16/11/13

Il lavoro come rapporto sociale in Marx

Karl Marx ✆ Sojo 
>> “Da Wiesegrund la fantasmagoria viene definita un bene di consumo nel quale nulla più deve rammentare come esso è sorto. Tale bene viene reso magico, dal momento che il lavoro in esso accumulato appare come sovrannaturale e sacro nell’istante medesimo in cui esso non si dà più a conoscere come lavoro” | W. Benjamin, Das Passagen-Werk

Paolo Vinci  |  La distinzione fra agire strumentale e agire comunicativo, che è al centro del pensiero di Jürgen Habermas, ha il suo luogo di nascita e una delle sue applicazioni più significative nel confronto con la visione dell’attività lavorativa che ci offre Karl Marx, sia nei suoi scritti giovanili che nelle opere economiche della maturità1. L’elemento decisivo della differenziazione critica habermasiana sta nell’esplicita volontà di spezzare il nesso, considerato troppo diretto, fra i modi di produzione e le forme di coscienza. Abbiamo dunque il riproporsi di un pregiudizio deterministico verso la concezione materialistica della storia che avrebbe come suo esito inevitabile un’equiparazione fra la teoria della società e la scienza della natura2.  Conseguentemente a una “svolta linguistica” che coinvolge l’impianto di fondo della sua filosofia Habermas ritiene di dover ricondurre le configurazioni di potere che fissano la ripartizione degli strumenti di produzione e le modalità delle loro forme di proprietà, all’istituzionalizzarsi di interazioni mediate
simbolicamente. Il rapporto fra gli uomini non può, quindi, essere assimilato a quello fra l’uomo e la natura, in quanto quest’ultimo appare caratterizzato da un’ineliminabile istanza di appropriazione e di dominio. Habermas è, invece, mosso dall’auspicio della creazione di norme che favoriscano relazioni umane improntate alla reciprocità e alla libertà. Si comprende, allora, come il suo bidimensionalismo nasca da una reazione di difesa nei confronti dei rischi di un’enfasi eccessiva sulle “forze produttive”, che renderebbe disarmati davanti al pericolo maggiore che sembra correre la realtà contemporanea, quello di una totalizzazione della tecnica, che finirebbe per colonizzare tutti gli ambiti vitali della società. Solo il terreno delle relazioni intersoggettive può vedere emergere quelle pretese normative dotate di requisiti razionali che Habermas considera il solo sviluppo auspicabile dell’istanza trasformativa del pensiero di Marx3.

L’esigenza di evitare qualsiasi dipendenza automatica delle forme di interazione dai processi produttivi può apparire in sé legittima, perché indiscutibilmente le dinamiche culturali e linguistiche possono seguire logiche non direttamente riconducibili alla dimensione produttiva, ma ciò non deve a mio avviso necessariamente significare la rinuncia al tentativo di una visione unitaria della società, allo sforzo di individuarne i meccanismi di fondo, quelli che propriamente ci permettono di comprendere le contraddizioni che ancora ci dominano. Credo che l’impegno teorico di Marx vada in questa direzione e che il suo concetto di lavoro, inquadrato nella giusta prospettiva, mantenga intatta la sua forza di illuminazione nei confronti dei processi sociali che continuiamo a subire.
I

Habermas è consapevole del fatto che quella marxiana si presenta come una concezione che coglie il carattere intrinsecamente relazionale dell’attività lavorativa, ma ritiene comunque che la prassi emancipativa vada distinta da quello che è essenzialmente un processo di trasformazione della natura. Da parte mia, però, credo che sia possibile mettere Habermas in contraddizione con se stesso e assumere come un’acquisizione fondamentale del pensiero di Marx il suo ritenere il lavoro come sempre inscindibilmente legato alle relazioni fra gli uomini. È in questa prospettiva che Marx iscrive il lavoro nel movimento della storia come processo di autocostituzione del genere umano e lo qualifica quindi in termini non esclusivamente poietici. Per comprendere questo aspetto decisivo dobbiamo riflettere su quanto sia importante per Marx mettere a frutto, nonostante il rifiuto della sua impostazione speculativa del pensiero di Hegel, un’eredità esplicitamente dichiarata: «L’importante nella Fenomenologia hegeliana e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione»4. Quel che va colto in queste affermazioni marxiane è il loro contenere un’intrinseca istanza eman-cipativa: l’uomo potrà «esplicare realmente tutte le sue energie di genere (Gattun-gskräfte)» solo a partire da un «risultato storico» raggiunto attraverso un «agire in comune»5. Il lavoro chiede una prassi trasformativa perché è già in se stesso un’attività di tale natura, la forma della ‘manifestazione di sé’ dell’uomo.

Mi sembra evidente come dietro questo discorso di Marx ci sia la ricezione del fatto che la Fenomenologia dello spirito, nella sua trattazione della relazione servo-padrone, iscrive il lavoro nella dinamica del divenir se stessa dell’autocoscienza e quindi in un processo che vede il proprio compimento nel pieno esplicarsi del tratto costitutivo della Selbstbewusstsein, la relazionalità, quel che per l’appunto accade nel riconoscimento reciproco fra le autocoscienze6. L’attività lavorativa del servo non ha in se stessa un carattere emancipativo, ma rivela comunque dei tratti paradigmatici riguardo al concetto di lavoro che verranno fatti propri da Marx7. L’arbeiten è visto come un formare, un rendere conforme l’oggetto al soggetto, così che questo viene a rispecchiarsi, a riconoscersi nel suo prodotto. Si tratta di un riconoscimento che, al livello del lavoro servile, Hegel considera assolutamente parziale, in quanto privo di quella reciprocità che si può instaurare solo in una dimensione intersoggettiva, ma che comunque esprime quel movimento del ritrovare sé nell’altro che fa del lavoro un passaggio necessario nel cammino dell’autocoscienza.

Nel suo grandioso tentativo di ricostruire il processo storico di formazione della specie umana partendo dalle leggi di riproduzione della vita sociale Marx riprende la visione hegeliana del lavoro. L’attività produttiva appare innanzitutto come il medium fra l’uomo e la natura, essa coincide con “l’essenza autoafferrantesi dell’uomo”, ma non potrà che presentarsi sempre in condizioni sociali storicamente determinate. Il nucleo della visione marxiana sta proprio nel legare il ricambio organico fra l’uomo e la natura alle forme storiche del suo darsi, così che non è il rapporto di dominio sulla natura a caratterizzare il lavoro, ma il suo inscriversi di volta in volta in assetti sociali a carattere storico. Tutto ciò appare con la massima chiarezza in particolare nell’Introduzione del ’57 ai Grundrisse in cui Marx ci presenta il lavoro come forma intrinsecamente sociale e l’attività produttiva viene mostrata come necessariamente mediata dalla distribuzione e dallo scambio8.

II

Il più importante allievo di Habermas, Axel Honneth, condivide la preoccupazione di preservare l’autonomia delle relazioni interindividuali e quindi ribadisce con forza la necessità di stabilire l’irriducibilità fra la dimensione morale dialogica dell’agire e quella della produzione. Il bidimensionalismo si giustifica con la necessità di preservare la cooperazione intersoggettiva mirante alla liberazione dal do-minio9. Honneth, però, fornisce un personale contributo all’approfondimento del rapporto fra il lavoro e la prassi emancipativa. Quest’ultima andrebbe svincolata da riferimenti privilegiati alla dimensione poietica, che ha ormai perso il carattere di motore decisivo del mutamento sociale, collegato a istanze di realizzazione che nascono da forme di comportamento più variegate e differenziate. Se su questo aspetto la sua posizione potrebbe sembrare in sintonia con quella di Habermas, Honneth però non evita di mettere in questione l’evidente riduzionismo presente nel far coincidere il marxiano concetto di lavoro con la nozione di ‘agire strumentale’. Il lavoro come manifestazione vitale che troviamo a partire dai Manoscritti del ’44 vuole concentrare in sé l’estrinsecazione dell’insieme delle capacità umane e viene direttamente coniugato con l’esigenza di relazioni interindividuali in grado di realizzare l’intrinseca socialità dell’ente naturale generico, vale a dire dell’uomo così come lo intende Marx.

Honneth sottolinea come la visione marxiana del lavoro arrivi a rovesciare una bimillenaria connotazione negativa dell’attività lavorativa e della fatica umana, che parte dall’antichità greca e si sviluppa lungo l’intera tradizione cristiana. Marx, sulla base di una lettura quanto mai acuta della Fenomenologia dello spirito, riesce a muoversi al livello della “svolta” hegeliana, permettendoci di cogliere l’intricata trama che, in Hegel, annoda il lavoro all’attività formativa dell’artista e infine all’agire umano in senso sociale e politico10.

Proponendosi di misurare la capacità del concetto marxiano di lavoro di essere ancor oggi un paradigma normativo valido per la trasformazione sociale, Honneth svolge argomentazioni volte a denunciarne un difetto di genericità che lo rendono incapace di dar conto della ricchezza e multiformità dei comportamenti individuali e collettivi. L’attività lavorativa in Marx oscillerebbe fra il sovraccarico concettuale e l’indeterminazione categoriale: sarebbe una nozione la cui eccessiva apertura di significato finirebbe per impedirle di mordere efficacemente la realtà odierna, di svolgere una funzione di possibile fattore emancipativo. La radice di questo limite strutturale consisterebbe in una paradossale vicinanza di Marx a Schiller, alla sua visione dell’uomo armonico e totale capace di esprimersi nella pienezza di un’attività insieme razionale e sensibile. In questo modo il lavoro assumerebbe il carattere di Bildung, la forma di un’autoggettivazione formativa delle facoltà dell’individuo nel prodotto, il quale avrebbe il decisivo effetto retroattivo di mostrare al suo artefice come fuori di lui esista qualcosa che egli può considerare “suo”, lo specchio di ciò che più intimamente lo caratterizza.

Quel che non mi sento di condividere di questa ricostruzione del lavoro in Marx è soprattutto l’isolamento dei tratti di questa nozione, senza seguirne gli sviluppi nel più generale progetto della critica dell’economia politica. Honneth ha buon gioco a dichiarare che il modello del concetto marxiano di lavoro sarebbe l’attività artigiana-manufatturiera, intesa sulla base del postulato di un trasferimento espressivo delle capacità umane nel prodotto, ma non dà conto di come Marx articola il suo discorso in relazione all’introduzione delle macchine e alle linee di tendenza del capitalismo. Collocandosi su un piano sociologico, Honneth sottolinea che l’attuale configurazione sociale non offrirebbe più alcun esempio di tale tipo di attività, impedendole di essere assunta come elemento normativo di una critica immanente. Una tale visione di produzione organica, di attività non parcellizzata risulta allora così lontana dalle condizioni lavorative odierne, da renderla incapace di svolgere una funzione di alternativa nei loro confronti. Solo dall’interno degli effettivi rapporti di lavoro che troviamo nella società di oggi possono essere ricavate delle norme morali dotate dello statuto di pretese razionali e quindi di efficacia nel dibattito pubblico11.

Se non si può non abbandonare l’ideale marxiano di realizzazione individuale e di cooperazione creativa fra i lavoratori, ciò tuttavia non deve significare la rinuncia a mettere in questione le forma determinate dell’attuale organizzazione del lavoro e l’abbandono della richiesta da parte degli agenti produttivi di più estese forme di controllo sui meccanismi del processo lavorativo. Honneth auspica dunque una visione del mercato che non lo consideri solo il motore dello sviluppo economico, ma lo veda anche come possibile fattore di integrazione sociale, estendendo la tematica del riconoscimento, con la sua istanza di giustizia, ai contenuti stessi dell’attività lavorativa, i quali andrebbero valorizzati nella prospettiva del loro contributo al bene comune.

Ridare centralità alla categoria di lavoro e farne l’asse per un’ulteriore problematizzazione del paradigma del riconoscimento, che in questo modo viene esteso e precisato anche in direzione di questioni legate all’attività produttiva, può essere di per sé un passo degno di attenzione, così come la esplicita presa di distanza sulla valutazione habermasiana di un Marx legato a una visione del lavoro come agire strumentale. Questi aspetti positivi non eliminano, però, il fatto che Honneth nei suoi contributi non entra davvero nel merito della posizione di Marx, ma resta prigioniero della sua teoria del riconoscimento troppo legata alla questione della ‘stima sociale’ e quindi della conferma intersoggettiva. Manca esattamente il misurarsi con il nucleo critico del pensiero marxiano che si basa su un nesso immanente fra le forme della produzione e i rapporti sociali.

III

Le considerazioni di Habermas e Honneth ci sollecitano a un “ritorno” a Marx, ci spingono verso un rinnovato tentativo di comprendere il suo concetto di lavoro, nello sforzo di afferrare quale sia lo statuto del suo discorso, vale a dire in che misura la sua analisi dell’attività lavorativa non sia separabile dalla critica della società capitalistica, intesa come il frutto di un modo di produzione da considerare transitorio e superabile. Solo in questo quadro mi sembra possibile porre il problema del rapporto fra la ‘prassi rovesciante’ e l’attività lavorativa vera e propria e quindi della misura in cui l’istanza emancipativa del pensiero di Marx riesca a evitare il rischio di un suo riduzionismo a un agire meramente poietico e strumentale12.

Non posso non partire dalla prima sezione del Capitale, dall’analisi della merce. In questo inizio «difficile», affidato alla massima «forza dell’astrazione», compare quella trattazione della «natura duplice del lavoro contenuto nella merce» che Marx dichiara orgogliosamente di essere il primo ad «aver dimostrato criticamente», affermando che essa costituisce «il perno intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica»13. La duplicità del lavoro rimanda all’antagonismo insito nella merce, al suo ‘essere due cose in una’, valore d’uso e valore. Al valore d’uso corrisponde una ‘attività produttiva determinata dal suo scopo’, un lavoro utile che si esprime in un complesso multiforme di lavori qualitativamente diversi. Dietro di esso si trova sempre una divisione del lavoro che è qualcosa che non può mancare in qualsiasi forma di società, così che il lavoro utile costituisce la forma del ricambio organico fra l’uomo e la natura, la mediazione costitutiva della vita umana e, considerato in quanto tale, prescinde dal riferimento specifico a una società determinata. Al valore, all’elemento che fa sì che le diverse merci siano confrontabili e, nella loro diversità, rese uguali nello scambio, corrisponde, invece, il lavoro definito ‘astratto’, inteso come puro dispendio di energia umana, il lavoro misurato nella sua durata temporale, una quantità stabilita in base a una media sociale e che solo occasionalmente può coincidere con il tempo di lavoro effettivamente impiegato per produrre una determinata merce.

Dobbiamo ben comprendere cosa ci vuole dire Marx con questa distinzione fra lavoro concreto e lavoro astratto. Essa non afferma che esistono due specie di lavoro, non indica due attività che in qualche modo possano esser compiute separatamente. Il lavoro è sempre qualcosa di concreto ed è sempre compiuto da un qualche individuo, ma nello stesso tempo ha un carattere sociale, è iscritto nell’attività complessiva della società. Il problema è allora afferrare la relazione fra questi due aspetti e la distinzione fra lavoro concreto e astratto è volta a illuminare la modalità specifica della socializzazione del lavoro in una società in cui la merce sia la ‘forma elementare’ della ricchezza. Il lavoro astratto è il lavoro che crea valore, il carattere decisivo della merce in quanto prodotto del lavoro destinato allo scambio. La merce non compare con il modo di produzione capitalistico, ma solo con esso diventa la ‘cellula’ dell’intera società. Proprio nella prima sezione del Capitale, nel momento in cui la sua esposizione si mantiene a un grande livello di astrazione Marx è in realtà già intento a perseguire l’obiettivo fondamentale del caratterizzare la società borghese come storicamente determinata e quindi non comprensibile sulla base di una forma naturale e definitiva dell’organizzazione economica. Per far emergere la storicità del modo di produzione capitalistico Marx assume, per così dire, un modello differenziale, compie un “balzo in avanti” nella storia e dichiara: «immaginiamo […] un’associazione di uomini liberi, che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale»14. È questa una forma di società che per quanto contempli una divisione del lavoro non contiene al suo interno la produzione di merci: in essa non si lavora in vista dello scambio, ogni lavoro determinato è compiuto per la società, dando vita a un valore d’uso sociale che è appropriato direttamente dalla comunità, la quale si farà poi carico di distribuire la ricchezza disponibile.

A Marx interessa far emergere una situazione in cui si dia una simultaneità fra lavoro individuale e sociale e rispetto alla quale possa venir colta la differenza con quanto accade nella società borghese, in cui, al contrario, i lavori individuali si socializzino nella forma del loro opposto. I lavori sono sempre e, non possono non esserlo, concreti e utili ma, nel modo di funzionare di una società basata sullo scambio, sono assunti come lavoro uguale, “senza qualità”. Quel che conta è il carattere di questa “riduzione” e perché essa avvenga. Il lavoro astratto è la modalità della socializzazione del lavoro a partire dalla produzione generalizzata di merci. Questa presuppone l’esistenza di produttori privati indipendenti, che decidono autonomamente cosa e quanto produrre e che si incontrano solo nel mercato attraverso lo scambio di merci. Il valore in quanto coagulo, cristallizzazione di lavoro umano costituisce il nesso fra i produttori, la forma del loro rapporto sociale.

Marx afferma tutto ciò con assoluta chiarezza:
poichè i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose15.
L’astrazione dalle differenze dei corpi delle merci e dai lavori concreti è ciò che si attua quotidianamente nello scambio e quest’ultimo costituisce il rapporto sociale originario della società borghese. Siamo dunque davanti ad un’astrazione “reale” che si annida nel più profondo della nostra società e solo a partire dalla decifrazione del come e del perché essa avviene, possiamo comprendere i meccanismi fondamentali che costituiscono il modo di produzione capitalistico.

Lo scambio come equiparazione che rende uguali i diversi, come una forma di mediazione sociale, che prescinde dalle differenze materiali delle merci e dalle concrete qualità dei lavori, rimanda a una specifica forma di produzione, basata su produttori privati indipendenti. Abbiamo una società in cui ognuno può decidere autonomamente quanto e cosa produrre e solo il mercato renderà effettivo, ‘attuerà’ il prodotto del lavoro e il lavoro stesso. Ciò significa che la realizzazione delle diverse forme di lavoro, vale a dire, la loro concreta esistenza sociale, risulterà in partenza segnata da un decisivo rovesciamento, il concreto assumerà il carattere dell’astratto e il soggettivo quello dell’oggettivo.

A questo punto non deve sfuggirci la profonda contraddittorietà del processo che abbiamo davanti, e che Marx non si stanca di indicare come portatore di caratteristiche ‘teologiche’ e ‘metafisiche’. A partire dalla merce come ‘forma elementare’ della ricchezza e da un lavoro privato in se stesso orientato allo scambio, la società assume il carattere di ‘geroglifico’, di qualcosa da decifrare per non restare irretiti nel ‘mistico velo di nebbia’ che si sprigiona dai suoi processi costitutivi.

Solo partendo dalla consapevolezza critica di essere al cospetto di una società basata sul lavoro eseguito da produttori privati indipendenti sarà possibile mettere in luce la specifica dinamica di socializzazione che in essa viene a dispiegarsi. Esclusivamente in questo modo sarà possibile fare i conti con il presentarsi, da un lato, di un dominio delle cose, che appaiono assumere qualità sociali e, dall’altro, con un vigere onnipervasivo dell’astratto, essendo il valore una ‘oggettività spettrale’, qualcosa di assolutamente opposto alla dimensione materiale e sensibile dei prodotti del lavoro. Tutto il discorso sul feticismo rimanda al carattere sociale peculiare del lavoro produttore di merci: solo prendendo le mosse dall’individuazione della sua natura diventa possibile denunciare come la nostra società sia caratterizzata a un tempo dalla reificazione dei rapporti sociali, affidati alle cose e dalla centralità del valore, il cui carattere “immateriale”, assolutamente inafferrabile ai sensi, appare in diretto contrasto con ogni forma visibile della ricchezza.

L’aspetto che a Marx preme di più sottolineare riguarda, a partire dall’indipendenza dei produttori, il farsi indipendente della connessione, del nesso sociale complessivo. Il rapporto sociale inerisce alle cose e quindi si rende autonomo rispetto agli uomini, si separa dagli individui ai quali dovrebbe intrinsecamente appartenere. Da qui la denuncia del nesso di indipendenza-dipendenza come caratterizzante questo tipo di assetto sociale: l’individualismo si rovescia in un «sistema di dipendenza onnilaterale e imposta dalle cose»16. L’esito della distinzione fra lavoro utile e lavoro astratto è, allora, la denuncia del funzionamento “schizofrenico” di una società in cui il rapporto fra gli individui sfugge al loro controllo cosciente e finisce col dominarli con la fatalità di un processo naturalistico. Lungi dal costituire un concetto sotto cui raccogliere la molteplicità dei lavori concreti, una generalizzazione della nostra mente, il lavoro astratto è la forma sociale del lavoro di una società di produttori privati indipendenti.
IV

La prima sezione del Capitale è stata a volte interpretata come il risultato dell’assunzione da parte di Marx di un modello di società completamente ideale, la società mercantile semplice, la quale non corrisponderebbe a nessuna effettiva fase dello sviluppo storico. In realtà, Marx inizia da subito a parlarci del modo di produzione capitalistico, ma lo fa attraverso una Darstellung che implica lo sviluppo immanente di categorie semplici come quelle di ‘merce’ e ‘denaro’, dalle quali emergeranno poi tutte le altre e, in particolare, quella decisiva di ‘capitale’. Il filo conduttore del questo discorso è costituito dal nesso fra valore e lavoro e il suo carattere critico viene a fondarsi esattamente su una domanda in più rispetto a Smith e Ricardo, sul chiedersi “perché” il lavoro viene ad esprimersi nel valore, arrivando così a comprendere che la «la forma di valore del prodotto di lavoro è la forma più astratta, ma anche la più generale del modo borghese di produzione»17, che viene in questo modo caratterizzato come forma particolare di produzione sociale, e così determinato storicamente. Quindi, coloro che trascurano di cogliere la specificità storica della forma valore cadono nell’errore fatale di intenderla come eterna forma naturale della produzione sociale18. Nel concludersi in questo modo il primo capitolo del Capitale mostra l’andamento profondo del procedere marxiano, che fin dall’inizio assume come proprio oggetto la società capitalistica e muove da un cominciamento che, se isola astrattamente alcune categorie, lo fa solo al fine di rendere più perspicuo il loro concatenamento logico e più efficace la loro capacità di farci comprendere la realtà sociale da decifrare.

Il modo di produzione capitalistico si dispiega a partire da una separazione strutturale fra la qualità e la quantità, fra la ricchezza materiale e il valore, fra l’elemento soggettivo umano e un nesso sociale reificato che procede secondo leggi ‘naturali’. Vale la pena, allora, di chiedersi ancora una volta in che termini la separazione fra lavoro concreto e lavoro astratto rimandi al ‘lavoro alienato’ dei Manoscritti economico-filosofici del 184419. Qui il lavoro era presentato come un movimento di estrinsecazione, un farsi altro del soggetto che nelle specifiche condizioni della società borghese, basata sulla proprietà privata, interrompeva il suo andamento irrigidendosi al cospetto di un oggetto separato, che impediva al lavoratore di riconoscersi in esso e di considerarlo così qualcosa di proprio, vale a dire la manifestazione delle proprie capacità vitali. All’indipendenza dell’oggetto corrispondeva allora una lacerazione interna al soggetto che, non realizzandosi nella propria attività, risultava scisso fra il suo aspetto particolare e concreto e quello propriamente umano e sociale. Si può dire, allora, che tanto il lavoro astratto, che quello alienato, sono il contrassegno di una separazione dell’individuo umano da quella che Marx considera la sua caratteristica specifica, la capacità di relazione: il nesso sociale si autonomizza e assume la forma di un potere superiore ed estraneo.

L’importanza dei Manoscritti sta esattamente nel farci vedere come l’uomo in quanto ‘ente naturale generico’ si muova contemporaneamente nella natura e nella società. Sulla base dell’universalità del suo genere (Gattung) ogni individuo nel rapporto con sé è anche rapporto con l’altro e con la natura, la quale, però, per quanto inclusa in questo orizzonte, mantiene nello stesso tempo la sua indipendenza, il suo essere una condizione esterna della dimensione umana. Sulla base di questa concezione, Marx stabilisce che i rapporti interumani non possono essere isolati dal rapporto con la natura, la quale, però, resta comunque un “fuori”, qualcosa che dobbiamo e possiamo sottomettere e trasformare20. La dimensione intersoggettiva e il nostro modo di rapportarci alla natura non possono, dunque, venire artificialmente separati:
nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali21.
V

Queste considerazioni marxiane sull’attività lavorativa, come costituita in modo immanente dalla relazioni sociali in cui si svolge, non sono soltanto il segno della continuità del suo pensiero, ma ci introducono al passo successivo che dobbiamo compiere: la considerazione della forza-lavoro come merce e il suo ruolo nella formazione e nella riproduzione del capitale. Per comprendere questo sviluppo estremamente significativo, dobbiamo di nuovo aver chiaro lo statuto del discorso di Marx, il suo esporre delle forme che permettono di decifrare criticamente l’apparire storicamente determinato degli elementi costanti propri dell’attività economica dell’uomo. In questa prospettiva non c’è nel suo discorso alcuna nozione che non sia diretta espressione dei rapporti sociali del modo di produzione capita-listico22.

L’introduzione della forza lavoro quale merce assolutamente specifica, capace di creare un valore superiore a quello da essa posseduto nel momento dello scambio, è operata da Marx sottolineando che essa richiede quelle condizioni storiche che saranno descritte ampiamente nel capitolo sull’accumulazione originaria. La vendita della forza-lavoro presuppone l’affacciarsi sulla scena sociale di un individuo libero, che si presenta come una persona capace di stipulare un contratto. La compra-vendita del lavoro presuppone, dunque, l’incontro di due soggetti giuridicamente uguali, che si muovono sul terreno della circolazione, la quale per Marx costituisce: «un vero Eden dei diritti innati dell’uomo»23. Il lavoratore aliena la sua capacità lavorativa attraverso un atto di libera volontà, da pari a pari con il possessore di denaro. Marx sottolinea, però, il carattere duplice di questa libertà: se da un lato essa è indice della non appartenenza diretta dei lavoratori ai mezzi di produzione «come gli schiavi, i servi della gleba, ecc.», dall’altro esprime il fatto che i mezzi di produzione sono stati espropriati a chi li possedeva, «il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro»24.

Se la forza-lavoro è merce, così che il suo uso è un possesso di chi l’ha acquistata, il lavoro è esattamente ciò che si dispiega in questo consumo della forza-lavoro. In tal modo il sistema dello scambio, come sistema dell’eguaglianza, mostra di essere indissolubilmente connesso con l’ineguaglianza, con il controllo delle energie fisiche e intellettuali del lavoratore, che le ha vendute alienando qualcosa di intrinseco alla propria individualità vivente25.

Su questa base Marx opera un’ulteriore passaggio della sua argomentazione, la distinzione fra il processo di lavoro e il processo di valorizzazione, che ripropone, a un livello dotato di maggiore concretezza e determinazione, quella fra lavoro concreto e lavoro astratto. Anche in questo caso bisogna capire il senso del procedere marxiano: parlare di due processi non significa prospettare una loro esistenza distinta. Si tratta, al contrario, di mettersi in grado di afferrare in che misura il processo lavorativo, che in quanto tale è un’astrazione e può riguardare ogni società, si realizzi nel modo di produzione capitalistico come processo di valorizzazione. In sé il processo lavorativo rimanda al lavoro come mezzo per la trasformazione della natura, al lavoro inteso nei suoi caratteri propriamente umani come un operare conforme a un fine, in cui il prodotto è la realizzazione di un’idea, di un progetto presente nella mente dell’individuo26.

Il processo di valorizzazione, dal canto suo, vede l’operaio lavorare sotto il comando del capitale, che lo considera una parte di se stesso, un momento del proprio movimento di autovalorizzazione. Marx sottolinea come scopo di questo processo non sia il valore d’uso, ma il valore, l’oggettivazione di energia lavorativa umana in una quantità superiore al valore della forza lavoro. Certo, questo lavoro deve produrre valori d’uso, il valore deve materializzarsi in essi, ma esso è indifferente a ciò che caratterizza propriamente i valori d’uso, la loro forma sempre determinata. Il lavoro morto, passato, incorporando il lavoro vivo, autentica fonte del valore, cresce su se stesso e questo processo ci mostra l’autentica natura del capitale, il suo essere un rapporto sociale fra il possessore di denaro e di mezzi di produzione e il lavoro salariato.

Ancora una volta il fine teorico che Marx si propone viene a delinearsi nella contrapposizione con l’economia politica, nel mostrare che il capitale non è semplicemente uno strumento necessario alla realizzazione del processo produttivo, ma consiste di determinati contenuti storico-sociali. Mentre gli “economisti” riducono il processo di valorizzazione al processo lavorativo e quindi il lavoro salariato al lavoro in senso generico, Marx insiste sulla natura del rapporto sociale di produzione che si sviluppa a partire dall’incontro fra il capitale e i possessori della forza lavoro e sul fatto che, all’interno di questa relazione, è il lavoro umano a costituire la fonte del valore e del plusvalore.

A partire da qui emerge come il modo di produzione capitalistico ruoti intorno alla questione del pluslavoro, dell’incremento del valore del capitale e come ciò esiga un aumento della produttività che introduce mutamenti decisivi nel ruolo della forza lavoro e nella natura dello stesso lavoro. L’ergersi del capitale a soggetto prepotente del processo di produzione, quella che Marx chiama la “sussunzione reale”, consiste in una rivoluzione costante delle condizioni produttive che coinvolge tanto la forza lavoro, quanto i mezzi di produzione27.

Le descrizioni di Marx su come l’operaio venga violentemente inglobato all’interno del processo produttivo hanno fatto epoca. Ritroviamo una forma di lavoro astratto già nel semplice impiegare contemporaneamente una massa considerevole di forza lavoro, in cui i tempi e i modi del singolo sono sussunti nel collettivo. Nella manifattura poi il lavoro socialmente necessario non appare più come un “risultato” dello scambio, ma opera già dentro il processo produttivo, come suo requisito tecnico. La produttività implica un certo rapporto fra prodotto e tempo di lavoro a cui il singolo è necessariamente costretto a sottomettersi. Questa è la legge immanente dello sviluppo della grande industria e del sistema delle macchine, a cui il lavoratore è “adattato”, con uno stravolgimento delle funzioni lavorative e la nascita del cosiddetto ‘operaio parziale’, abile soltanto nello svolgere una singola operazione28.

Alla dispersione e anarchia della società borghese corrispondono la concentrazione e il dispotismo della fabbrica meccanizzata e questo aspetto non va perso di vista anche nella valutazione di quello che sembra il punto di approdo della visione marxiana, il confronto con «l’enorme influenza civilizzatrice del capitale» che vede tra l’altro «la coltivazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la sua produzione come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni»29. Siamo nelle pagine dei Grundrisse in cui l’appropriazione del lavoro vivo compiuta dal capitale viene coniugata con l’uso della scienza e con la sua applicazione alla produzione. Qui Marx, innanzitutto, sottolinea la trasformazione delle «operazioni degli operai in operazioni meccaniche»30, ma a un certo punto mostra come il macchinismo venga a svolgere una funzione autonoma e finisca con il subentrare al posto del lavoro vivo. Abbiamo un andamento della produzione che, se in una determinata fase conduce ad una ‘svalutazione’ del lavoro operaio e ad una sua contrapposizione ‘tangibile’ nei confronti del capitale, successivamente, «nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro»31. Avviene un cambiamento radicale nella produzione e nella valutazione della ricchezza: la scienza e la tecnica hanno un’efficacia produttiva che ridimensiona il ruolo del tempo di lavoro. Il processo di produzione dispiega una ‘potenza’ che incide sullo stesso lavoro astratto. L’operaio non e più direttamente collegato allo strumento, ma sta in una nuova posizione tutta da definire rispetto all’appropriazione della natura inorganica attraverso il processo industriale. In questo modo la produzione della ricchezza non ha più come sostegno decisivo «il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora», ma «lo sviluppo dell’individuo sociale»32. Avviene un’impetuosa socializzazione della produzione, che sotto la spinta del capitale e della conoscenza scientifica applicata all’attività produttiva riduce drasticamente il ruolo del lavoro come ‘fonte della ricchezza’.

Sulla base di questa acquisizione Marx sembra prospettare l’ipotesi di un ‘crollo’ del capitalismo e dell’avvento di una successiva condizione in cui verrebbe meno la polarizzazione antagonistica della società e nella quale assisteremmo alla riduzione del lavoro necessario e al dispiegarsi del libero sviluppo delle individualità in senso artistico e scientifico. Questo esito viene però soltanto annunciato e Marx si sofferma piuttosto a tratteggiare il movimento del capitale come un processo contraddittorio, in cui la tendenza a ridurre il tempo di lavoro al minimo, non elimina il ruolo del lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. La mobilitazione di tutte le forze della scienza e dell’organizzazione sociale continua ad essere strumentalmente ricondotta nel perimetro della legge del valore e dell’autoriferimento del capitale a se stesso. Questo antagonismo crea «le condizioni per far saltare in aria»33 il modo di produzione capitalistico.
Siamo davanti a un Marx tutto concentrato nel mostrarci la contraddizione fondamentale dello sviluppo del capitale, la sua tendenziale insostenibilità34. Al di là di una prospettiva che può apparire squilibrata in senso catastrofistico, ciò che non può non colpire è la forza del pensiero marxiano quando pone al centro della propria considerazione il general intellect, il sapere sociale diventato forza produttiva, potenza in grado di controllare l’intero processo vitale della società35. È però importante cogliere i chiaroscuri dell’analisi di Marx, che ha cura di sottolineare come l’incremento del capitale fisso, cioè nello sviluppo della produzione dei mezzi di produzione, continui ad essere la fonte di «permanenti squilibri e convulsioni»36. Il capitale malgré lui riduce al minimo il tempo di lavoro per l’intera società, ma ha sempre anche la tendenza a estorcere pluslavoro. Questa contraddizione fra la crescita delle forze produttive e l’appropriazione di pluslavoro produce una situazione che potremmo definire potenzialmente rivoluzionaria, genera l’esigenza che la «massa operaia stessa debba appropriarsi del suo pluslavoro», così che non sarà «più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza»37.

Se ci chiediamo quale sia il senso ultimo di questo discorso marxiano, la risposta deve condurci al cospetto di una tesi decisiva, che consiste nel sostenere che lo sviluppo del capitale, il suo sottomettere le energie della scienza e della tecnica, finisce col generare una nuova forma di socializzazione rispetto a quella che costituisce la base originaria del modo di produzione capitalistico. Marx lo dice esplicitamente quando afferma che «è la combinazione dell’attività sociale ad assumere la veste di produttore», in modo tale che il momento sociale non è più «posto soltanto attraverso lo scambio»38, ma si è fatto soggetto onnipervasivo. 

La società capitalistica nasce come incontro, nel mercato, di produttori privati indipendenti e, al suo inizio, il nesso sociale non è scontato, ma si realizza solo in quel ‘salto mortale’ che è lo scambio delle merci, che per questo diventano protagoniste della nascita del capitale e del suo processo di riproduzione. A questa forma di reificazione e di espropriazione dei produttori diretti, Marx fa seguire, come punto di approdo del suo sviluppo immanente, un’altra situazione, che se non annulla la prima, entra con essa in una tensione fortissima. Si tratta, come abbiamo visto, del movimento per cui l’‘intelletto sociale’ si erge come forza produttiva, così che il lavoro del singolo «è posto come lavoro del singolo soppresso, ossia come lavoro sociale»39. Questo, che è indicato come lo scenario ultimo del capitalismo, vede uno sviluppo delle capacità dell’individuo, un suo farsi egli stesso ‘capitale fisso’, portatore di un sapere che è ormai fattore produttivo. Quel che caratterizza questa condizione tendenziale del modo di produzione capitalistico è un attuarsi della riproduzione a partire dalla conoscenza e non dalla fatica: a essere estorto non è solo il pluslavoro, ma sono sempre di più le forze intellettuali degli individui. Si tratta comunque di una socializzazione che mantiene i caratteri dell’espropriazione, il general intellect comanda uno sviluppo che i singoli subiscono e non controllano, uno sviluppo che resta autovalorizzazione del capitale. La produzione è nello stesso tempo sociale e privata ed è questa la contraddizione che induce Marx a ritenere transitorio il modo di produzione capitalistico. Oggi possiamo dire di continuare a vivere nell’ossimorica permanente-transitorietà di un assetto sociale che non è ancora riuscito a fare a meno della logica del valore. La totalizzazione tecnica, che sta davanti ai nostri occhi, si è realizzata e si perpetua sotto il segno del capitale, in quanto ‘soggetto prepotente’ dell’intero processo di riproduzione sociale40. L’assunzione di questo elemento decisivo ci chiede di ripartire ancora una volta da Marx, dalla possibilità che il suo sapere critico ancor oggi ci offre di interpretare nella prospettiva di una radicale messa in questione le forme della socializzazione che, a livello planetario, continuano a dispiegarsi.

Note

1 Cfr. J. Habermas, Conoscenza e interesse, trad. it. di G. Rusconi, Laterza, Bari 1970, p. 27 ss.; si vedano anche le conclusioni di Id., Lavoro e interazione. Osservazioni sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, trad. it. di M.G. Meriggi, Feltrinelli, Milano 1975.
2 «Marx non ha sviluppato questa idea della scienza dell’uomo, l’ha anzi sconfessata equiparando la critica alla scienza naturale» (J. Habermas, Conoscenza e interesse, cit., p. 67).
3 Mi sembra importante e significativo che, almeno fino a un certo punto della sua evoluzione di pensiero, Habermas continui a chiedersi: «perché continuare allora a insistere sulla tradizione teorica marxista?» (J. Habermas, Per la ricostruzione del materialismo storico, trad. it. di F. Cerutti, Etas Libri, Milano 1979, p. 37
4 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili, trad. it. di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 263.
Ivi, p. 264.
6 Per un’esplicitazione di questa lettura della relazione servo padrone mi sia consentito di rimandare a P. Vinci, “Coscienza infelice” e “anima bella”. Commentario della Fenomenologia dello spirito, Guerini e Associati, Milano 1999, p. 175 ss.
7 Per una discussione critica su questa tematica mi sembra ancora utile partire da S. Lan-ducci, Hegel. La coscienza e la storia, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 73-105.
8 Cfr. K. Marx, Introduzione a Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica I, trad. it. a cura di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-40.
9 A. Honneth, Arbeit und instrumentales Handeln, in Id., U. Jaeggi, Arbeit, Handlung, Normativi-tät: Theorien des Historischen Materialismus II, Frankfurt a. M. 1980, pp. 185-233; trad. it. parziale in M. Protti (a cura di), Dopo la scuola di Francoforte. Studi su J. Habermas, Unicopli, Milano 1984, pp. 143-169.
10 Credo che l’approfondimento di questi tre livelli del discorso hegeliano sia indispensabile per comprendere quanto la Fenomenologia dello spirito offra in direzione di uno sviluppo di una filosofia della prassi.
11 A. Honneth, Arbeit und Anerkennung. Versuch einer Neubestimmung, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 56, 3, 2008, pp. 327-341, trad. it. di C. Belli, infra, pp. 7-22.
12  Sull’atteggiamento di Marx riguardo alla tradizionale distinzione fra praxis e poiesis mi sembrano utili le indicazioni presenti in E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, manifestolibri, Roma 1994, p. 58 ss.
13 K. Marx, Il Capitale, trad. it. di M.L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 73.
14Ivi, p. 110. 15Ivi, p. 105.
 15Ivi, p. 105.
16Ivi, p. 140.
17 Ivi, p. 112.
18 Per una recente discussione sulle difficoltà inerenti alla teoria del valore-lavoro di Marx e una ricostruzione delle stratificazioni interpretative cfr. S. Petrucciani, Marx, Carocci, Roma 2009, p. 193 ss. Non mi nascondo le possibili aporie della impostazione marxiana, ma non mi sembra che esse le impediscano di esplicare il suo essenziale compito critico nei confronti del modo di produzione capitalistico.
19 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili, cit., pp. 193-205.
20 Condivido l’analisi che su questo punto viene svolta in L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari 1969, p. 383 ss.
21 K. Marx, Lavoro salariato e capitale, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 48.
22 È a questo aspetto che Hans Jürgen Krahl collega il carattere “trasformativo” della critica dell’economia politica di Marx e la sua critica a Habermas, cfr. Id., Produzione e lotta di classe, in Id., Costituzione e lotta di classe, trad. it. di S. De Waal, Jaca Book, Milano 1973, pp. 415-438.
23 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 208.
24 Ivi, p. 778.
25 Nei Grundrisse, polemizzando con i socialisti proudhoniani Marx dichiara che «il sistema del denaro è effettivamente il sistema dell’uguaglianza e della libertà, e che quegli elementi di disturbo […] sono disturbi immanenti al sistema stesso, e appunto la realizzazione dell’uguaglianza e della libertà che si mostrano come disuguaglianza e illibertà» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica I, cit., p. 219).
26 Marx si esprime in questi termini: «Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma quel che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente» (K. Marx, Il Capitale, cit., p. 212).
27 Sulla sottomissione reale del lavoro al capitale cfr., K. Marx, Il capitale. Libro I capitolo VI inedito, trad. it. di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 68 ss.
28 «È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l’operaio ad ado-prare la condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoprare l’operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro vivente» (Ivi, p. 467).
29 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica II, cit., pp. 10-11.
30 Ivi, p. 400.
31 Ibidem.
32 Ivi, p.401.
33 Ivi, p. 402.
34  Per una valutazione di questa sezione dei Grundrisse in polemica con Toni Negri, (Id., Goodbye Mister Socialism, Feltrinelli, Milano 2006) cfr. S. Žižek, La crisi della negazione determinata, in Id., In difesa delle cause perse, trad. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2009, p. 435 ss. Credo che la cautela di Žižek verso il ritenere il General Intellect “incompatibile” con il capitalismo sia condivisibile. Marx sembra, in queste pagine dei Grundrisse, ricondurre il superamento del capitalismo a una logica oggettiva e a trascurare il ruolo attivo di soggetti promotori di una prassi emancipativa.
35 «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso» (ivi, p. 403).
36 Ivi, p. 404.
37 Ivi, p. 405.
38 Ivi, pp. 406-407.
39 Ivi, p. 407.
40 K. Marx, Il Capitale, cit., p. 187.
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