Karl Marx ✆ Etsy |
Franco Soldani
7. Verso un nuovo marxismo
“A theory exists so that we may build a better theory” | G. Edelman
Quali sono dunque
le conseguenze che è possibile trarre da quanto è emerso nel corso
dell’analisi? E soprattutto quali effetti teorici hanno o potrebbero avere
sull’attuale interpretazione del capitalismo contemporaneo? Se è vero, come
dice Gould, che “simple ugly facts do not destroy great theories”[513],
altrettanto certo tuttavia è il fatto che essi ci obbligano quantomeno a
ripensarle drasticamente. Una delle poste in gioco in questa indispensabile
opera di revisione della maniera in cui il marxismo storico, ad iniziare da
Marx ed Engels, ha interpretato la scienza è sicuramente una più corretta
comprensione della sua interna evoluzione, dei mutamenti epistemologici che ha attraversato
e l’esatta descrizione del paradigma attualmente dominante nell’ambito della
comunità scientifica. L’importanza di questa riscrittura, ovviamente, sta tutta
nella migliore rappresentazione che essa potrebbe darci di una
razionalità
divenuta ormai dominante rispetto a tutte le altre forme di sapere sociale. Già
capire come funziona effettivamente la scienza, quali sono i suoi sistemi di
conoscenza egemoni e quale effettiva struttura concettuale ne connota la
complessa natura odierna costituisce un’impresa encomiabile che ciascun
pensatore critico dovrebbe sottoscrivere.
D’altro canto,
capire l’organizzazione interna del pensiero scientifico ed in particolare i
suoi modelli epistemologici ha un rapporto strettissimo, come ci ha mostrato
Marx, con la comprensione della maniera in cui il modo di produzione
capitalistico ha dato la sua impronta altamente specifica alla realtà
storico-economica della sua formazione sociale. Sono infatti decine le
categorie, e le analogie a fini di dimostrazione, che Marx mutua dalla scienza
del suo tempo per finalizzarle alla spiegazione dei meccanismi riproduttivi del
capitale, e tutte in un modo o nell’altro condizionano la rappresentazione data
da Marx di questo determinato sistema sociale[514].
Si possono ignorare? Si può
realisticamente pensare di poter leggere adeguatamente Das Kapital e capirne i concetti più sofisticati,
così come i limiti del resto, senza una previa e seria analisi del loro
eventuale significato scientifico originario?[515] Oltretutto, bisogna tenere conto di
quello che si potrebbe chiamare “effetto di ritorno” di una simile
riconsiderazione. Una migliore comprensione delle categorie più sottili di Marx
costituisce infatti, secondo me, una precondizione indispensabile per poter
meglio capire la logica scientifica, per correlarla alle modalità riproduttive
dei rapporti sociali capitalistici, facendo vedere come essa, attraverso la
tecnologia, ne rappresenti in effetti il vettore fondamentale, il pilastro
portante tramite cui in società tout
se tient. Come si realizzi questa mediazione, attraverso quali anelli
intermedi essa prenda la sua intrinseca forma complessa non mi è possibile
ovviamente dimostrarlo qui[516].
Qualche prima correlazione credo sia già emersa dalle comparazioni sviluppate
in questo saggio. Per il momento tuttavia debbo linitarmi all’enunciazione del
problema. D’altra parte, come sostiene Wheeler, “it is often more difficult to
ask the right questions than to find the right answers”[517].
Ci sarebbe dunque da ritenersi relativamente e provvisoriamente soddisfatti se
solo si riuscisse a tener fede ad un simile ideale.
In ogni modo, anche
i pochi risultati acquisiti sin qui ci danno un’idea, per quanto solo abbozzata
e ancora incompleta, della drammatica inutilità della pletora di scritti
marxisti dedicati, nel corso soprattutto del Novecento (Dietzgen è un caso
isolato nell’Ottocento), all’interpretazione del pensiero di Marx. Se già
Lenin, nel 1914-15!, poteva dire che “nessun marxista aveva ancora capito Marx”[518],
oggi, a distanza di quasi cento anni da questa constatazione, il bilancio non
può essere che vieppiù sconfortante. L’intera cultura marxista di questo secolo
e gli studiosi più seri e più intelligenti – di norma intellettuali
professionali, storici della società, economisti, filosofi, sociologi, giuristi
e teorici del diritto, qualche raro storico della scienza o scienziato esso
stesso (e.g. John Burdon Haldane, Marcel Prenant e forse alcuni studiosi russi)[519],
impossibile logicamente nominarli tutti – che hanno dato forma al marxismo
storicamente costituito giunto fino a noi, persino coloro che in anni recenti e
meno recenti han cercato di rinnovarlo[520],
hanno in pari tempo del tutto ignorato il lungo, tortuoso e complesso processo
di formazione scientifica della concezione di Marx, ripetendo stancamente, in
forme magari sempre nuove e con argomenti ogni volta diversi, le vecchie,
consunte categorie della tradizione sulla società e la scienza (diventati ormai
veri e propri luoghi comuni del marxismo internazionale con la loro
codificazione persino nei famosi, e per altri versi meritori, Dizionari marxisti
europei)[521].
E’ così diventato
evidente, ad avviso di chi scrive, che tutti i concetti più noti di questi
diversi marxismi non sono attualmente più in grado di affermare alcunché di
specifico o di originale in merito alla natura del capitale, alle sue interne
leggi di movimento e riproduzione nonché alle tendenze del suo sistema
complessivo. Non una delle sue molteplici idee, del resto estremamente adattive
al variare dei tempi e delle circostanze, è in grado di spiegare in modo
convincente - senza cioè incorrere di continuo in micidiali contraddizioni
logiche - la realtà sociale né tanto meno di reggere il confronto con i
paradigmi scientifici odierni. Materialismo dialettico e materialismo storico,
teoria della conoscenza e teoria della società, almeno così come sono giunti
sino a noi, non hanno oggi più alcun senso. Sono solo scatole vuote (talvolta,
come negli scritti di certi accademici, filosofi ed economisti, vere e proprie “black
box”) che ciascuno può riempire a proprio piacimento con i più differenti
contenuti. In ogni caso, non possono minimamente preoccupare il pensiero
dominante né scalfirne l’egemonia. Si ha la netta impressione che siano
divenuti, insieme a tutti i concetti che possono snocciolare dal loro interno
(riflesso attivo, mercato: magari “market socialism”, rapporti sociali
interpersonali: di potere, di forza oppure mediati dall’egemonia, forze
produttive, natura avalutativa della scienza e della tecnologia, Stato e
democrazia, e via dicendo) dei semplici giocattoli con cui certa élite
intellettuale può senza timore di doversi troppo sprenere le meningi
trastullarsi ed occupare il suo tempo libero. Cosa può esserci di più riposante
che recitare a memoria la preghiera della domenica, soprattutto se la si è
appresa mediante un training lungo più di cento anni?
Prendiamo ad
esempio due nozioni classiche e cruciali insieme, alle quali del resto si è
fatto cenno in precedenza, di questa variegata e tenace formazione ideologica:
il processo di pensiero in rapporto alla società e alla natura. Come è noto,
praticamente tutto il marxismo tradizionale, e quello odierno insieme ad esso,
ha sempre creduto che la storia di questa formazione sociale, lo sviluppo nel
tempo degli eventi, dei processi e delle sitituzioni societarie – discontinuo o
continuo, in incessante mutamento o invece immutabile, poco importa – desse
vita ad una sorta di cornice esterna ed oggettiva alla quale poter rapportare le diverse
teorie e decidere così, sulla base della loro corrispondenza o meno ai dati
d’esperienza, in merito alla loro validità o confutazione. La storia della
società, in altre parole, in questa concezione è sempre stata elevata al rango
di pietra di paragone dei sistemi di conoscenza che han tentato di rendere
intelligibile agli stessi soggetti il loro contorno comunitario. Anche quando
alcune correnti di questo marxismo, magari sulla scia di Reichenbach o
Bachelard, hanno preso una piega più convenzionalista, abbbandonando l’idea che
la teoria fosse una copia del mondo[522],
tale oggetto reale ha continuato ad essere interpretato come un contesto
esistente al di fuori della mente ed indipendente rispetto all’attività cognitiva degli
individui, così da poter illusoriamente dare alle nostre teorie un criterio
apparentemente ontologico tramite cui poter controllare la loro attendibilità e
coerenza[523].
Nel tentativo di
aggirare o esorcizzare il soggettivismo incombente nel costruttivismo della
loro impostazione, oppure, a seconda delle scuole, anche per giustificare in
qualche maniera la loro credenza nei fatti e nei dati empirici quale ultimo e
aproblematico suolo del reale (e. g. lo storicismo), tutte queste
interpretazioni marxiste – filosofiche, storiografiche, economiche,
politico-ideologiche, giuridiche, epistemologiche[524] – han finito col trasformare il
sistema sociale e la sua storia interna in una sorta di mondo autonomo al quale
veniva assegnata la funzione di corroborare o meno le nostre spiegazioni delle
cose. Qui il retaggio filosofico e teorico di un secolo ha pesantemente
condizionato questi modelli concettuali, preformandone in maniera irrimediabile
l’intera loro rete di concetti. Anche a voler prescindere dagli sviluppi
autopoietici della scienza odierna e dalla sua distruzione di ogni dominio
ontologico[525],
dei quali sanno ben poco, tutte queste concezioni han finito col rimanere
incollate, anche quando paradossalmente cercavano di contraddirlo[526],
al vecchio e datato principio di materialità riportato in auge da Althusser nel
corso degli anni sessanta-settanta, a cui veniva addirittura affidato il
compito di sostenere “toutes les
Thèses marxistes sur la connaissance”[527],
ma risalente sostanzialmente alle originarie formulazioni di Marx ed Engels[528].
Come è oggi
evidente, invece, l’idea che la società e la sua storia costituiscano la pierre de touche delle teorie non può avere più alcun
senso e va definitivamente abbandonata. Per due ragioni sostanziali,
complementari e convergenti. Innanzitutto, per la sua ineliminabile natura
contradittoria. Se la storia della società consta dell’agire in genere razionale degli
individui, essa non potrà mai rappresentare un contorno esterno ed oggettivo
rispetto agli attori sociali che le danno forma, che le conferiscono il suo
aspetto dinamico e strutturato. Anche se la storia degli eventi sociali sembra
assumere un profilo fattuale, già dato e anteriore nei confronti dei soggetti,
essa ne è invece un prodotto, l’effetto intenzionale o anche inintenzionale. In
ogni caso, è istituita dal loro complesso agire e per sua natura non può dunque essere né esterna né
distinta dalle loro pratiche complessive (ciò che essi pensano e fanno). Da
questo punto di vista, i dati e i fenomeni empirici, in società, non sono altro
che pensiero divenuto, razionalità materializzatasi in una certa configurazione
di cose, processi mentali trasformatisi in una specifica organizzazione
d’insieme. I cosiddetti fatti, insomma, non esistono né sono mai esistiti nella
loro veste oggettuale, come invece una tradizione secolare di pensiero ce li ha
tramandati: essi hanno natura concettuale e dunque sia sono interni alla
ragione umana sia hanno un’origine convenzionale e stipulativa. I fatti sono
dati di realtà, ma il loro carattere interno è esclusivamente concettuale o
s’identifica con l’attività congetturale e ipotetica della mente. Non v’è chi
non veda le conseguenze epistemologiche di una simile interpretazione
dell’oggetto, e l’impatto esplosivo che essa ha su tutto il vecchio marxismo[529].
In secondo luogo, la rappresentazione della storia e della società come mondo
presupposto esterno, poiché deve considerare i fenomeni empirici di cui
entrambe constano, come premesse della sua argomentazione finisce col generare
dal proprio interno la logica del fattuale o, come l’ha definita Marx, lo si
ricorderà, del post festum. A
parte il fatto ch’essa si scontra con la spiegazione marxiana relativa al
carattere derivato e dipendente dei modi d’espressione del capitale, tale forma
mentis particolare rende impossibile poter problematizzare o sottoporre a
critica le differenti istituzioni del sistema sociale (qualunque esse siano:
dai rapporti di potere entro l’impresa agli apparati ideologici nella società
civile, dalla merce e dal mercato allo Stato, dalla stessa natura della scienza
alla tecnologia). Poiché assume la realtà sociale come un oggetto già dato,
deve infatti poi trattare le diverse istanze di cui questo consta come entità
su se stesse fondate, cancellando d’un colpo il problema delle loro origini
dall’intrinseca dinamica del capitale. Esse semplicemente sono, e poi
variamente interagiscono tra loro – la politica con l’economia, l’ideologico
con entrambi, e dentro un singolo apparato (Giant Firm o Stato) i diversi
sottosistemi tra loro, in un gioco senza fine di rimandi ed intrecci – per
produrre la loro configurazione d’insieme, un dato sistema d’interrelazioni
reciproche con date caratteristiche.
Un’interpretazione
di questo tipo, dominante oggi nelle cosiddette scienze sociali, non ha né può
avere alcun interesse a domandarsi da dove derivi l’aspetto apparentemente
autoreferente di tutte quelle entità. Poiché da esse comincia come da un saldo
fondamento, non può più avere per essa alcun senso chiedersi quale processo di
formazione specifico si renda responsabile del loro carattere a prima vista
concreto e tangibile. Tutte le istanze di questo mondo sono semplicemente dei
dati di fatto da cui dover necessariamente prendere le mosse nell’analisi del
reale, giacché oltre ad esse non sembra esistere nient’altro. Nell’ambito di
questa visione delle cose, persino il diniego della logica fattuale, l’enfasi
sull’origine storica, e dunque socialmente condizionata, dei differenti
istituti sociali (del potere, del mercato, della tecnologia, della scienza, e via
dicendo) implica paradossalmente il suo contrario: la preliminare
presupposizione della datità delle istanze e dunque il divieto di poterne
davvero criticare la natura anteposta. Nella misura in cui la storia di queste
istituzioni viene elevata al rango di criterio obiettivo di valutazione e
controllo, essa ridiventa immediatamente un criterio convenzionale, un
postulato dell’osservatore, e dunque, in quanto tale, di nuovo un oggetto
avente forma di premessa indiscutibile che deve essere considerato come già
dato. Tra l’altro, stando così le cose, quando una teoria, un’interpretazione,
una certa spiegazione di un particolare evento ritiene di potersi contrapporre
all’impostazione rivale tramite la storia, i dati d’esperienza e i fatti
empirici, essa contraddice o tenta di confutare il paradigma alternativo
esclusivamente tramite una controversia concettuale, mediante una disputa tra
differenti categorie di pensiero.
In questo contesto,
a niente vale considerare quelle diverse istanze dinamicamente, come se fossero
in costante evoluzione e trasformazione, in perenne mutamento e divenire,
giacché anche questa processualità non può cambiare niente alla loro forma
presupposta. Anzi, finisce col renderla ancora più flessibile, adattiva e
capace di accomodarsi sempre meglio entro le nuove condizioni al contorno
emergenti volta a volta. Il fluire del tempo, ammessso ma non concesso che
esista in società[530],
non prova alcunché a favore della storia come criterio di valutazione né
dimostra che i processi di sviluppo delle cose siano esterni e oggettivi
rispetto a chi li osserva. Nella misura in cui siamo noi che
li pensiamo, nella misura in cui siamo noi che affermiamo la loro esistenza, essi
costituiscono sempre nostre statuizioni, degli enunciati soggettivi e dunque
nient’affatto indipendenti dall’osservatore o fuori della sua mente cognitiva.
Nel tramonto definitivo di ogni criterio oggettivo di valutazione, i soli
criteri di controllo delle nostre interpretazioni sociali diventano adesso la
coerenza argomentativa e la corroborazione concettuale, la solidità logica, la
capacità di resistere alle confutazioni ed insieme di spiegare meglio, in
maniera più approfondita di altri paradigmi, dati eventi sociali. Di qui
l’importanza della controversia e del confronto tra teorie o sistemi di
pensiero alternativi.
La duplice e
solidale concezione in questione, i cui presupposti teorici, come si è visto,
danno luogo a una singolare sinergia concettuale tendente ad un unico fine o
unilateralmente finalizzata al conseguimento di un solo scopo, oltre a vietarsi
da sola la comprensione della sofisticata spiegazione data da Marx
dell’effettiva natura intima delle forme d’espressione del capitale, finisce anche
con l’affiancare il pensiero dominante quando essa dà una spiegazione della
realtà seguendo la logica del post
festum, sia legittimandolo sia rendendosi in tal modo completamente subalterna
alla sua interpretazione del mondo. L’egemonia culturale dei dominanti è così
corroborata – avvalorata e consolidata – dalla stessa teoria che avrebbe voluto
contrastarla. Si può immaginare miglior paradosso? Se in genere, come dice
Gould, “traditional views die hard”[531],
quella in discussione sembra essersi assicurata un’eterna giovinezza.
Oltretutto, si deve
anche tener conto del fatto che quel modello di rappresentazione del legame tra
pensiero e realtà empirica, in società, rispecchiava fedelmente il rapporto che
la scienza sembrava intrattenere con la natura. Nell’analisi del sistema
sociale, in altri termini, si adottava lo stesso approccio che si riteneva
tipico della conoscenza scientifica. Senza tener conto alcuno della distinzione
che necessariamente deve passare tra osservare un oggetto fisico o biochimico e
studiare un contesto sociale a cui, per
genere, la mente dell’osservatore è identica (distinzione che però Condorcet
faceva!)[532],
il marxismo storico nemmeno si è accorto del fatto che il pensiero scientifico
dal quale esso mutuava la sua interpretazione, sin dall’inizio dell’Ottocento
stava abbandonando quella concezione tradizionale della relazione mente-mondo.
Da questo punto di vista, detto marxismo, comprese le sue varianti attuali, sia
non ha mai demarcato la sua interpretazione del processo di conoscenza da
quella della razionalità scientifica, obliterando così la specificità della
società capitalistica rispetto alla natura, sia non ha mai avuto chiara nozione
di quali correnti epistemologiche effettive fossero all’opera entro la logica
della scienza proprio nel periodo in cui il modo di produzione capitalistico
affermava la sua definitiva supremazia. Il marxismo storico e contemporaneo, in
altre parole, non ha mai capito né l’effettiva complessità interna dei
paradigmi scientifici, poco o niente corrispondente all’immagine standard che
se ne dava: conoscenza oggettiva delle eterne leggi della materia, sia del pari
non ha mai avuto cognizione delle prepotenti tendenze convenzionaliste insite
nello sviluppo teorico della scienza tra Ottocento e Novecento in particolare,
cosa che ne ha condizionato e limitato gravemente e irrimediabilmente l’intero
apparato concettuale. Non è certo un caso che categorie cruciali di Marx come
produzione di merci, merci, feticismo, scambio, circolazione, valore,
plusvalore, prezzo e denaro, modi e forme d’espressione, sussunzione formale e
reale, sistemi di macchine, tecnologia, potere oggettivo del capitale, rapporti
di produzione impersonali, i soggetti in quanto personificazioni del capitale e
sue incarnazioni dotate di volontà e coscienza, per non parlare poi
dell’ideologia e della contraddizione dialettica, vengano ancor oggi riempite
di significati banali e ripetitivi dal marxismo corrente, che le ha ormai
ridotte a innocue icone buone per tutte le chiese[533].
Se si confrontano
le concezioni marxiste, del passato e odierne, con gli sviluppi più recenti del
pensiero scientifico, allora bisogna dire che l’intera cultura di queste
interpretazioni non è assolutamente in grado di reggere il confronto con i
sofisticati apparati concettuali della scienza moderna. Anzi, diciamo pure che
tutto il marxismo posteriore a Marx, senza niente voler togliere ai suoi
migliori e più intelligenti esponenti, viene confinato da questi sistemi d’idee
nel passato sociale più remoto e reso teoricamente insignificante a fronte dei
paradigmi scientifici, una specie di “left handed Sam” posto sotto la tutela
del fratello maggiore, probabilmente in senso generale, sicuramente per quanto
riguarda il processo di conoscenza.
Il fatto è che, proprio
in piena epoca in cui Marx scrive Das
Kapital, il pensiero scientifico si era avviato su una strada diversa da quella
classica, esemplarmente rappresentata dal determinismo di Laplace. Durante
questo periodo, come si è visto, era divenuto chiaro a molti scienziati che la
conoscenza del mondo fisico e biologico non poteva più essere pensata nei
termini tradizionali del paradigma induttivo che si credeva avesse avuto inizio
con Newton, e che invece come oggi sappiamo era solo un mito (persino Bacon non
è quel campione dell’induttivismo che si è pensato fosse)[534].
D’altro canto, l’opposizione di molti scienziati al metodo induttivo, come si è
visto, era praticamente cominciata da subito sulla base della convinzione sia
che il soggetto fosse in coevoluzione con la materia, in stretto rapporto
d’interdipendenza con i fenomeni naturali, sia che la percezione empirica,
l’osservazione dei dati e dei fatti sensibili implicasse sempre la presenza del
nostro apparato concettuale per rendere intelligibile l’esperienza. La prima
categoria metteva in discussione l’idea che il mondo fosse anteriore alla mente
e da sempre già dato, un monolite ontologico preesistente alla razionalità umana
(non importa se posto da Dio o esistente in virtù di se stesso). La seconda del
pari confutava la convinzione che vi fosse qualcosa di oggettivo fuori
dell’attività conoscitiva del soggetto o circostante e delimitante i processi
cognitivi attivati dall’osservatore.
Con la maturazione di questi due nuovi
orientamenti – un processo sia di lunga durata sia non lineare, giacché come in
ogni fase di transizione il nuovo paradigma e quello precedente convissero a
lungo, ora in parallelo ora intrecciati (a volte nell’opera di uno stesso
scienziato), entro la comunità scientifica del tempo – prese piede una sorta di
rivoluzione epistemologica vera e propria. Erano stati tendenzialmente
infranti, infatti, i due caposaldi su cui si era fino ad allora basata l’interpretazione
del mondo fisico, e contestualmente, cosa non meno grave per il prestigio e lo
status privilegiato della scienza, era stato messo in crisi l’ideale
dell’oggettività, la convinzione cioè che i modelli scientifici di spiegazione
dei fenomeni naturali riflettessero in qualche maniera l’ordine immutabile
dell’Universo, le leggi universali ed eterne della Natura. I due esiti di quel
contrastato passaggio, infatti, tendevano adesso a mettere in primo piano
l’aspetto soggettivo del sapere, la forma ipotetica e convenzionale dei sistemi
concettuali con i quali ci rendevamo intelligibili le cose. L’arbitrio
soggettivo faceva irruzione nell’antico mare tranquillitatis della scienza - il
regno del razionale e della ricerca disinteressata, quello che Eddington definirà
“the temple of rigour”[535] - e ne metteva a soqquadro le vecchie
certezze (il determinismo, la tendenziale approssimazione a Dio, oppure, da un
altro versante diciamo più materialista, la scoperta dei segreti della Natura,
la comprensione del suo enorme potere chimico, fisico, biologico, ecc.).
A dispetto dell’apparente apriorismo della nuova
impostazione, il paradigma emergente non rappresentava affatto un punto di vista
in cui la conoscenza prendesse forma unicamente all’interno della mente e
questa avesse cancellato qualsiasi contorno percettivo. Se non è mai esistito
alcun idealista “delirio di onnipotenza della ragione”, come credeva Althusser,
un fantasma verso il quale i marxisti hanno inutilmente lanciato migliaia di
strali spuntati, mai del pari la scienza di quel periodo e dei periodi
successivi si è sognata di eliminare la cornice sensoriale dei nostri sistemi
d’idee. Al contrario. Anche nella nuova epistemologia ottocentesca la Natura
continua a svolgere una sua funzione insostituibile nell’accertamento delle
teorie. Solo che essa è adesso semplicementedistinta dai processi di conoscenza
dell’osservatore come non-pensiero: non è più né esterna né oggettiva, bensì
unicamente diversa dall’attività cognitiva dei soggetti. L’impostazione
convenzional-costruttivista che allora si delineava non annulla affatto ogni
rilievo empirico del mondo, piuttosto lo confina in una sfera entro la quale,
pur esistendo in quanto ambiente differente dalla mente, non svolge alcuna
funzione nel prender forma della nostra conoscenza. Così, l’enfasi congetturale
dei processi di pensiero, e l’assunzione del loro carattere pienamente
soggettivo, può tranquillamente convivere con la presupposizione dell’esistenza
comunque di un contesto materiale a cui la nostra ragione in un certo senso sia
è correlata (cosa implicita del resto nell’idea di coevoluzione), sia dal quale
tuttavia è indipendente, giacché la distinzione succitata le permette di poter
sviluppare in maniera autonoma i propri sistemi concettuali. Fine del presunto
induttivismo newtoniano ed inizio di una nuova fase.
Questa sofisticata nuova interpretazione della
conoscenza scientifica, il cui processo di formazione ho qui schematicamente
riassunto, ma la cui evoluzione interna ha un grado di complessità ben più
elevato[536],
va incontro con l’ingresso nel Novecento a nuovi sviluppi. Intanto si consolida
e si fa più esplicita, toccando punte di insolita limpidezza e icastica
formulazione soprattutto con Henry Poincaré ed Arthur Eddington, con i quali lo
sviluppo della nuova razionalità subirà un nuovo scatto, prendendo una
direzione decisamente più radicale. Basti pensare al fatto che, secondo una
formulazione di Poincaré risalente agli inizi del nuovo secolo, “tout ce qui
n’est pas pensée est le pur néant; puisque nous ne pouvons penser que la pensée
et que tous le mots dont nous disposons pour parler des choses ne peuvent
exprimer que des pensées; dire qu’il y a autre chose que la pensée, c’est donc
une affirmation qui ne peut avoir de sens”[537].
Pochi anni dopo, ma ormai in pieno Novecento, Eddington enuncerà lo stesso
principio, sostenendo, di contro alla “realist school”, che “it is the
awareness, not the description nor the analysis implied in the description,
which constitutes the datum [..] The data are evidently mental; they are an
awareness - a content of the consiousness”. Ecco perché, invece di essere un
riflesso della Natura, “the world of physics is inferred”[538].
Per capire quanto poco i marxisti dell’epoca
avessero compreso i mutamenti allora in corso entro la rappresentazione
scientifica della conoscenza, basti pensare al fatto che lo stesso Lenin,
analizzando il dibattito scientifico d’inizio secolo, inferisce dalla
controversia risultati opposti a quelli che si venivano delineando. Mentre la
scienza del tempo tematizzava ormai apertamente la nuova interpretazione
convenzionalista dei processi cognitivi, con le implicazioni teoriche che si
son viste, Lenin si appoggia alla vecchia concezione realista per tentare di
confutare coloro che portavano alla luce le nuove tendenze. Così Lenin sbaglia
due volte: prima perché non vede che la scienza che ha di fronte non
corrisponde in nulla alla sua interpretazione d’essa, poi perché pretende di
poter difendere il “materialismo spontaneo degli scienziati” rifacendosi
proprio a quella parte della comunità scientifica che lo stava abbandonando.
Grande era allora, anche tra i marxisti più intelligenti, la confusione sotto
il cielo! Basti pensare al fatto che, ancora durante gli anni Trenta, Bucharin
– nel famoso Science at the
crossroads del 1931 - metteva nello stesso sacco
Moritz Schlick (allievo di Planck e fisico egli stesso all’università di
Vienna, ucciso tra l’altro da un nazista) ed Eddington, criticandoli entrambi
per il loro presunto idealismo, nel mentre come è invece chiaro entrambi questi
scienziati facevano a pezzi il suo “materialismo dialettico”, che per di più si
riteneva inferito dalle stesse scienze naturali[539].
Nel corso degli anni ’50 i nuovi orientamenti
sono ormai completamente definiti ed il costruttivismo, la convinzione cioè che
tutta la nostra conoscenza è ipotetico-congetturale e si forma all’interno
della mente, con la Natura che funziona ormai soltanto come cartina di
tornasole delle nostre teorie, imbocca decisamente la strada già tracciata in
precedenza. Ad avviso di Erwin Schrödinger infatti, uno dei fondatori della teoria
quantistica e premio Nobel per la fisica nel 1933, e dunque ampiamente titolato
per esprimere un giudizio autorevole in merito, il cosiddetto “mondo esterno”
della scienza classica non esiste più. Piuttosto, “the world is a construct of
our sensation, perceptions, memories. It is convenient to regard it as existing
objectively on its own. But it certainly does not become manifest by its mere
existence”. Se si può ammettere che “our sense perceptions constitute our sole
knowledge about things”, del pari si deve presumere che il contesto con cui
siamo in relazione rappresenta soltanto un’assunzione del nostro intelletto: “This
objective world remains a hypothesis, however natural”[540].
Ovviamente, le cose non sono andate così lisce come le sto riassumendo. Vi sono
state in effetti delle epistemologie di transizione, tutte rigorosamente di
natura scientifica, che si sono opposte alla pronunciata tendenza
convenzionalista dei nuovi approcci. Scienziati, matematici ed epistemologi
come Schlick, Bachelard, Whitehead, Russell, Geymonat, Monod prima, ed in tempi
più recenti Ilya Prigogine, Stephen Weinberg, René Thom, Bernard d’Espagnat,
Franco Selleri, David Bohm e numerosi altri scienziati han cercato di
conciliare i diversi indirizzi presi dalla ricerca scientifica, tentando di
proporre una sorta di “via di mezzo”, non si sa se ispirata a Kant o a
Siddharta, della conoscenza[541].
La concezione difesa da tutti questi autori assume sì la forma costruttivista,
ipotetica e rivedibile, del nostro sapere, ma nello stesso tempo ritiene che la
Natura possegga una sua legalità intrinseca ed oggettiva che le nostre teorie
congetturali avrebbero il compito di scoprire, di approssimare in maniera via
via sempre più precisa. Così, si sostiene, sarebbe possibile continuare a
presupporre un ordine razionale intrinseco al mondo fisico e nel contempo non
rinunciare al carattere convenzionale e soggettivo dei paradigmi scientifici
volta a volta a confronto, carattere formale che consente loro di adattarsi
alle nuove scoperte, di utilizzare la “consilience of inductions” propria delle
singole interpretazioni, di modificarsi nella disputa e financo di scomparire
dalla scena una volta accertata la loro confutazione da parte dell’esperienza o
di altre e alternative spiegazioni dei fenomeni.
Comunque sia, queste differenti scuole di
pensiero non sono state in grado di arginare o contrastare, a livello
concettuale, l’affiorare della consapevolezza relativa alla funzione
determinante che l’osservatore svolge nella definizione della conoscenza. Come
ci spiega il famoso astrofisico Davies, lo “extreme subjective element” insito
in ogni interpretazione della Natura “obliges us to suppose that, in the
absence of observation, the external world does not exist in a well-defined
sense. It is as though through our observations we actually create, rather than
explore, the external world”[542].
Il fatto sorprendente da mettere in rilievo, è
che questa tendenza epistemologica, all’opera in ambito europeo come si è visto
sin dai primi anni dell’Ottocento, è ormai diffusa ben oltre la fisica teorica
o le più recenti cosmologie scientifiche. La scuola biologica dell’autopoiesi,
insieme ai modelli ormai affermatisi nelle neuroscienze, ha infatti elaborato
un’ulteriore, ancor più sofisticata, versione del paradigma in oggetto, in cui
addirittura si è in grado di presupporre un ambiente circostante, un contorno
chimico-fisico per gli organismi viventi, senza tuttavia che questo possa
svolgere alcun ruolo nella formazione e ciclica trasformazione della nostra
cognizione, nemmeno come cartina di tornasole delle nostre interpretazioni.
Entro questi nuovi indirizzi scientifici, quel presupposto “substrato”, come
vien chiamato il dominio delle cose, degli enti e degli oggetti, può al massimo
innescare la percezione sensoriale (il vedere i colori ad esempio, oppure il
sentire i suoni, ecc.), ma la conoscenza, la produzione di sistemi cognitivi
atti a comprendere e ad elaborare l’esperienza dei singoli tramite complessi
d’idee, avviene esclusivamente all’interno della mente soggettiva. Ed è questa,
nella coevoluzione ed interazione con altre consimili menti, ad istituire
relazioni e mondi interpersonali reali di tipo consensuale e a responsabilità
individuale. Come ci vien detto in una formulazione di sintesi, “le spiegazioni
scientifiche non spiegano un mondo o universo indipendente, ma spiegano la
prassi (il dominio empirico) dell’osservatore”[543].
Come si vede, l’approdo attuale dell’epistemologia
contemporanea, vale a dire di quella teoria della conoscenza che affiora dalla
stessa riflessione del pensiero scientifico intorno alla propria attività,
affonda le sue radici in quella parte della scienza ottocentesca, davvero in
anticipo sulla sua epoca, che aveva apertamente tematizzato la chiusura
organizzativa dei processi cognitivi attraverso i quali comprendevamo
l’empiria. Scienziati come T.
Huxley, W. Whewell, J. Müller, M. Schleiden, e molti altri, come si è visto,
tutti ben conosciuti da Marx tra l’altro, avevano ampiamente ed in maniera
esplicita argomentato in favore di un’interpretazione autoreferente potrei dire
delle nostre teorie. A parte questa ascendenza, comunque importante, quali sono
gli effetti concettuali dei nuovi modelli della mente? Il fatto è che essi,
oltre a presupporre un contesto sensibile del quale possono fare a meno nella
comprensione della realtà, tanto fanno discendere la società dalla prassi
cognitiva dei diversi soggetti, quanto rendono la conoscenza umana una “unità
autopoietica” senza tempo né causa, senza fondamento né origini, trasformandola
così in una proprietà naturale degli esseri viventi. La prima sovverte
completamente qualsivoglia idea che sia la società a porre gli individui, a
determinarne l’esistenza e le funzioni. Qui la convinzione di Marx sul rapporto
coscienza-essere sociale si scioglie come neve al sole. La seconda, del pari,
trasforma il pensiero dei singoli in un sistema biologico selettivo senza più
alcun rapporto con la maniera in cui il modo di produzione capitalistico, cioè
un contesto storicamente determinato, preforma l’intelletto dei soggetti, la
loro razionalità complessiva (il loro agire e pensare, la prassi politica e la
conoscenza)[544].
Di fronte a simili esiti, può il marxismo
semplicemente far finta di niente, o magari come Althusser accusare queste
correnti scientifiche di idealismo, e tirare diritto per la vecchia strada? Non
vedo come si possa. Caso mai, si deve accettare la sfida ed attrezzarci per
capire da dove provengano questi nuovi paradigmi, che rapporto sottile essi
intrattengano col processo riproduttivo del capitale. Si è visto infatti che
l’osservatore porta i suoi postulati e principi concettuali, l’intera sua
cultura sociale, all’interno stesso del pensiero scientifico. La mente
complessiva del singolo preforma dunque la natura della razionalità
scientifica, condizionandola alla radice, là dove essa nasce e si sviluppa. Se
questo è vero, allora l’apparente natura autoreferente di tale ragione risulta
dunque parallela al modo di funzionamento dei soggetti determinati dal
capitale, giacché entrambi sembrano ragionare attraverso la stessa abbagliante
autodeterminazione, a prima vista senza fondamento alcuno. La codipendenza tra
razionalità scientifica e riproduzione del capitale può dunque essere spiegata.
Sta di fatto comunque che il mondo della scienza
attuale, esplicitamente o implicitamente, non ha più niente in comune con il
vecchio presupposto del materialismo filosofico classico o del realismo
scientifico dell’epoca precedente. Le nuove accezioni del concetto di mondo
prevalenti nei modelli scientifici più recenti rappresentano piuttosto la
confutazione più completa delle vecchie impostazioni, sia perché possono
presupporre un contorno fisico ignorandolo, sia perché trasformano la cornice
sociale in una conseguenza diretta dell’attività cognitiva dei differenti
soggetti. Si può chiudere gli occhi di fronte ad una cosa come questa? Si può
continuare a credere che il marxismo possa studiare la realtà senza tener conto
delle sfide dell’epistemologia scientifica? Secondo me ci si cullerebbe solo in
un’illusione. Sarebbe davvero comico che una teoria nata con intenti
scientifici, e soprattutto a stretto contatto di gomito con la scienza
dell’Ottocento, si permettesse d’ignorare il pensiero scientifico odierno. Cosa
ci potrebbe essere di più sbagliato? E soprattutto, cosa ci potrebbe essere di
più controproducente e di autolesionista?
Alla luce anche dei recentissimi sviluppi della
scienza tutte le interpretazioni dei marxismi precedenti vanno considerate
morte e sepolte, definitivamente tramontate ed estinte. Tutti i loro concetti
basilari – da quelli con cui si interpretava il modo di produzione capitalistico
(forze produttive, rapporti
sociali di produzione, mercato, ecc.) a quelli relativi alla formazione sociale
nel suo complesso (Stato, società civile, potere sociale, apparati del
consenso, ecc.) – sono infatti oggi sia irrimediabilmente surannées sia fuorvianti se finalizzati alla
spiegazione del mondo capitalistico, in quanto viziati ab ovo dalla loro radicale incomprensione
della razionalità scientifica e dello stesso pensiero più complesso di Marx. Se
li si continuerà ad usare nella consueta maniera aproblematica, come si fa
tutt’ora, le classi dominanti possono dormire sonni più che tranquilli. Se si
continuerà a riesumare i grandi classici del marxismo, per quanto importanti
siano stati e per quanto abbiano segnato la storia contemporanea, oppure
qualsiasi altra corrente marxista del Novecento, sperando di poter trovare
nelle loro analisi categorie atte ad interpretare l’età attuale, non sarà mai
possibile capire fino in fondo gli sviluppi più recenti del capitalismo
mondiale e le tendenze predominanti della sua versatile dinamica interna. Se,
come diceva Bachelard, ogni nuova forma di conoscenza “prise au moment de sa
constitution est une connaissance polémique: elle doit d’abord détruire pour
faire la place de ses constructions”[545],
allora niente meglio di un risoluto congedo dal vecchio marxismo può forse dare
inizio ad una rinascita del pensiero più sottile di Marx ed insieme ad una
nuova stagione dell’interpretazione critica della società.
Note
[513] S. J. Gould, Ontogeny and
phylogeny, cit., p.355.
[514] Ne ricordo qui solo qualcuna: 1.
Formazione geologica; 2.Metamorfosi; 3. Epoche geologiche; 4. Organizzazione;
5.Piccola e grande circolazione; 6. Generatio Æquivoca; 7. Movimento apparente,
movimento reale; 8. Il concetto di media; 9. Il concetto di analogia; 10. Il
concetto di etere; 11. Lo Stoffwechsel; 12. La coppia superficie-profondo.
Che dire poi delle centinaia di metafore, in larga parte letterarie ma in gran
numero anche scientifiche, usate da Marx per descrivere la natura del modo di
produzione capitalistico? Non sono affatto un ornamento retorico del discorso.
Piuttosto devono essere intese come migliori vie d’accesso concettuali
all’oggetto sotto analisi. Tanto
nell’argomentazione di Marx, quanto nella scienza l’utile funzione delle
metafore consiste nel fatto che “their congruence with reality goes deeper than
mere surface form” (J. Cohen – I. Stewart, The collapse of chaos. Discovering
simplicity in a complex world, Viking,, London, 1994, p.25).
[515] I. Mészáros, Beyond Capital,
Merlin Press, London, 1995, che dedica le 986 pagine del suo libro ad una Theory
of transition – sia concettuale, oltre Marx, sia sociale, “beyond capital
as such”, almeno in prospettiva – non dedica non dico un paragrafo ma nemmeno
una pagina a questo problema. C’è bisogno di fare commenti?
[516] Ho provato a dare alcuni esempi di
questa intima e doppia mediazione nel mio Sistemi di conoscenza, al quale
dunque mi permetto di rinviare.
[517] Cfr. la sua Foreword, al volume
di J. D. Barrow – F. J. Tipler, The anthropic cosmological principle,
cit., p.VIII.
[518] Cfr. i suoi Quaderni filosofici,
Editori Riuniti, Roma, 1976, p.167.
[519] Cfr. ad es. L. R. Graham, Science
in Russia and the Soviet Union. A short history, Cambridge U. P., 1993.
[520] Il ventaglio dei tentativi è molto
ampio: da Lukács ad Althusser, da Jacques Bidet a Gianfranco La Grassa e
Costanzo Preve, dall’Analytical Marxism al più recente Postmodern Materialism
americano, e si potrebbe continuare a lungo.
[521] Vorrei citare qui due soli esempi
maggiori più recenti, un economista e un filosofo, in cui invano si cercherebbe
un sia pur minimo riferimento al pensiero scientifico e al suo profondo legame
con l’opera di Marx: B. Chavance, Marx et le capitalisme. La dialectique
d’un système, Nathan, Paris, 1996; E. Balibar, La philosophie de Marx, La
Découverte, Paris, 1993. In lingua inglese si possono vedere G. A. Cohen, Karl
Marx’s theory of history. A defence, Clarendon Press, Oxford, 1987 (Qui è
proprio il caso di dire: Dagli amici mi guardi Iddio…); R. Bhaskar, Dialectics.
The pulse of freedom, Verso, London, 1992. Per quanto riguarda i Dizionari, non
vorrei essere frainteso. La mia opinione è chiara. Essi rappresentano un
utilissimo strumento di consultazione ed hanno contribuito e rendere
accessibile ad un più largo pubblico il complesso pensiero di Marx. Senza
dubbio. In questo senso essi rappresentano, come si dice, grandi opere. Il
problema tuttavia è che in essi, forse inevitabilmente, non si trova traccia
alcuna delle profonde trasformazioni epistemologiche che hanno segnato la
storia della scienza sin dall’epoca di Marx né la marcata impronta che esse
hanno lasciato nelle sue categorie: in tutti e due i casi, sia quando ha preso
in considerazione quelle trasformazioni sia quando ha omesso di farlo, come si
è visto. D’altro canto, per
rendersi conto della quantità di “commonplaces” concentrati a volte nelle
singole spiegazioni dei Dizionari è sufficiente consultare ad es. la voce
“historical materialism” in T. Bottomore (ed.), A dictionary of Marxist
thought. Blackwell, Oxford,1991. Cfr. inoltre G. Bensussan - G. Labica, Dictionnaire
critique du marxisme, PUF, Paris, 1999; F. Papi (a cura di), Dizionario
marxista, Zanichelli, Bologna, 1984.
[522] Cfr. per esempio L. Geymonat, Lineamenti
di filosofia della scienza, Mondadori, Milano, 1985; id., Del marxismo.
Saggi sulla scienza e il materialismo dialettico, Betani, Verona, 1987; G. La
Grassa, Scritti di metodo e dintorni, Unicopli, Milano, 1996.
[523] Sintomaticamente, il criterio con cui
decidire delle nostre interpretazioni del mondo - “la corripondenza con la
realtà storica esterna” - proposto da Costanzo Preve, uno studioso
che ha dedicato una serie di importanti volumi alla confutazione del marxismo
storico, combacia in tutto e per tutto con quello di Popper, colui cioè che più
di tutti si è battuto per confutare da un presunto punto di vista scientifico
il pensiero di Marx. È curioso che il criterio in causa fosse difeso anche da
H. Lefebvre nel suo antialthusseriano L’idéologie structuraliste, Éditions
Anthropos, Paris, 1975, p.39. In questo breve excursus abbiamo così un marxista
tradizionale, un marxista critico e un filosofo liberale della scienza
accomunati da uno stesso principio metodologico. Può essere
considerata un caso una simile concordanza per così dire epistemologica? Non
credo proprio. Caso mai è il chiaro sintomo di un serissimo problema. Come infatti bene spiega Ernst von
Glasersfeld, per la scienza odierna “the world we live in is always and necessarily
the world as we conceptualize it. “Facts” are made by us and our way of
experiencing, rather than given by an independently existing objective world”,
in The construction of knowledge. Contributions to conceptual
semantics, Intersystems Publications, Salinas (U.S.A.), 1988, pp.319-336.
L’autoreferenza della conoscenza sovverte da cima a fondo la vecchia
impostazione, giacché per essa né la natura né la società sono oggetti distinti
dalla nostra attività cognitiva. Di Preve e Popper si confrontino ad es., del
primo Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, Vangelista,
Milano, 1991, p.206; del secondo Congetture e confutazioni, Il Mulino,
Bologna, 1972, vol. I, p.53, pp.200-201.
[524] Cfr. a questo proposito D. Howard –
K. Klare, The unknown dimension. European Marxism since Lenin, Basic
Books, New York, 1972; Storia del marxismo contemporaneo, Feltrinelli,
Milano, 1974; Storia del marxismo, 4 vols., Einaudi, Torino, 1982.
[525] Si vedano i numerosi scritti di F.
Varela e H. Maturana dedicati all’illustrazione di questa teoria scientifica.
[526] Senz’altro paradossale, a questo
proposito, il volume di E. P. Thompson, The poverty of theory, Merlin
Press, London, 1995, dedicato nelle intenzioni ad una confutazione delle teorie
di Louis Althussser. Non è ovviamente che Thompson avesse torto a criticare
Althusser. Solo che l’ha fatto
con categorie quali “experience”, “the real world outside”, che non potevano e
non possono colpire il loro bersaglio.
[527] L. Althusser, Réponse à John
Lewis, cit., p.35; corsivo mio. Per Althusser, e qui la sua formulazione del
concetto in causa raggiunge il suo apice, l’oggetto reale rappresenta “le point
de référence absolu du processus de connaissance qui le concerne”, in Lire
le Capital, cit., p.360; corsivo mio. Sulla diffusione endemica di questa tesi
“ontologica” nel marxismo contemporaneo cfr i testi seguenti: S Meikle, Essentialism
in the thought of Karl Marx, Duckworth, London, 1985; D. Sayer, The
violence of abstraction. The analitical foundations of historical materialism,
Blackwell, Oxford, 1989; M. Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo,
Marcos y Marcos, Milano, 1990; C. Preve, Il convitato di pietra,
Vangelista, Milano, 1991; R. Bhaskar, Dialectic. The pulse of freedom,
Verso, London, 1993; E. Balibar, La philosophie de Marx, La Découverte,
Paris, 1993; M. Bontempelli – C. Preve, Nichilismo.Verità. Storia,
Editrice CRT, Pistoia, 1997. Non è sintomatico il fatto che Henri Bergson, un
filosofo, difendesse l’ontologia, e Gaston Bachelard, un epistemologo di
formazione scientifica, la confutasse? Cfr. la loro disputa nel confronto tra i
volumi seguenti: H. Bergson, L’évolution créatrice, PUF, Paris,
1983; G. Bachelard, La dialectique de la durée, PUF, Paris, 1980.
[528] Cfr. ad es. certe affermazioni dei Lineamenti,
cit., vol. I, pp.27-28, p.34 (Grundrisse, cit., pp.21-22, pp.26-27). Tali passi
sono tuttavia problematici e ambigui. Non li si può leggere in modo unilaterale
e semplicistico, amputando i loro complessi e multiversi significati
concettuali, come hanno sempre fatto i marxisti: economisti, epistemologi,
storici, sociologi o filosofi che fossero. Una classica epitome di questo
atteggiamento è L. Althusser, Lire le Capital, cit., pp.40-44, pp.313-315.
[529] Come dovrebbe esser chiaro, anche
quando si interpreta un dato evento – ad esempio il crollo dell’URSS – facendo
ricorso a presunti “fattori esterni” di natura storica, in realtà si sta solo
descrivendo il proprio pensiero. Anche dall’esterno, qualunque spiegazione è
sempre del tutto interna alla mente dell’osservatore che spiega la sua
interpretazione dell’oggetto considerato. Facciamo un altro esempio.
Normalmente, in un qualsiasi lavoro storiografico – che tratti della società
feudale o del collasso dei cosiddetti paesi socialisti, della nascita di
un’idea o della formazione di un sistema sociale specifico - non c’è un singolo
fatto, non un dato, che sia possibile controllare in prima persona o
direttamente. Tutti i dati di questi e consimili studi sono sempre e soltanto dati
di carta, fatti dedotti da altri documenti o libri ancora e acettati come veri.
Tutta la nostra conoscenza della società in un certo senso è basata su “luoghi
comuni”, cioè su giudizi assunti come veri e mai sottoposti ad accertamento.
Ovviamente ciò è impossibile, sia per l’enorme mole di lavoro che uno si
dovrebbe sobbarcare, sia perché il singolo dovrebbe avere competenze
illimitate. In ogni caso esiste anche un altro divieto di natura diversa, un
divieto di principio pressoché insuperabile. I dati di carta sono infatti pur
sempre pensieri complessi (intere teorie globali, a volte) divenuti caso
concreto e per così dire incorporatisi in un certo numero: un dato statistico,
una percentuale demografica, un algoritmo matematico, e così via. Da questo
punto di vista, persino le nostre ipotesi sono dati di carta, in quanto o
dedotte da altri studi ancora o aventi comunque il carattere di congetture, per
le quali tra l’altro si pone il problema del controllo, che non potrà che
essere affidato ad altri ed ulteriori, aggiuntiivi, dati di carta. Da qualunque
prospettiva si guardi la cosa, non c’è mai verso di supportare la propria
interpretazione attraverso la pura empiria, semplicemente perché questa, in
società, non ha base alcuna. Anche sostenere ad es. che “i fatti
esistono” significa soltanto enunciare un’assunzione dell’osservatore e
nient’altro. Un asserto di quel tipo non può conferire ai fatti più realtà di
quanto io possa darne ai miei sogni. Del resto, credere che detti fatti
empirici assumano il loro significato solo dopo che qualcuno li ha selezionati
e collegati tra loro, come se la loro spiegazione dovesse comunque basarsi
sulla loro preesistenza, vorrebbe dire rimanere più indietro persino delle formulazioni
di Edward Carr. Lo storico inglese ha infati chiarito, contro la stessa
storiografia del suo tempo ed il suo “cults of facts”, che l’elemento
soggettivo dell’interpretazione ”enters into every fact of history”
e ne preforma dunque il contenuto (cfr. il suo What is history?, Penguin
London, 1961, pp.9-13; corsivo mio). Da questo punto di vista, non possono
dunque esserci fatti preesistenti semplicemente da selezionare tramite una
certa teoria, Né questa eventuale teoria è poi verificabile per mezzo di
presunti “processi reali” e della “realtà empirica”. Se i fatti implicano il
pensiero dell’osservatore, è allora chiaro che essi tutto sono meno che un
oggetto presupposto a cui poter “applicare” un certo sistema
concettuale. A questa convinzione mi sembra che ben s’attagli ciò che Marx
diceva dell’economia politica: essere cosa nota in tutte le scienze, tranne che
nella storiografia marxista, che non possono esistere fatti autonomi in
conseguenza della theory laden. Questo concetto è nato in campo
epistemologico, ma come si è visto Carr lo conosceva benissimo. In sintesi, come già aveva spiegato
Whewell agli inizi dell’Ottocento, se “we have the facts in our mind” (cfr. il
suo The philosophy of the inductive sciences, vol. I, Cass, London,
1967, p.24), allora diventa evidente che in società non è più possibile
postulare alcuna loro esistenza indipendente o esterna alla mente. Se ci sono,
se i fatti e i dati reali fanno parte della società, essi possono avere natura
esclusivamente concettuale. Come
precisa Moritz Schlick, “the factual is already theory” (cfr. i suoi Philosophical
papers, volume I (1909-1922), Reidel, Dordrecht, 1979, p.270). Quando
dunque si compara una certa interpretazione a certi fatti, la si confronta
soltanto con altri - alternativi o meno - sistemi di pensiero.
[530] Cfr. quanto dice a questo
proposito il fisico D. Deutsch, che nega l’esistenza di ogni “flow of time”: The
fabric of reality, Penguin, London, 1998, pp.258-278. Del resto, non aveva
detto Schrödinger, nel 1956!, che “there is really no before and after for
mind. There is only a now that includes memories and expectations”? (cfr.
il suo What is life?, Cambridge U. P., 1992, p.135).
[531] id., Ontogeny and phylogeny,
cit., p.282.
[532] Cfr. il suo Mathématique et
societé, cit., pp.95-96.
[533] Si sono già visti alcuni esempi della
maniera in cui questo marxismo tratta le categorie di Marx. In sovrappiù, si
consideri tuttavia anche il fatto che alcuni concetti cruciali - quali quelli
di Formelle und Reelle Subsumtion der Arbeit unter das Kapital, illustrati
in testi importanti come Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses,
oppure nella IVª Sezione di Das Kapital (Werke, 23, pp.341 e
sgg.) - usati da Marx per descrivere il lungo e discontinuo processo di
formazione del modo di produzione specificamente capitalistico neanche vengono
presi in considerazione dai famosi Dizionari marxisti europei. Quando poi sono
stati chiamati in causa (cfr. J. Elster, Making sense of Marx, già
citato), non se ne è mai capito il significato e se ne è distorto il contenuto.
Ogni ulteriore commento è superfluo.
[534] Cfr. Varii Auctores, Theories of
scientific method, cit., pp.67-72.
[535] A. Eddington, New pathways in
science, Cambridge U.P., 1934, p.257.
[536] Ho cercato di dimostrarlo nel mio Sistemi
di conoscenza e Potere nella società capitalistica, ad esso rinvio dunque il
lettore.
[537] H. Poincaré, La valeur de la
science, Paris, 1905, p.276.
[538] I due passi citati in A. Eddington, New
pathways in science, cit., pp.282-288.
[539] Sulla concezione di Lenin e Bucharin
si veda il mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica,
cit., pp.453-474, pp.596-601.
[540] Tutti i passi citati nel volume What
is Life?, Cambridge U.P., 1995, p.93, p.145 (Si tratta di una serie di Lectures
tenute al Trinity College di Cambridge – lo stesso di cui fu Master dal 1840 al
1866 William Whewell! – nell’ottobre del 1956). Per dire la verità, il pensiero
epistemologico di Schrödinger è ancora più radicale, e si prefigura come un
precursore della scuola autopoietica. Per lo scienziato tedesco, infatti, “the Mind has erected the objective
outside world of the natural philosopher out of its own stuff”. Da questo punto
di vista, la presunta diferenza tra i due “does not exists”: “Subject and
object are only one”. Per questo motivo, conlude il fisico, il fatto che “the
becoming of the world is reflected in a conscious mind is but a cliché, a
phrase, a metaphor that has become familiar to us. Nothing is reflected.
The original and the mirror-image are identical. The world extended in space and time is but our
representation” (Tutti i passi citati ibid., pp.119-136; corsivo mio).
[541] Cfr. ad es. B. d’Espagnat, À la
recherche du réel, Gauthier-Villars, Paris, 1981; id.,Penser la science ou les
enjeux du savoir, Dunod, Paris, 1990; id., Physique et realité, Diderot
Éditeur, Paris, 1998; F. Selleri (a cura di), Che cos’è la realtà.
Dibattito nella fisica contemporanea, Jaca Book, Milano, 1990; id., Fondamenti
della fisica moderna, Jaca Book, Milano, 1992; id., Le grand débat de la
théorie quantique, Flammarion, Paris, 1994; id.,La fisica del Novecento. Per un
bilancio critico, Progredit, Bari, 1999; D. Bohm, Wholeness and the
implicate order, Routledge, London, 1980; id., Causality and chance in
physics, Routledge, London, 1984; id., Unfolding meaning, Routledge,
London, 1987.
[542] P. Davies, The matter mith.
Beyond chaos and complexity, Penguin, London, 1991, p.219. I concetti della fisica, afferma un altro
scienziato, assomigliano spesso alle nozioni della “science fiction”, sono anzi
“close to the science fiction fringe”: cfr. K. S. Thorne, Black holes and
time warps. Einstein’s outrageous legacy, Picador, London, 1994, p.458,
pp.492-493.
[543] H. Maturana, Autocoscienza e
realtà, Cortina, Milano, 1993, p.115. Si veda anche F. Varela, Invitation
aux sciences cognitives, Seuil, Paris, 1996.
[544] Sul paradigma autopoietico cfr. il
mio Sistemi di conoscenza e Potere nella società capitalistica, cit.,
pp.530-566.
[545] id., La dialectique de la durée,
cit., pp.12.14. Del resto, non
sosteneva lo stesso Marx (cfr. Werke, 28, pp.284-285) che “truth is
established by controversy and that historical facts are to be extricated from
contradictory statements”? Non è questo un esemplare enunciato
convenzionale e costruttivista di cui ogni marxista, nella disputa e nella
controversia teoriche, dovrebbe tener conto? Invece d’invocare ad ogni piè
sospinto inesistenti “realtà oggettive” o presunti fondamenti ontologici che
sono soltanto, ora è chiaro, dei miti marxisti, non sarebbe meglio prendere
lezione dal complesso e discontinuo processo di formazione del pensiero
scientifico contemporaneo?