22/11/13

Capitalismo finanziario globale e democrazia | La stretta finale

  • La relazione causale tra finanziarizzazione del capitale globale e il crollo della democrazia, particolarmente in Europa (continente in cui il compromesso fra capitale e lavoro aveva raggiunto uno dei punti più avanzati), è giunta ad una fase estrema: quella che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia fin qui conosciuta. Si pone il problema di un nuovo soggetto della trasformazione
Eurocrisis ✆ Len
Alfonso Gianni  |  Vi è una connessione che merita di essere indagata tra i processi di intensa finanziarizzazione del capitale e quelli di “democratizzazione” dei sistemi istituzionali, sia nei singoli stati nazionali sia, e soprattutto, nelle entità sovrannazionali, quale quella europea. Questa connessione è tanto più evidente se si concepisce la democrazia non solo nella sua definizione classica di partecipazione, attraverso forme e modi definiti, dei cittadini al processo decisionale che regola la cosa pubblica, ma anche nella sua determinazione storicamente affermatasi particolarmente in Europa nella prima parte della seconda metà del XX secolo, di un complesso sistema istituzionale che in nome e per conto dei cittadini interviene tramite il potere pubblico e politico sulla ridistribuzione della ricchezza sociale prodotta, con criteri di tendenziale equità sociale che si differenziano nettamente dai meccanismi più o meno spontanei indotti dal libero mercato. In altre parole se vi è una dimostrazione, direi in corpore vili, della non sopravvivenza della democrazia politica senza che ad essa si affianchi una democrazia economica, questa è
data proprio dalla stessa impossibilità di comprendere quanto è intervenuto nella politica dopo il 2008, quindi nella più grande crisi economica del capitalismo europeo di tutti i tempi, e nelle istituzioni nazionali e sovrannazionali, senza metterlo in stretto rapporto con le vicende economiche e finanziarie, con le reazioni dei mercati da un lato e il manifestarsi di nuovi e vecchi conflitti sociali dall’altro.

La relazione causale tra finanziarizzazione del capitale globale e il crollo della democrazia, particolarmente in Europa - ove essa aveva costituito uno dei punti di qualità del modello e del compromesso sociale ivi realizzatosi - è giunta a un punto estremo, quello che segna la manifesta incompatibilità di questo moderno capitalismo con le forme della democrazia fin qui conosciuta, quella che un tempo avremmo chiamato la democrazia borghese, cioè essenzialmente la democrazia rappresentativa strutturata ai diversi livelli in istituzioni di carattere pubblico e statuale. La contraddizione non è quindi restringibile solo con quello che sempre un tempo avremmo chiamato la democrazia progressiva, ovvero forme avanzate di partecipazione che tendono ad allargare il campo della democrazia diretta, partecipata e deliberativa rispetto a quella puramente delegata.

Le diverse fasi del rapporto fra capitalismo e democrazia

Questa contraddizione è facilmente riscontrabile empiricamente: gli esempi non mancano e sono copiosi. Giorgio Agamben ha giustamente parlato di “uno stato di eccezione” che sostituisce il normale funzionamento democratico ed ha caratteristiche di lunga durata. Ma l’eccezione sta diventando una tendenza generale – questo è il punto - una caratteristica epocale del capitalismo finanziario globale, che lo distingue da altre precedenti fasi attraversate dalla storia del capitalismo spesso. Questa tesi, si basa su un doppio presupposto analitico.

In primo luogo, quello che la divaricazione fra capitalismo e democrazia non è stata una costante continua in tutta la storia del capitalismo, sia a livello europeo che a livello mondiale. In altre parole l’espressione “capitalismo democratico” che ad esempio usa Wolfgang Streeck nel suo ultimo lavoro (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013 ), riferendosi in particolare al capitalismo dei cosiddetti trenta anni gloriosi, ha un fondamento reale. In realtà quegli anni non furono certamente per tutti gioiosi e le costruzioni democratiche, entro le quali il capitalismo ha raggiunto alti tassi di sviluppo, - mai esistiti prima in lassi di tempo così brevi e mai ripetuti poi – altro non sono state che l’esito di un faticoso compromesso sociale spinto dalla lotta di classe che il sistema ha dovuto adottare per temperarla e per evitarne esiti per sé distruttivi.

Il secondo presupposto consiste nel fatto che l’attuale periodo, quello nel quale siamo immersi – in particolare da quando il capitalismo si è compiutamente globalizzato e finanziarizzato, esponendosi nel contempo a crisi economiche internazionali più frequenti e profonde di prima – non può essere decritto come una fase pur lunga della tradizionale tensione fra capitalismo e democrazia, risolvibile con una espansione e una contemporanea contrazione di uno o l’altro dei due soggetti, in una sempiterna alternanza di periodi.

Se così non fosse non potremmo affermare di trovarci di fronte ad un elemento di tale novità da potere contrassegnare una lunga fase, tuttora in corso, della pervicace esistenza del sistema capitalistico.

Certamente il capitalismo in quanto tale e dal suo sorgere, ha avuto una marcata tendenza a ostacolare e contraddire forme di espressione e di organizzazione democratica della società. Questo è avvenuto, e avviene, in modo particolarmente evidente nei luoghi di produzione, ovvero là dove si realizza il pluslavoro e si estrae il plusvalore, in primo luogo – un tempo quasi esclusivamente – nella industria manifatturiera. Al punto che spesso si afferma che la Costituzione e la democrazia non hanno mai varcato i cancelli delle fabbriche o le porte degli uffici. Cosa invece non vera se la riferiamo alla fine degli anni sessanta, ovvero alla stagione dei consigli di fabbrica, ma certamente attuale oggi in assenza degli stessi, con un sindacato in evidente crisi di legittimazione e di linea contrattuale e in assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale.

L’accumulazione originaria capitalistica è avvenuta con la violenza

In effetti l’accumulazione capitalistica, a partire da quella originaria (trattata nel celebre capitolo XXIV del Primo Libro del Capitale di Marx) si è sviluppata in forme violente e brutali, con una funzione delle leggi dirette in un’unica e determinata direzione, quella di restringere o eliminare ogni dimensione pubblica per permettere l’accaparramento privato. Verso la fine quel capitolo Marx scrive parole famose, che peraltro generarono all’epoca e in anni di molto successivi polemiche e anche palesi travisamenti: “Tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.” Non solo dunque per Marx va stabilito un nesso storicamente provato fra nascita del capitalismo ed esercizio della violenza tramite il potere statuale, ma quest’ultima è una potenza economica in quanto tale, un fattore non solo un mezzo della trasformazione in senso capitalistico dei modi di produzione e dell’organizzazione sociale.

Le forme successive di accumulazione, cui Marx accenna nel capitolo successivo, quelle che si sono rivolte al di fuori dei confini di quella parte del mondo già strutturata secondo i principi e le modalità produttive, organizzative e sociali del capitalismo – e la costruzione giuridica da queste direttamente o indirettamente influenzata –, quelle rappresentate dal colonialismo – su cui verterà la riflessione successiva di Rosa Luxemburg - riprodurranno su scala mondiale quella violenza, imponendo o facilitando la nascita di sistemi dittatoriali subalterni all’imperialismo studiato da Hobson, da Hilferding e da Lenin, che però tutto fu tranne essere l’ultima fase del capitalismo.

La necessità del compromesso sociale impone una curvatura democratica

Senza deporre il suo carattere aggressivo e violento il capitalismo è sopravvissuto ai movimenti di liberazione anticoloniali, alla sfida economico sociale del “socialismo reale”, alla lotta di classe in Occidente, apprendendo da tutti questi sommovimenti più di quanto la sinistra dei trenta anni gloriosi fosse disposta a ritenere possibile. Lo ha fatto con modalità sensibilmente diverse, dimostrando grande capacità di adattamento, con una stretta connessione e interdipendenza fra forme organizzative della produzione, ossia modi di estrazione del plusvalore, tipologie di organizzazione sociale, grado di tensione con la democrazia, dimensioni istituzionali e modelli di governance sovrannazionali, digerendo con gusto la metamorfosi del ruolo dello stato-nazione utilissima alla nuova dimensione globale.

Non si può dire che la sinistra abbia reagito a questi cambiamenti con la stessa lucidità. Alle attese del crollo che nelle diverse forme costituivano qualcosa di più di un wishful thinking della sinistra tra le due guerre – una quasi teoria -, si è nel secondo dopoguerra sostituito in modo sempre più prevalente un pensiero opposto, quello della insuperabilità del sistema capitalistico, fino a flirtare con le teorie della fine della storia e poi a diventare una variante del neoliberismo stesso.

Si sono così venute elaborando nella sinistra teorie della crisi gravemente monche e incapaci di interpretare la realtà. La sorpresa che ha colto la sinistra di fronte alla attuale crisi sistemica del capitalismo ha radici profonde. Basti pensare all’atteggiamento a tratti persino complice che la sinistra del nostro paese ebbe nei confronti di quel fenomeno di intensa crescita che venne chiamato neocapitalismo italiano, naturalmente con le dovute eccezioni anche interne al Pci. Ma anche la agguerrita scuola di Francoforte - ci ricorda Streeck nel libro citato – presentava vuoti ed errori analitici al riguardo.

Friedrich Pollock, che ricopriva il ruolo di esperto economico nell’Istituto di ricerca sociale di Francoforte – scomparso proprio alla fine dei “trenta gloriosi” (1970) – tendeva a sopravvalutare la costruzione istituzionale sistemica che il capitalismo di stato aveva dato luogo, rispetto alle leggi di mercato, fino a vedere le crisi più sotto il profilo di un deficit di legittimazione del sistema, ovvero di consenso, che non sotto quello economico. Ciò contribuì ad una generale smobilitazione della critica dell’economia politica che pervase la sinistra europea in particolare, compreso quella alternativa, anche se ovviamente non tutta nello stesso grado. Ma la cosa più importante è stata che la delegittimazione del “capitalismo democratico” avvenne non tanto per merito delle classi oppresse, quanto piuttosto da parte del capitale stesso con una inversione di tendenza e di atteggiamento rispetto alla questione democratica maturati lungo gli anni Settanta.

Il trionfo del neoliberismo strangola la democrazia. Il caso della Unione Europea

Al rallentamento dei tassi di crescita che aveva cominciato a manifestarsi già negli anni Sessanta, il capitale rispose in una prima fase con l’utilizzo del fenomeno dell’inflazione, che a sua volta trovava origine, seppure non voluta, anche nell’ampliarsi degli spazi dei servizi gratuiti offerti dallo stato sociale, quindi di un processo di demercificazione che riduceva il potere sociale del denaro. Successivamente si appoggiò sull’indebitamento pubblico, motivato artatamente come risposta a un eccesso di domanda sociale, più concretamente favorito dalla separazione delle Banche centrali dal potere politico e dai governi. Infine fece amplissimo ricorso all’indebitamento privato diffuso e massiccio, ovvero a quella forma di “keynesismo privatizzato”, secondo una felice definizione che ci hanno fornito in modo separato ma convergente Riccardo Bellofiore e Colin Crouch.

Ad ogni passaggio di fase economica nella storia del sistema capitalistico dell’ultimo quarto del secolo scorso, ad ogni cambiamento nella struttura materiale e produttiva, ha corrisposto uno strattone, in alcuni casi violento e sanguinoso, come nel caso emblematico del Cile, al modello democratico e al compromesso sociale su cui questo era fondato. Fino a giungere a sistemi di governance sovrannazionali, interamente costruiti e funzionanti in modo a-democratico, dove cioè la democrazia è esclusa in partenza, dal punto di vista concettuale quanto da quello fattuale. E’ il caso appunto della Unione europea.

La sortita estiva di JP Morgan secondo cui “le costituzioni europee, nate dall’esperienza della lotta al fascismo, mostrano una forte influenza delle idee socialiste“, non è stata quindi un incidente o una boutade, ma la frase rivelatrice di una convinzione profonda che parte da lontano e che soprattutto si ripromette di manomettere fino a snaturare quelle costituzioni, oltre ad impedire che si possa aprire in Europa un vero processo costituzionale. La incompatibilità dell’attuale capitalismo con la democrazia è quindi conclamata e spudoratamente dichiarata.

Da qui non consegue affatto un’assenza di politica, o il semplice primato dell’economia e della tecnica sulla politica, come da qualche parte viene sostenuto, ma al contrario una ben precisa politica fondata sì sul primato dell’economia, o meglio della finanza da un lato e dall’impresa dall’altro, ma nei confronti del lavoro.

Il neoliberismo non avrebbe retto al crollo verticale di credibilità che si è manifestato in particolare in quel lasso di tempo che va dall’autunno del 2008 a larga parte del 2009, quando la crisi mondiale è esplosa in tutta la sua drammaticità evidente, se, in particolare in Europa, non avesse preso corpo una teoria e una pratica compiute dell’austerity, proiettata nei tempi lunghi – si pensi solo ai venti anni che servirebbero all’Italia per rientrare sotto il 60% del rapporto deficit/Pil secondo il Fiscal Compact – e connessa con controriforme strutturali, quali la liquidazione degli istituti del welfare state e la totale liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Questo era necessario e vitale per il sistema capitalistico per contrastare la diminuzione del tasso di crescita e dei profitti e quindi aprire una nuova fase di accumulazione, che non poteva che derivare dalla cancellazione degli spazi economici pubblici – e con essi dei diritti al soddisfacimento gratuito dei bisogni dei cittadini – per aprirli all’intervento del capitale finanziario.

Tuttavia tutto ciò non spiega ancora come siamo giunti a questo punto, se non aggiungessimo che tali teorie e concrete politiche hanno potuto riprendere fiato – malgrado che la loro precedente versione, quella del “keynesimo privatizzato” , cioè della forzatura del credito a famiglie e persone per smaltire la sovrapproduzione di merci e servizi, avesse mostrato il suo totale fallimento nella crisi in atto – perché hanno potuto affondare nel ventre molle della sinistra, quando questa non è diventata direttamente un’alleata inconsapevole o colpevole.

Il tentativo di cancellare la dualità fra capitale e lavoro

A sua volta questa politica necessita di un presupposto che risiede nella negazione del carattere irriducibilmente contrapposto di capitale e lavoro. Il “marchionnismo” è in sostanza precisamente questo: la lotta tra padroni e prestatori d’opera non esisterebbe più, ma vi sarebbe una coincidenza di interessi tra capitale e lavoro la cui sorte è indissolubilmente legata nella guerra della competizione internazionale. Come si sa non è questa l’unica opinione nel campo capitalista. C’è quella ancora più famosa di Warren Buffet, secondo cui la lotta di classe esiste eccome, tanto è vero che l’hanno portata avanti e vinta le classi proprietarie.

Le due visioni sono diverse e certamente la seconda contiene una verità storicamente ineccepibile, ma non opposte, proprio perché la vittoria più significativa della classe padronale, su cui candidamente insiste lo stesso Buffet, sta nell’avere annichilito il suo avversario - il che corrisponde allo stesso disegno di Marchionne, perseguito in spregio alle leggi e alla Magistratura -, nell’avergli tolto la coscienza di sé, nell’avere rimesso in discussione la stessa natura di classe in sé, attraverso il fenomeno della precarizzazione, della cattura delle forme di partecipazione anche inconsapevoli al ciclo della formazione del valore, della tendenziale utilizzazione di ogni attività umana nella realizzazione del profitto, della totale mercificazione, come ad esempio l’intrattenimento che non ha più solo la funzione di legittimazione e di consenso del e al sistema, ma una direttamente economica e profittevole.

Non è un caso che l’attacco al cuore della nostra Costituzione sia quello rivolto ai suoi Principi Fondamentali e alla Parte I, in particolare laddove si regolano iRapporti Economici. Infatti la democrazia nella modernità esiste in quanto si riconosce non solo la distinzione ma la contrapposizione di diversi interessi e di almeno due soggetti – il capitale e il lavoro – e la necessità che la loro lotta non porti alla comune rovina della società civile. Se si nega in assunto questa dualità si erode il principio e la necessità della democrazia stessa. Per questa ragione la sua difesa non può prescindere dalla conoscenza e dalla critica a ciò che avviene nell’organizzazione materiale e produttiva.

Un breve sguardo sulla Cina

Anche se un argomento così vasto e stimolante, richiederebbe ben più di un articolo tutto per sé, è forse opportuna una breve digressione per domandarsi se questo sempre più negativo rapporto fra capitalismo e democrazia è circoscrivibile alle società capitalisticamente mature, come nel caso europeo, o accade anche altrove. Torna utile allora porgere l’attenzione su quanto trapela dalle recenti conclusioni del Terzo Plenum del Partito comunista cinese. Si parla di “profonde riforme economiche”, del mercato che avrà “un ruolo decisivo”, della creazione di “un moderno sistema finanziario”, dell’apertura di una partecipazione di minoranza dei privati nelle grandi imprese statali cinesi, della diffusione in agricoltura di “più diritti di proprietà”, di “un sano meccanismo di urbanizzazione” evidentemente per evitare le note tensioni e i duri conflitti fra città e campagne rivelatasi nel percorso di modernizzazione della Cina.

Contemporaneamente, il documento finale non rinuncia a ribadire che la Cina ancora si trova “allo stadio primario del socialismo e vi rimarrà a lungo”. Se non ricordo male si tratta delle stesse identiche parole che mi vennero ossessivamente ripetute durante i colloqui che ebbi con dirigenti del Pcc, durante un lungo viaggio in Cina nell’inverno del 1978, poco prima della definitiva vittoria di Deng Xiaoping. Il fatto che vengano ripetute oggi a 35 anni di distanza non è in onore di uno stanco rituale, ma ha un preciso significato implicito. In realtà si vuole ribadire con estrema forza che la modernizzazione può avvenire solo in campo economico, aiutando la crescita del particolare modello cinese di sviluppo capitalistico, mentre sul terreno delle libertà e del funzionamento della democrazia nulla di sostanziale può essere (ancora) concesso. Ha dunque ragione Guido Rossi quando afferma a commento di questa importante riunione del Pcc, definita addirittura “un nuovo punto storico di partenza” e paragonata alla riunione del dicembre del 1978 cui ho prima accennato, che proprio guardando l’esperienza della Cina si può concludere che “il connubio tra mercato e democrazia, con buona pace di tanti arroganti sacerdoti del neoliberismo, è storicamente tramontato” (Il Sole 24 Ore del 16.11.13).

Come in Occidente neppure in Cina questa negazione della democrazia avviene senza trovare opposizione. Ma quello che qui conta cogliere è l’analogia tra la medesima idiosincrasia per la democrazia di due modelli di capitalismo per molti aspetti davvero diversi e che hanno fin qui avuto percorsi storici addirittura contrari, essendo il primo riuscito ad evitare rivoluzioni compiute attraverso un compromesso sociale su cui si è fondata per un lungo periodo la democrazia che abbiamo conosciuto, mentre il secondo giunge al suo sviluppo dopo una fase di socialismo che ne ha garantito la transizione da un regime di tipo quasi feudale, sfruttando, per riprendere le parole di Guido Rossi dall’articolo citato, “l’apparentemente assurda combinazione della più efficiente ed aggressiva economia capitalista con la guida del più grande Partito comunista che sia mai esistito”.

Il tema della nuova soggettività critica

Se dunque il nesso positivo tra capitalismo e democrazia, guardato attraverso le varie fasi storiche del primo e il suo proteiforme divenire, appare prevalentemente circoscritto al trentennio postbellico, è lecito considerarlo una lunga parentesi, un’eccezione dilatata nei tempi, più che una costante bruscamente interrotta da stati di necessità.

Il che quindi comporta che la lotta per la difesa e l’ampliamento della democrazia si pone oggi su un terreno almeno tendenzialmente anticapitalistico o non è. Il puro formalismo costituzionale, di cui vi erano larghe tracce in alcuni toni e tra alcuni promotori della grande e riuscita manifestazione del 12 ottobre a Roma, non è sufficiente neppure a difendere una Costituzione che in larga parte è rimasta inapplicata e che è già stata aggredita e modificata in senso regressivo, da ultimo con l’introduzione, attraverso la modifica dell’articolo 81, dell’obbligo del pareggio di bilancio, cosa che neppure le autorità europee chiedevano così esplicitamente e con tale urgenza.

Allo stesso tempo è vero che la lotta per la difesa dei diritti e l’affermazione dei bisogni sociali, travolti dall’attuale crisi, trova nella Costituzione, ovvero nella trama formalizzata della costruzione democratica del nostro paese, un terreno di ricomposizione e di legittimazione che la può rafforzare. Per questo, è stato osservato da diversi interventi nel convegno, la contrapposizione, a volte persino feroce, fra le due manifestazioni del 12 e del 19 ottobre, che pure hanno messo in campo non solo forze ma realtà sociali diverse, è puramente suicida.

Se per ricostruire una nuova soggettività politica bisogna partire da una nuova coalizione sociale da rappresentare, la riunificazione di quei due “popoli” di quelle due manifestazioni simboleggia abbastanza efficacemente il lavoro che ci aspetta. Non è possibile, come anche la mediocre storia dei tentativi fatti dimostra più che chiaramente, ricostruire una sinistra nel nostro paese attraverso una ricomposizione dei piccoli ceti politici che hanno avuto ruolo e responsabilità nelle varie formazioni, partitiche e non, della sinistra d’alternativa. Non serve frugare nel frigorifero vuoto per cercare gli avanzi. Anche se fosse possibile – cosa tutta da dimostrare - definire un profilo ideale e programmatico comune, sufficientemente aperto da potere includere differenti sensibilità, questo sarebbe uno sforzo vano a fronte delle antichi e troppo radicati rancori e disistime tra i diversi gruppi dirigenti o autodefinentesi tali.

Nello stesso tempo non è credibile che la ricostruzione della sinistra possa avvenire attraverso un semplice assemblaggio di movimenti di lotta. A parte il fatto che ciascuno di questi è giustamente geloso della propria autonomia, un pensiero politico che vuole fronteggiare e sconfiggere quelle teorie e quelle politiche che hanno permesso al capitalismo di convivere con una delle crisi più spaventose della sua storia, non può costruirsi per somma del già esistente.

La strada per la nuova soggettività non può quindi che essere il confluire e l’incontro dei conflitti, del loro portato di esperienza, di saggezza, di saper fare e di nuova cultura con le analisi delle trasformazioni della società mondiale e la riflessione e lo sforzo di proposta alternativa che proviene dal mondo intellettuale diffuso, la cui possibilità di dialogo è infinitamente facilitata dai nuovi mezzi di comunicazione rispetto a epoche passate.

Se il partito del movimento operaio non è più proponibile per le trasformazioni intervenute in entrambi i soggetti, il partito e il movimento, il problema della egemonia e della forza che da questa deriva rimane di fronte a noi come un tema non evitabile, anzi indispensabile. E’ il problema della costruzione di un soggetto politico nuovo della sinistra.

* L’articolo anticipa in forma ridotta un saggio che comparirà nel numero 29 della rivista Alternative per il Socialismo, a fine mese nelle librerie, che fa riferimento all’ampio dibattito svoltosi nel convegno Capitalismo finanziario globale e Democrazia in Europa, che si è tenuto nei giorni 24, 25, 26 ottobre 2013 a Roma, presso l’Istituto Luigi Sturzo a Palazzo Baldassini, in via delle Coppelle 35 a Roma. Il Convegno è stato organizzato dalla Fondazione Cercare Ancora con il contributo della Fondazione Roma Terzo Settore e l’Istituto Luigi Sturzo, in collaborazione con il Centro Studi Asset; AltraMente, scuola per tutti; Transform! Italia; Università del Salento; Università di Camerino; LAPIS; Alternative per il Socialismo. Le quattro sezioni in cui era articolato il convegno sono state aperte dalle relazioni di James Kenneth Galbraith (“La riorganizzazione del capitalismo finanziario”); Heinz Bierbaum (“La grande controriforma: l’impresa al posto del lavoro”); Etienne Balibar – che parlava dall’Istituto italiano di cultura a New York, poiché in quel periodo insegna alla Columbia University - (“Europa reale versus Europa sociale”); Marco Revelli (“La soggettività critica alla prova di un nuovo ciclo storico”). Le conclusioni sono state tenute da Fausto Bertinotti. 

Tutte le relazioni e i singoli interventi sono stati videoregistrati e sono ora scaricabili dal sito www.cercareancora.it. Gli atti completi del convegno sono in corso di pubblicazione a cura dell’Ediesse.
http://ilrasoiodioccam-micromega.it/