Karl Marx ✆ Sojo |
Paolo Vinci |
La distinzione fra agire strumentale e agire comunicativo, che è al
centro del pensiero di Jürgen Habermas, ha il suo luogo di nascita e una delle
sue applicazioni più significative nel confronto con la visione dell’attività
lavorativa che ci offre Karl Marx, sia nei suoi scritti giovanili che nelle opere
economiche della maturità1. L’elemento decisivo della differenziazione critica
habermasiana sta nell’esplicita volontà di spezzare il nesso, considerato
troppo diretto, fra i modi di produzione e le forme di coscienza. Abbiamo
dunque il riproporsi di un pregiudizio deterministico verso la concezione
materialistica della storia che avrebbe come suo esito inevitabile
un’equiparazione fra la teoria della società e la scienza della natura2. Conseguentemente a una “svolta linguistica” che coinvolge l’impianto di
fondo della sua filosofia Habermas ritiene di dover ricondurre le
configurazioni di potere che fissano la ripartizione degli strumenti di
produzione e le modalità delle loro forme di proprietà, all’istituzionalizzarsi
di interazioni mediate
simbolicamente. Il rapporto fra gli uomini non può, quindi, essere assimilato a quello fra l’uomo e la natura, in quanto quest’ultimo appare caratterizzato da un’ineliminabile istanza di appropriazione e di dominio. Habermas è, invece, mosso dall’auspicio della creazione di norme che favoriscano relazioni umane improntate alla reciprocità e alla libertà. Si comprende, allora, come il suo bidimensionalismo nasca da una reazione di difesa nei confronti dei rischi di un’enfasi eccessiva sulle “forze produttive”, che renderebbe disarmati davanti al pericolo maggiore che sembra correre la realtà contemporanea, quello di una totalizzazione della tecnica, che finirebbe per colonizzare tutti gli ambiti vitali della società. Solo il terreno delle relazioni intersoggettive può vedere emergere quelle pretese normative dotate di requisiti razionali che Habermas considera il solo sviluppo auspicabile dell’istanza trasformativa del pensiero di Marx3.
simbolicamente. Il rapporto fra gli uomini non può, quindi, essere assimilato a quello fra l’uomo e la natura, in quanto quest’ultimo appare caratterizzato da un’ineliminabile istanza di appropriazione e di dominio. Habermas è, invece, mosso dall’auspicio della creazione di norme che favoriscano relazioni umane improntate alla reciprocità e alla libertà. Si comprende, allora, come il suo bidimensionalismo nasca da una reazione di difesa nei confronti dei rischi di un’enfasi eccessiva sulle “forze produttive”, che renderebbe disarmati davanti al pericolo maggiore che sembra correre la realtà contemporanea, quello di una totalizzazione della tecnica, che finirebbe per colonizzare tutti gli ambiti vitali della società. Solo il terreno delle relazioni intersoggettive può vedere emergere quelle pretese normative dotate di requisiti razionali che Habermas considera il solo sviluppo auspicabile dell’istanza trasformativa del pensiero di Marx3.
L’esigenza
di evitare qualsiasi dipendenza automatica delle forme di interazione dai
processi produttivi può apparire in sé legittima, perché indiscutibilmente le
dinamiche culturali e linguistiche possono seguire logiche non direttamente
riconducibili alla dimensione produttiva, ma ciò non deve a mio avviso
necessariamente significare la rinuncia al tentativo di una visione unitaria
della società, allo sforzo di individuarne i meccanismi di fondo, quelli che
propriamente ci permettono di comprendere le contraddizioni che ancora ci
dominano. Credo che l’impegno teorico di Marx vada in questa direzione e che il
suo concetto di lavoro, inquadrato nella giusta prospettiva, mantenga intatta
la sua forza di illuminazione nei confronti dei processi sociali che
continuiamo a subire.
I
Habermas è consapevole del fatto che quella marxiana si presenta come una concezione che coglie il carattere intrinsecamente relazionale dell’attività lavorativa, ma ritiene comunque che la prassi emancipativa vada distinta da quello che è essenzialmente un processo di trasformazione della natura. Da parte mia, però, credo che sia possibile mettere Habermas in contraddizione con se stesso e assumere come un’acquisizione fondamentale del pensiero di Marx il suo ritenere il lavoro come sempre inscindibilmente legato alle relazioni fra gli uomini. È in questa prospettiva che Marx iscrive il lavoro nel movimento della storia come processo di autocostituzione del genere umano e lo qualifica quindi in termini non esclusivamente poietici. Per comprendere questo aspetto decisivo dobbiamo riflettere su quanto sia importante per Marx mettere a frutto, nonostante il rifiuto della sua impostazione speculativa del pensiero di Hegel, un’eredità esplicitamente dichiarata: «L’importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione»4. Quel che va colto in queste affermazioni marxiane è il loro contenere un’intrinseca istanza eman-cipativa: l’uomo potrà «esplicare realmente tutte le sue energie di genere (Gattun-gskräfte)» solo a partire da un «risultato storico» raggiunto attraverso un «agire in comune»5. Il lavoro chiede una prassi trasformativa perché è già in se stesso un’attività di tale natura, la forma della ‘manifestazione di sé’ dell’uomo.
Habermas è consapevole del fatto che quella marxiana si presenta come una concezione che coglie il carattere intrinsecamente relazionale dell’attività lavorativa, ma ritiene comunque che la prassi emancipativa vada distinta da quello che è essenzialmente un processo di trasformazione della natura. Da parte mia, però, credo che sia possibile mettere Habermas in contraddizione con se stesso e assumere come un’acquisizione fondamentale del pensiero di Marx il suo ritenere il lavoro come sempre inscindibilmente legato alle relazioni fra gli uomini. È in questa prospettiva che Marx iscrive il lavoro nel movimento della storia come processo di autocostituzione del genere umano e lo qualifica quindi in termini non esclusivamente poietici. Per comprendere questo aspetto decisivo dobbiamo riflettere su quanto sia importante per Marx mettere a frutto, nonostante il rifiuto della sua impostazione speculativa del pensiero di Hegel, un’eredità esplicitamente dichiarata: «L’importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione»4. Quel che va colto in queste affermazioni marxiane è il loro contenere un’intrinseca istanza eman-cipativa: l’uomo potrà «esplicare realmente tutte le sue energie di genere (Gattun-gskräfte)» solo a partire da un «risultato storico» raggiunto attraverso un «agire in comune»5. Il lavoro chiede una prassi trasformativa perché è già in se stesso un’attività di tale natura, la forma della ‘manifestazione di sé’ dell’uomo.
Mi sembra evidente come dietro questo discorso di Marx ci sia la
ricezione del fatto che la Fenomenologia dello spirito, nella sua
trattazione della relazione servo-padrone, iscrive il lavoro nella dinamica del
divenir se stessa dell’autocoscienza e quindi in un processo che vede il
proprio compimento nel pieno esplicarsi del tratto costitutivo della Selbstbewusstsein,
la relazionalità, quel che per l’appunto accade nel riconoscimento reciproco
fra le autocoscienze6. L’attività lavorativa del servo non ha in se stessa un
carattere emancipativo, ma rivela comunque dei tratti paradigmatici riguardo al
concetto di lavoro che verranno fatti propri da Marx7. L’arbeiten è
visto come un formare, un rendere conforme l’oggetto al soggetto, così che
questo viene a rispecchiarsi, a riconoscersi nel suo prodotto. Si tratta di un
riconoscimento che, al livello del lavoro servile, Hegel considera
assolutamente parziale, in quanto privo di quella reciprocità che si può
instaurare solo in una dimensione intersoggettiva, ma che comunque esprime quel
movimento del ritrovare sé nell’altro che fa del lavoro un passaggio necessario
nel cammino dell’autocoscienza.
Nel suo grandioso tentativo di ricostruire il processo storico di
formazione della specie umana partendo dalle leggi di riproduzione della vita
sociale Marx riprende la visione hegeliana del lavoro. L’attività produttiva
appare innanzitutto come il medium fra l’uomo e la natura, essa coincide
con “l’essenza autoafferrantesi dell’uomo”, ma non potrà che presentarsi sempre
in condizioni sociali storicamente determinate. Il nucleo della visione
marxiana sta proprio nel legare il ricambio organico fra l’uomo e la natura alle
forme storiche del suo darsi, così che non è il rapporto di dominio sulla
natura a caratterizzare il lavoro, ma il suo inscriversi di volta in volta in
assetti sociali a carattere storico. Tutto ciò appare con la massima chiarezza
in particolare nell’Introduzione del ’57 ai Grundrisse in cui Marx ci
presenta il lavoro come forma intrinsecamente sociale e l’attività produttiva
viene mostrata come necessariamente mediata dalla distribuzione e dallo scambio8.
II
II
Il più importante allievo di Habermas, Axel Honneth, condivide la
preoccupazione di preservare l’autonomia delle relazioni interindividuali e
quindi ribadisce con forza la necessità di stabilire l’irriducibilità fra la
dimensione morale dialogica dell’agire e quella della produzione. Il
bidimensionalismo si giustifica con la necessità di preservare la cooperazione
intersoggettiva mirante alla liberazione dal do-minio9. Honneth, però, fornisce
un personale contributo all’approfondimento del rapporto fra il lavoro e la
prassi emancipativa. Quest’ultima andrebbe svincolata da riferimenti
privilegiati alla dimensione poietica, che ha ormai perso il carattere di
motore decisivo del mutamento sociale, collegato a istanze di realizzazione che
nascono da forme di comportamento più variegate e differenziate. Se su questo
aspetto la sua posizione potrebbe sembrare in sintonia con quella di Habermas,
Honneth però non evita di mettere in questione l’evidente riduzionismo presente
nel far coincidere il marxiano concetto di lavoro con la nozione di ‘agire
strumentale’. Il lavoro come manifestazione vitale che troviamo a partire dai Manoscritti
del ’44 vuole concentrare in sé l’estrinsecazione dell’insieme delle
capacità umane e viene direttamente coniugato con l’esigenza di relazioni
interindividuali in grado di realizzare l’intrinseca socialità dell’ente
naturale generico, vale a dire dell’uomo così come lo intende Marx.
Honneth sottolinea come la visione marxiana del lavoro arrivi a
rovesciare una bimillenaria connotazione negativa dell’attività lavorativa e
della fatica umana, che parte dall’antichità greca e si sviluppa lungo l’intera
tradizione cristiana. Marx, sulla base di una lettura quanto mai acuta della Fenomenologia
dello spirito, riesce a muoversi al livello della “svolta” hegeliana,
permettendoci di cogliere l’intricata trama che, in Hegel, annoda il lavoro
all’attività formativa dell’artista e infine all’agire umano in senso sociale e
politico10.
Proponendosi di misurare la capacità del concetto marxiano di lavoro di
essere ancor oggi un paradigma normativo valido per la trasformazione sociale,
Honneth svolge argomentazioni volte a denunciarne un difetto di genericità che
lo rendono incapace di dar conto della ricchezza e multiformità dei
comportamenti individuali e collettivi. L’attività lavorativa in Marx oscillerebbe
fra il sovraccarico concettuale e l’indeterminazione categoriale: sarebbe una
nozione la cui eccessiva apertura di significato finirebbe per impedirle di
mordere efficacemente la realtà odierna, di svolgere una funzione di possibile
fattore emancipativo. La radice di questo limite strutturale consisterebbe in
una paradossale vicinanza di Marx a Schiller, alla sua visione dell’uomo
armonico e totale capace di esprimersi nella pienezza di un’attività insieme
razionale e sensibile. In questo modo il lavoro assumerebbe il carattere di Bildung,
la forma di un’autoggettivazione formativa delle facoltà dell’individuo nel
prodotto, il quale avrebbe il decisivo effetto retroattivo di mostrare al suo
artefice come fuori di lui esista qualcosa che egli può considerare “suo”, lo
specchio di ciò che più intimamente lo caratterizza.
Quel che non mi sento di condividere di questa ricostruzione del lavoro
in Marx è soprattutto l’isolamento dei tratti di questa nozione, senza seguirne
gli sviluppi nel più generale progetto della critica dell’economia politica.
Honneth ha buon gioco a dichiarare che il modello del concetto marxiano di
lavoro sarebbe l’attività artigiana-manufatturiera, intesa sulla base del
postulato di un trasferimento espressivo delle capacità umane nel prodotto, ma
non dà conto di come Marx articola il suo discorso in relazione
all’introduzione delle macchine e alle linee di tendenza del capitalismo.
Collocandosi su un piano sociologico, Honneth sottolinea che l’attuale
configurazione sociale non offrirebbe più alcun esempio di tale tipo di
attività, impedendole di essere assunta come elemento normativo di una critica
immanente. Una tale visione di produzione organica, di attività non parcellizzata
risulta allora così lontana dalle condizioni lavorative odierne, da renderla
incapace di svolgere una funzione di alternativa nei loro confronti. Solo
dall’interno degli effettivi rapporti di lavoro che troviamo nella società di
oggi possono essere ricavate delle norme morali dotate dello statuto di pretese
razionali e quindi di efficacia nel dibattito pubblico11.
Se non si può non abbandonare l’ideale marxiano di realizzazione
individuale e di cooperazione creativa fra i lavoratori, ciò tuttavia non deve
significare la rinuncia a mettere in questione le forma determinate
dell’attuale organizzazione del lavoro e l’abbandono della richiesta da parte
degli agenti produttivi di più estese forme di controllo sui meccanismi del
processo lavorativo. Honneth auspica dunque una visione del mercato che non lo
consideri solo il motore dello sviluppo economico, ma lo veda anche come
possibile fattore di integrazione sociale, estendendo la tematica del
riconoscimento, con la sua istanza di giustizia, ai contenuti stessi
dell’attività lavorativa, i quali andrebbero valorizzati nella prospettiva del
loro contributo al bene comune.
Ridare centralità alla categoria di lavoro e farne l’asse per
un’ulteriore problematizzazione del paradigma del riconoscimento, che in questo
modo viene esteso e precisato anche in direzione di questioni legate
all’attività produttiva, può essere di per sé un passo degno di attenzione,
così come la esplicita presa di distanza sulla valutazione habermasiana di un
Marx legato a una visione del lavoro come agire strumentale. Questi aspetti
positivi non eliminano, però, il fatto che Honneth nei suoi contributi non
entra davvero nel merito della posizione di Marx, ma resta prigioniero della
sua teoria del riconoscimento troppo legata alla questione della ‘stima
sociale’ e quindi della conferma intersoggettiva. Manca esattamente il
misurarsi con il nucleo critico del pensiero marxiano che si basa su un nesso
immanente fra le forme della produzione e i rapporti sociali.
III
III
Le considerazioni di Habermas e Honneth ci sollecitano a un “ritorno” a
Marx, ci spingono verso un rinnovato tentativo di comprendere il suo concetto
di lavoro, nello sforzo di afferrare quale sia lo statuto del suo discorso,
vale a dire in che misura la sua analisi dell’attività lavorativa non sia
separabile dalla critica della società capitalistica, intesa come il frutto di
un modo di produzione da considerare transitorio e superabile. Solo in questo
quadro mi sembra possibile porre il problema del rapporto fra la ‘prassi rovesciante’
e l’attività lavorativa vera e propria e quindi della misura in cui l’istanza
emancipativa del pensiero di Marx riesca a evitare il rischio di un suo
riduzionismo a un agire meramente poietico e strumentale12.
Non posso non partire dalla prima sezione del Capitale,
dall’analisi della merce. In questo inizio «difficile», affidato alla massima
«forza dell’astrazione», compare quella trattazione della «natura duplice del
lavoro contenuto nella merce» che Marx dichiara orgogliosamente di essere il primo
ad «aver dimostrato criticamente», affermando che essa costituisce «il perno
intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica»13. La duplicità
del lavoro rimanda all’antagonismo insito nella merce, al suo ‘essere due cose
in una’, valore d’uso e valore. Al valore d’uso corrisponde una ‘attività
produttiva determinata dal suo scopo’, un lavoro utile che si esprime in un
complesso multiforme di lavori qualitativamente diversi. Dietro di esso si
trova sempre una divisione del lavoro che è qualcosa che non può mancare in
qualsiasi forma di società, così che il lavoro utile costituisce la forma del
ricambio organico fra l’uomo e la natura, la mediazione costitutiva della vita
umana e, considerato in quanto tale, prescinde dal riferimento specifico a una
società determinata. Al valore, all’elemento che fa sì che le diverse merci
siano confrontabili e, nella loro diversità, rese uguali nello scambio,
corrisponde, invece, il lavoro definito ‘astratto’, inteso come puro dispendio
di energia umana, il lavoro misurato nella sua durata temporale, una quantità
stabilita in base a una media sociale e che solo occasionalmente può coincidere
con il tempo di lavoro effettivamente impiegato per produrre una determinata
merce.
Dobbiamo ben comprendere cosa ci vuole dire Marx con questa distinzione
fra lavoro concreto e lavoro astratto. Essa non afferma che esistono due specie
di lavoro, non indica due attività che in qualche modo possano esser compiute
separatamente. Il lavoro è sempre qualcosa di concreto ed è sempre compiuto da
un qualche individuo, ma nello stesso tempo ha un carattere sociale, è iscritto
nell’attività complessiva della società. Il problema è allora afferrare la
relazione fra questi due aspetti e la distinzione fra lavoro concreto e
astratto è volta a illuminare la modalità specifica della socializzazione del
lavoro in una società in cui la merce sia la ‘forma elementare’ della
ricchezza. Il lavoro astratto è il lavoro che crea valore, il carattere
decisivo della merce in quanto prodotto del lavoro destinato allo scambio. La
merce non compare con il modo di produzione capitalistico, ma solo con esso
diventa la ‘cellula’ dell’intera società. Proprio nella prima sezione del Capitale,
nel momento in cui la sua esposizione si mantiene a un grande livello di
astrazione Marx è in realtà già intento a perseguire l’obiettivo fondamentale
del caratterizzare la società borghese come storicamente determinata e quindi
non comprensibile sulla base di una forma naturale e definitiva
dell’organizzazione economica. Per far emergere la storicità del modo di
produzione capitalistico Marx assume, per così dire, un modello differenziale,
compie un “balzo in avanti” nella storia e dichiara: «immaginiamo […]
un’associazione di uomini liberi, che lavorino con mezzi di produzione comuni e
spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola
forza-lavoro sociale»14. È questa una forma di società che per quanto contempli
una divisione del lavoro non contiene al suo interno la produzione di merci: in
essa non si lavora in vista dello scambio, ogni lavoro determinato è compiuto
per la società, dando vita a un valore d’uso sociale che è appropriato
direttamente dalla comunità, la quale si farà poi carico di distribuire la
ricchezza disponibile.
A Marx interessa far emergere una situazione in cui si dia una
simultaneità fra lavoro individuale e sociale e rispetto alla quale possa venir
colta la differenza con quanto accade nella società borghese, in cui, al
contrario, i lavori individuali si socializzino nella forma del loro opposto. I
lavori sono sempre e, non possono non esserlo, concreti e utili ma, nel modo di
funzionare di una società basata sullo scambio, sono assunti come lavoro
uguale, “senza qualità”. Quel che conta è il carattere di questa “riduzione” e
perché essa avvenga. Il lavoro astratto è la modalità della socializzazione del
lavoro a partire dalla produzione generalizzata di merci. Questa presuppone
l’esistenza di produttori privati indipendenti, che decidono autonomamente cosa
e quanto produrre e che si incontrano solo nel mercato attraverso lo scambio di
merci. Il valore in quanto coagulo, cristallizzazione di lavoro umano
costituisce il nesso fra i produttori, la forma del loro rapporto sociale.
Marx afferma
tutto ciò con assoluta chiarezza:
poichè i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose15.
L’astrazione dalle differenze dei corpi delle merci e dai lavori
concreti è ciò che si attua quotidianamente nello scambio e quest’ultimo
costituisce il rapporto sociale originario della società borghese. Siamo dunque
davanti ad un’astrazione “reale” che si annida nel più profondo della nostra
società e solo a partire dalla decifrazione del come e del perché essa avviene,
possiamo comprendere i meccanismi fondamentali che costituiscono il modo di
produzione capitalistico.
Lo scambio come equiparazione che rende uguali i diversi, come una forma
di mediazione sociale, che prescinde dalle differenze materiali delle merci e
dalle concrete qualità dei lavori, rimanda a una specifica forma di produzione,
basata su produttori privati indipendenti. Abbiamo una società in cui ognuno
può decidere autonomamente quanto e cosa produrre e solo il mercato renderà
effettivo, ‘attuerà’ il prodotto del lavoro e il lavoro stesso. Ciò significa
che la realizzazione delle diverse forme di lavoro, vale a dire, la loro
concreta esistenza sociale, risulterà in partenza segnata da un decisivo
rovesciamento, il concreto assumerà il carattere dell’astratto e il soggettivo
quello dell’oggettivo.
A questo punto non deve sfuggirci la profonda contraddittorietà del
processo che abbiamo davanti, e che Marx non si stanca di indicare come
portatore di caratteristiche ‘teologiche’ e ‘metafisiche’. A partire dalla
merce come ‘forma elementare’ della ricchezza e da un lavoro privato in se
stesso orientato allo scambio, la società assume il carattere di ‘geroglifico’,
di qualcosa da decifrare per non restare irretiti nel ‘mistico velo di nebbia’
che si sprigiona dai suoi processi costitutivi.
Solo partendo dalla consapevolezza critica di essere al cospetto di una
società basata sul lavoro eseguito da produttori privati indipendenti sarà
possibile mettere in luce la specifica dinamica di socializzazione che in essa
viene a dispiegarsi. Esclusivamente in questo modo sarà possibile fare i conti
con il presentarsi, da un lato, di un dominio delle cose, che appaiono assumere
qualità sociali e, dall’altro, con un vigere onnipervasivo dell’astratto,
essendo il valore una ‘oggettività spettrale’, qualcosa di assolutamente
opposto alla dimensione materiale e sensibile dei prodotti del lavoro. Tutto il
discorso sul feticismo rimanda al carattere sociale peculiare del lavoro
produttore di merci: solo prendendo le mosse dall’individuazione della sua
natura diventa possibile denunciare come la nostra società sia caratterizzata a
un tempo dalla reificazione dei rapporti sociali, affidati alle cose e dalla
centralità del valore, il cui carattere “immateriale”, assolutamente
inafferrabile ai sensi, appare in diretto contrasto con ogni forma visibile
della ricchezza.
L’aspetto
che a Marx preme di più sottolineare riguarda, a partire dall’indipendenza dei
produttori, il farsi indipendente della connessione, del nesso sociale
complessivo. Il rapporto sociale inerisce alle cose e quindi si rende autonomo
rispetto agli uomini, si separa dagli individui ai quali dovrebbe
intrinsecamente appartenere. Da qui la denuncia del nesso di
indipendenza-dipendenza come caratterizzante questo tipo di assetto sociale:
l’individualismo si rovescia in un «sistema di dipendenza onnilaterale e
imposta dalle cose»16. L’esito della distinzione fra lavoro utile e lavoro
astratto è, allora, la denuncia del funzionamento “schizofrenico” di una
società in cui il rapporto fra gli individui sfugge al loro controllo cosciente
e finisce col dominarli con la fatalità di un processo naturalistico. Lungi dal
costituire un concetto sotto cui raccogliere la molteplicità dei lavori
concreti, una generalizzazione della nostra mente, il lavoro astratto è la
forma sociale del lavoro di una società di produttori privati indipendenti.
IV
La prima sezione del Capitale è stata a volte interpretata come
il risultato dell’assunzione da parte di Marx di un modello di società
completamente ideale, la società mercantile semplice, la quale non
corrisponderebbe a nessuna effettiva fase dello sviluppo storico. In realtà,
Marx inizia da subito a parlarci del modo di produzione capitalistico, ma lo fa
attraverso una Darstellung che implica lo sviluppo immanente di
categorie semplici come quelle di ‘merce’ e ‘denaro’, dalle quali emergeranno
poi tutte le altre e, in particolare, quella decisiva di ‘capitale’. Il filo
conduttore del questo discorso è costituito dal nesso fra valore e lavoro e il
suo carattere critico viene a fondarsi esattamente su una domanda in più
rispetto a Smith e Ricardo, sul chiedersi “perché” il lavoro viene ad
esprimersi nel valore, arrivando così a comprendere che la «la forma di valore
del prodotto di lavoro è la forma più astratta, ma anche la più generale del
modo borghese di produzione»17, che viene in questo modo caratterizzato come
forma particolare di produzione sociale, e così determinato storicamente.
Quindi, coloro che trascurano di cogliere la specificità storica della forma
valore cadono nell’errore fatale di intenderla come eterna forma naturale della
produzione sociale18. Nel concludersi in questo modo il primo capitolo del Capitale
mostra l’andamento profondo del procedere marxiano, che fin dall’inizio
assume come proprio oggetto la società capitalistica e muove da un
cominciamento che, se isola astrattamente alcune categorie, lo fa solo al fine
di rendere più perspicuo il loro concatenamento logico e più efficace la loro
capacità di farci comprendere la realtà sociale da decifrare.
Il modo di produzione capitalistico si dispiega a partire da una
separazione strutturale fra la qualità e la quantità, fra la ricchezza
materiale e il valore, fra l’elemento soggettivo umano e un nesso sociale
reificato che procede secondo leggi ‘naturali’. Vale la pena, allora, di
chiedersi ancora una volta in che termini la separazione fra lavoro concreto e
lavoro astratto rimandi al ‘lavoro alienato’ dei Manoscritti
economico-filosofici del 184419. Qui il lavoro era presentato come un
movimento di estrinsecazione, un farsi altro del soggetto che nelle specifiche
condizioni della società borghese, basata sulla proprietà privata, interrompeva
il suo andamento irrigidendosi al cospetto di un oggetto separato, che impediva
al lavoratore di riconoscersi in esso e di considerarlo così qualcosa di
proprio, vale a dire la manifestazione delle proprie capacità vitali.
All’indipendenza dell’oggetto corrispondeva allora una lacerazione interna al
soggetto che, non realizzandosi nella propria attività, risultava scisso fra il
suo aspetto particolare e concreto e quello propriamente umano e sociale. Si
può dire, allora, che tanto il lavoro astratto, che quello alienato, sono il
contrassegno di una separazione dell’individuo umano da quella che Marx
considera la sua caratteristica specifica, la capacità di relazione: il nesso
sociale si autonomizza e assume la forma di un potere superiore ed estraneo.
L’importanza dei Manoscritti sta esattamente nel farci vedere
come l’uomo in quanto ‘ente naturale generico’ si muova contemporaneamente
nella natura e nella società. Sulla base dell’universalità del suo genere (Gattung)
ogni individuo nel rapporto con sé è anche rapporto con l’altro e con la
natura, la quale, però, per quanto inclusa in questo orizzonte, mantiene nello
stesso tempo la sua indipendenza, il suo essere una condizione esterna della
dimensione umana. Sulla base di questa concezione, Marx stabilisce che i rapporti
interumani non possono essere isolati dal rapporto con la natura, la quale,
però, resta comunque un “fuori”, qualcosa che dobbiamo e possiamo sottomettere
e trasformare20. La dimensione intersoggettiva e il nostro modo di rapportarci
alla natura non possono, dunque, venire artificialmente separati:
nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali21.
V
Queste considerazioni marxiane sull’attività lavorativa, come costituita
in modo immanente dalla relazioni sociali in cui si svolge, non sono soltanto
il segno della continuità del suo pensiero, ma ci introducono al passo
successivo che dobbiamo compiere: la considerazione della forza-lavoro come
merce e il suo ruolo nella formazione e nella riproduzione del capitale. Per
comprendere questo sviluppo estremamente significativo, dobbiamo di nuovo aver
chiaro lo statuto del discorso di Marx, il suo esporre delle forme che
permettono di decifrare criticamente l’apparire storicamente determinato degli
elementi costanti propri dell’attività economica dell’uomo. In questa
prospettiva non c’è nel suo discorso alcuna nozione che non sia diretta
espressione dei rapporti sociali del modo di produzione capita-listico22.
L’introduzione della forza lavoro quale merce assolutamente specifica,
capace di creare un valore superiore a quello da essa posseduto nel momento
dello scambio, è operata da Marx sottolineando che essa richiede quelle
condizioni storiche che saranno descritte ampiamente nel capitolo
sull’accumulazione originaria. La vendita della forza-lavoro presuppone
l’affacciarsi sulla scena sociale di un individuo libero, che si presenta come
una persona capace di stipulare un contratto. La compra-vendita del lavoro presuppone,
dunque, l’incontro di due soggetti giuridicamente uguali, che si muovono sul
terreno della circolazione, la quale per Marx costituisce: «un vero Eden dei
diritti innati dell’uomo»23. Il lavoratore aliena la sua capacità lavorativa
attraverso un atto di libera volontà, da pari a pari con il possessore di
denaro. Marx sottolinea, però, il carattere duplice di questa libertà: se da un
lato essa è indice della non appartenenza diretta dei lavoratori ai mezzi di
produzione «come gli schiavi, i servi della gleba, ecc.», dall’altro esprime il
fatto che i mezzi di produzione sono stati espropriati a chi li possedeva, «il
rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la
proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro»24.
Se la forza-lavoro è merce, così che il suo uso è un possesso di chi
l’ha acquistata, il lavoro è esattamente ciò che si dispiega in questo consumo
della forza-lavoro. In tal modo il sistema dello scambio, come sistema
dell’eguaglianza, mostra di essere indissolubilmente connesso con
l’ineguaglianza, con il controllo delle energie fisiche e intellettuali del
lavoratore, che le ha vendute alienando qualcosa di intrinseco alla propria
individualità vivente25.
Su questa base Marx opera un’ulteriore passaggio della sua
argomentazione, la distinzione fra il processo di lavoro e il processo di
valorizzazione, che ripropone, a un livello dotato di maggiore concretezza e
determinazione, quella fra lavoro concreto e lavoro astratto. Anche in questo
caso bisogna capire il senso del procedere marxiano: parlare di due processi
non significa prospettare una loro esistenza distinta. Si tratta, al contrario,
di mettersi in grado di afferrare in che misura il processo lavorativo, che in
quanto tale è un’astrazione e può riguardare ogni società, si realizzi nel modo
di produzione capitalistico come processo di valorizzazione. In sé il processo
lavorativo rimanda al lavoro come mezzo per la trasformazione della natura, al
lavoro inteso nei suoi caratteri propriamente umani come un operare conforme a
un fine, in cui il prodotto è la realizzazione di un’idea, di un progetto
presente nella mente dell’individuo26.
Il processo
di valorizzazione, dal canto suo, vede l’operaio lavorare sotto il comando del
capitale, che lo considera una parte di se stesso, un momento del proprio
movimento di autovalorizzazione. Marx sottolinea come scopo di questo processo
non sia il valore d’uso, ma il valore, l’oggettivazione di energia lavorativa
umana in una quantità superiore al valore della forza lavoro. Certo, questo
lavoro deve produrre valori d’uso, il valore deve materializzarsi in essi, ma
esso è indifferente a ciò che caratterizza propriamente i valori d’uso, la loro
forma sempre determinata. Il lavoro morto, passato, incorporando il lavoro vivo,
autentica fonte del valore, cresce su se stesso e questo processo ci mostra
l’autentica natura del capitale, il suo essere un rapporto sociale fra il
possessore di denaro e di mezzi di produzione e il lavoro salariato.
Ancora una volta il fine teorico che Marx si propone viene a delinearsi
nella contrapposizione con l’economia politica, nel mostrare che il capitale
non è semplicemente uno strumento necessario alla realizzazione del processo
produttivo, ma consiste di determinati contenuti storico-sociali. Mentre gli
“economisti” riducono il processo di valorizzazione al processo lavorativo e
quindi il lavoro salariato al lavoro in senso generico, Marx insiste sulla
natura del rapporto sociale di produzione che si sviluppa a partire
dall’incontro fra il capitale e i possessori della forza lavoro e sul fatto
che, all’interno di questa relazione, è il lavoro umano a costituire la fonte
del valore e del plusvalore.
A partire da qui emerge come il modo di produzione capitalistico ruoti
intorno alla questione del pluslavoro, dell’incremento del valore del capitale
e come ciò esiga un aumento della produttività che introduce mutamenti decisivi
nel ruolo della forza lavoro e nella natura dello stesso lavoro. L’ergersi del
capitale a soggetto prepotente del processo di produzione, quella che Marx
chiama la “sussunzione reale”, consiste in una rivoluzione costante delle
condizioni produttive che coinvolge tanto la forza lavoro, quanto i mezzi di
produzione27.
Le descrizioni di Marx su come l’operaio venga violentemente inglobato
all’interno del processo produttivo hanno fatto epoca. Ritroviamo una forma di
lavoro astratto già nel semplice impiegare contemporaneamente una massa
considerevole di forza lavoro, in cui i tempi e i modi del singolo sono
sussunti nel collettivo. Nella manifattura poi il lavoro socialmente necessario
non appare più come un “risultato” dello scambio, ma opera già dentro il
processo produttivo, come suo requisito tecnico. La produttività implica un
certo rapporto fra prodotto e tempo di lavoro a cui il singolo è
necessariamente costretto a sottomettersi. Questa è la legge immanente dello
sviluppo della grande industria e del sistema delle macchine, a cui il
lavoratore è “adattato”, con uno stravolgimento delle funzioni lavorative e la
nascita del cosiddetto ‘operaio parziale’, abile soltanto nello svolgere una
singola operazione28.
Alla
dispersione e anarchia della società borghese corrispondono la concentrazione e
il dispotismo della fabbrica meccanizzata e questo aspetto non va perso di
vista anche nella valutazione di quello che sembra il punto di approdo della
visione marxiana, il confronto con «l’enorme influenza civilizzatrice del
capitale» che vede tra l’altro «la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo
sociale e la sua produzione come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni
perché ricco di qualità e di relazioni»29. Siamo nelle pagine dei Grundrisse
in cui l’appropriazione del lavoro vivo compiuta dal capitale viene
coniugata con l’uso della scienza e con la sua applicazione alla produzione.
Qui Marx, innanzitutto, sottolinea la trasformazione delle «operazioni degli
operai in operazioni meccaniche»30, ma a un certo punto mostra come il
macchinismo venga a svolgere una funzione autonoma e finisca con il subentrare
al posto del lavoro vivo. Abbiamo un andamento della produzione che, se in una
determinata fase conduce ad una ‘svalutazione’ del lavoro operaio e ad una sua
contrapposizione ‘tangibile’ nei confronti del capitale, successivamente,
«nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della
ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di
lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto
durante il tempo di lavoro»31. Avviene un cambiamento radicale nella produzione
e nella valutazione della ricchezza: la scienza e la tecnica hanno un’efficacia
produttiva che ridimensiona il ruolo del tempo di lavoro. Il processo di
produzione dispiega una ‘potenza’ che incide sullo stesso lavoro astratto.
L’operaio non e più direttamente collegato allo strumento, ma sta in una nuova
posizione tutta da definire rispetto all’appropriazione della natura inorganica
attraverso il processo industriale. In questo modo la produzione della
ricchezza non ha più come sostegno decisivo «il lavoro immediato, eseguito
dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora», ma «lo sviluppo dell’individuo
sociale»32. Avviene un’impetuosa socializzazione della produzione, che sotto la
spinta del capitale e della conoscenza scientifica applicata all’attività
produttiva riduce drasticamente il ruolo del lavoro come ‘fonte della
ricchezza’.
Sulla base di questa acquisizione Marx sembra prospettare l’ipotesi di
un ‘crollo’ del capitalismo e dell’avvento di una successiva condizione in cui
verrebbe meno la polarizzazione antagonistica della società e nella quale
assisteremmo alla riduzione del lavoro necessario e al dispiegarsi del libero
sviluppo delle individualità in senso artistico e scientifico. Questo esito
viene però soltanto annunciato e Marx si sofferma piuttosto a tratteggiare il
movimento del capitale come un processo contraddittorio, in cui la tendenza a
ridurre il tempo di lavoro al minimo, non elimina il ruolo del lavoro come
unica misura e fonte della ricchezza. La mobilitazione di tutte le forze della
scienza e dell’organizzazione sociale continua ad essere strumentalmente
ricondotta nel perimetro della legge del valore e dell’autoriferimento del
capitale a se stesso. Questo antagonismo crea «le condizioni per far saltare in
aria»33 il modo di produzione capitalistico.
Siamo davanti a un Marx tutto concentrato nel mostrarci la
contraddizione fondamentale dello sviluppo del capitale, la sua tendenziale
insostenibilità34. Al di là di una prospettiva che può apparire squilibrata in
senso catastrofistico, ciò che non può non colpire è la forza del pensiero
marxiano quando pone al centro della propria considerazione il general
intellect, il sapere sociale diventato forza produttiva, potenza in grado di
controllare l’intero processo vitale della società35. È però importante
cogliere i chiaroscuri dell’analisi di Marx, che ha cura di sottolineare come
l’incremento del capitale fisso, cioè nello sviluppo della produzione dei mezzi
di produzione, continui ad essere la fonte di «permanenti squilibri e
convulsioni»36. Il capitale malgré lui riduce al minimo il tempo di
lavoro per l’intera società, ma ha sempre anche la tendenza a estorcere
pluslavoro. Questa contraddizione fra la crescita delle forze produttive e
l’appropriazione di pluslavoro produce una situazione che potremmo definire
potenzialmente rivoluzionaria, genera l’esigenza che la «massa operaia stessa
debba appropriarsi del suo pluslavoro», così che non sarà «più il tempo di
lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza»37.
Se ci chiediamo quale sia il senso ultimo di questo discorso marxiano,
la risposta deve condurci al cospetto di una tesi decisiva, che consiste nel
sostenere che lo sviluppo del capitale, il suo sottomettere le energie della
scienza e della tecnica, finisce col generare una nuova forma di
socializzazione rispetto a quella che costituisce la base originaria del modo
di produzione capitalistico. Marx lo dice esplicitamente quando afferma che «è
la combinazione dell’attività sociale ad assumere la veste di produttore», in
modo tale che il momento sociale non è più «posto soltanto attraverso lo
scambio»38, ma si è fatto soggetto onnipervasivo.
La società capitalistica
nasce come incontro, nel mercato, di produttori privati indipendenti e, al suo
inizio, il nesso sociale non è scontato, ma si realizza solo in quel ‘salto
mortale’ che è lo scambio delle merci, che per questo diventano protagoniste
della nascita del capitale e del suo processo di riproduzione. A questa forma di
reificazione e di espropriazione dei produttori diretti, Marx fa seguire, come
punto di approdo del suo sviluppo immanente, un’altra situazione, che se non
annulla la prima, entra con essa in una tensione fortissima. Si tratta, come
abbiamo visto, del movimento per cui l’‘intelletto sociale’ si erge come forza
produttiva, così che il lavoro del singolo «è posto come lavoro del singolo
soppresso, ossia come lavoro sociale»39. Questo, che è indicato come lo
scenario ultimo del capitalismo, vede uno sviluppo delle capacità
dell’individuo, un suo farsi egli stesso ‘capitale fisso’, portatore di un
sapere che è ormai fattore produttivo. Quel che caratterizza questa condizione
tendenziale del modo di produzione capitalistico è un attuarsi della
riproduzione a partire dalla conoscenza e non dalla fatica: a essere estorto
non è solo il pluslavoro, ma sono sempre di più le forze intellettuali degli
individui. Si tratta comunque di una socializzazione che mantiene i caratteri
dell’espropriazione, il general intellect comanda uno sviluppo che i
singoli subiscono e non controllano, uno sviluppo che resta autovalorizzazione
del capitale. La produzione è nello stesso tempo sociale e privata ed è questa
la contraddizione che induce Marx a ritenere transitorio il modo di produzione
capitalistico. Oggi possiamo dire di continuare a vivere nell’ossimorica
permanente-transitorietà di un assetto sociale che non è ancora riuscito a fare
a meno della logica del valore. La totalizzazione tecnica, che sta davanti ai
nostri occhi, si è realizzata e si perpetua sotto il segno del capitale, in
quanto ‘soggetto prepotente’ dell’intero processo di riproduzione sociale40.
L’assunzione di questo elemento decisivo ci chiede di ripartire ancora una
volta da Marx, dalla possibilità che il suo sapere critico ancor oggi ci offre
di interpretare nella prospettiva di una radicale messa in questione le forme
della socializzazione che, a livello planetario, continuano a dispiegarsi.
Note
1 Cfr. J. Habermas, Conoscenza
e interesse, trad. it. di G. Rusconi, Laterza, Bari 1970, p. 27 ss.; si
vedano anche le conclusioni di Id., Lavoro e interazione. Osservazioni sulla
filosofia dello spirito jenese di Hegel, trad. it. di M.G. Meriggi,
Feltrinelli, Milano 1975.
2 «Marx non ha
sviluppato questa idea della scienza dell’uomo, l’ha anzi sconfessata
equiparando la critica alla scienza naturale» (J. Habermas, Conoscenza e
interesse, cit., p. 67).
3 Mi sembra
importante e significativo che, almeno fino a un certo punto della sua
evoluzione di pensiero, Habermas continui a chiedersi: «perché continuare
allora a insistere sulla tradizione teorica marxista?» (J. Habermas, Per la
ricostruzione del materialismo storico, trad. it. di F. Cerutti, Etas
Libri, Milano 1979, p. 37
4 K. Marx, Manoscritti
economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili,
trad. it. di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 263.
5 Ivi, p.
264.
6 Per
un’esplicitazione di questa lettura della relazione servo padrone mi sia
consentito di rimandare a P. Vinci, “Coscienza infelice” e “anima bella”.
Commentario della Fenomenologia dello spirito, Guerini e Associati, Milano
1999, p. 175 ss.
7 Per una
discussione critica su questa tematica mi sembra ancora utile partire da S.
Lan-ducci, Hegel. La coscienza e la storia, La Nuova Italia, Firenze
1976, pp. 73-105.
8 Cfr. K. Marx, Introduzione
a Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica I,
trad. it. a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-40.
9 A.
Honneth, Arbeit und instrumentales Handeln, in Id., U. Jaeggi, Arbeit,
Handlung, Normativi-tät: Theorien des Historischen Materialismus II,
Frankfurt a. M. 1980, pp. 185-233; trad. it. parziale in M. Protti (a cura di),
Dopo la scuola di Francoforte. Studi su J. Habermas, Unicopli, Milano 1984, pp. 143-169.
10 Credo che
l’approfondimento di questi tre livelli del discorso hegeliano sia
indispensabile per comprendere quanto la Fenomenologia dello spirito offra
in direzione di uno sviluppo di una filosofia della prassi.
11
A. Honneth, Arbeit und Anerkennung. Versuch einer Neubestimmung, in
“Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 56, 3, 2008, pp. 327-341, trad. it. di
C. Belli, infra, pp. 7-22.
12
Sull’atteggiamento di Marx riguardo alla tradizionale distinzione fra praxis
e poiesis mi sembrano utili le indicazioni presenti in E. Balibar, La
filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, manifestolibri, Roma 1994, p. 58
ss.
13 K. Marx, Il
Capitale, trad. it. di M.L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 73.
14Ivi, p. 110. 15Ivi,
p. 105.
15Ivi, p.
105.
16Ivi, p. 140.
17 Ivi, p.
112.
18 Per una recente
discussione sulle difficoltà inerenti alla teoria del valore-lavoro di Marx e
una ricostruzione delle stratificazioni interpretative cfr. S. Petrucciani, Marx,
Carocci, Roma 2009, p. 193 ss. Non mi nascondo le possibili aporie della
impostazione marxiana, ma non mi sembra che esse le impediscano di esplicare il
suo essenziale compito critico nei confronti del modo di produzione
capitalistico.
19 K. Marx, Manoscritti
economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili,
cit., pp. 193-205.
20 Condivido
l’analisi che su questo punto viene svolta in L. Colletti, Il marxismo e
Hegel, Laterza, Bari 1969, p. 383 ss.
21 K. Marx,
Lavoro salariato e capitale, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti,
Roma 1960, p. 48.
22 È a questo
aspetto che Hans Jürgen Krahl collega il carattere “trasformativo” della
critica dell’economia politica di Marx e la sua critica a Habermas, cfr. Id., Produzione
e lotta di classe, in Id., Costituzione e lotta di classe, trad. it.
di S. De Waal, Jaca Book, Milano 1973, pp. 415-438.
23 K. Marx, Il
Capitale, cit., p. 208.
24 Ivi, p.
778.
25 Nei Grundrisse,
polemizzando con i socialisti proudhoniani Marx dichiara che «il sistema del
denaro è effettivamente il sistema dell’uguaglianza e della libertà, e che
quegli elementi di disturbo […] sono disturbi immanenti al sistema stesso, e
appunto la realizzazione dell’uguaglianza e della libertà che si mostrano come
disuguaglianza e illibertà» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica I, cit., p. 219).
26 Marx si esprime
in questi termini: «Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso
appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano
a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione
delle sue cellette di cera. Ma quel che fin da principio distingue il peggiore
architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella
sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge
un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che
quindi era già presente idealmente» (K. Marx, Il Capitale, cit., p.
212).
27 Sulla
sottomissione reale del lavoro al capitale cfr., K. Marx, Il capitale. Libro
I capitolo VI inedito, trad. it. di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze
1969, p. 68 ss.
28 «È fenomeno
comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo
lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è
l’operaio ad ado-prare la condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione
del lavoro ad adoprare l’operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere
soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua
trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone
all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro
morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro vivente» (Ivi,
p. 467).
29 K. Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica II, cit., pp. 10-11.
30 Ivi, p.
400.
31 Ibidem.
32 Ivi,
p.401.
33 Ivi, p.
402.
34 Per una
valutazione di questa sezione dei Grundrisse in polemica con Toni Negri,
(Id., Goodbye Mister Socialism, Feltrinelli, Milano 2006) cfr. S. Žižek,
La crisi della negazione determinata, in Id., In difesa delle cause
perse, trad. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2009, p. 435 ss.
Credo che la cautela di Žižek verso il ritenere il General Intellect “incompatibile”
con il capitalismo sia condivisibile. Marx sembra, in queste pagine dei Grundrisse,
ricondurre il superamento del capitalismo a una logica oggettiva e a trascurare
il ruolo attivo di soggetti promotori di una prassi emancipativa.
35 «Lo sviluppo del
capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge,
è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo
vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general
intellect, e rimodellate in conformità ad esso» (ivi, p. 403).
36 Ivi,
p. 404.
37 Ivi,
p. 405.
38 Ivi,
pp. 406-407.
39 Ivi, p.
407.
40 K. Marx, Il
Capitale, cit., p. 187.
http://www.centroriformastato.org/ |