18/12/13

Marx e la scienza | Come il pensiero scientifico ha dato forma alla teoria della società di Marx – IV [Cap. 7]

Karl Marx ✆ Etsy 
Franco Soldani

7.      Verso un nuovo marxismo
“A theory exists so that we may build a better theory” | G. Edelman
Quali sono dunque le conseguenze che è possibile trarre da quanto è emerso nel corso dell’analisi? E soprattutto quali effetti teorici hanno o potrebbero avere sull’attuale interpretazione del capitalismo contemporaneo? Se è vero, come dice Gould, che “simple ugly facts do not destroy great theories”[513], altrettanto certo tuttavia è il fatto che essi ci obbligano quantomeno a ripensarle drasticamente. Una delle poste in gioco in questa indispensabile opera di revisione della maniera in cui il marxismo storico, ad iniziare da Marx ed Engels, ha interpretato la scienza è sicuramente una più corretta comprensione della sua interna evoluzione, dei mutamenti epistemologici che ha attraversato e l’esatta descrizione del paradigma attualmente dominante nell’ambito della comunità scientifica. L’importanza di questa riscrittura, ovviamente, sta tutta nella migliore rappresentazione che essa potrebbe darci di una
razionalità divenuta ormai dominante rispetto a tutte le altre forme di sapere sociale. Già capire come funziona effettivamente la scienza, quali sono i suoi sistemi di conoscenza egemoni e quale effettiva struttura concettuale ne connota la complessa natura odierna costituisce un’impresa encomiabile che ciascun pensatore critico dovrebbe sottoscrivere.

D’altro canto, capire l’organizzazione interna del pensiero scientifico ed in particolare i suoi modelli epistemologici ha un rapporto strettissimo, come ci ha mostrato Marx, con la comprensione della maniera in cui il modo di produzione capitalistico ha dato la sua impronta altamente specifica alla realtà storico-economica della sua formazione sociale. Sono infatti decine le categorie, e le analogie a fini di dimostrazione, che Marx mutua dalla scienza del suo tempo per finalizzarle alla spiegazione dei meccanismi riproduttivi del capitale, e tutte in un modo o nell’altro condizionano la rappresentazione data da Marx di questo determinato sistema sociale[514]. Si possono ignorare?  Si può realisticamente pensare di poter leggere adeguatamente Das Kapital e capirne i concetti più sofisticati, così come i limiti del resto, senza una previa e seria analisi del loro eventuale significato scientifico originario?[515] Oltretutto, bisogna tenere conto di quello che si potrebbe chiamare “effetto di ritorno” di una simile riconsiderazione. Una migliore comprensione delle categorie più sottili di Marx costituisce infatti, secondo me, una precondizione indispensabile per poter meglio capire la logica scientifica, per correlarla alle modalità riproduttive dei rapporti sociali capitalistici, facendo vedere come essa, attraverso la tecnologia, ne rappresenti in effetti il vettore fondamentale, il pilastro portante tramite cui in società tout se tient. Come si realizzi questa mediazione, attraverso quali anelli intermedi essa prenda la sua intrinseca forma complessa non mi è possibile ovviamente dimostrarlo qui[516]. Qualche prima correlazione credo sia già emersa dalle comparazioni sviluppate in questo saggio. Per il momento tuttavia debbo linitarmi all’enunciazione del problema. D’altra parte, come sostiene Wheeler, “it is often more difficult to ask the right questions than to find the right answers”[517]. Ci sarebbe dunque da ritenersi relativamente e provvisoriamente soddisfatti se solo si riuscisse a tener fede ad un simile ideale.

In ogni modo, anche i pochi risultati acquisiti sin qui ci danno un’idea, per quanto solo abbozzata e ancora incompleta, della drammatica inutilità della pletora di scritti marxisti dedicati, nel corso soprattutto del Novecento (Dietzgen è un caso isolato nell’Ottocento), all’interpretazione del pensiero di Marx. Se già Lenin, nel 1914-15!, poteva dire che “nessun marxista aveva ancora capito Marx”[518], oggi, a distanza di quasi cento anni da questa constatazione, il bilancio non può essere che vieppiù sconfortante. L’intera cultura marxista di questo secolo e gli studiosi più seri e più intelligenti – di norma intellettuali professionali, storici della società, economisti, filosofi, sociologi, giuristi e teorici del diritto, qualche raro storico della scienza o scienziato esso stesso (e.g. John Burdon Haldane, Marcel Prenant e forse alcuni studiosi russi)[519], impossibile logicamente nominarli tutti – che hanno dato forma al marxismo storicamente costituito giunto fino a noi, persino coloro che in anni recenti e meno recenti han cercato di rinnovarlo[520], hanno in pari tempo del tutto ignorato il lungo, tortuoso e complesso processo di formazione scientifica della concezione di Marx, ripetendo stancamente, in forme magari sempre nuove e con argomenti ogni volta diversi, le vecchie, consunte categorie della tradizione sulla società e la scienza (diventati ormai veri e propri luoghi comuni del marxismo internazionale con la loro codificazione persino nei famosi, e per altri versi meritori, Dizionari marxisti europei)[521].

E’ così diventato evidente, ad avviso di chi scrive, che tutti i concetti più noti di questi diversi marxismi non sono attualmente più in grado di affermare alcunché di specifico o di originale in merito alla natura del capitale, alle sue interne leggi di movimento e riproduzione nonché alle tendenze del suo sistema complessivo. Non una delle sue molteplici idee, del resto estremamente adattive al variare dei tempi e delle circostanze, è in grado di spiegare in modo convincente - senza cioè incorrere di continuo in micidiali contraddizioni logiche - la realtà sociale né tanto meno di reggere il confronto con i paradigmi scientifici odierni. Materialismo dialettico e materialismo storico, teoria della conoscenza e teoria della società, almeno così come sono giunti sino a noi, non hanno oggi più alcun senso. Sono solo scatole vuote (talvolta, come negli scritti di certi accademici, filosofi ed economisti, vere e proprie “black box”) che ciascuno può riempire a proprio piacimento con i più differenti contenuti. In ogni caso, non possono minimamente preoccupare il pensiero dominante né scalfirne l’egemonia. Si ha la netta impressione che siano divenuti, insieme a tutti i concetti che possono snocciolare dal loro interno (riflesso attivo, mercato: magari “market socialism”, rapporti sociali interpersonali: di potere, di forza oppure mediati dall’egemonia, forze produttive, natura avalutativa della scienza e della tecnologia, Stato e democrazia, e via dicendo) dei semplici giocattoli con cui certa élite intellettuale può senza timore di doversi troppo sprenere le meningi trastullarsi ed occupare il suo tempo libero. Cosa può esserci di più riposante che recitare a memoria la preghiera della domenica, soprattutto se la si è appresa mediante un training lungo più di cento anni?

Prendiamo ad esempio due nozioni classiche e cruciali insieme, alle quali del resto si è fatto cenno in precedenza, di questa variegata e tenace formazione ideologica: il processo di pensiero in rapporto alla società e alla natura. Come è noto, praticamente tutto il marxismo tradizionale, e quello odierno insieme ad esso, ha sempre creduto che la storia di questa formazione sociale, lo sviluppo nel tempo degli eventi, dei processi e delle sitituzioni societarie – discontinuo o continuo, in incessante mutamento o invece immutabile, poco importa – desse vita ad una sorta di cornice esterna ed oggettiva alla quale poter rapportare le diverse teorie e decidere così, sulla base della loro corrispondenza o meno ai dati d’esperienza, in merito alla loro validità o confutazione. La storia della società, in altre parole, in questa concezione è sempre stata elevata al rango di pietra di paragone dei sistemi di conoscenza che han tentato di rendere intelligibile agli stessi soggetti il loro contorno comunitario. Anche quando alcune correnti di questo marxismo, magari sulla scia di Reichenbach o Bachelard, hanno preso una piega più convenzionalista, abbbandonando l’idea che la teoria fosse una copia del mondo[522], tale oggetto reale ha continuato ad essere interpretato come un contesto esistente al di fuori della mente ed indipendente rispetto all’attività cognitiva degli individui, così da poter illusoriamente dare alle nostre teorie un criterio apparentemente ontologico tramite cui poter controllare la loro attendibilità e coerenza[523].

Nel tentativo di aggirare o esorcizzare il soggettivismo incombente nel costruttivismo della loro impostazione, oppure, a seconda delle scuole, anche per giustificare in qualche maniera la loro credenza nei fatti e nei dati empirici quale ultimo e aproblematico suolo del reale (e. g. lo storicismo), tutte queste interpretazioni marxiste – filosofiche, storiografiche, economiche, politico-ideologiche, giuridiche, epistemologiche[524] – han finito col trasformare il sistema sociale e la sua storia interna in una sorta di mondo autonomo al quale veniva assegnata la funzione di corroborare o meno le nostre spiegazioni delle cose. Qui il retaggio filosofico e teorico di un secolo ha pesantemente condizionato questi modelli concettuali, preformandone in maniera irrimediabile l’intera loro rete di concetti. Anche a voler prescindere dagli sviluppi autopoietici della scienza odierna e dalla sua distruzione di ogni dominio ontologico[525], dei quali sanno ben poco, tutte queste concezioni han finito col rimanere incollate, anche quando paradossalmente cercavano di contraddirlo[526], al vecchio e datato principio di materialità riportato in auge da Althusser nel corso degli anni sessanta-settanta, a cui veniva addirittura affidato il compito di sostenere “toutes les Thèses marxistes sur la connaissance”[527], ma risalente sostanzialmente alle originarie formulazioni di Marx ed Engels[528].

Come è oggi evidente, invece, l’idea che la società e la sua storia costituiscano la pierre de touche delle teorie non può avere più alcun senso e va definitivamente abbandonata. Per due ragioni sostanziali, complementari e convergenti. Innanzitutto, per la sua ineliminabile natura contradittoria. Se la storia della società consta dell’agire in genere razionale degli individui, essa non potrà mai rappresentare un contorno esterno ed oggettivo rispetto agli attori sociali che le danno forma, che le conferiscono il suo aspetto dinamico e strutturato. Anche se la storia degli eventi sociali sembra assumere un profilo fattuale, già dato e anteriore nei confronti dei soggetti, essa ne è invece un prodotto, l’effetto intenzionale o anche inintenzionale. In ogni caso, è istituita dal loro complesso agire e per sua natura non può dunque essere né esterna né distinta dalle loro pratiche complessive (ciò che essi pensano e fanno). Da questo punto di vista, i dati e i fenomeni empirici, in società, non sono altro che pensiero divenuto, razionalità materializzatasi in una certa configurazione di cose, processi mentali trasformatisi in una specifica organizzazione d’insieme. I cosiddetti fatti, insomma, non esistono né sono mai esistiti nella loro veste oggettuale, come invece una tradizione secolare di pensiero ce li ha tramandati: essi hanno natura concettuale e dunque sia sono interni alla ragione umana sia hanno un’origine convenzionale e stipulativa. I fatti sono dati di realtà, ma il loro carattere interno è esclusivamente concettuale o s’identifica con l’attività congetturale e ipotetica della mente. Non v’è chi non veda le conseguenze epistemologiche di una simile interpretazione dell’oggetto, e l’impatto esplosivo che essa ha su tutto il vecchio marxismo[529]. In secondo luogo, la rappresentazione della storia e della società come mondo presupposto esterno, poiché deve considerare i fenomeni empirici di cui entrambe constano, come premesse della sua argomentazione finisce col generare dal proprio interno la logica del fattuale o, come l’ha definita Marx, lo si ricorderà, del post festum. A parte il fatto ch’essa si scontra con la spiegazione marxiana relativa al carattere derivato e dipendente dei modi d’espressione del capitale, tale forma mentis particolare rende impossibile poter problematizzare o sottoporre a critica le differenti istituzioni del sistema sociale (qualunque esse siano: dai rapporti di potere entro l’impresa agli apparati ideologici nella società civile, dalla merce e dal mercato allo Stato, dalla stessa natura della scienza alla tecnologia). Poiché assume la realtà sociale come un oggetto già dato, deve infatti poi trattare le diverse istanze di cui questo consta come entità su se stesse fondate, cancellando d’un colpo il problema delle loro origini dall’intrinseca dinamica del capitale. Esse semplicemente sono, e poi variamente interagiscono tra loro – la politica con l’economia, l’ideologico con entrambi, e dentro un singolo apparato (Giant Firm o Stato) i diversi sottosistemi tra loro, in un gioco senza fine di rimandi ed intrecci – per produrre la loro configurazione d’insieme, un dato sistema d’interrelazioni reciproche con date caratteristiche.

Un’interpretazione di questo tipo, dominante oggi nelle cosiddette scienze sociali, non ha né può avere alcun interesse a domandarsi da dove derivi l’aspetto apparentemente autoreferente di tutte quelle entità. Poiché da esse comincia come da un saldo fondamento, non può più avere per essa alcun senso chiedersi quale processo di formazione specifico si renda responsabile del loro carattere a prima vista concreto e tangibile. Tutte le istanze di questo mondo sono semplicemente dei dati di fatto da cui dover necessariamente prendere le mosse nell’analisi del reale, giacché oltre ad esse non sembra esistere nient’altro. Nell’ambito di questa visione delle cose, persino il diniego della logica fattuale, l’enfasi sull’origine storica, e dunque socialmente condizionata, dei differenti istituti sociali (del potere, del mercato, della tecnologia, della scienza, e via dicendo) implica paradossalmente il suo contrario: la preliminare presupposizione della datità delle istanze e dunque il divieto di poterne davvero criticare la natura anteposta. Nella misura in cui la storia di queste istituzioni viene elevata al rango di criterio obiettivo di valutazione e controllo, essa ridiventa immediatamente un criterio convenzionale, un postulato dell’osservatore, e dunque, in quanto tale, di nuovo un oggetto avente forma di premessa indiscutibile che deve essere considerato come già dato. Tra l’altro, stando così le cose, quando una teoria, un’interpretazione, una certa spiegazione di un particolare evento ritiene di potersi contrapporre all’impostazione rivale tramite la storia, i dati d’esperienza e i fatti empirici, essa contraddice o tenta di confutare il paradigma alternativo esclusivamente tramite una controversia concettuale, mediante una disputa tra differenti categorie di pensiero.

In questo contesto, a niente vale considerare quelle diverse istanze dinamicamente, come se fossero in costante evoluzione e trasformazione, in perenne mutamento e divenire, giacché anche questa processualità non può cambiare niente alla loro forma presupposta. Anzi, finisce col renderla ancora più flessibile, adattiva e capace di accomodarsi sempre meglio entro le nuove condizioni al contorno emergenti volta a volta. Il fluire del tempo, ammessso ma non concesso che esista in società[530], non prova alcunché a favore della storia come criterio di valutazione né dimostra che i processi di sviluppo delle cose siano esterni e oggettivi rispetto a chi li osserva. Nella misura in cui siamo noi che li pensiamo, nella misura in cui siamo noi che affermiamo la loro esistenza, essi costituiscono sempre nostre statuizioni, degli enunciati soggettivi e dunque nient’affatto indipendenti dall’osservatore o fuori della sua mente cognitiva. Nel tramonto definitivo di ogni criterio oggettivo di valutazione, i soli criteri di controllo delle nostre interpretazioni sociali diventano adesso la coerenza argomentativa e la corroborazione concettuale, la solidità logica, la capacità di resistere alle confutazioni ed insieme di spiegare meglio, in maniera più approfondita di altri paradigmi, dati eventi sociali. Di qui l’importanza della controversia e del confronto tra teorie o sistemi di pensiero alternativi.

La duplice e solidale concezione in questione, i cui presupposti teorici, come si è visto, danno luogo a una singolare sinergia concettuale tendente ad un unico fine o unilateralmente finalizzata al conseguimento di un solo scopo, oltre a vietarsi da sola la comprensione della sofisticata spiegazione data da Marx dell’effettiva natura intima delle forme d’espressione del capitale, finisce anche con l’affiancare il pensiero dominante quando essa dà una spiegazione della realtà seguendo la logica del post festum, sia legittimandolo sia rendendosi in tal modo completamente subalterna alla sua interpretazione del mondo. L’egemonia culturale dei dominanti è così corroborata – avvalorata e consolidata – dalla stessa teoria che avrebbe voluto contrastarla. Si può immaginare miglior paradosso? Se in genere, come dice Gould, “traditional views die hard”[531], quella in discussione sembra essersi assicurata un’eterna giovinezza.

Oltretutto, si deve anche tener conto del fatto che quel modello di rappresentazione del legame tra pensiero e realtà empirica, in società, rispecchiava fedelmente il rapporto che la scienza sembrava intrattenere con la natura. Nell’analisi del sistema sociale, in altri termini, si adottava lo stesso approccio che si riteneva tipico della conoscenza scientifica. Senza tener conto alcuno della distinzione che necessariamente deve passare tra osservare un oggetto fisico o biochimico e studiare un contesto sociale a cui, per genere, la mente dell’osservatore è identica (distinzione che però Condorcet faceva!)[532], il marxismo storico nemmeno si è accorto del fatto che il pensiero scientifico dal quale esso mutuava la sua interpretazione, sin dall’inizio dell’Ottocento stava abbandonando quella concezione tradizionale della relazione mente-mondo. Da questo punto di vista, detto marxismo, comprese le sue varianti attuali, sia non ha mai demarcato la sua interpretazione del processo di conoscenza da quella della razionalità scientifica, obliterando così la specificità della società capitalistica rispetto alla natura, sia non ha mai avuto chiara nozione di quali correnti epistemologiche effettive fossero all’opera entro la logica della scienza proprio nel periodo in cui il modo di produzione capitalistico affermava la sua definitiva supremazia. Il marxismo storico e contemporaneo, in altre parole, non ha mai capito né l’effettiva complessità interna dei paradigmi scientifici, poco o niente corrispondente all’immagine standard che se ne dava: conoscenza oggettiva delle eterne leggi della materia, sia del pari non ha mai avuto cognizione delle prepotenti tendenze convenzionaliste insite nello sviluppo teorico della scienza tra Ottocento e Novecento in particolare, cosa che ne ha condizionato e limitato gravemente e irrimediabilmente l’intero apparato concettuale. Non è certo un caso che categorie cruciali di Marx come produzione di merci, merci, feticismo, scambio, circolazione, valore, plusvalore, prezzo e denaro, modi e forme d’espressione, sussunzione formale e reale, sistemi di macchine, tecnologia, potere oggettivo del capitale, rapporti di produzione impersonali, i soggetti in quanto personificazioni del capitale e sue incarnazioni dotate di volontà e coscienza, per non parlare poi dell’ideologia e della contraddizione dialettica, vengano ancor oggi riempite di significati banali e ripetitivi dal marxismo corrente, che le ha ormai ridotte a innocue icone buone per tutte le chiese[533].

Se si confrontano le concezioni marxiste, del passato e odierne, con gli sviluppi più recenti del pensiero scientifico, allora bisogna dire che l’intera cultura di queste interpretazioni non è assolutamente in grado di reggere il confronto con i sofisticati apparati concettuali della scienza moderna. Anzi, diciamo pure che tutto il marxismo posteriore a Marx, senza niente voler togliere ai suoi migliori e più intelligenti esponenti, viene confinato da questi sistemi d’idee nel passato sociale più remoto e reso teoricamente insignificante a fronte dei paradigmi scientifici, una specie di “left handed Sam” posto sotto la tutela del fratello maggiore, probabilmente in senso generale, sicuramente per quanto riguarda il processo di conoscenza.

Il fatto è che, proprio in piena epoca in cui Marx scrive Das Kapital, il pensiero scientifico si era avviato su una strada diversa da quella classica, esemplarmente rappresentata dal determinismo di Laplace. Durante questo periodo, come si è visto, era divenuto chiaro a molti scienziati che la conoscenza del mondo fisico e biologico non poteva più essere pensata nei termini tradizionali del paradigma induttivo che si credeva avesse avuto inizio con Newton, e che invece come oggi sappiamo era solo un mito (persino Bacon non è quel campione dell’induttivismo che si è pensato fosse)[534]. D’altro canto, l’opposizione di molti scienziati al metodo induttivo, come si è visto, era praticamente cominciata da subito sulla base della convinzione sia che il soggetto fosse in coevoluzione con la materia, in stretto rapporto d’interdipendenza con i fenomeni naturali, sia che la percezione empirica, l’osservazione dei dati e dei fatti sensibili implicasse sempre la presenza del nostro apparato concettuale per rendere intelligibile l’esperienza. La prima categoria metteva in discussione l’idea che il mondo fosse anteriore alla mente e da sempre già dato, un monolite ontologico preesistente alla razionalità umana (non importa se posto da Dio o esistente in virtù di se stesso). La seconda del pari confutava la convinzione che vi fosse qualcosa di oggettivo fuori dell’attività conoscitiva del soggetto o circostante e delimitante i processi cognitivi attivati dall’osservatore.

Con la maturazione di questi due nuovi orientamenti – un processo sia di lunga durata sia non lineare, giacché come in ogni fase di transizione il nuovo paradigma e quello precedente convissero a lungo, ora in parallelo ora intrecciati (a volte nell’opera di uno stesso scienziato), entro la comunità scientifica del tempo – prese piede una sorta di rivoluzione epistemologica vera e propria. Erano stati tendenzialmente infranti, infatti, i due caposaldi su cui si era fino ad allora basata l’interpretazione del mondo fisico, e contestualmente, cosa non meno grave per il prestigio e lo status privilegiato della scienza, era stato messo in crisi l’ideale dell’oggettività, la convinzione cioè che i modelli scientifici di spiegazione dei fenomeni naturali riflettessero in qualche maniera l’ordine immutabile dell’Universo, le leggi universali ed eterne della Natura. I due esiti di quel contrastato passaggio, infatti, tendevano adesso a mettere in primo piano l’aspetto soggettivo del sapere, la forma ipotetica e convenzionale dei sistemi concettuali con i quali ci rendevamo intelligibili le cose. L’arbitrio soggettivo faceva irruzione nell’antico mare tranquillitatis della scienza - il regno del razionale e della ricerca disinteressata, quello che Eddington definirà “the temple of rigour”[535] - e ne metteva a soqquadro le vecchie certezze (il determinismo, la tendenziale approssimazione a Dio, oppure, da un altro versante diciamo più materialista, la scoperta dei segreti della Natura, la comprensione del suo enorme potere chimico, fisico, biologico, ecc.).

A dispetto dell’apparente apriorismo della nuova impostazione, il paradigma emergente non rappresentava affatto un punto di vista in cui la conoscenza prendesse forma unicamente all’interno della mente e questa avesse cancellato qualsiasi contorno percettivo. Se non è mai esistito alcun idealista “delirio di onnipotenza della ragione”, come credeva Althusser, un fantasma verso il quale i marxisti hanno inutilmente lanciato migliaia di strali spuntati, mai del pari la scienza di quel periodo e dei periodi successivi si è sognata di eliminare la cornice sensoriale dei nostri sistemi d’idee. Al contrario. Anche nella nuova epistemologia ottocentesca la Natura continua a svolgere una sua funzione insostituibile nell’accertamento delle teorie. Solo che essa è adesso semplicementedistinta dai processi di conoscenza dell’osservatore come non-pensiero: non è più né esterna né oggettiva, bensì unicamente diversa dall’attività cognitiva dei soggetti. L’impostazione convenzional-costruttivista che allora si delineava non annulla affatto ogni rilievo empirico del mondo, piuttosto lo confina in una sfera entro la quale, pur esistendo in quanto ambiente differente dalla mente, non svolge alcuna funzione nel prender forma della nostra conoscenza. Così, l’enfasi congetturale dei processi di pensiero, e l’assunzione del loro carattere pienamente soggettivo, può tranquillamente convivere con la presupposizione dell’esistenza comunque di un contesto materiale a cui la nostra ragione in un certo senso sia è correlata (cosa implicita del resto nell’idea di coevoluzione), sia dal quale tuttavia è indipendente, giacché la distinzione succitata le permette di poter sviluppare in maniera autonoma i propri sistemi concettuali. Fine del presunto induttivismo newtoniano ed inizio di una nuova fase.

Questa sofisticata nuova interpretazione della conoscenza scientifica, il cui processo di formazione ho qui schematicamente riassunto, ma la cui evoluzione interna ha un grado di complessità ben più elevato[536], va incontro con l’ingresso nel Novecento a nuovi sviluppi. Intanto si consolida e si fa più esplicita, toccando punte di insolita limpidezza e icastica formulazione soprattutto con Henry Poincaré ed Arthur Eddington, con i quali lo sviluppo della nuova razionalità subirà un nuovo scatto, prendendo una direzione decisamente più radicale. Basti pensare al fatto che, secondo una formulazione di Poincaré risalente agli inizi del nuovo secolo, “tout ce qui n’est pas pensée est le pur néant; puisque nous ne pouvons penser que la pensée et que tous le mots dont nous disposons pour parler des choses ne peuvent exprimer que des pensées; dire qu’il y a autre chose que la pensée, c’est donc une affirmation qui ne peut avoir de sens”[537]. Pochi anni dopo, ma ormai in pieno Novecento, Eddington enuncerà lo stesso principio, sostenendo, di contro alla “realist school”, che “it is the awareness, not the description nor the analysis implied in the description, which constitutes the datum [..] The data are evidently mental; they are an awareness - a content of the consiousness”. Ecco perché, invece di essere un riflesso della Natura, “the world of physics is inferred”[538].

Per capire quanto poco i marxisti dell’epoca avessero compreso i mutamenti allora in corso entro la rappresentazione scientifica della conoscenza, basti pensare al fatto che lo stesso Lenin, analizzando il dibattito scientifico d’inizio secolo, inferisce dalla controversia risultati opposti a quelli che si venivano delineando. Mentre la scienza del tempo tematizzava ormai apertamente la nuova interpretazione convenzionalista dei processi cognitivi, con le implicazioni teoriche che si son viste, Lenin si appoggia alla vecchia concezione realista per tentare di confutare coloro che portavano alla luce le nuove tendenze. Così Lenin sbaglia due volte: prima perché non vede che la scienza che ha di fronte non corrisponde in nulla alla sua interpretazione d’essa, poi perché pretende di poter difendere il “materialismo spontaneo degli scienziati” rifacendosi proprio a quella parte della comunità scientifica che lo stava abbandonando. Grande era allora, anche tra i marxisti più intelligenti, la confusione sotto il cielo! Basti pensare al fatto che, ancora durante gli anni Trenta, Bucharin – nel famoso Science at the crossroads del 1931 - metteva nello stesso sacco Moritz Schlick (allievo di Planck e fisico egli stesso all’università di Vienna, ucciso tra l’altro da un nazista) ed Eddington, criticandoli entrambi per il loro presunto idealismo, nel mentre come è invece chiaro entrambi questi scienziati facevano a pezzi il suo “materialismo dialettico”, che per di più si riteneva inferito dalle stesse scienze naturali[539].

Nel corso degli anni ’50 i nuovi orientamenti sono ormai completamente definiti ed il costruttivismo, la convinzione cioè che tutta la nostra conoscenza è ipotetico-congetturale e si forma all’interno della mente, con la Natura che funziona ormai soltanto come cartina di tornasole delle nostre teorie, imbocca decisamente la strada già tracciata in precedenza. Ad avviso di Erwin Schrödinger infatti, uno dei fondatori della teoria quantistica e premio Nobel per la fisica nel 1933, e dunque ampiamente titolato per esprimere un giudizio autorevole in merito, il cosiddetto “mondo esterno” della scienza classica non esiste più. Piuttosto, “the world is a construct of our sensation, perceptions, memories. It is convenient to regard it as existing objectively on its own. But it certainly does not become manifest by its mere existence”. Se si può ammettere che “our sense perceptions constitute our sole knowledge about things”, del pari si deve presumere che il contesto con cui siamo in relazione rappresenta soltanto un’assunzione del nostro intelletto: “This objective world remains a hypothesis, however natural”[540]. Ovviamente, le cose non sono andate così lisce come le sto riassumendo. Vi sono state in effetti delle epistemologie di transizione, tutte rigorosamente di natura scientifica, che si sono opposte alla pronunciata tendenza convenzionalista dei nuovi approcci. Scienziati, matematici ed epistemologi come Schlick, Bachelard, Whitehead, Russell, Geymonat, Monod prima, ed in tempi più recenti Ilya Prigogine, Stephen Weinberg, René Thom, Bernard d’Espagnat, Franco Selleri, David Bohm e numerosi altri scienziati han cercato di conciliare i diversi indirizzi presi dalla ricerca scientifica, tentando di proporre una sorta di “via di mezzo”, non si sa se ispirata a Kant o a Siddharta, della conoscenza[541]. La concezione difesa da tutti questi autori assume sì la forma costruttivista, ipotetica e rivedibile, del nostro sapere, ma nello stesso tempo ritiene che la Natura possegga una sua legalità intrinseca ed oggettiva che le nostre teorie congetturali avrebbero il compito di scoprire, di approssimare in maniera via via sempre più precisa. Così, si sostiene, sarebbe possibile continuare a presupporre un ordine razionale intrinseco al mondo fisico e nel contempo non rinunciare al carattere convenzionale e soggettivo dei paradigmi scientifici volta a volta a confronto, carattere formale che consente loro di adattarsi alle nuove scoperte, di utilizzare la “consilience of inductions” propria delle singole interpretazioni, di modificarsi nella disputa e financo di scomparire dalla scena una volta accertata la loro confutazione da parte dell’esperienza o di altre e alternative spiegazioni dei fenomeni.

Comunque sia, queste differenti scuole di pensiero non sono state in grado di arginare o contrastare, a livello concettuale, l’affiorare della consapevolezza relativa alla funzione determinante che l’osservatore svolge nella definizione della conoscenza. Come ci spiega il famoso astrofisico Davies, lo “extreme subjective element” insito in ogni interpretazione della Natura “obliges us to suppose that, in the absence of observation, the external world does not exist in a well-defined sense. It is as though through our observations we actually create, rather than explore, the external world”[542].

Il fatto sorprendente da mettere in rilievo, è che questa tendenza epistemologica, all’opera in ambito europeo come si è visto sin dai primi anni dell’Ottocento, è ormai diffusa ben oltre la fisica teorica o le più recenti cosmologie scientifiche. La scuola biologica dell’autopoiesi, insieme ai modelli ormai affermatisi nelle neuroscienze, ha infatti elaborato un’ulteriore, ancor più sofisticata, versione del paradigma in oggetto, in cui addirittura si è in grado di presupporre un ambiente circostante, un contorno chimico-fisico per gli organismi viventi, senza tuttavia che questo possa svolgere alcun ruolo nella formazione e ciclica trasformazione della nostra cognizione, nemmeno come cartina di tornasole delle nostre interpretazioni. Entro questi nuovi indirizzi scientifici, quel presupposto “substrato”, come vien chiamato il dominio delle cose, degli enti e degli oggetti, può al massimo innescare la percezione sensoriale (il vedere i colori ad esempio, oppure il sentire i suoni, ecc.), ma la conoscenza, la produzione di sistemi cognitivi atti a comprendere e ad elaborare l’esperienza dei singoli tramite complessi d’idee, avviene esclusivamente all’interno della mente soggettiva. Ed è questa, nella coevoluzione ed interazione con altre consimili menti, ad istituire relazioni e mondi interpersonali reali di tipo consensuale e a responsabilità individuale. Come ci vien detto in una formulazione di sintesi, “le spiegazioni scientifiche non spiegano un mondo o universo indipendente, ma spiegano la prassi (il dominio empirico) dell’osservatore”[543].

Come si vede, l’approdo attuale dell’epistemologia contemporanea, vale a dire di quella teoria della conoscenza che affiora dalla stessa riflessione del pensiero scientifico intorno alla propria attività, affonda le sue radici in quella parte della scienza ottocentesca, davvero in anticipo sulla sua epoca, che aveva apertamente tematizzato la chiusura organizzativa dei processi cognitivi attraverso i quali comprendevamo l’empiria. Scienziati come  T. Huxley, W. Whewell, J. Müller, M. Schleiden, e molti altri, come si è visto, tutti ben conosciuti da Marx tra l’altro, avevano ampiamente ed in maniera esplicita argomentato in favore di un’interpretazione autoreferente potrei dire delle nostre teorie. A parte questa ascendenza, comunque importante, quali sono gli effetti concettuali dei nuovi modelli della mente? Il fatto è che essi, oltre a presupporre un contesto sensibile del quale possono fare a meno nella comprensione della realtà, tanto fanno discendere la società dalla prassi cognitiva dei diversi soggetti, quanto rendono la conoscenza umana una “unità autopoietica” senza tempo né causa, senza fondamento né origini, trasformandola così in una proprietà naturale degli esseri viventi. La prima sovverte completamente qualsivoglia idea che sia la società a porre gli individui, a determinarne l’esistenza e le funzioni. Qui la convinzione di Marx sul rapporto coscienza-essere sociale si scioglie come neve al sole. La seconda, del pari, trasforma il pensiero dei singoli in un sistema biologico selettivo senza più alcun rapporto con la maniera in cui il modo di produzione capitalistico, cioè un contesto storicamente determinato, preforma l’intelletto dei soggetti, la loro razionalità complessiva (il loro agire e pensare, la prassi politica e la conoscenza)[544].

Di fronte a simili esiti, può il marxismo semplicemente far finta di niente, o magari come Althusser accusare queste correnti scientifiche di idealismo, e tirare diritto per la vecchia strada? Non vedo come si possa. Caso mai, si deve accettare la sfida ed attrezzarci per capire da dove provengano questi nuovi paradigmi, che rapporto sottile essi intrattengano col processo riproduttivo del capitale. Si è visto infatti che l’osservatore porta i suoi postulati e principi concettuali, l’intera sua cultura sociale, all’interno stesso del pensiero scientifico. La mente complessiva del singolo preforma dunque la natura della razionalità scientifica, condizionandola alla radice, là dove essa nasce e si sviluppa. Se questo è vero, allora l’apparente natura autoreferente di tale ragione risulta dunque parallela al modo di funzionamento dei soggetti determinati dal capitale, giacché entrambi sembrano ragionare attraverso la stessa abbagliante autodeterminazione, a prima vista senza fondamento alcuno. La codipendenza tra razionalità scientifica e riproduzione del capitale può dunque essere spiegata.

Sta di fatto comunque che il mondo della scienza attuale, esplicitamente o implicitamente, non ha più niente in comune con il vecchio presupposto del materialismo filosofico classico o del realismo scientifico dell’epoca precedente. Le nuove accezioni del concetto di mondo prevalenti nei modelli scientifici più recenti rappresentano piuttosto la confutazione più completa delle vecchie impostazioni, sia perché possono presupporre un contorno fisico ignorandolo, sia perché trasformano la cornice sociale in una conseguenza diretta dell’attività cognitiva dei differenti soggetti. Si può chiudere gli occhi di fronte ad una cosa come questa? Si può continuare a credere che il marxismo possa studiare la realtà senza tener conto delle sfide dell’epistemologia scientifica? Secondo me ci si cullerebbe solo in un’illusione. Sarebbe davvero comico che una teoria nata con intenti scientifici, e soprattutto a stretto contatto di gomito con la scienza dell’Ottocento, si permettesse d’ignorare il pensiero scientifico odierno. Cosa ci potrebbe essere di più sbagliato? E soprattutto, cosa ci potrebbe essere di più controproducente e di autolesionista?

Alla luce anche dei recentissimi sviluppi della scienza tutte le interpretazioni dei marxismi precedenti vanno considerate morte e sepolte, definitivamente tramontate ed estinte. Tutti i loro concetti basilari – da quelli con cui si interpretava il modo di produzione capitalistico (forze  produttive, rapporti sociali di produzione, mercato, ecc.) a quelli relativi alla formazione sociale nel suo complesso (Stato, società civile, potere sociale, apparati del consenso, ecc.) – sono infatti oggi sia irrimediabilmente surannées sia fuorvianti se finalizzati alla spiegazione del mondo capitalistico, in quanto viziati ab ovo dalla loro radicale incomprensione della razionalità scientifica e dello stesso pensiero più complesso di Marx. Se li si continuerà ad usare nella consueta maniera aproblematica, come si fa tutt’ora, le classi dominanti possono dormire sonni più che tranquilli. Se si continuerà a riesumare i grandi classici del marxismo, per quanto importanti siano stati e per quanto abbiano segnato la storia contemporanea, oppure qualsiasi altra corrente marxista del Novecento, sperando di poter trovare nelle loro analisi categorie atte ad interpretare l’età attuale, non sarà mai possibile capire fino in fondo gli sviluppi più recenti del capitalismo mondiale e le tendenze predominanti della sua versatile dinamica interna. Se, come diceva Bachelard, ogni nuova forma di conoscenza “prise au moment de sa constitution est une connaissance polémique: elle doit d’abord détruire pour faire la place de ses constructions”[545], allora niente meglio di un risoluto congedo dal vecchio marxismo può forse dare inizio ad una rinascita del pensiero più sottile di Marx ed insieme ad una nuova stagione dell’interpretazione critica della società.

Note

[513] S. J. Gould, Ontogeny and phylogeny, cit., p.355.
[514] Ne ricordo qui solo qualcuna: 1. Formazione geologica; 2.Metamorfosi; 3. Epoche geologiche; 4. Organizzazione; 5.Piccola e grande circolazione; 6. Generatio Æquivoca; 7. Movimento apparente, movimento reale; 8. Il concetto di media; 9. Il concetto di analogia; 10. Il concetto di etere; 11. Lo Stoffwechsel; 12. La coppia superficie-profondo. Che dire poi delle centinaia di metafore, in larga parte letterarie ma in gran numero anche scientifiche, usate da Marx per descrivere la natura del modo di produzione capitalistico? Non sono affatto un ornamento retorico del discorso. Piuttosto devono essere intese come migliori vie d’accesso concettuali all’oggetto sotto analisi. Tanto nell’argomentazione di Marx, quanto nella scienza l’utile funzione delle metafore consiste nel fatto che “their congruence with reality goes deeper than mere surface form” (J. Cohen – I. Stewart, The collapse of chaos. Discovering simplicity in a complex world, Viking,, London, 1994, p.25).
[515] I. Mészáros, Beyond Capital, Merlin Press, London, 1995, che dedica le 986 pagine del suo libro ad una Theory of transition – sia concettuale, oltre Marx, sia sociale, “beyond capital as such”, almeno in prospettiva – non dedica non dico un paragrafo ma nemmeno una pagina a questo problema. C’è bisogno di fare commenti?
[516] Ho provato a dare alcuni esempi di questa intima e doppia mediazione nel mio Sistemi di conoscenza, al quale dunque mi permetto di rinviare.
[517] Cfr. la sua Foreword, al volume di J. D. Barrow – F. J. Tipler, The anthropic cosmological principle, cit., p.VIII.
[518] Cfr. i suoi Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Roma, 1976, p.167.
[519] Cfr. ad es. L. R. Graham, Science in Russia and the Soviet Union. A short history, Cambridge U. P., 1993.
[520] Il ventaglio dei tentativi è molto ampio: da Lukács ad Althusser, da Jacques Bidet a Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, dall’Analytical Marxism al più recente Postmodern Materialism americano, e si potrebbe continuare a lungo.
[521] Vorrei citare qui due soli esempi maggiori più recenti, un economista e un filosofo, in cui invano si cercherebbe un sia pur minimo riferimento al pensiero scientifico e al suo profondo legame con l’opera di Marx: B. Chavance, Marx et le capitalisme. La dialectique d’un système, Nathan, Paris, 1996; E. Balibar, La philosophie de Marx, La Découverte, Paris, 1993. In lingua inglese si possono vedere G. A. Cohen, Karl Marx’s theory of history. A defence, Clarendon Press, Oxford, 1987 (Qui è proprio il caso di dire: Dagli amici mi guardi Iddio…); R. Bhaskar, Dialectics. The pulse of freedom, Verso, London, 1992. Per quanto riguarda i Dizionari, non vorrei essere frainteso. La mia opinione è chiara. Essi rappresentano un utilissimo strumento di consultazione ed hanno contribuito e rendere accessibile ad un più largo pubblico il complesso pensiero di Marx. Senza dubbio. In questo senso essi rappresentano, come si dice, grandi opere. Il problema tuttavia è che in essi, forse inevitabilmente, non si trova traccia alcuna delle profonde trasformazioni epistemologiche che hanno segnato la storia della scienza sin dall’epoca di Marx né la marcata impronta che esse hanno lasciato nelle sue categorie: in tutti e due i casi, sia quando ha preso in considerazione quelle trasformazioni sia quando ha omesso di farlo, come si è visto. D’altro canto, per rendersi conto della quantità di “commonplaces” concentrati a volte nelle singole spiegazioni dei Dizionari è sufficiente consultare ad es. la voce “historical materialism” in T. Bottomore (ed.), A dictionary of Marxist thought. Blackwell, Oxford,1991. Cfr. inoltre G. Bensussan - G. Labica, Dictionnaire critique du marxisme, PUF, Paris, 1999; F. Papi (a cura di), Dizionario marxista, Zanichelli, Bologna, 1984.
[522] Cfr. per esempio L. Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milano, 1985; id., Del marxismo. Saggi sulla scienza e il materialismo dialettico, Betani, Verona, 1987; G. La Grassa, Scritti di metodo e dintorni, Unicopli, Milano, 1996.
[523] Sintomaticamente, il criterio con cui decidire delle nostre interpretazioni del mondo - “la corripondenza con la realtà storica esterna” -  proposto da Costanzo Preve, uno studioso che ha dedicato una serie di importanti volumi alla confutazione del marxismo storico, combacia in tutto e per tutto con quello di Popper, colui cioè che più di tutti si è battuto per confutare da un presunto punto di vista scientifico il pensiero di Marx. È curioso che il criterio in causa fosse difeso anche da H. Lefebvre nel suo antialthusseriano L’idéologie structuraliste, Éditions Anthropos, Paris, 1975, p.39. In questo breve excursus abbiamo così un marxista tradizionale, un marxista critico e un filosofo liberale della scienza accomunati da uno stesso principio metodologico.  Può essere considerata un caso una simile concordanza per così dire epistemologica? Non credo proprio. Caso mai è il chiaro sintomo di un serissimo problema. Come infatti bene spiega Ernst von Glasersfeld, per la scienza odierna “the world we live in is always and necessarily the world as we conceptualize it. “Facts” are made by us and our way of experiencing, rather than given by an independently existing objective world”, in The construction of knowledge. Contributions to conceptual semantics, Intersystems Publications, Salinas (U.S.A.), 1988, pp.319-336. L’autoreferenza della conoscenza sovverte da cima a fondo la vecchia impostazione, giacché per essa né la natura né la società sono oggetti distinti dalla nostra attività cognitiva. Di Preve e Popper si confrontino ad es., del primo Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, Vangelista, Milano, 1991, p.206; del secondo Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, vol. I, p.53, pp.200-201.
[524] Cfr. a questo proposito D. Howard – K. Klare, The unknown dimension. European Marxism since Lenin, Basic Books, New York, 1972; Storia del marxismo contemporaneo, Feltrinelli, Milano, 1974; Storia del marxismo, 4 vols., Einaudi, Torino, 1982.
[525] Si vedano i numerosi scritti di F. Varela e H. Maturana dedicati all’illustrazione di questa teoria scientifica.
[526] Senz’altro paradossale, a questo proposito, il volume di E. P. Thompson, The poverty of theory, Merlin Press, London, 1995, dedicato nelle intenzioni ad una confutazione delle teorie di Louis Althussser. Non è ovviamente che Thompson avesse torto a criticare Althusser. Solo che l’ha fatto con categorie quali “experience”, “the real world outside”, che non potevano e non possono colpire il loro bersaglio.
[527] L. Althusser, Réponse à John Lewis, cit., p.35; corsivo mio. Per Althusser, e qui la sua formulazione del concetto in causa raggiunge il suo apice, l’oggetto reale rappresenta “le point de référence absolu du processus de connaissance qui le concerne”, in Lire le Capital, cit., p.360; corsivo mio. Sulla diffusione endemica di questa tesi “ontologica” nel marxismo contemporaneo cfr i testi seguenti: S Meikle, Essentialism in the thought of Karl Marx, Duckworth, London, 1985; D. Sayer, The violence of abstraction. The analitical foundations of historical materialism, Blackwell, Oxford, 1989; M. Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo, Marcos y Marcos, Milano, 1990; C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, Milano, 1991; R. Bhaskar, Dialectic. The pulse of freedom, Verso, London, 1993; E. Balibar, La philosophie de Marx, La Découverte, Paris, 1993; M. Bontempelli – C. Preve, Nichilismo.Verità. Storia, Editrice CRT, Pistoia, 1997. Non è sintomatico il fatto che Henri Bergson, un filosofo, difendesse l’ontologia, e Gaston Bachelard, un epistemologo di formazione scientifica, la confutasse? Cfr. la loro disputa nel confronto tra i volumi seguenti: H. Bergson, L’évolution  créatrice, PUF, Paris, 1983; G. Bachelard, La dialectique de la durée, PUF, Paris, 1980.
[528] Cfr. ad es. certe affermazioni dei Lineamenti, cit., vol. I, pp.27-28, p.34 (Grundrisse, cit., pp.21-22, pp.26-27). Tali passi sono tuttavia problematici e ambigui. Non li si può leggere in modo unilaterale e semplicistico, amputando i loro complessi e multiversi significati concettuali, come hanno sempre fatto i marxisti: economisti, epistemologi, storici, sociologi o filosofi che fossero. Una classica epitome di questo atteggiamento è L. Althusser, Lire le Capital, cit., pp.40-44, pp.313-315.
[529] Come dovrebbe esser chiaro, anche quando si interpreta un dato evento – ad esempio il crollo dell’URSS – facendo ricorso a presunti “fattori esterni” di natura storica, in realtà si sta solo descrivendo il proprio pensiero. Anche dall’esterno, qualunque spiegazione è sempre del tutto interna alla mente dell’osservatore che spiega la sua interpretazione dell’oggetto considerato. Facciamo un altro esempio. Normalmente, in un qualsiasi lavoro storiografico – che tratti della società feudale o del collasso dei cosiddetti paesi socialisti, della nascita di un’idea o della formazione di un sistema sociale specifico - non c’è un singolo fatto, non un dato, che sia possibile controllare in prima persona o direttamente. Tutti i dati di questi e consimili studi sono sempre e soltanto dati di carta, fatti dedotti da altri documenti o libri ancora e acettati come veri. Tutta la nostra conoscenza della società in un certo senso è basata su “luoghi comuni”, cioè su giudizi assunti come veri e mai sottoposti ad accertamento. Ovviamente ciò è impossibile, sia per l’enorme mole di lavoro che uno si dovrebbe sobbarcare, sia perché il singolo dovrebbe avere competenze illimitate. In ogni caso esiste anche un altro divieto di natura diversa, un divieto di principio pressoché insuperabile. I dati di carta sono infatti pur sempre pensieri complessi (intere teorie globali, a volte) divenuti caso concreto e per così dire incorporatisi in un certo numero: un dato statistico, una percentuale demografica, un algoritmo matematico, e così via. Da questo punto di vista, persino le nostre ipotesi sono dati di carta, in quanto o dedotte da altri studi ancora o aventi comunque il carattere di congetture, per le quali tra l’altro si pone il problema del controllo, che non potrà che essere affidato ad altri ed ulteriori, aggiuntiivi, dati di carta. Da qualunque prospettiva si guardi la cosa, non c’è mai verso di supportare la propria interpretazione attraverso la pura empiria, semplicemente perché questa, in società, non ha base alcuna. Anche  sostenere ad es. che “i fatti esistono” significa soltanto enunciare un’assunzione dell’osservatore e nient’altro. Un asserto di quel tipo non può conferire ai fatti più realtà di quanto io possa darne ai miei sogni. Del resto, credere che detti fatti empirici assumano il loro significato solo dopo che qualcuno li ha selezionati e collegati tra loro, come se la loro spiegazione dovesse comunque basarsi sulla loro preesistenza, vorrebbe dire rimanere più indietro persino delle formulazioni di Edward Carr. Lo storico inglese ha infati chiarito, contro la stessa storiografia del suo tempo ed il suo “cults of facts”, che l’elemento soggettivo dell’interpretazione  ”enters into every fact of history” e ne preforma dunque il contenuto (cfr. il suo What is history?, Penguin London, 1961, pp.9-13; corsivo mio). Da questo punto di vista, non possono dunque esserci fatti preesistenti semplicemente da selezionare tramite una certa teoria, Né questa eventuale teoria è poi verificabile per mezzo di presunti “processi reali” e della “realtà empirica”. Se i fatti implicano il pensiero dell’osservatore, è allora chiaro che essi tutto sono meno che un oggetto presupposto a  cui poter “applicare” un certo sistema concettuale. A questa convinzione mi sembra che ben s’attagli ciò che Marx diceva dell’economia politica: essere cosa nota in tutte le scienze, tranne che nella storiografia marxista, che non possono esistere fatti autonomi in conseguenza della theory laden. Questo concetto è nato in campo epistemologico, ma come si è visto Carr lo conosceva benissimo. In sintesi, come già aveva spiegato Whewell agli inizi dell’Ottocento, se “we have the facts in our mind” (cfr. il suo The philosophy of the inductive sciences, vol. I, Cass, London, 1967, p.24), allora diventa evidente che in società non è più possibile postulare alcuna loro esistenza indipendente o esterna alla mente. Se ci sono, se i fatti e i dati reali fanno parte della società, essi possono avere natura esclusivamente concettuale. Come precisa Moritz Schlick, “the factual is already theory” (cfr. i suoi Philosophical papers, volume I (1909-1922), Reidel, Dordrecht, 1979, p.270). Quando dunque si compara una certa interpretazione a certi fatti, la si confronta soltanto con altri - alternativi o meno - sistemi di pensiero.
[530] Cfr. quanto dice a questo proposito il fisico D. Deutsch, che nega l’esistenza di ogni “flow of time”: The fabric of reality, Penguin, London, 1998, pp.258-278. Del resto, non aveva detto Schrödinger, nel 1956!, che “there is really no before and after for mind. There is only a now that includes memories and expectations”? (cfr. il suo What is life?, Cambridge U. P., 1992, p.135).
[531] id., Ontogeny and phylogeny, cit., p.282.
[532] Cfr. il suo Mathématique et societé, cit., pp.95-96.
[533] Si sono già visti alcuni esempi della maniera in cui questo marxismo tratta le categorie di Marx. In sovrappiù, si consideri tuttavia anche il fatto che alcuni concetti cruciali - quali quelli di Formelle und Reelle Subsumtion der Arbeit unter das Kapital, illustrati in testi importanti come Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, oppure nella IVª Sezione di Das Kapital (Werke, 23, pp.341 e sgg.) - usati da Marx per descrivere il lungo e discontinuo processo di formazione del modo di produzione specificamente capitalistico neanche vengono presi in considerazione dai famosi Dizionari marxisti europei. Quando poi sono stati chiamati in causa (cfr. J. Elster, Making sense of Marx, già citato), non se ne è mai capito il significato e se ne è distorto il contenuto. Ogni ulteriore commento è superfluo.
[534] Cfr. Varii Auctores, Theories of scientific method, cit., pp.67-72.
[535] A. Eddington, New pathways in science, Cambridge U.P., 1934, p.257.
[536] Ho cercato di dimostrarlo nel mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, ad esso rinvio dunque il lettore.
[537] H. Poincaré, La valeur de la science, Paris, 1905, p.276. 
[538] I due passi citati in A. Eddington, New pathways in science, cit., pp.282-288.
[539] Sulla concezione di Lenin e Bucharin si veda il mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, cit., pp.453-474, pp.596-601.
[540] Tutti i passi citati nel volume What is Life?, Cambridge U.P., 1995, p.93, p.145 (Si tratta di una serie di Lectures tenute al Trinity College di Cambridge – lo stesso di cui fu Master dal 1840 al 1866 William Whewell! – nell’ottobre del 1956). Per dire la verità, il pensiero epistemologico di Schrödinger è ancora più radicale, e si prefigura come un precursore della scuola autopoietica. Per lo scienziato tedesco, infatti, “the Mind has erected the objective outside world of the natural philosopher out of its own stuff”. Da questo punto di vista, la presunta diferenza tra i due “does not exists”: “Subject and object are only one”. Per questo motivo, conlude il fisico, il fatto che “the becoming of the world is reflected in a conscious mind is but a cliché, a phrase, a metaphor that has become familiar to us. Nothing is reflected. The original and the mirror-image are identical. The world extended in space and time is but our representation” (Tutti i passi citati ibid., pp.119-136; corsivo mio).
[541] Cfr. ad es. B. d’Espagnat, À la recherche du réel, Gauthier-Villars, Paris, 1981; id.,Penser la science ou les enjeux du savoir, Dunod, Paris, 1990; id., Physique et realité, Diderot Éditeur, Paris, 1998; F. Selleri (a cura di), Che cos’è la realtà. Dibattito nella fisica contemporanea, Jaca Book, Milano, 1990; id., Fondamenti della fisica moderna, Jaca Book, Milano, 1992; id., Le grand débat de la théorie quantique, Flammarion, Paris, 1994; id.,La fisica del Novecento. Per un bilancio critico, Progredit, Bari, 1999; D. Bohm, Wholeness and the implicate order, Routledge, London, 1980; id., Causality and chance in physics, Routledge, London, 1984; id., Unfolding meaning, Routledge, London, 1987.
[542] P. Davies, The matter mith. Beyond chaos and complexity, Penguin, London, 1991, p.219. I concetti della fisica, afferma un altro scienziato, assomigliano spesso alle nozioni della “science fiction”, sono anzi “close to the science fiction fringe”: cfr. K. S. Thorne, Black holes and time warps. Einstein’s outrageous legacy, Picador, London, 1994, p.458, pp.492-493.
[543] H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Cortina, Milano, 1993, p.115. Si veda anche F. Varela, Invitation aux sciences cognitives, Seuil, Paris, 1996.
[544] Sul paradigma autopoietico cfr. il mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, cit., pp.530-566.
[545] id., La dialectique de la durée, cit., pp.12.14. Del resto, non sosteneva lo stesso Marx (cfr. Werke, 28, pp.284-285) che “truth is established by controversy and that historical facts are to be extricated from contradictory statements”? Non è questo un esemplare enunciato convenzionale e costruttivista di cui ogni marxista, nella disputa e nella controversia teoriche, dovrebbe tener conto? Invece d’invocare ad ogni piè sospinto inesistenti “realtà oggettive” o presunti fondamenti ontologici che sono soltanto, ora è chiaro, dei miti marxisti, non sarebbe meglio prendere lezione dal complesso e discontinuo processo di formazione del pensiero scientifico contemporaneo?