Imagen de Karl Marx en un billete de la República Democrática Alemana RDA © GeorgiosArt |
Roberto Finelli | 1.
Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica
dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e
la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx
c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione
della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei
movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al
marxismo. Un deficit, la cui
presenza è sempre stata espressa, e insieme dissimulata, proprio dal suo
opposto, qual è la teoria dell’onnipotenza del soggetto che Marx ha posto a
base della sua filosofia della storia e della rivoluzione.
La tesi fondamentale del materialismo
storico è, com’è noto, quella della contraddizione tra forze produttive e
rapporti sociali di produzione. La storia, secondo questa prospettiva, passa da
una formazione economico-sociale all’altra ogni qual volta lo sviluppo delle
capacità costruttive dell’homo faber (la cui accumulazione costituisce
il filo rosso e il polo positivo di
continuità tra le varie epoche) trova
impedimenti non ulteriormente compatibili con la sua crescita.
Lo sviluppo delle forze produttive,
della tecnologia, della scienza, ciò che in una pagina dei Grundrisse Marx
definisce il general intellect, costituisce il fondo permanente di valore, la
sostanza e il soggetto della storia, il fattore d’integrazione che più
propriamente unifica e universalizza il genere umano. Mentre, di tale progresso
ed evoluzione storica, le varie forme e istituzioni politiche, le varie forme
di proprietà e di relazioni tra classi, costituiscono solo il lato, certamente
ineliminabile, ma variabile e transeunte, pronto ad entrare appunto in una
contraddizione anacronistica con lo sviluppo della vera soggettività.
In tale sorta di gigantismo
prometeico e di mito positivistico, ante litteram, del progresso,
il soggetto della storia è dunque essenzialmente il lavoro, visto
da un lato come capacità di confronto e di affermazione inesauribile del genere
umano e della sua superiorità sul mondo naturale e dall’altro come fattore
intrinseco di socializzazione e di universalizzazione degli essere umani. Non
c’è bisogno perciò di una teoria della rivoluzione, e di tutti i problemi che
essa comporta ed apre sul fronte della costruzione di una soggettività
politica, dato che una soggettività collettiva e comunitaria, senza i vizi
dell’egoismo e dell’individualismo, è posta e prodotta nell’atto stesso
del lavorare e del produrre e pronta di lì a riappropiarsi di tutte le
espropriazioni, fino a quello sviluppo incontenibile delle forze produttive
messo in atto dalla modernità che non può non evolvere e concludersi nel
comunismo.
Da tale messa in valore dell’homo
faber, dell’uomo della prassi, nasce lo schematismo riduzionistico del
materialismo storico (con la semplicistica articolazione di struttura e
sovrastruttura), e, in pari tempo, un’antropologia fabbrile fusionale e
gruppale, in cui non v’è spazio alcuno per l’individuo e le sue differenze
rispetto alla superiorità e all’organicità del collettivo.
2. Ora, il paradosso di
fondo dell’opera di Marx è che la medesima disposizione teorica
antindividualistica, quando si trasferisce da una filosofia della storia
predestinata a uno sbocco palingenetico ad uno studio, invece, approfondito e
sistematico della modernità attraverso la maturità della critica dell’economia
politica, produca, non più metafisica antropocentrica e produttivistica, ossia ideologia,
bensì conoscenza e, più propriamente, scienza. E tutto ciò essenzialmente
perché con il Capitale Marx scopre che al fondo della società
moderna si colloca l’agire di un soggetto non antropomorfo, qual è quello di
una ricchezza astratta, di natura solo quantitativa, il cui fine unico ed
assoluto è quello di accumulare la propria quantità, asservendo a tale scopo
l’intero mondo dell’esistenza concreta e qualitativa. Ha scoperto cioè, proprio
a muovere dalla matrice antindividualistica del suo pensare, che l’essenza del
capitale consiste in una connessione obbligata di passaggi e funzioni, di
protocolli di comportamento, la cui intima necessità non dipende dalla scelta e
dalla volontà degli esseri umani (quale che sia l’ambito produttivo e
merceologico in cui il singolo capitalista sceglie di operare), ma appunto dal
carattere astratto e impersonale della ricchezza in questione, la cui natura
solo quantitativa non può che imporre all’intero processo, perché abbia un
senso, l’obbligo della propria crescita: con l’assimilazione di tutto ciò che
in tale processo entra a far parte ad una logica appunto che è, in pari tempo,
di accumulazione quantitativa e di estenuazione qualitativa.
In tal senso non è un caso che nel Capitale i
soggetti umani compaiano come privi di ogni rilievo e autonomia personale,
ossia non come soggetti dotati di libera volontà e capaci con la loro
iniziativa di modificare il corso delle cose, bensì solo come Charaktermasken,
cioè maschere teatrali, che rappresentano solo personificazioni di ruoli e
funzioni economiche. E appunto su tale unificarsi dell’intero universo
socio-economico sul paradosso di una quantità in processo, di una quantità nel
suo processo incontenibile e sempre più ampio di valorizzazione, si fonda
l’oggettività e l’obbligo di quella logica scientifica che è peculiare del Marx
dei Grundrisse e del Capitale. Logica che è dunque
logica di un soggetto peculiarissimo, che, per la sua natura impersonale,
agisce quasi come un soggetto inconscio (ma del tutto diverso dall’inconscio di
Freud e della psicoanalisi), che obbliga e curva, nel suo agire, contenuti,
forme e stili di vita dei singoli individui.
Tale logica, modificando
profondamente l’ottica precedente di Marx , non mette più a tema il lavoro nel
senso dell’espressione delle virtù nobili e creatrici dell’essere umano e del
“genere” di cui è membro: bensì intende ora, con una modificazione categoriale
fondamentale, per lavoro l’uso della forza-lavoro. Aprendo così quel dualismo,
nel mondo moderno, tra sfera dell’essenza e sfera dell’apparenza, che,
disconosciuto o rifiutato da tutta la scienza economica, neoclassica,
neoricardiana, keynesiana che sia, costituisce invece la rivendicazione di
verità caratteristica e propria del solo marxismo.
Infatti che il lavoro sia
interpretabile solo come sinonimo di uso della forza-lavoro apre
una differenza ontologica tra i due ambiti fondamentali in cui si articola la
sfera dell’economia: ossia tra la sfera del mercato, o sfera della
circolazione, e la sfera della produzione. Mentre la prima per Marx ha come
principio costituzionale quell’ dell’equivalenza, e dunque quello dello scambio
tra liberi ed eguali, la seconda ha come principio costituzionale quello del
comando e del dominio, ossia il principio della diseguaglianza e
dell’oppressione. Mentre l’acquisto e la vendita di forza-lavoro sono compiuti
e scanditi secondo libertà ed eguaglianza (ed infatti è mediato
dal denaro), l’uso capitalistico della forza-lavoro, cioè l’organizzazione del
processo di lavoro, è usufruito in modo privato e personale dai rappresentanti
del capitale (e infatti non è mediato da denaro).
Così da tale compresenza di piani di
realtà retti da princìpi costituzionali profondamente diversi, anzi opposti,
Marx può dedurne una natura intrinsecamente dialettica della società
contemporanea, basata, a mio avviso, non sulla contraddizione, ma
sulla dissimulazione che intercorre tra essenza ed apparenza:
nel senso che l’essenza della società moderna, che trova il suo principio
nell’essere costituita da un rapporto di classe tra diseguali, appare alla
superficie della medesima società, e dunque al senso comune generalizzato,
secondo l’apparenza di un rapporto sociale tra eguali.
3. Questo passaggio dal marxismo
della contraddizione al marxismo della dissimulazione e dell’astrazione,
ovviamente, non è stato mai teorizzato in modo esplicito e consapevole, dallo
stesso Marx. E’ un mio modo di estrarlo dall’opera e dai testi di Marx,
mettendo Marx contro Marx e ponendo a principio della storia, complessa e
travagliatissima, dei marxismi, l’autofraintendimento scientifico del padre
fondatore.
I grandi pensatori, che scoprono
territori nuovi, hanno spesso, come si sa, una coscienza contraddittoria
della loro originalità e si trovano a spiegare il nuovo secondo un linguaggio
ancora inadeguato, che appartiene all’antico. Il caso più celebre è
probabilmente quello di Freud che ha sempre voluto ricondurre e legittimare la
sua scoperta dell’inconscio con i parametri della scienza classica,
deterministica e quantitativa, della natura, mentre la sua opera teorica e
clinica apriva un’ambito dell’esperienza umana, per la natura
intrinsecamente dualistica ed ambivalente del movimento pulsionale, per
nulla riducibile a canoni quantitativo-deterministici[1].
La stessa cosa, a mio avviso, è
accaduta con Marx. Questi con il Capitale ha scoperto
l’operare, per la prima volta nella storia dell’umanità, di un
soggetto sociale non antropomorfo costituito da una ricchezza
astratta, di natura solo quantitativa, non può che imporre all’intero processo
di riproduzione della vita, individuale e collettiva, perché abbia un senso,
l’obbligo della propria crescita; con l’assimilazione di tutto ciò che di
tale processo entra a far parte della sua logica di crescita della quantità e
di estenuazione della qualità.
Solo che il Marx della maturità ha
sempre frainteso e occultato, in primo luogo a se stesso, la scoperta di questa
paradossale astrazione reale attraverso il linguaggio umanistico e
antropologico della sua opera giovanile. Si può dire infatti – ma senza cadere
nella rigidità di rotture epistemologiche troppo pesantemente strutturalistiche
e logicistiche alla L. Althusser -, che vi siano essenzialmente due Marx: il Marx
dell’alienazione e della contraddizione e il Marx
dell’astrazione reale.
Il primo parte da quella che oggi si
chiamerebbe una metafisica del soggetto, cioè dalla centralità di senso
attribuita nell’ambito della natura e della storia all’uomo produttore,
che con la sua prassi (lavoro) sarebbe potenziale e incondizionato dominatore
della natura e della storia e che invece per divisioni intestine al genere
umano (divisione in classi) aliena la sua produttività in relazioni sociali che
lo espropriano e lo limitano. E’ il Marx cioè che muove dalla bontà dell’homo
faber, presupposto come soggetto così incondizionatamente ricco e pieno di
valore che il suo svuotamento e la sua repressione (alienazione) non potranno
che essere temporanei, non essendo né tollerabile né concepibile una
mortificazione permanente di un principio così fondamentale di generazione e di
produzione di vita. E da questo Marx è derivato il marxismo che, rinunciando a
un’analisi realmente critica della tecnologia e dei processi di lavoro, ha
sempre valorizzato la dimensione operosa e prometeica del lavoratore: il
marxismo della sostanziale accettazione del modello di produzione e consumo
imposto dallo sviluppo capitalistico, così come della fede negli automatismi
della storia e nel necessario risolversi in positivo, a partire dalla potenza
di quel soggetto presupposto, dei conflitti e delle contraddizioni.
L’altro Marx è quello delle opere
della maturità, il quale, attraverso il Capitale, rende principio e
oggetto del suo indagare, non un soggetto umanistico e la sua vicenda di
alienazione-riappropriazione, ma il costruirsi a totalità sociale di una
ricchezza astratta come quella del capitale e della sua inesauribile
accumulazione: Il Marx cioè che rende tema prioritario del suo discorso il modo
in cui nel tempo moderno una ricchezza astratta diventa il soggetto della
riproduzione sociale complessiva, subordinando alla logica quantitativa e
impersonale della sua crescita l’intero mondo dei valori d’uso e delle concrete
soggettività umane.
E’ il Marx che, come si è detto, fa
categoria centrale della sua analisi non il lavoro ma l’uso
della forza-lavoro e si trova, attraverso il concetto di sussunzione
reale e lo studio delle trasformazioni tecnologiche legate al concetto di
plusvalore relativo, a porre le basi per una teoria della macchina, non come
cosa (di cui basterebbe cambiare l’uso per trovarsi in una nuova forma di società),
bensì quale sistema macchina–forza-lavoro che vede sempre
indissolubilmente connesse tipologia dell’automatismo meccanico e tipologia
dell’erogazione di lavoro vivo. Da questo Marx è derivato il marxismo che,
rinunciando a una visione positivistica e neutrale delle forze produttive, ha
visto la produzione capitalistica svolgersi, durante le varie tappe della sua
storia, secondo la varietà dei sistemi uomo-macchina e in cui ciò che è in
gioco è sempre l’erogazione di lavoro astratto, cioè di lavoro ad alto grado di
regolarità e di codificazione e come tale sostanza adeguata della ricchezza
astratta del capitale. E’ il marxismo appunto di una sociologia critica
che indaga i sistemi macchine-forza-lavoro non secondo la categoria
antropomorfa di divisione del lavoro – cui molto indulge lo stesso Marx e che
torna a proporre una concezione della tecnologia come progressivo svuotamento e
appropriazione da parte delle macchine di capacità e funzioni del soggetto
umano[2] – bensì secondo i vari salti nell’organizzazione del processo di
lavoro cui il capitale è costretto, oltre che dalla concorrenza esterna con gli
altri capitali, da quella concorrenza decisiva interna che è il confronto con
la forza-lavoro, al fine di ottenere erogazione di lavoro vivo a bassissima
individuazione soggettivo-concreta e a forte normatività astratta.
Ma quest’ultimo Marx, come si diceva,
va estrapolato e sottratto dalla curvatura umanistica del primo. Soprattutto va
esplicitato e dedotto facendo forza dalla logica oggettiva del
suo discorso messo in campo nei Grundrisse e nel Capitale e
non, come si diceva, dalla consapevolezza soggettiva e riflessa che lo
stesso Marx della maturità mostra di continuare possederne, secondo modalità
assai prossime e contigue alle tesi del suo umanesimo giovanile.
4. Fine della
grande fabbrica fordista e della produzione rigida mediante catena di
montaggio, disseminazione sul territorio e autonomia flessibile dei diversi
segmenti produttivi e soprattutto diffusione delle macchine informatiche con la
messa in campo di un nuovo tipo di lavoro, da alcuni definito cognitivo, hanno
diffuso tra molti da vari anni l’idea della possibile introduzione di elementi
liberatori nel mondo della produzione capitalistica. La tecnologia informatica,
si è detto, estingue tendenzialmente il lavoro manuale, con la sua rigida
codificazione e ripetitività, e implica, per la natura dei suoi linguaggi e il
suo modo di accumulare ed elaborare informazioni, un lavoro fondato sulla
possibilità combinatoria della mente anziché sui movimenti del corpo e la loro
continuità standardizzata. Con questo trascorrere nei processi di lavoro dal
corpo alla mente giungerebbe a conclusione il moderno e avrebbe avuto inizio il
postmoderno. Si sarebbe conclusa un’antropologia della dipendenza, connotata
dalla fatica e dal confronto con il mondo materiale, per inaugurare
un’antropologia creativa basata sull’uso dell’intelligenza e della conoscenza e
sul confronto con un mondo di dati virtuali.
Ma chi indulge a questi teoremi sul
carattere personalizzante e individualizzante del nuovo lavoro, sulla ripresa
d’importanza del lavoro concreto e della capacità d’operare scelte sulle
connessioni e le interdipendenze di segmenti, di unità produttive e di
variazioni merceologiche che i nuovi sistemi produttivi del just in
time mettono in campo – chi giunge a dire che la produzione è ormai
sinonimo di comunicazione – torna a rimuovere, a mio avviso, una teoria
delle macchine quale “sistema macchine-forza-lavoro” e a cadere nel potente
effetto feticistico che la macchina dell’informazione trascina con sé.
L’informazione in un processo di
lavoro capitalisticamente organizzato non è mai solo descrittiva ma è sempre
anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga
la forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità già
definite e strutturate. La caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è
quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del
cervello umano. Questa mente artificiale vale come ampliamento di memoria, a
disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel caso di attività
private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi lavorativi
finalizzati alla produzione-circolazione di merci e di servizi di servizi
funziona come mente esterna che sistema e accumula le
informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o
disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma
predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore
non manuale. Certo non è più il corpo e la segmentazione tayloristica dei suoi
movimenti ad essere in questione ma l’anima, la capacità di scelta, la
coscienza del nuovo lavoratore mentale, la sua intelligenza sia come
comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva. Ma
proprio tutto ciò che finora veniva definito come la caratteristica più
personale e non omologabile del soggetto umano entra ora in un campo di
fungibilità interagente ma subalterna con la macchina dell’informazione. La
quale per suo verso, accumulando quantità d’informazioni alfa-numeriche sulla
base del linguaggio binario, riproduce il mondo reale secondo la riduzione e la
semplificazione di una Gestalt, di una forma che è prevalentemente
alfa-numerica: e che dunque pretende la cooperazione di una soggettività
istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che
non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
In questa prospettiva l’economia
dell’informazione non va dunque letta secondo la classica dottrina marxiana del
lavoro alienato, quale progressiva separazione di esecuzione e ideazione e
quale dequalificazione di un lavoro perciò sempre più ridotto ad esecuzione di
un progetto e di un comando altrui. La valorizzazione dei nuovi macchinari
informatici richiede la valorizzazione proprio dell’opposto: della
soggettività, della sua autonomia, di una sua maggiore qualificazione e
ricchezza di conoscenze. Richiede quella flessibilità e mobilità del
lavoratore, quella ricomposizione delle mansioni che nell’automatismo
ininterrotto della fabbrica fordista e nel disciplinamento oggettivo della
forza-lavoro che ne conseguiva era proprio il nemico costantemente da battere e
da escludere. Valorizzazione della soggettività che peraltro ha potuto prendere
anche la strada del toyotismo e della qualità totale, del lavoro cioè che
giunge a prendere come oggetto se stesso, i suoi metodi, la sua organizzazione
le sue insufficienze, per sortire da questa coscienza di sé e costante
autoriflessività una maggiore intensità della propria prestazione. Ma dove
appunto ciò che viene messo in gioco è un soggetto solo apparentemente autonomo
e concreto, volontario e creativo, perché la sua pretesa individualità è invece
l’esito di un processo di omologazione a competenze e forme del sapere
già fortemente astratte e codificate o di innovazione-riflessione creativa su
un ambito di lavoro già fortemente stereotipato.
L’effetto feticistico di fondo della
nuova organizzazione capitalistica del lavoro è dunque che un lavoro
essenzialmente astratto assume le parvenze di un lavoro individualizzato e
concreto, che la natura sostanzialmente autoritaria e determinata del processo
di lavoro prenda la forma di un’autorganizzazione, presuntivamente ricca di
variazioni e sperimentabilità.
5. In una condizione
non patologica e scissa dell’essere umano – qual’è certo non quella vissuta
dalla forza-lavoro messa in opera dal capitale – il senso del vivere e
dell’agire è dato fondamentalmente da una relazione, in cui il corporeo-emozionale,
compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile
dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione
verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal nesso
del medesimo individuo con le altre soggettività[3]. Nel nuovo tipo di lavoro
invece il sistema macchina informatica-forza-lavoro richiede una separazione
radicale, opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, della mente dal
corpo: separazione che consegna la mente umana a una semantica decorporeizzata
e anaffettiva. Del resto la sintassi del linguaggio informatico, costruita
sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce ed elabora il
mondo della vita secondo una forma astratta, perché priva di contrasti e contraddizioni.
L’esclusione cioè del sì dal no, che sta a basi della sintassi informatica,
impedisce d’esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza
emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato il
cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e
multiverso dell’esperienza concreta. L’astrazione del nuovo lavoro mentale è
perciò quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal
fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e
simboli alfa-numerici, attraverso la cui apparente neutralità ed oggettività si
dispone il senso e il comando di un’organizzazione del processo produttivo
volto, come sempre, alla valorizzazione.
L’astrazione reale del capitale
svuota perciò di senso concreto la soggettività nel momento stesso che ne fa
supposto principio di senso: e dunque lo svuotamento è, proprio nel suo stesso
modo di realizzarsi, occultamento e dissimulazione di sé. Sulla scena rimangono
così solo due attori: un nuovo lavoratore, la cui mente è predisposta a
interiorizzare il comando eliminando ogni traccia esterna di costrizione, e una
nuova macchina la cui natura linguistica ne farebbe per definizione un’alterità
dialogica e collaborativa.
Del resto, nella più recente storia
d’italia, per creare le condizioni trascendentali di possibilità di tale
scenografia non s’è esitato, prima con la collaborazione poi con la presa in
carico diretta da parte della “sinistra” storica e istituzionale, di procedere
all’opera di una progressiva e sistematica distruzione della scuola pubblica e
di ogni orizzonte storicistico-umanistico della sua attività formativa. La
nuova forza-lavoro mentale ha bisogno infatti di una formazione culturale di
basso livello culturale storico-letterario-filosofico e di una maggiore
esposizione pragmatico-linguistico-calcolante, come appunto vuole il modello
educativo d’ispirazione anglo-americana.
6. Questo numero di «Consecutio
temporum» è dedicato in buona parte al ripensamento di temi marxiani. La scelta
che ha compiuto la redazione è stata quella di mettere a confronto il paradigma
dell’astrazione reale, che anima la nostra rivista fin dal suo primo numero,
con altri paradigmi interpretativi dell’opera di Marx, che valessero ad
esprimere, ancora una volta, la complessa sedimentazione e ricchezza di motivi
dell’opera marxiana.
Nella sezione «Marxiana» pubblichiamo
dei saggi di E. Balibar, L. Basso, P. Macherey dedicati, rispettivamente,
a testi dei «Deutsch-französische Jahrbücher» e all’antropologia socio-politica
di Marx; mentre al Marx dei Grundrisse e del Capitale sono
dedicati i saggi di R. Bellofiore, G. Sgro’, Z. Rodrigues Viera.
All’althusserismo e all’itinerario di J. Rancière è rivolto il saggio di G.
Campailla. Mentre J. Bidet ragiona sul capitalismo contemporaneo attraverso una
discussione con G. Duménil.
Nella sezione «Storia delle idee»,
oltre a un saggio di S. Bracaletti che ha per oggetto il marxismo analitico,
pubblichiamo dei saggi di F. Frosini, V. Morfino, T. Redolfi Riva sul marxismo
di Gramsci, su Marx lettore di Spinoza e sulla connessione Adorno-Backhaus.
Completano la sezione i due saggi di R. Evangelista e di G. Grassadonio
rispettivamente su De Martino e L. Goldmann.
Al di là del riferimento più complessivo
all’opera di Marx, il numero 5 di Consecutio temporum, annovera nella sezione
«Freudiana» un saggio di M. Failla sul «Mosè» di Freud, nella sezione «L’anima
e le forme» componimenti poetici di P. Pennesi, nella sezione Storia delle idee
un saggio “teologico” di Cristoph Türcke.
Note
*Editoriale del n.
5 di Consecutio Temporum
[1] Sul tema dell’autofraintendimento di Freud cfr.
J.Habermas, Conoscenza e interesse, tr.it. di G.E.Rusconi, Laterza,
Bari 1970 [1968], II ed., ivi, Roma-Bari 1983.
[2] Cfr. su ciò G. Frison, Babbage
e gli inganni del paradigma della divisione del lavoro, in «Quaderni di
storia dell’economia politica», III, 1985, n.2, pp.49-79 e dello stesso autore Smith,
Marx and Bechmann: division of labour, Technology and Innovation,
in H-P. Müller – U.Troitzsch, Technologie zwischen Fortschritt und
Tradition, Peter Lang, Frankfurt a.M.- New York 1992, pp.17-40.
[3] Su questo tema si cfr. A.B.Ferrari, L’eclissi del corpo.
Un’ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma 1991.