reply to Elster, in
C. Modgil et S. Modgil, Robert Merton: consensus and
controversy, Falmer Press, London-New York 1991, pp. 80-81).
[14] A. Wood, «Historical materialism and
functional explanation», «Inquiry» 29 (1986), p. 21. Anche
Wood sottolinea il fatto che, se le accuse di teleologia possono essere sensate
per quanto riguarda una parte del pensiero giovanile di Marx, la teoria della
storia tratteggiata nell’Ideologia tedesca –
come già richiamato – è completamente diversa.
[15] Mi sono soffermato ampiamente su
queste analisi in S. Bracaletti, Filosofia analitica e
materialismo storico, Mimesis Edizioni, Milano 2005, in particolare
pp. 96-102.
[16] K. Marx, Il capitale, libro III, tomo 2, (a cura di D.
Cantimori), Edizioni Rinascita, Roma 1956, p. 310, citato in J. Elster, Karl Marx. Une
interprétation analytique cit., p. 60.
[17] Ivi, pp. 60-61.
[18] Vedi nota 3.
[19] D. Schweickart, «Reflections on anti-marxism:
Elster on Marx’s functionalism and labour theory of value», «Praxis
international» 8 (1988), 1, p. 112.
[20] Per un’esposizione e un’analisi di
queste parti, vedi S. Bracaletti, Filosofia analitica e
materialismo storico cit., in particolare pp. 96-102, pp.
102-113.
[21] Per
il dibattito in lingua italiana, tra i contributi più significativi si possono
richiamare quelli di P. A. Garegnani, B. Miconi, D.M. Nuti, F. Panizza,
M. Cini raccolti in Valori e prezzi nella
teoria di Marx. Sulla validità analitica delle categorie marxiane,
Einaudi, Torino 1982. Per un altro contributi importante, vedi gli articoli di
P. Giussani, pubblicati sulla rivista «Plusvalore, Studi di teoria e analisi
economica», tra cui «La critica del sistema neoricardiano», «Plusvalore, Studi
di teoria e analisi economica» 3 (1984), pp. 78-104 e Id., «Merce e
valore», «Plusvalore, Studi di teoria e analisi economica» 6 (1987), pp.
86-112. Per contributi in ambito non strettamente italiano vedi H. Ehrbar – M.
Glick, «La teoria del valore lavoro», «Plusvalore, Studi di teoria e analisi
economica» 6 (1987), pp. 3-46, E. Ochoa, «La relazione tra prezzi e valori»,
«Plusvalore, Studi di teoria e analisi economica» 6 (1987), pp.47-60 e A.
Shaikh, «La trasformazione da Marx a Sraffa», «Plusvalore, Studi di teoria e
analisi economica» 3 (1984), pp. 33-74. E, più recenti, i contributi raccolti in R.
Bellofiore ed.,Marxian Economics: a Reappraisal,
vol. 2, Palgrave Macmillan 1998, e M. Campbell – G. Reuten eds.,The Culmination of Capital. Essays
on Volume Three of Marx’s Capital, Palgrave Macmillan 2001.
[22] Vedi E. Screpanti – S.
Zamagni, Profilo di storia del pensiero economico, La Nuova
Italia Scientifica, Roma 1992.
[23] Vedi V. Valli, Politica economica, La Nuova Italia Scientifica, Roma
1986.
[24] Vedi F. Moseley, «Il declino del
saggio del profitto nell’economia USA del dopoguerra. Una spiegazione
marxiana», in G. Pala, P. Giussani, F. Moseley, E. Ochoa, Prezzi, valori,
saggio del profitto, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 1989. Altri
autori che cercano di portare prove empiriche a sostegno della teoria sono A.
Shaikh, «Il saggio di profitto di lungo periodo nell’industria manifatturiera
U.S.A., 1909-1985», «Plusvalore, Studi di teoria e analisi economica» 8 (1990),
pp. 3-29, G. Dumenil, M. Glick e J. Rangel, «Il declino della
profittabilità negli Stati Uniti», «Plusvalore, Studi di teoria e analisi
economica» 5 (1985), pp. 23-61. Per una discussione d’assieme su questi
problemi vedi G. Pala, P. Giussani, F. Moseley, E. Ochoa, Prezzi, valori,
saggio del profitto cit.. Anche per
questi argomenti, vedi R. Bellofiore ed., Marxian Economics: a Reappraisal cit.
e M. Campbell – G. Reuten eds., The Culmination of Capital. cit.
[25] Vedi E. Zagari, Storia dell’economia politica. Dai mercantilisti a Marx,
Giappichelli, Torino 1991.
[26] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit.,
pp. 638-660.
[27] K. Marx, Il capitale, libro III, tomo 2, (a cura di D.
Cantimori), Edizioni Rinascita, Roma 1956, p. 310, citato in J.
Elster, Karl Marx. Une
interprétation analytique cit., p. 655.
[28] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., pp. 662-675.
[29] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., pp. 496-499.
[30] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., p. 467.
[31] Ivi, p. 468.
[32] Ivi, pp. 473-479.
[33] Ivi, pp. 483-488.
[34] Ivi, p. 501.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p.469, nota 108.
[37] Vedi A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, Il
Mulino, Bologna 1973.
[38] La diffusione capillare di
un’ideologia individualistica, qual è il caso ad esempio degli Stati Uniti, ha
come risultato una scarsa adesione ai sindacati e uno scarso impulso
all’adesione all’azione collettiva. Questa ideologia individualistica
massimizza la struttura di preferenze tipica del dilemma del prigioniero,
indipendentemente dal realizzarsi o no di una stretta forma di interazione tra
i membri di una classe. Inoltre, aspetti strutturali quali risorse, capacità e
poteri di cui una classe dispone sono di importanza fondamentale per valutare
se essa può organizzarsi collettivamente e per valutare quali conseguenze
questa organizzazione può avere sia sulla classe in questione sia su altre
forze all’interno della società. Fattori ancora più generali di carattere
strutturale, manifestatisi nel corso dello sviluppo capitalistico, sono stati
di ostacolo alla formazione di una coscienza di classe. Tra questi, i più
significativi sono stati l’aumento della divisione del lavoro, il formarsi di
nuovi strati sociali intermedi e di una sempre più vasta burocrazia statale e
aziendale così come la progressiva standardizzazione dei consumi. Vedi S. Lash e J. Urry, «The new Marxism of
collective action: a critical analysis», «Sociology» 18 (1984), p. 39.
[39] J. Sensat, «Methodological individualism and
Marx», «Economics and philosophy» 4 (1988), 2, pp. 193-197.
[40] Vedi G. C. Homans, Le forme elementari del comportamento sociale, Franco
Angeli, Milano 1975.
[41] J. Sensat, «Methodological
individualism and Marx» cit., p.208.
[42] Ivi, p. 210.
[43] G. A. Cohen, Karl Marx’s theory of history.
A defence, Princeton University Press,
Princeton 1978.
[44]
Ivi, p. 260.
[45] Ivi, p. 261.
[46] Ivi, p. 262.
[47] G. A. Cohen, «Replica ad Elster su
marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi», in S. Petrucciani e F. S. Trincia
(a cura di), Marx in America. Individui, etica, scelte razionali, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 229-231 e G. A.
Cohen, «Functional explanation: reply to Elster», «Political studies» 28
(1980), pp. 129-130.
[48] G. Kirkpatrick, «Philosophical foundations of
analytical marxism», «Sciences and society» 58 (1994), 1, p. 38.
[49] G. A. Cohen, Karl Marx’s
theory of history cit., p. 42.
[50] Ivi, p. 32.
[51] Ivi, p. 41.
[52] Ivi, p. 65.
[53] Ivi, pp. 88-89.
[54] E. M. Wood, «Rational choice marxism: is the
game worth the candle?», «New Left Review» 177 (1989), pp. 70-73.
[55] G. A.Cohen, Karl Marx’s theory of history cit.,
p. 94.
[56] G. Kirkpatrick, «Philosophical foundations»
cit., p. 39.
[57] 1) Le relazioni di produzione
corrispondono a un certo stadio dello sviluppo delle forze
produttive materiali.
2)
A un certo punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società
entrano in conflitto con le relazioni di produzione all’interno
delle quali avevano funzionato fino a quel momento.
3)
Da forme di sviluppo delle forze produttive queste relazioni diventano
ostacoli.
4)
Comincia allora un’epoca di rivoluzione sociale.
5)
Nessuna formazione sociale si estingue prima che tutte le forze produttive per
le quali c’è spazio all’interno di essa si siano sviluppate.
6)
Nuove, più elevate relazioni di produzione non appaiono mai prima che le
condizioni materiali della loro esistenza siano maturate nel grembo
stesso della vecchia società.
[58] Questa non simmetria non esclude la
possibilità del condizionamento contrario, cioè dalle relazioni alle
forze. Nessuna delle sei proposizioni asserisce di fatto che tutti i
cambiamenti nelle relazioni in produzione avvengano in conseguenza di
cambiamenti nelle forze produttive. Marx stesso, come fa osservare Cohen, non
ha mai escluso che il condizionamento contrario potesse verificarsi. Tuttavia –
ed è questo sostanzialmente il punto fondamentale su cui Cohen insiste –
non vi è nessuna generalizzazione nei testi marxiani di questo rapporto opposto
come vi è (sulla base, lo ripetiamo, delle sei proposizioni e della logica
della spiegazione funzionale) del rapporto che vede le forze produttive come
dato primario (G. A. Cohen, Karl Marx’s theory of history cit.,
p. 138).
[59] Ivi, p. 152.
[60] J. Elster, «Cohen on Karl Marx’s theory
of history», «Political studies» 28 (1980), p. 124.
[61] Ho analizzato i dettagli delle
argomentazioni sviluppate da Cohen in S. Bracaletti, «L’interpretazione
funzionalista del materialismo storico», «Quaderni materialisti» 1 (2002),
pp. 155-194.
[62] Più stringatamente: se una data
società si trova in una situazione in cui tutte le forze produttive per
le quali c’è spazio all’interno di essa si sono sviluppate (asserzione 5), e se
nuove condizioni materiali sono pronte all’interno di essa (asserzione 6), può
verificarsi una situazione di conflitto significativo tra le forze produttive e
i rapporti di produzione (asserzione 2). I rapporti divengono ostacoli
(asserzione 3). In questo caso le forze non possono più svilupparsi. Poiché,
tuttavia, ciò non è possibile e le forze produttive tendono a svilupparsi (development thesis), e poiché la corrispondenza non è
simmetrica, ma le relazioni di produzione devono adeguarsi al cambiamento delle
forze produttive (primacy thesis), subentra un’epoca
di rivoluzione sociale (asserzione 4). Le relazioni cambiano e le forze
produttive riprendono a svilupparsi.
[63] A. Levine – E. O. Wright, «Rationality and
class struggle», «New left review» 123 (1980), pp. 61-62.
[64] Ivi, pp. 63-64.
[65] Ivi, pp. 65-67.
[66] Vedi, in particolare, G. Lensky e L. Lensky, Human societies: an introduction to macrosociology, McGraw-Hill, New York 1974.
[67] J. Roemer, A general
theory of exploitation and class, Harvard University Press,
CambridgeMass. 1982.
[68] «Tecnologia avanzata» deve essere
qui intesa in senso relativo: se x ha un pezzo
di terra e una vanga e y ha solo un
pezzo di terra, x ha una tecnologia più
avanzata di y.
[69] Ivi, pp. 28-60; J. Roemer, «New directions in
marxian theory of exploitation and class», in J. Roemer (ed.) Analytical marxism, Cambridge University Press,
Cambridge 1986, pp. 84-86; Id., Value, exploitation and class,
Harwood Academic Publishers (trad. it. Valore, sfruttamento e classe, Giuffrè, Milano 1993,
pp. 45-54).
[70] J. Roemer, A general theory cit.,
pp. 61-105; Id., «New directions in marxian theory» cit., pp. 87-91;
Id., Valore, sfruttamento e classe cit., pp. 57-58.
[71] J. Roemer, Valore, sfruttamento e classe cit., p. 62.
[72] Ivi, p. 67 ed anche J. Roemer, A general theory cit., pp. 78-82.
[73] J. Roemer, A general theory cit.,
p. 79.
[74] Ivi, pp. 109-192 e J. Roemer, «New directions
in marxian theory» cit., pp. 95-97.
[75] J. Roemer, A general theory cit.,
pp. 132-135. Più chiaramente, se la quantità di lavoro
oggettivata durante la sua giornata lavorativa è comunque maggiore/minore di
quella oggettivata nel paniere di sussistenza che contiene la quantità
massima/minima di lavoro v è un agente
sfruttato/sfruttatore.
[76] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., p. 243.
[77] Roemer costruisce anche un modello in cui esiste solo un mercato
del credito senza un mercato del lavoro e delle classi sociali speculari a
quelle del modello con il mercato del lavoro, tranne che i termini
“assumere\vendere lavoro” sono sostituiti da “dare\prendere in prestito capitale”.
Egli dimostra che questo modello è isomorfo a quello del mercato del lavoro:
l’agente che ottimizza prestando capitale è sfruttatore mentre quello che
ottimizza prendendolo a prestito è sfruttato (J. Roemer, A general theory cit., pp. 86-105 e Id., Valore,
sfruttamento e classe cit., pp. 71-77).
[78] Per le ragioni che spingono Roemer
all’abbandono della teoria del valore lavoro, legate sostanzialmente alla possibilità
di dare una validità più generale ai due principi suesposti rispetto ai modelli
visti finora, che si riferiscono solo a una particolare tecnologia, quella
cosiddetta di Leontief, vedi ancora S. Bracaletti, Filosofia analitica e materialismo storico cit.,
pp. 219-221.
[79] R. A. Kieve, «From necessary illusion to
rational choice», «Theory and society» 15 (1986), pp. 559-563.
[80] Ivi, pp. 567-572.
[81] Ivi, pp. 577-581.
[82] A. Przeworski, «Exploitation, class conflict
and socialism: the ethical materialism of John Roemer», in Capitalism and Social Democracy, Cambridge University
Press, Cambridge 1989, pp. 226-229.
[83] Ivi, p. 230.
[84] E. O. Wright, «The status of the political in
the concept of class structure», «Politics and Society» (1982), pp. 331-332.
[85] J. Roemer, A General theory cit.,
capitolo 7. Vedi anche J. Roemer, «New directions in marxian theory» cit.,
paragrafo 8 e Id., Valore, sfruttamento e classe cit.,
capitolo 9.
[86] Ivi, p. 63.
[87] Ivi, pp. 85-86.
[88] J. Roemer, A General theory cit.,
pp. 194-198; Id., «New directions in marxian theory» cit., pp. 102-104.
[89] J. Roemer, A General theory cit.,
pp. 199-202; Id., «New directions in marxian theory» cit., pp. 104-105.
[90] J. Roemer, A General theory cit.,
pp. 203-212; Id., «New directions in marxian theory» cit., p. 105.
[91] J. Roemer, A General theory cit.,
pp. 212-213; Id., «New directions in marxian theory» cit., p. 109.
[92] Pur tenendo presente il carattere
volutamente controfattuale dello schema proposto, è difficile evitare, nella
fattispecie, tre interrogativi, lasciati sullo sfondo da Roemer: 1) come si può
identificare la mancanza di intelligenza e di talento con procedure non
totalitarie ma adeguate ai principi che si vorrebbero applicare, ed inoltre in
tempo per porre rimedio alle distorsioni che quella mancanza potrebbe
provocare? 2) Come si opera una redistribuzione del talento, che tra l’altro
non danneggi chi lo possiede, se non in termini di compensazione monetaria? 3)
Ma, allora, come si può assicurare che questa compensazione venga
effettivamente impiegata per colmare quella mancanza e non in altro modo?
[93] J. Roemer, «New directions in marxian theory»
cit., p. 110.
[94] In particolare in J. Roemer, A General theory cit., capitolo 9 e Id., Free to loose. An introduction to marxist economic philosophy,
Harvard University Press, Harvard 1988, capitolo 8.
[95] A. Carling, «Rational Choice Marxism», «New
left review» 160 (1986), p. 54.
[96] Vedi J. Roemer, «Rapporti di
proprietà contro plusvalore nello sfruttamento marxiano» in S. Petrucciani e F.
S. Trincia (a cura di), Marx in America. cit.,
pp. 99-173.
[97] A. Przeworski, «Exploitation, class conflict
and socialism» cit., pp. 236-238.
[98] J. Bidet, Teoria della modernità. Marx e il mercato, Editori
Riuniti, Roma 1992, pp. 209-215.
[99] M. Fleurbay, «Exploitation et
inégalité: du coté du marxisme analytique», «Actuel Marx» 7 (1990), p.
120.
[100] Vedi G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Bari 1981.
[101] L. Althusser, Per Marx,
Editori Riuniti, Roma 1972.
[102] G. Della Volpe, Logica come scienza storica, Editori Riuniti, Roma
1969.
[103] Vedi M. Godelier, «Sistema,
struttura e contraddizioni nel Capitale» e «Logica
dialettica e analisi delle strutture» in M. Godelier e L. Séve, Marxismo e strutturalismo. Un dibattito a due voci sulle scienze
umane, Einaudi, Torino 1977, pp.11-48 ed, pp. 101-135.
[104] Godelier cerca inoltre di dimostrare
che è possibile far emergere dai testi marxiani i principi di una metodologia
strutturalista: il principio secondo il quale la struttura non può essere
identificata con le relazioni sociali visibili ma è nascosta sotto di esse; il
principio che afferma come lo studio delle strutture sia prioritario rispetto
allo studio della loro genesi ed evoluzione.
[105] Vedi L. Séve, «Metodo
strutturale e metodo dialettico», in M. Godelier e L. Séve, Marxismo e strutturalismo cit., pp. pp. 51-97.
[106] J. Habermas, Per la ricostruzione del materialismo storico, Etas,
Milano 1979, p. 114.