20/9/13

Aporie della giustizia | Marx a lezione da John Rawls

Ernesto Screpanti  |  Una teoria “marxista” della giustizia incontra grandi difficoltà a criticare il capitalismo. Per questo bisogna fuoriuscirne cercando di porre la libertà a fondamento della giustizia. In questo modo, si evita anche il rischio di un governo universale della ragione imposto forzosamente.

“Le mie riflessioni prendono le mosse da una constatazione di fondo: il marxismo è uno straordinario edificio che, negli ultimi due o tre decenni, ha mostrato tutte le sue crepe, il suo invecchiamento, le sue difficoltà e le sue aporie.  Perciò se si vuole provare a valorizzare quell’eredità è necessario impegnarsi in un processo di ricostruzione di lunga lena”. Così Stefano Petrucciani nel suo ultimo lavoro, ‘A lezione da Marx: Nuove interpretazioni’, Manifestolibri, Roma 2012, un libro bello e importante.

Ben sapendo che oggi chi si vuole accostare a Marx da marxista non può limitarsi a rileggerlo ma deve in qualche misura tentare di riscriverlo, Petrucciani mette in chiaro sin dalla prima pagina qual è lo spirito del suo approccio: critico, libero e impegnato. Critico, per evitare ogni forma di dogmatismo e scolasticismo; libero, per trarre profitto dai contributi più validi della filosofia contemporanea; impegnato, per rendere la teoria utile nella prassi politica.

Il pensiero comunista post-sessantotto ha modificato radicalmente i metodi e i temi della teoria critica rispetto ai canoni delle vecchie scuole di partito ma anche rispetto a quelli del “marxismo occidentale”, e ha dato vita a due grandi filoni di pensiero altamente innovativi: il marxismo analitico e il marxismo ermeneutico. Il primo filone affonda le radici nel contrattualismo e nell’utilitarismo di tradizione anglosassone, oltre che nel criticismo kantiano – radici che non sono del
tutto estranee alla cultura dei padri fondatori, se si pensa che il giovane Engels individuava in Bentham la fonte filosofica del “comunismo inglese”, e che il giovane Marx almeno una volta ha civettato con l’imperativo categorico. Oggi convergono in questo filone studiosi come Roemer, Cohen, Elster da una parte e Habermas dall’altra. L’altro filone si riallaccia a una tradizione di pensiero realista che fu molto apprezzata da Marx, soprattutto nelle figure di Machiavelli e Spinoza. I marxisti che oggi si muovono in quest’ambito hanno fatto tesoro delle lezioni di Althusser (specialmente l’ultimo), di Foucault, di Derrida, di Ricoeur e di tutto il magma teoretico che ribolle nel mondo della filosofia post-filosofica.

I due approcci divergono radicalmente nelle impostazioni scientifiche e nei metodi di ricerca, tanto che sembrano costituire due paradigmi impossibilitati a comunicare nonostante il comune riferimento a Marx. Divergono anche nell’orientamento politico, ammesso che se ne possa enucleare uno comune a tutti gli esponenti di ognuno dei due approcci. Pur consapevole delle ire che mi attirerò con questa iper-semplificazione, direi che gli analitici propendono per strategie riformiste e gradualiste, gli ermeneutici per una prassi libertaria e radicale.

Petrucciani si colloca inequivocabilmente nel primo filone e anzi ne è uno degli esponenti più importanti, ché pochi come lui sono stati capaci di sviscerare e approfondire le implicazioni filosofiche dell’approccio. E ha molto da insegnare anche a chi non condivide quell’impostazione. In queste note vorrei tentare di rompere il muro d’incomunicabilità, se non altro per mostrare alcune idee che un comunista libertario può apprendere da uno in cerca di giustizia.

Petrucciani si pone il seguente problema: è possibile ricostruire il marxismo come teoria critica del capitalismo fondata su una dottrina universale della giustizia? Sa che se avesse rivolto la domanda a Marx avrebbe ottenuto una risposta negativa. Ma pensa che questa sarebbe un’incongruenza almeno parziale, ché in molte occasioni il Moro ha esibito atteggiamenti eticamente critici verso il capitalismo.

Prendiamo la teoria dello sfruttamento. I lavoratori lottano per rovesciare il capitalismo perché non vogliono essere sfruttati. Se lo sfruttamento è una forma d’ingiustizia, allora lottano per una causa morale? Lottano mossi da un interesse universale?  Petrucciani sa che Marx, memore della teoria hegeliana dell’eticità e della connessa critica alla moralità kantiana, direbbe di no, direbbe che i principi di giustizia sono ideologicamente e storicamente determinati, che in un sistema capitalistico il salario “giusto” è quello determinato dal mercato e che non esistono classi universali.

Ma come si fa a fondare una vera critica al capitalismo come sistema d’ingiustizia sociale, se si cade nel relativismo etico? Petrucciani sostiene che i fondamenti morali della critica devono essere universali. Dunque si domanda: quale può essere una valida giustificazione etica della critica allo sfruttamento? Forse potrebbe essere una teoria basata sulle seguenti due proposizioni: 1) solo il lavoro crea valore, 2) solo il produttore di un bene ha titolo legittimo alla sua appropriazione. Senonché entrambe le proposizioni sembrano mal fondate in Marx.

La prima, secondo Petrucciani, è fallace in quanto è basata sulla teoria del valore-lavoro. Su questo punto però mi sembra un po’ precipitoso, e non perché questa teoria sia valida. Il fatto è che a volte Marx dà l’impressione di trattare la prima proposizione come un teorema e di usare il concetto di “lavoro contenuto” per dimostrarlo. Però la dimostrazione si risolve in una petizione di principio. Si dimostra che il plusvalore coincide con il pluslavoro perché siassume che il valore è “lavoro cristallizzato”. Allora tanto vale prendere quella proposizione come un assioma, invece che come un teorema. D’altra parte, se serve per fondare una teoria normativa, deve essere presa come un assioma. In quanto tale non ha bisogno di essere dimostrata. È valida per assunzione, qualunque sia l’unità di misura del valore, e quindi non è inficiata dai vizi analitici del valore-lavoro.

Più interessante la critica alla seconda proposizione. Richiamando argomentazioni elaborate da Gerald Cohen, Petrucciani suppone che essa potrebbe essere fondata su un principio di giustizia più profondo, quello che Robert Nozick, utilizzando un’idea di Locke, ha riformulato nei termini di un assioma di auto-proprietà: per diritto di natura ogni individuo è libero in quanto è proprietario di se stesso. Ebbene, la proprietà di uno stock implica quella del flusso da esso prodotto (il proprietario di un albero lo è dei suoi frutti). Quindi il lavoratore, se è proprietario del proprio “capitale umano”, ha titolo legittimo alla proprietà del suo prodotto e perciò è sfruttato se i capitalisti si appropriano del plusvalore. Ma c’è un problema. Il diritto di proprietà su una cosa implica, tra gli altri, il diritto alla sua alienazione. Dunque il lavoratore dovrebbe avere il diritto di vendersi come schiavo.  Il ragionamento non fa una piega, tanto che Nozick, l’ultra-conservatore pseudo-libertario, non ha esitato a riconoscere che la propria teoria della giustizia deve ammettere la legittimità della schiavitù. Ora, che razza di critica universale allo sfruttamento capitalistico sarebbe una che legittimasse la schiavizzazione dei lavoratori?

Petrucciani conclude a malincuore che la teoria dello sfruttamento non può essere trasformata in una critica del capitalismo fondata su principi universali di giustizia. Qui però vorrei venirgli in soccorso. Le sue conclusioni negative derivano da due atti di generosità: quello di seguire Marx nel trattare la prima proposizione come un teorema e quello di seguire Locke nel fondare la seconda proposizione sull’assioma di auto-proprietà. Se fosse stato più cattivo, avrebbe riconosciuto che Marx sbagliava a credere di aver bisogno di dimostrare un teorema quando avrebbe dovuto limitarsi a postulare un assioma (il che, tra l’altro, ci avrebbe risparmiato tutta la farragine dialettica del primo capitolo delCapitale).  Di Locke avrebbe potuto notare la fallacia del ragionamento che vorrebbe giustificare il principio di auto-proprietà: se uno schiavo non è libero in quanto appartiene a un’altra persona, allora un uomo è libero in quanto appartiene a se stesso. Ovviamente è un non sequitur, la conclusione corretta dovendo essere: è libero in quanto non appartiene a un altro.

La seconda proposizione però potrebbe essere fondata su un criterio di giustizia distributiva proveniente anch’esso, secondo alcuni, dal diritto naturale: il cuique suum, un principio che è presente in tutta la storia giuridica occidentale (si trova in Simonide, Platone, Aristotele, Ulpiano, Giustiniano, Tommaso, giù giù fino a Di Pietro, Berlusconi e l’Osservatore Romano). E si trova anche in Saint-Simon e Marx: a ciascuno secondo le sue capacità, almeno nella prima fase del comunismo. Dunque la critica moralista dello sfruttamento può essere fondata su una teoria universale della giustizia.

Ma sono sicuro che Petrucciani non gioirebbe per questo aiutino che gli ho dato. Infatti una tale eventuale teoria della giustizia verrebbe a trovarsi in contraddizione con il principio distributivo che Marx attribuisce al comunismo finale: da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni. Cos’è questa roba? Un’altra filosofia morale?  Poniamo che lo sia. Ebbene, i suoi fondamenti giuridici sarebbero non meno universali di quelli del cuique suum, derivando non dal diritto naturale bensì niente meno che da quello divino: “adferebant pretia eorum quae vendebant  et ponebant ante pedes apostolorum dividebantur autem singulis prout cuique opus erat” (Atti, 4:34-5). I credenti conferivano il valore di ciò che avevano venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, dopo di che i soldi venivano distribuiti a ciascuno secondo il bisogno. E chi esitasse ad accettare un fondamento cristiano per un principio distributivo comunista, potrebbe riflettere sul fatto che tale principio regola l’allocazione delle risorse non soltanto nei conventi francescani o nella repubblica gesuita del Paraguay, ma anche in qualsiasi famiglia ristretta e in molte comuni anarco-comuniste fondate sull’amicizia.

Qui però emerge una contraddizione. Una certa teoria della giustizia “marxista” consente di criticare eticamente il capitalismo perché comporta lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti. Un’altra teoria della giustizia sempre “marxista” legittima una distribuzione dei beni che, in base alla prima teoria, deve essere interpretata come un caso di sfruttamento dei capaci da parte degli incapaci (i secondi, se hanno bisogni eccedenti ciò che producono con le proprie capacità, si appropriano di un sovrappiù estratto dal lavoro dei primi). Come se ne esce? Male, molto male. Marx postula che il cuique suum valga solo nella prima fase del comunismo, quando vigono ancora le leggi e l’etica della società borghese, e che il prout cuique opus est valga nel comunismo finale. Il che vorrebbe dire che il capitalismo viene criticato in quanto ingiusto in base a un principio che è ancora borghese, non comunista. Il principio etico superiore invece non potrebbe essere usato per criticare lo sfruttamento capitalistico perché si limiterebbe a sostituire una forma di sfruttamento con un’altra.

Secondo Petrucciani è per uscire da quest’ultimo tipo di difficoltà che Marx ha postulato che il comunismo finale potrà realizzarsi solo quando sarà stata superata la scarsità dei beni e il lavoro sarà diventato il primo bisogno dell’uomo. Nel qual caso bisognerebbe riconoscere che sarebbe alquanto stramba una filosofia della giustizia che può essere messa in pratica solo in un mondo in cui non serve. Infatti nel paese di Cuccagna non c’è bisogno di alcun criterio distributivo.

Conclusione: Marx non è un buon filosofo morale. Petrucciani ne deduce che per fondare una teoria “marxista” della giustizia bisogna cercare al di fuori del marxismo. Ma prima di entrare in questo campo voglio tornare indietro e porre la domanda: non sarà che il Moro non è un buon filosofo morale perché proprio non è interessato ai principi universali della giustizia? Petrucciani lo riconosce onestamente. È proprio così: Marx per lo più rifiuta ogni tentativo di fondare eticamente il socialismo e la critica al capitalismo. Il suo approccio è positivo, non normativo. La sua vuole essere una teoria scientifica della storia e della prassi politica. I principi etici, per lui, non hanno nulla di universale, poiché sono storicamente determinati e conformati dagli interessi. Non solo prevalgono norme morali differenti in diverse epoche storiche, ma accade che perfino in ogni determinata formazione economica esistono etiche contrastanti in funzione degli interessi delle classi in conflitto.

In questo tipo di approccio la teoria dello sfruttamento non serve a criticare eticamente il capitalismo. Serve ad analizzare le sue leggi di funzionamento e di movimento. E il criterio allocativo comunista non definisce il modo in cui benidevono essere distribuiti in un’ideale società giusta, bensì le modalità con cui i beni verranno di fatto prodotti e distribuiti in una società in cui non ci sarà più “scarsità” o qualcosa del genere.

Il che però solleva un altro ordine di problemi. Ha senso postulare una società in cui è stata abolita ogni forma di scarsità? Petrucciani, ragionevolmente, pensa di no.  E si domanda quindi come potrebbe essere difeso quel criterio allocativo per usarlo come principio di giustizia senza ipotizzare sovrabbondanza di ogni bene. La risposta che propone è: Solidarietà. Poiché quel criterio di fatto opera già oggi entro ogni comunità fondata sull’amore, allora una società comunista potrebbe essere considerata giusta in quanto basata sulla fratellanza umana. Non a caso Petrucciani tende a rivalutare il Marx romantico degli scritti giovanili e a rifiutare ogni teoria della rottura epistemologica. Ma deve essersi reso conto che questa via d’uscita è piuttosto debole. Perciò non v’insiste molto e preferisce calcare altri sentieri. Il motivo per cui è debole è semplice: l’amore è un sentimento, e quindi non può essere una norma morale. Se lo si impone come regola di comportamento e come criterio distributivo lo si uccide. La solidarietà non può fondare alcuna teoria della giustizia. Una società basata su un obbligo di assistenza verso gli altri, entro un’economia in cui esiste scarsità, potrebbe ben mettere in pratica il criterio “da ognuno secondo le sue capacità e a ognuno secondo i suoi bisogni”. Per farlo, però, dovrebbe imporre il lavoro forzato, visto che i sentimenti di fratellanza non possono essere imposti normativamente.

Ad ogni modo non era questa l’idea di Marx. È probabile che la necessità della concisione e il rifiuto di scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire abbiano indotto l’autore della Critica del programma di Ghota a esprimersi in modo impreciso quando ha voluto descrivere il comunismo finale. Ora proviamo a dargli credito, una volta tanto. E cerchiamo di essere un po’ più precisi di quanto è potuto essere lui. Non c’è bisogno di ipotizzare sovrabbondanza assoluta di ogni bene e assenza di disutilità in ogni tipo di lavoro. Si potrebbe però supporre che il progresso tecnico avanzi a tal punto che i beni necessari a condurre un’esistenza soddisfacente e una vita sociale decorosa possano essere accessibili a tutti e possano essere attribuiti, ad esempio, con un salario di cittadinanza e con dei servizi sociali gratuiti (i beni pubblici sono distribuiti in base al criterio del bisogno e finanziati in base al criterio della capacità contributiva). Che inoltre i robot riescano a svolgere buona parte del lavoro servile necessario per produrre i beni. Che molti processi lavorativi possano essere trasformati in modo che il lavoro umano divenga un mezzo di autorealizzazione. E che il residuo non automatizzabile di lavoro spiacevole e faticoso possa essere ripartito fra tutti i cittadini in modo da ridurlo a poche ore a settimana. A tal fine si potrebbe usare come motivazione la solidarietà dove possibile e, dove non possibile, il reddito come incentivo. È utopistico? Direi proprio di no. Keynes pensava che un mondo simile sarebbe stato tecnicamente accessibile ai suoi nipoti. Oggi i suoi pronipoti, quelli che non trovano lavoro neanche come precari superflessibili, sanno che un mondo migliore è possibile, ma anche che non si può realizzare nel capitalismo. Per tal motivo, poniamo, lottano per il comunismo. Questi giovani hanno bisogno di una teoria morale per indignarsi? O non hanno piuttosto bisogno di conoscenze scientifiche da poter usare per cambiare il mondo?

Devo ringraziare Petrucciani per avermi aiutato a capire perché la teoria di Marx non può essere riscritta come filosofia della giustizia: come tale, sarebbe piena di aporie. E lo comprendo, anche se non lo seguo, quando sostiene che per rifondare eticamente il “marxismo” bisogna fuoriuscirne. Le fuoriuscite esplorate da Petrucciani sono due, entrambe affollate di marxisti analitici.

La prima, aperta da Brenkert e da Lukes, conduce a rivalutare il Marx filosofo della liberazione e a porre la libertà a fondamento di una teoria “marxista” della giustizia. Ora, che il Moro fosse un filosofo della libertà non c’è dubbio. Questa è, diciamo così, la parola d’ordine che ricorre più frequentemente nei suoi scritti politici, molto più di quella inneggiante all’uguaglianza. E si capisce, dal momento che la stessa cosa accadeva in Hegel. Ciò però dovrebbe metterci in sospetto. Soprattutto negli scritti giovanili il Moro insiste sulla libertà e la intende proprio alla maniera di Hegel. Nella Sacra famiglia ad esempio scrive che un uomo è libero “non per la forza negativa di evitare questo o quello, ma per il potere positivo di far valere la sua vera individualità”. La libertà dell’uomo è la facoltà di autorealizzarsi, di attuare la propria vera essenza umana.  L’hegeliano “uomo reale” è l’individuo che eleva la propria particolarità al riconoscimento dell’universalità dello Stato accettando liberamente il ruolo che in esso gli è imposto dalla ragione. Ebbene il giovane Marx si limita a sostituite, nella tesi di Hegel, il concetto di Stato con quello di Comunità,  però l’idea di libertà è la stessa. Engels l’avrebbe poi sintetizzata in modo apodittico: libertà è la volontà della necessità.

Petrucciani si attacca a questa concezione giovanile e, utilizzando la dicotomia concettuale di Isiah Berlin, interpreta Marx come un filosofo della libertàpositiva, libertà intesa come potere di autorealizzazione. Senonché il Marx maturo supera quella concezione, e la supera innanzitutto perché rifiuta la metafisica dell’essenza umana, dell’ente generico come soggetto universale, e poi perché cerca di capire come potrebbe essere concretamente concepito un modo di produzione in cui il lavoratore è libero, cioè non è fatto oggetto della sottomissione al capitalista. La risposta che trova è: “L’autogoverno dei produttori”, ovvero “lavoro libero e associato […] questo è il comunismo”. E qui siamo proprio lontani da Hegel.

Certo che il Marx maturo non sviluppa una teoria organica della libertà, ed è vero che le sue discussioni dell’argomento sono piuttosto estemporanee e non prive di ambiguità, tanto che un’esegesi attenta potrebbe far emergere più di una definizione di libertà, diciamo: almeno quattro. Una di queste – libertà collettiva come regolazione sociale cosciente della produzione – sembra risentire ancora di un’influenza idealista. Petrucciani ha buon gioco nel sostenere che una tale concezione potrebbe portare a esiti illiberali e utilizza un altro scritto giovanile (Sulla questione ebraica) come pezza d’appoggio per la tesi di un Marx poco sensibile alle problematiche dei pur fondamentali diritti civili. Ma in tal modo si preclude la possibilità di far tesoro di concezioni alternative che pure si trovano in Marx, non ultima quella, riproposta da Gramsci, di libertà come possibilità di scelta.

Come che sia, ha ragione Petrucciani: neanche il concetto di “libertà” può essere usato per fondare una soddisfacente teoria marxista della giustizia. Il punto è: come viene usato da Marx? La dicotomia concettuale di Berlin non ci aiuta a capirlo. Peraltro questa dicotomia è stata molto criticata e ampiamente superata dallo stesso pensiero analitico anglosassone. Un fondamentale contributo di MacCallum del 1967 ha aperto un filone di ricerca che, riconosciute le carenze definitorie che stanno all’origine della dicotomia berliniana, ha portato all’elaborazione del più moderno concetto di libertà come facoltà di scelta. Negli ultimi vent’anni poi vari economisti (di orientamento più o meno socialista), come Sen, Pattanaik, Xu, hanno sviluppato formalmente la teoria producendo raffinati teoremi matematici che il Moro avrebbe potuto far propri. Alla luce delle loro concezioni si potrebbero meglio apprezzare certe avanzatissime intuizioni di Marx. E si potrebbe capire che nei suoi scritti politici la libertà è una nozione di tipo descrittivo: serve a individuare le motivazioni che spingono i proletari a lottare per cambiare la propria vita abbattendo il sistema economico che li sottomette formalmente e realmente al capitale.

La seconda strada per rifondare Marx come teorico della giustizia è quella percorsa da quasi tutti i marxisti analitici americani. È una strada che è stata aperta da tre grandi pensatori liberali: Harsany, Rawls e Dworkin. Il secondo, che piace molto a Petrucciani, sviluppa una teoria che combina ecletticamente Kant e Bentham, l’uno per giustificare eticamente l’allocazione dei beni primari (e.g. la libertà), l’altro per giustificare utilitaristicamente quella dei beni non primari (e.g. le patate). Pur polemizzando con Harsany (l’economista che meglio di ogni altro è riuscito a formulare un principio di giustizia universale su basi filosofiche utilitariste), Rawls usa il suo stesso metodo per definire la propria morale economica. Collocati dietro un velo d’ignoranza o in un ipotetico stato originario pre-sociale, tutti gli individui egoisti e razionali sceglierebbero di vivere in un mondo moderatamente egualitario (Harsany) oppure (se hanno un’assoluta avversione al rischio) in un mondo fortemente ugualitario (Rawls). L’universalità della giustizia egualitaria deriva dall’universalità della ragione strumentale: tutti gli uomini razionali, se sono egoisti, avrebbero quelle “preferenze etiche” sulla distribuzione dei beni non primari; nessuno vorrebbe vivere in un mondo competitivo in cui potrebbe nascere disabile o precario. Se si aggiunge kantianamente che anche la razionalità sostanziale è universale, si arriva alla conclusione che tutti gli individui nello stato originario decideranno che pure i beni primari debbano essere distribuiti in modo egualitario. Certo ci si potrebbe domandare che tipo di moralità sarebbe una che nasce dall’egoismo ontologico, e forse Petrucciani si sarà chiesto come conciliare questo tipo di filosofia della giustizia con una concezione della buona società fondata sulla solidarietà.

Ma a me sembra che il problema cruciale sia un altro. Le filosofie morali utilitariste sono molto sensibili alla variabilità degli assiomi. Basta un’ipotesi leggermente diversa, ad esempio sul grado di avversione al rischio degli individui, per avere teorie della distribuzione giusta radicalmente differenti. Nonostante l’universalità della ragione! Per Harsany (che assume una moderata avversione al rischio) sarebbe giusto che chi è dotato di scarse capacità produttive guadagni poco. Per Rawls sarebbe ingiusto. Per Dworkin (che non assume auto-proprietà) sarebbe giusto fornire un’universale assicurazione sociale contro le disabilità naturali. Per Nozick (che l’assume) sarebbe ingiusto far pagare l’assicurazione ai capaci che guadagnano molto.

Il fatto è che ogni teoria della giustizia deve essere fondata su assiomi universali; ma, per quanto è a mia conoscenza, non esiste un solo assioma che sia universalmente accettato. Ora, l’esistenza di una molteplicità di teorie morali non è un problema grave per chi lo affronta nell’ottica hegeliana dell’eticità. In un discorso di etica descrittiva si tratta di spiegare la molteplicità. E la spiegazione di Marx è materialista: esistono etiche diverse perché esistono classi con interessi, preferenze e ideologie contrastanti.

Quel fatto però costituisce un problema serio per i filosofi della giustizia. Le teorie morali sono elaborate nel mondo dell’astrazione, senza tener conto del mondo reale.  Ogni filosofo della giustizia elabora la propria e, per definizione, la pone come l’unica giusta, altrimenti non potrebbe considerarla universale.  Senonché, quando si confronta con la realtà si rende conto che ne esistono molte, e tutte pretendono di essere universali. E l’unico modo per dar conto della molteplicità è di giudicare erronee tutte quelle diverse dalla propria.

Non è un problema solo astratto, anzi qui risiede la radice filosofica del dramma di tutte le rivoluzioni fatte in nome della giustizia. Lo si capisce se si riflette sulla relazione tra socialismo e democrazia. Petrucciani ci fornisce tutti gli elementi per affrontare correttamente questo problema, senza però fare il passo decisivo per risolverlo. Sostiene, sulla scorta di vari filosofi che ama (Habermas, Rawls, Bidet), che “il senso normativo del concetto di socialismo non può vivere se non trasfondendosi in quello di una democrazia coerentemente pensata”. Ora, la democrazia implica che ogni individuo possa votare secondo le proprie preferenze personali (così Rawls definisce le preferenze non etiche), le quali sono eterogenee. La maggioranza potrebbe decidere, poniamo, che il bilancio pubblico deve essere in pareggio. Tutti devono rispettare le leggi e i disoccupati dovranno adattarsi. È la democrazia, ragazzi! – Direbbe Monti.  Ma cosa accade quando si tratta di decidere su problemi di natura morale (supponendo che quelli fiscali non lo siano)? I cittadini dovranno poter votare secondo le proprie preferenze etiche.  E anche queste sono eterogenee, pur pretendendo tutte di essere universali, assolute e moralmente vincolanti.

Qui emergono due difficoltà. La prima è che il governo dei filosofi (della giustizia) potrebbe voler imporre ai cittadini comportamenti contrari ai loro principi etici, ad esempio: tutte le donne devono indossare lo chador, anche quelle che non vorrebbero.  Come se ne esce? Petrucciani propone rousovianamente che vengano stabilite delle condizioni imprescindibili della democrazia, delle condizioni riguardanti “ciò che nessuna maggioranza democratica potrebbe mettere in discussione, pena la distruzione della democrazia stessa e la sua trasformazione in dittatura”.  Tra queste condizioni rientra, verosimilmente, il principio di laicità dello stato, ovvero la regola secondo cui ognuno deve poter seguire i canoni morali che preferisce. Dunque non ci può essere democrazia in uno stato dominato da cattolici integralisti. O gli omosessuali sono giustiziati o i credenti sono privati del diritto di voto. In entrambi i casi non sono soddisfatte le condizioni fondamentali della democrazia.

Il problema della rivoluzione cui accennavo sopra deriva da questo. Il partito rivoluzionario prende il potere e avvia un processo di trasformazione politica, sociale ed economica sulla base della propria teoria della giustizia.  Poniamo che abbia il consenso della maggioranza e facciamo un esempio storico significativo. Il partito dei Piagnoni di Girolamo Savonarola rovescia la signoria dei Medici, restaura la Repubblica e la trasforma in una monarchia elettiva, innalzando al trono Cristo Re. Poi proibisce le scollature degli abiti femminili e altre scelleratezze simili. Infine stabilisce che il diritto di voto venga assegnato a un consiglio  ristretto di Migliori. Il popolo approva – diciamo, con un contratto sociale originario – rinunciando una volta per tutte al proprio potere. Si tratta di una democrazia giusta? Presumo che Petrucciani risponderebbe di no, sulla base della propria teoria della giustizia. Tuttavia ciò che rileva è come risponderebbe il filosofo che ha preso il potere. E non c’è dubbio che risponderebbe di sì. Perché? Perché l’adesione a una filosofia morale universale implica l’obbligo di realizzarla.  Robespierre era moralmente obbligato nel decretare il terrore, e Lenin nello sciogliere l’Assemblea Costituente. Che bisogno c’è di una vera democrazia quando i Migliori governano in nome della Verità e della Giustizia? Peggio: quando le preferenze etiche del popolo possono essere in contrasto con quelle “universali”?

Come si può uscire da questa difficoltà? Il giovane Marx liberale, sulla scorta della lezione di Spinoza, avanzò una sua proposta nell’articolo Sulle recenti istruzioni della censura in Prussia.

Lo Stato morale impone ai suoi membri le proprie intenzioni […], ma se in una società un organo si vanta di essere possessore unico ed esclusivo della ragione e della moralità dello Stato, se un governo si mette in contrasto di principi con il popolo e crede poi che le proprie intenzioni siano generali e normali, allora la cattiva coscienza della fazione crea leggi sulle tendenze.

Leggi sulle tendenze […] sono leggi del terrorismo quali le inventò la necessità di Stato sotto Robespierre […] Leggi che hanno per oggetto non già un’azione come tale, ma le intenzioni della persona che le compie. [Sarebbe] meglio, come quello zar, far tagliare la barba a tutti i cosacchi, anziché porre come criterio del taglio la mentalità con cui io porto la barba.

Come dire: uno stato etico non può essere democratico; o meglio, una vera democrazia non deve essere governata in nome di una filosofia della giustizia. La proposta del giovanissimo Marx per uscire da quella difficoltà era semplice: “La cura radicale per la censura sarebbe la sua abolizione.” Io personalmente sarei ancora più drastico, e proporrei di includere nelle condizioni imprescindibili della democrazia un articolo che toglie i diritti politici ai filosofi della barba universale.

Ernesto Screpanti è Professore ordinario di Economia politica all’Università di Siena. Fra i suoi libri più recenti ‘Comunismo libertario. Marx Engels e l’economia politica della liberazione’ (Manifestolibri, 2007).