9/10/13

Il capitalismo oggi | Risposta a Toni Negri

  • Vi proponiamo un estratto dal libro di Alain Badiou "Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali" in cui il filosofo francese rispondendo alle critiche di Toni Negri traccia un profilo dell'attuale fase del capitalismo
Alain Badiou ✆ Jorge Ledo
Alain Badiou  |  Mi si rimprovera spesso, anche nel «gruppo» dei miei potenziali compagni di fede politica, di non tener conto delle caratteristiche del capitalismo contemporaneo, e di non proporne un’«analisi marxista». Di conseguenza per me il comunismo sarebbe soltanto un’idea campata in aria, e io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un «capitalismo postmoderno».

Antonio Negri, per esempio, durante una conferenza internazionale sull’idea di comunismo – ero e sono molto contento di avervi preso parte – mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti. Considerando il fatto che, per l’opinione corrente, il marxismo consiste nell’accordare un ruolo determinante all’economia e alle contraddizioni sociali che ne derivano, chi, oggi, non è «marxista»? I nostri padroni, che, non appena la Borsa comincia a traballare o i tassi di crescita ad abbassarsi, tremano e si riuniscono col favore della notte, sono tutti «marxisti». Provate invece a mettere sotto
il loro naso la parola «comunismo», e vedrete come cominceranno a dare in escandescenze, considerandovi alla stregua di un criminale.

Qui invece vorrei dire, senza più preoccuparmi degli avversari e dei rivali, che anch’io sono marxista, in buona fede, pienamente e in un modo così naturale che non è neanche il caso di ripeterlo.

Un matematico contemporaneo si preoccupa forse di provare la propria fedeltà a Euclide o a Eulero? Il marxismo reale, che si identifica con la lotta politica razionale e che ha come scopo l’organizzazione di una società egualitaria, è cominciato senza dubbio con Marx ed Engels nel 1848, ma in seguito ne ha fatta di strada, con Lenin, con Mao e poi ancora con qualcun altro. Io sono cresciuto con questi insegnamenti storici e teorici. Credo di conoscere bene sia i problemi che sono stati già risolti e che non serve a nulla ricominciare a studiare sia i problemi che rimangono in sospeso ed esigono riflessione ed esperienza, sia ancora i problemi che sono stati affrontati male e che ci impongono radicali rettifiche e faticose reinvenzioni. Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o che devono essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive. Il marxismo non fa certo eccezione. Non è né una branca dell’economia (teoria dei rapporti di produzione), né della sociologia (descrizione oggettiva della «realtà sociale»), né una filosofia (pensiero dialettico delle contraddizioni).

Rappresenta, lo ripetiamo, la conoscenza organizzata dei mezzi politici atti a smantellare la società esistente e a sviluppare una figura egualitaria e razionale di organizzazione collettiva, la quale prende il nome di «comunismo».

Malgrado ciò, vorrei aggiungere che, quanto ai dati «oggettivi» del capitalismo contemporaneo, non penso affatto di essere particolarmente disinformato. Globalizzazione, mondializzazione? Spostamento di un grande numero di centri di produzione industriale nei paesi fornitori di mano d’opera a basso costo e a regime politico autoritario?

Passaggio – durante gli anni Ottanta – nei nostri vecchi paesi sviluppati, da un’economia incentrata su se stessa, con un aumento continuo del salario operaio e la ridistribuzione sociale organizzata dallo Stato e dai sindacati, a un’economia liberale integrata sugli scambi mondiali, e quindi esportatrice, specializzata, che privatizza i profitti, socializza i rischi e accetta l’aumento planetario delle disuguaglianze?

Rapidissima concentrazione dei capitali sotto la direzione del capitale finanziario? Utilizzo di nuovi strumenti grazie ai quali la velocità di rotazione prima dei capitali e poi delle merci, è considerevolmente accelerata (diffusione su ampia scala del trasporto aereo, telefonia globale, strumenti finanziari, Internet, programmi che mirano ad assicurare il successo delle decisioni istantanee ecc.)? Sofisticazione della speculazione grazie a nuovi prodotti derivati e a una sottile matematica della combinazione dei rischi? Indebolimento spettacolare, nei nostri paesi, del mondo contadino e di tutta l’organizzazione rurale della società? Assoluta e conseguente necessità di attribuire alla piccola borghesia urbana il ruolo di pilastro del regime sociale e politico esistente? Resurrezione, su larga scala, e in primo luogo presso i borghesi più ricchi, della convinzione vecchia come Aristotele che le classi medie siano l’alfa e l’omega della vita «democratica»? Lotta planetaria, a volte in tono minore a volte estremamente violenta, per assicurarsi materie prime e fonti di energia a basso costo, soprattutto in Africa, il continente oggetto di tutti i saccheggi «occidentali» e di conseguenza di tutte le atrocità? Conosco piuttosto bene questo argomento, come tutti d’altronde.1

La questione è sapere se questo insieme aneddotico di elementi costituisca un capitalismo «postmoderno», un capitalismo nuovo, un capitalismo degno delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, un capitalismo che sia capace di generare da solo un’intelligenza collettiva di tipo nuovo e suscitare l’insorgere di un potere costituente fino a questo momento asservito, che superi il vecchio potere degli Stati, che proletarizzi la moltitudine e trasformi i piccoli borghesi in operai della conoscenza immateriale, un capitalismo insomma rispetto al quale il comunismo possa rappresentare l’immediato rovescio e il cui Soggetto sia in qualche modo lo stesso di quello del comunismo latente che ne sostiene la paradossale esistenza. Un capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in comunismo. Questa è, in maniera po’ grossolana ma fedele, la posizione di Negri. Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che è da trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e dall’espansione continua del capitalismo, e che, ingannati dall’ideologia dominante («tutto cambia sempre e noi corriamo dietro a questo cambiamento memorabile»), immaginano di assistere a una prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia il loro giudizio finale sulla qualità della suddetta sequenza.

La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico.

È assolutamente conforme a quanto ci si poteva aspettare da esso, tanto più che la sua logica non è più ostacolata da azioni di classe risolute e localmente vittoriose. Prendiamo per esempio, per quello che riguarda il divenire del Capitale, tutte le categorie predittive di Marx e vedremo che è solo oggi che esse si sono confermate in tutta la loro evidenza. Marx non ha forse parlato di «mercato mondiale»? Ma cos’era il mercato mondiale nel 1860 in rapporto a quello che è oggi, quello che si è voluto inutilmente rinominare «globalizzazione»? Marx non aveva forse pensato il carattere ineluttabile della concentrazione del capitale? Che cos’era questa concentrazione, quali erano le dimensioni delle imprese e delle istituzioni finanziarie all’epoca di questa previsione, in rapporto ai mostri che ogni giorno nuove fusioni fanno sorgere? A Marx è stato a lungo obiettato che l’agricoltura sarebbe rimasta ferma a un regime di sfruttamento familiare, mentre lui prevedeva che la concentrazione avrebbe di sicuro vinto sulla proprietà fondiaria. Sappiamo oggi che l’effettiva percentuale della popolazione che nei paesi cosiddetti sviluppati (quelli cioè dove il capitalismo imperialista si è insediato senza trovare alcun ostacolo) vive di agricoltura, è, per così dire, insignificante. E qual è oggi l’estensione media delle proprietà fondiarie, rispetto a quello che erano al tempo in cui i contadini rappresentavano, in Francia, il 40% della popolazione totale? Marx ha analizzato in modo rigoroso il carattere inevitabile delle crisi cicliche, le quali attestano, oltre tutto, la sostanziale irrazionalità del capitalismo e il carattere necessariamente consequenziale delle sue attività imperialistiche e belliche. A provare, mentre ancora era vivo, queste analisi sono intervenute alcune gravissime crisi, e le guerre coloniali e inter-imperialistiche ne hanno completato la dimostrazione. Comunque, se guardiamo la quantità di beni andati in fumo, tutto questo non è ancora nulla in confronto alla crisi degli anni Trenta o alla crisi attuale, o in confronto alle due guerre mondiali del XX secolo, alle feroci guerre coloniali e agli «interventi» occidentali di oggi e di domani. Se consideriamo la situazione del mondo intero e non solo di una sua parte, non sarà necessario arrivare alla pauperizzazione di enormi masse di popolazione per ammetterne l’evidenza sempre più lampante.

In fondo, il mondo attuale è esattamente quello che, con una geniale opera di anticipazione, con una specie di fantascienza realistica, Marx aveva annunciato in quanto dispiegamento integrale delle virtualità irrazionali e, a dire il vero, mostruose del capitalismo.

Il capitalismo affida il destino dei popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di parvenu? Non possiamo forse a ragione chiamare «banditi» uomini il cui unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone? In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda dai calcoli di questi banditi è così palese e così lampante, che accettare questa «realtà», come dicono i loro scribacchini, è qualcosa che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante.

Allora, cari elettori, avete mandato al potere gente che di notte, proprio come in collegio, ha paura di venire a sapere che all’alba i rappresentanti del «mercato», ossia gli speculatori e i parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio, hanno rifilato loro la nota AAB al posto di AAA?

Non è forse barbaro quest’ascendente consensuale che i nostri ufficiosi padroni, la cui unica preoccupazione è di sapere quali sono e quali saranno i benefici alla lotteria nella quale puntano i loro milioni, hanno sui nostri padroni ufficiali?

Senza contare che i loro belanti versi – «Ah! Ah! Beheheh!» – verranno ripagati con l’obbedienza agli ordini della cricca, e che sempre e invariabilmente sono: «Privatizzate tutto. Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri, ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto agli ideologi di servizio». E l’esecuzione di questi ordini rovinerà di fatto la vita di milioni di persone.

Anche qui però la nostra realtà conferma, se non addirittura supera, le previsioni di Marx. È stato lui a definire «procuratori del capitalismo» i governi degli anni tra il 1840 e il 1850. E questo ci dà una chiave del mistero: in definitiva, i governanti e i banditi della finanza appartengono allo stesso mondo. La formula «procuratori del capitalismo» è diventata del tutto esatta soltanto oggi, quando, su questo punto, non esiste più alcuna differenza tra i governi di destra, Sarkozy o Merkel, e quelli «di sinistra», Obama, Zapatero o Papandreu.

Siamo quindi proprio noi a essere testimoni di un retrogrado compimento dell’essenza del capitalismo, di un ritorno allo spirito degli anni della metà del XIX secolo, un ritorno che giunge dopo la restaurazione delle idee reazionarie conseguente gli «anni rossi» (1960-1980), proprio come il periodo intorno alla metà del XIX secolo era stato reso possibile dalla Restaurazione controrivoluzionaria degli anni 1815-1840, in seguito alla Grande Rivoluzione del 1792-1794.

Certo, Marx pensava che, sotto la bandiera del comunismo, la rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente interrotto questi eventi e ci avrebbe risparmiato il dispiegamento integrale di cui percepiva lucidamente l’orrore. L’alternativa era appunto, secondo lui, comunismo o barbarie. I formidabili tentativi di dargli ragione su questo punto verificatisi nei primi due terzi del XX secolo hanno di fatto considerevolmente frenato e deviato la logica capitalista, in particolare in seguito alla Seconda guerra mondiale.

Dopo circa trent’anni, dopo il crollo degli Stati socialisti come alternative percorribili (il caso dell’Unione Sovietica), o il loro sconvolgimento operato da un violento capitalismo di Stato dopo lo scacco di un movimento di massa esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni 1965 e 1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla verifica di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del capitalismo e delle società che esso regge. Alla barbarie siamo già arrivati, e vi stiamo sprofondando dentro di gran carriera. E tutto questo corrisponde nei minimi dettagli a ciò che Marx si augurava che la potenza del proletariato organizzato sarebbe riuscito a impedire.

Il capitalismo contemporaneo non è dunque in alcun modo creativo e postmoderno: pensando di essersi sbarazzato dei propri nemici comunisti, segue quella linea di cui Marx, approfondendo l’opera degli economisti classici in una prospettiva critica, aveva percepito l’andamento generale.

Non saranno di certo il capitalismo o la schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con «risvegliare» intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte dall’ordine stabilito. In tal senso, Fukuyama non aveva affatto torto: giunto al proprio completo sviluppo, e consapevole dell’ineluttabilità della propria morte – anche a costo, cosa disgraziatamente probabile, di una violenza suicida – al mondo moderno non resta altro che pensare alla «fine della Storia», proprio come quando Wotan, nel secondo atto de La Valchiria di Wagner, spiega a sua figlia Brünnhilde che il suo unico pensiero è «la fine! la fine!»

Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea.
Nota

1. Per un’interpretazione molto chiara delle forme di capitalismo contemporaneo, rimando a due libri di Pierre- Noël Giraud: L’Inégalité du monde contemporain (Gallimard, Paris, 2001) e La Mondialisation (2008). Giraud chiarisce, in modo molto convincente, la modificazione globale (e reattiva) del capitalismo planetario a partire dalla fine degli anni Settanta.