Karl Marx ✆ Kenny McAndrew |
Ascanio Bernardeschi
1. Premessa
La coincidenza fra gli importanti studi filologici attorno
all’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels1 e l’avanzare
di una importante crisi del capitalismo mondiale, ha determinato una ripresa
dell’interesse verso la teoria della crisi economica all’interno del sistema di
analisi di Marx. Se ormai resta diffìcile per chiunque disconoscere
l’importanza del lascito marxiano su questo argomento, gli stessi estimatori di
Marx si dividono fra di loro su questioni interpretative rilevanti. Ne è esempio
il pregevole numero monografico sulla crisi in Marx della rivista «Pagine
inattuali» 2.
Per esempio Giovanni Sgro’, curatore del numero della
rivista, nella sua analisi dei Quaderni
di Londra 3, sostiene che in Marx non «vi siaun’unica teoria
della crisi» ma «diversi approcci teorici per l’analisi e la
spiegazione delle crisi» 4. Stefano Breda da parte sua sostiene - se abbiamo ben capito
- che non esista, e non possa esistere all’interno del livello di astrazione
cui giunse Marx, una teoria della crisi in quanto la spiegazione di tali
fenomeni deve avere le caratteristiche di teoria
cuscinetto5 frapposta fra il cielo della teoria della struttura del modo
di produzione capitalistico e la terra dell’analisi dei fenomeni
contingenti che caratterizzano le diverse crisi 6.
Con il presente lavoro, pur astenendoci dall’entrare nel
merito delle interpretazioni, per la qual cosa non siamo attrezzati,
vorremmo discutere della coerenza logica dell’elaborazione marxiana e della sua
utilità per comprendere la “terra” della crisi attuale. È nostra opinione infatti che, nonostante la sua
incompiutezza, il Capitale e
i relativi lavori preparatori ci forniscano tutti gli elementi necessari per
una teoria coerente e unitaria della crisi, in quanto quelli ciò che Sgro’ considera
«diversi approcci» non sono altro che le esposizioni delle diverse
contraddizioni del modo di produzione capitalistico, tutte componenti
essenziali di una spiegazione unitaria.
Cercheremo inoltre di argomentare come anche al livello di
astrazione del Capitale questa
struttura analitica possa guidarci a interpretare correttamente i fenomeni
contingenti. Le necessarie teorie cuscinetto si rendono invece necessarie per
elaborare strategie politiche spendibili nelle situazioni contingenti. Tuttavia
la specificità delle diverse crisi non sarebbe adeguatamente indagabile senza
una teoria generale basata sulle contraddizioni di fondo, comuni alle diverse
situazioni, del modo di produzione capitalistico.
In appendice vengono infine proposti alcuni spunti in merito
alla discussione sulla validità della marxiana legge della caduta tendenziale
del saggio del profitto.
2. La possibilità astratta della crisi
Ai tempi di Marx, secondo l’ortodossia degli economisti
borghesi la crisi non doveva esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti
classici.
Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato
sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori
economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non
compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni,
pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire
nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta legge di
Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione
sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda.
Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i
brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e
offerta7.
Certamente anche a quei tempi non mancarono gli eretici più
dubbiosi, quali Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro
l’egemonia schiacciante dei negazionisti.
Figuriamoci poi cosa poterono dire gli apologeti. Qualcuno
ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8, tanto per escludere che
le crisi potessero essere causate da contraddizioni insite al modo di
produzione capitalistico.
Insomma la crisi o non esiste, o è il prodotto di cause
“esogene”, o frutto di comportamenti di operatori irrazionali,
o troppo egoisti (capita a volte di esagerare), oppure è il risultato
di politiche sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di
un evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.
Marx ha confutato la legge degli sbocchi, partendo
dall'incipit del Capitale:
il duplice carattere della merce 9.
Questa «cellula elementare» del capitalismo è già in sé una
contraddizione in quanto è sia un bene utile a soddisfare bisogni umani che una
depositaria di ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto
occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è solo
quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma non ha un
valore d'uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è un valore di scambio
potenziale che per realizzarsi come effettivo valore di scambio deve incontrare
nel mercato qualcuno che le consideri un buon valore d'uso.
Con l'introduzione del denaro il valore si polarizza in
quest'ultimo, più appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel
conferire al possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo
opposto, specularmente, le merci sono valori d'uso che possono realizzare il
loro valore solo scambiandosi con denaro.
Il denaro separa in due atti distinti la metamorfosi della
merce (M-D-M') a differenza di quanto avviene con lo scambio immediato o
baratto (M-M'). Nel baratto colui che vende è nello stesso istante colui che
acquista l'altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui in
questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio viene
spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità che, dopo la
prima, il venditore preferisca non spendere subito il suo denaro, ma
tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati, togliendolo quindi dalla
circolazione senza mettere in atto la domanda corrispondente. In tal modo ci
sarà da qualche parte un potenziale venditore che non troverà il suo
acquirente, che non riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.
Parafrasando il brano di Ricardo riportato nella nota 7,
Marx afferma: «Nessuno può vendere senza che un altro compri, ma nessuno ha
bisogno di comprare subito per il solo fatto di aver venduto». E poi prosegue:
«La circolazione spezza i limiti cronologici, spaziali ed individuali dello
scambio dei prodotti [...]. L'opposizione immanente alla merce di valore d'uso
e valore, di lavoro privato che si deve allo stesso tempo presentare come
lavoro immediatamente sociale, di lavoro concreto particolare che allo stesso
tempo vale solo come lavoro astrattamente generale [...], questa contraddizione
immanente riceve le sue forme sviluppate di movimento nelle opposizioni della
metamorfosi della merce». Questa è la forma più astratta, la possibilità della
crisi11.
Tale possibilità si accentua in presenza della circolazione
del capitale. Non solo perché con il capitale si ha l’espansione e la
generalizzazione della produzione di merci, ma anche perché fra la prima fase,
l’acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro, e la seconda, la
vendita del prodotto, si incunea la produzione e il tempo di produzione, nel
corso del quale sono possibili rivolgimenti del mercato tali da non consentire
la completa realizzazione del valore prodotto.
Poiché in questo lasso di tempo [il tempo intercorrente fra l’acquisto dei fattori produttivi e la vendita del prodotto] nel mercato si verificano grandi rivolgimenti e modificazioni, poiché si verificano notevoli variazioni nella produttività del lavoro, e quindi anche nel valore reale delle merci, è evidente che dal punto di partenza - dal capitale presupposto - fino al suo ritorno devono verificarsi grandi catastrofi e devono ammassarsi e svilupparsi elementi di crisi che non si eliminano con la miserevole frase che i prodotti si scambiano contro prodotti. Il confronto fra i valori di una medesima merce in due epoche successive [...] costituisce il principio fondamentale del processo di circolazione del capitale 12.
È da considerare, inoltre, che il movente predominante del
capitale è l’accumulazione di ricchezza astratta, a prescindere dall’utilità
dei prodotti. La crisi sopraggiunge per far ritornare alla memoria la necessità
di un rapporto coi bisogni, per rimediare allo scollamento di un modo di
produzione che tende a farne astrazione e che tuttavia si deve misurare a
posteriori con essi.
Anche la funzione del denaro come mezzo di pagamento e il
credito, che si dirama e si interconnette tra vari produttori, amplifica la possibilità
di crisi, in quanto tende a permettere, per un po’, di continuare a produrre
prescindendo dalla validazione nel mercato dell’utilità sociale del prodotto,
rendendo così più violenta la “resa dei conti”: il fallimento di un debitore
può provocare, con la sua insolvenza, il fallimento del suo creditore, il quale
a sua volta non potrà onorare i suoi debiti nei confronti di terzi, innescando
una reazione a catena. Anche per questo motivo le crisi si manifestano come
crisi finanziarie, provocando, in chi vede solo la superficie delle cose,
l’illusione che esse siano causate nella sfera della finanza e del credito13.
I marxiani schemi di produzione14 sono lo strumento per
stabilire le condizioni necessarie perché il valore prodotto possa incontrare
la domanda necessaria alla sua realizzazione. Ciò avviene se i capitalisti nel
loro complesso spendono interamente il plusvalore sia per il loro consumo che
per ampliare la scala della produzione, acquistando nuovi mezzi di produzione e
assumendo nuova forza-lavoro. Quindi la parte non consumata improduttivamente
(risparmio) deve eguagliare l’investimento per ampliare i fattori produttivi,
posto che sia possibile e sia avvenuto il reintegro di quelli consumati nel
processo produttivo.
Si tratta dell’uguaglianza tra risparmi e investimenti ben
nota ai moderni “macroeconomisti”, che in Marx è arricchita da un’analisi dei
rapporti necessari tra i vari settori produttivi: tralasciando per comodità i
consumi dei capitalisti, il surplus di
merci dei settori che producono beni di consumo deve essere in parte destinato
ai nuovi lavoratori impiegati nei settori stessi e in parte venduto per i
consumi dei nuovi lavoratori impiegati nei settori che producono mezzi di
produzione, di modo che anche questi ultimi settori possano assumere nuova
forza-lavoro ed espandersi; analogamente il surplus di mezzi di produzione deve essere in parte utilizzato
all’interno dei settori in cui è prodotto e in parte scambiato con gli altri
settori di modo che anche questi ultimi possano espandere la scala della
produzione.
Perché gli scambi intersettoriali (beni di consumo contro
mezzi di produzione, in questo caso non solo per l’allargamento della
produzione, ma anche per i reintegri dei fattori produttivi consumati) possano
verificarsi, occorre che essi si bilancino anche in valore. Sono determinabili
così i rapporti di scambio necessari ad assicurare la riproduzione allargata
ottimale e che solo per caso possono coincidere con i prezzi di mercato. Da
tali rapporti si può derogare solo temporaneamente, grazie al credito15.
In un modo di produzione governato dagli interessi di
capitalisti isolati, non coordinati fra di loro, niente può assicurarci che la
condizione si equilibrio si realizzi. Inoltre il carattere dinamico del
capitalismo, le innovazioni tecnologiche e la tendenza a modificare la
composizione del capitale, tendono a mutare continuamente tali condizioni. Si
verificherà quindi un continuo aggiustamento, per tentativi, errori e
oscillazioni più o meno importanti, verso una situazione ideale che, come la
tartaruga di Achille, si sposta continuamente e diviene raggiungibile solo per
caso.
Da qui la possibilità della crisi.
3. Le cause della crisi
In un sistema in cui il movente degli agenti economici è la
valorizzazione del capitale, la causa fondamentale degli inceppamenti della
produzione è riscontrabile nell’insufficiente valorizzazione. Tale circostanza
può verificarsi o perché la massa del pluslavoro estraibile dai lavoratori
impiegati non è sufficiente a remunerare il capitale impiegato oppure perché
tale plusvalore, anche essendo prodotto in misura sufficiente allo scopo, non è
interamente realizzabile nel mercato. In entrambi i casi il capitalista, dopo
aver esaurito tutti i margini per un maggiore sfruttamento della forza-lavoro,
deve arrestare o ridurre la produzione. In alternativa può mettere in atto
innovazioni di processo o di prodotto che lo possano ricollocare sul mercato ai
danni dei capitalisti concorrenti. Pertanto, pur avendo ciascuna crisi proprie
specifiche caratteristiche, le cause possono essere classificate in due
categorie principali, tra le quali c’è sempre nella realtà una interazione:
3.1. crisi di realizzo, o da domanda, e 3.2. crisi legata all’andamento del
saggio del profitto.
3.1. Crisi di realizzo
Gli schemi di riproduzione dimostrano che il sistema può
riprodursi armonicamente, solo a patto che vengano mantenute determinate
proporzioni fra i settori e fra gli scambi intersettoriali. Qualsiasi
sproporzione significativa può causare una crisi. Tale sproporzione non si
riferisce solo ai rapporti tra i diversi rami produttivi: una eccessiva o
insufficiente capacità produttiva di un’industria rispetto alle necessità delle
altre. Esiste anche la sproporzione tra produzione e consumo. La domanda di
beni di consumo può essere insufficiente ad assorbire completamente la
produzione a causa della distribuzione del reddito, del fatto che ai lavoratori
va solo una parte del valore da essi aggiunto nel processo produttivo e che
quindi possono acquistare solo una parte del corrispondente prodotto che viene
messo sul mercato.
Visto che il valore corrispondente al lavoro non pagato va
ai profitti e alle rendite, il capitale tende ininterrottamente ad accrescerlo
comprimendo i salari. Con lo sviluppo tecnologico si possono produrre i mezzi
di sussistenza della classe lavoratrice con meno dispendio di lavoro. Così una
frazione sempre più piccola della ricchezza prodotta va ai lavoratori e una
sempre più grande costituisce il plusvalore. Cosa succede del plusvalore
prodotto, cioè del valore eccedente la capacità di spesa dei lavoratori? I
capitalisti potrebbero spenderlo in beni di lusso ma, per quanto ingenti siano
tali consumi, il consumo improduttivo contraddice la stessa natura del
capitalista, che è un funzionario, la personificazione del capitale, la cui
vocazione è l’accumulazione. Debbono quindi spenderla in buona parte per
accrescere la capacità produttiva.
Ma a chi vendere il prodotto di questa nuova capacità? Certo
il mercato di mezzi di produzione fra capitalisti assume un’importanza
crescente, ma è assurdo ritenere che si possano produrre sempre più mezzi di
produzione per venderli ad altri capitalisti che i quali li acquistano per
poter produrre ancor più mezzi di produzione e così via. Il capitalista può
tendere ad astrarre dai bisogni reali per concentrarsi sul profitto, ma può
farlo solo entro certi limiti. A lungo andare la crisi gli ricorderà che non si
può produrre senza un rapporto col consumo e con i bisogni. E in questo caso i
bisogni che contano sono quelli “solvibili”16, non quelli che le classi
impoverite non riescono a soddisfare.
In sostanza il capitale tende a limitare la capacità di
consumo dei lavoratori e nello stesso tempo a espandere il livello della
produzione, di conseguenza ad accrescere la massa di prodotti che non possono
entrare nella circolazione.
Riguardo al suo operaio ciascun capitalista [...] desidera restringere il più possibile il suo consumo [...] Egli si augura naturalmente che gli operai degli altri capitalisti siano il più possibile grandi consumatori della sua merce .
3.2. Caduta tendenziale del saggio del profitto
Un altro motivo per cui è improbabile un’accumulazione
indisturbata consiste nel fatto che i capitalisti investono, e quindi comprano
mezzi di produzione e forza-lavoro, solo se prevedono un sufficiente ritorno
del capitale investito, se si aspettano di poter fare profitti a sufficienza.
Altrimenti arrestano il processo di accumulazione e con esso la loro domanda di
mezzi di produzione e la domanda di mezzi di consumo da parte dei propri
lavoratori.
La convenienza a investire si verifica quando l’importo del
plusvalore determina una sufficiente aliquota del capitale anticipato, cioè in
un ragionevole saggio del profitto, in base alle condizioni sociali e tecniche
vigenti in quel determinato momento, saggio del profitto, definito come il
rapporto tra plusvalore e capitale anticipato sia per retribuire la
forza-lavoro (capitale variabile) che per acquistare mezzi di produzione quali
macchinari, materie prime e semilavorati, energia, brevetti ecc. (capitale
costante).
r=pv/c+v (1)
(r = saggio del profitto; pv = plusvalore; c = capitale
costante; v = capitale variabile)
La tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è una
caratteristica del modo di produzione capitalistico, rilevata in moltissimi
studi empirici18. Già gli economisti classici, di fronte all’evidenza,
avevano cercato di individuarne le cause. Ricardo, ad esempio, la spiegò con la
necessità di mettere a coltura terre sempre nuove e sempre meno fertili19. Marx
la spiega col progressivo aumento della composizione del capitale (c/v) e del
valore complessivo del capitale per addetto o, che è la stessa cosa, con
tendenza a sostituire lavoratori con macchine, con la conseguenza che il
numeratore della (1), il plusvalore, viene a rapportarsi con un denominatore,
il capitale, sempre più grande.
Non si tratta quindi di un problema del singolo capitalista,
ma della classe dei capitalisti nel loro insieme, in quanto si abbassa il
saggio medio del profitto, dato dai valori aggregati della (1), che per
distinguerli rappresentiamo con la lettera maiuscola.
r=Pv/C+V (2)
Vediamo come può accadere. Il mercato determina una tendenza
al livellamento dei prezzi, cioè all’affermazione, per ogni merce prodotta, di
un valore medio di mercato20, dato dal lavoro sociale necessario alla
produzione di quella merce sulla base di un livello medio di produttività. Se
un capitalista riesce a introdurre nella sua impresa un’innovazione che
accresce la produttività e gli permette di produrre a un costo (valore
individuale) inferiore a quello prevalente nel mercato (valore sociale), si
assicura ugualmente la possibilità di vendere al valore di mercato, o anche a
un corrispettivo alquanto inferiore. In questo modo, visti i minori costi,
realizzerà un profitto e un saggio del profitto superiori a quello medio.
Produrre a costi inferiori al valore di mercato equivale a diminuire la
quantità di lavoro impiegata in quella produzione, diminuire il valore
individuale di quel prodotto e incrementare il margine di profitto individuale.
È questo il movente principale dell’introduzione delle innovazioni.
Prima o poi gli altri capitalisti reagiranno introducendo
anch’essi delle innovazioni per annullare il vantaggio competitivo iniziale del
concorrente, o addirittura mandarlo “fuori mercato” attraverso tecnologie o
trucchi21 ancora più efficaci. Nella incessante corsa della concorrenza,
una volta incamerati i vantaggi temporanei da parte di chi è più veloce
nell’introdurre l’innovazione, abbiamo come risultato che diminuisce il lavoro
complessivo speso per la produzione delle merci, quindi il loro valore, e che
uno stesso numero di lavoratori mette in movimento una massa crescente di mezzi
di produzione. Detto altrimenti, con la generalizzazione delle innovazioni, in
ogni merce sarà inglobata una minore quantità di lavoro, mentre aumenterà il
valore complessivo del capitale in rapporto al lavoro vivo speso e il valore del
capitale costante in proporzione a quello del capitale variabile.
La tendenza generale sarà quindi verso la diminuzione del
saggio del profitto , pur con interruzioni, rimbalzi e fasi - anche prolungate
nel tempo - in cui prevale la tendenza opposta.
Non si tratta di una ineluttabile caduta. Marx considera
anche l’azione dei fattori, da lui chiamati cause antagonistiche 23, che mitigano, e in alcuni casi invertono,
questa tendenza. Infatti il capitale mette in atto politiche che ostacolano
questa caduta: in primo luogo, un maggiore sfruttamento della forza lavoro. A
tale scopo funzionano sia l’intensificazione del lavoro che la riduzione della
valore della forza-lavoro, attraverso innovazioni tecnologiche ma anche
attraverso l’abbassamento del tenore di vita dei lavoratori. L’ampliamento
dell’esercito industriale di riserva può servire per abbassare il livello dei
salari al pari dell’attuale tendenza alla delocalizzazione delle produzioni in
parti del globo terrestre in cui la forza-lavoro è a più a buon mercato. Tutte
queste pratiche tendono però a comprimere la domanda e comunque possono solo
parzialmente o temporaneamente, anche se per periodi rilevanti, contrastare la
caduta del saggio del profitto.
Quando il livello del saggio del profitto non consente di
proseguire convenientemente la produzione, si ha una contrazione della
produzione, un arresto degli investimenti e un’interruzione dell’accumulazione.
La convenienza viene ripristinata violentemente attraverso una crisi che
permette la distruzione del capitale in eccesso, particolarmente quello dei
capitalisti “marginali” e l’avvio un nuovo ciclo. Col progressivo accrescimento
della produttività, con la sostituzione progressiva del lavoro umano con le
macchine, sempre meno il lavoro sarà in grado di valorizzare l’enorme massa di
capitale accumulato.
Nel famoso frammento sulle macchine dei Grundrisse, citato a proposito e a
sproposito, vi si trova già l’esposizione dei limiti della valorizzazione, ma
si ragiona sulle conseguenze più generali di una tale prospettiva, non solo dal
punto di vista del capitale24.
Con l’incorporazione della scienza nelle macchine, il
lavoratore si riduce a un’appendice delle macchine stesse. La massa di valori
d’uso prodotti (di ricchezza reale, di cui il valore è solo un aspetto) dipende
più dalle potenze della scienza che dal lavoro vivo.
Perdendo importanza il lavoro vivo nella produzione di
valori d’uso, perde importanza anche il tempo di lavoro come misura del valore.
E anche il plusvalore prodotto cessa di essere la condizione per lo sviluppo
della ricchezza.
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo [...]. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato 25.
Viene in tal modo ribadito il concetto che lo sviluppo
capitalistico tende a ridurre il tempo di lavoro necessario ma,
contraddittoriamente, pone il tempo di lavoro e l’eccedenza di lavoro come
unica fonte di arricchimento e di valorizzazione del capitale. A ben guardare
sia la caduta del saggio del profitto che il sottoconsumo sono riconducibili a
questo carattere di fondo del capitalismo.
La pulsione del capitalismo di accrescere il pluslavoro
diminuendo il lavoro necessario attraverso le macchine, crea le condizioni per
aumentare il tempo di non lavoro disponibile per l’umanità. Da un lato, quindi,
si ampliano le potenzialità per sviluppare la ricchezza materiale, moltiplicare
i beni utili prodotti a prescindere dall’accumulazione di valore e di ridurre
il tempo di lavoro per tutti. Dall’altro, la forma capitalistica della
produzione e dell’appropriazione tende invece a bloccare queste potenzialità.
L’accumulazione di plusvalore a prescindere dai valori d’uso genera una
sovrapproduzione di capitale e di merci, una crisi e un’interruzione
dell’accumulazione stessa. La contraddizione si risolve positivamente solo se
la crescita delle forze produttive non viene subordinata all’estorsione di
pluslavoro, se i lavoratori divengono padroni del loro prodotto e regolano
l’attività economica sulla base dei bisogni e dell’obiettivo di liberare
progressivamente gli uomini dal lavoro. La vera misura della ricchezza sarà
appunto questo tempo liberato e non il tempo di lavoro. Ma questa possibilità
di sviluppo umano presuppone il superamento del capitalismo.
Detto con le parole di Marx,
il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione del lavoro necessario alla società ad un minimo, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica, umana degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti 26.
Nell’ambito del capitalismo, invece, la contraddizione si
supera con la distruzione di capitale e con la crisi.
4. L’operare congiunto delle contraddizioni 3.1. e 3.2
La mancanza di un ritorno adeguato blocca il processo di
investimento e l’occupazione dei lavoratori e quindi compromette lo sbocco
delle produzioni delle industrie che vendono mezzi di produzione e di quelle
che vendono beni di consumo dei lavoratori, le quali a loro volta domanderanno
meno mezzi di produzione e meno forza lavoro, innescando una spirale
perversa27.
Quindi nella realtà la contraddizione derivante
dall’insufficienza degli sbocchi e quella derivante dalla caduta del saggio del
profitto - riconducibili entrambe, come si è visto, alla scissione fra utilità
sociale e arricchimento privato - spesso convivono, agiscono in simbiosi e
danno luogo a interazioni importanti. Per questo, dovendo analizzare una
situazione concreta, è assai difficile isolare e misurare empiricamente i due
aspetti in maniera distinta.
La crisi, in estrema sintesi, ha il suo fondamento nella
contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di
produzione capitalistici. Se da un lato il capitale viene spinto ad espandersi
sempre di più, dall’altro lato i rapporti di produzione e di proprietà si
frappongono a questo sviluppo creando sovrapproduzione di capitale, cioè un
capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente e una sovrapproduzione di
merci, cioè merci che non riescono a essere vendute a un prezzo remunerativo.
Le cause quindi possono essere molteplici: espansione non
armonica tra i vari settori produttivi, scarsa valorizzazione del capitale investito,
scarsità di domanda solvibile. Nella pratica esse quasi sempre coesistono e
concorrono a trasformare la potenzialità in crisi reale che interrompe
l’accumulazione di capitale, producendo scossoni e inceppamenti della
produzione discontinui nel tempo.
Non solo. Se è agevole rilevare empiricamente una tendenza,
pur fra grandi oscillazioni, anche di lunga durata, alla diminuzione del saggio
del profitto, molto più complesso è stabilire in che misura questa caduta sia
da attribuire a una sovrapproduzione di capitale, quindi a una insufficiente
estrazione di pluslavoro rispetto al lavoro “morto”, o a una carenza della
domanda che impedisce di vendere a prezzi che consentano di realizzare
tutto il valore prodotto, concorrendo i due fattori a determinare tale
caduta28.
Detto ciò, non troviamo spiegazione delle ragioni di una
disputa fra marxisti per individuare lavera teoria di Marx, se essa sia
legata ai problemi dello sbocco o alla caduta del saggio del profitto. Marx in
un passo delle Teorie sul plusvalore ebbe
ad affermare che la crisi è «la compensazione violenta di tutte le
contraddizioni dell’economia borghese»29, che possono essere ricondotte alla
contraddizione tra il carattere sociale della produzione, che si è imposto con
lo sviluppo del capitalismo, e il carattere privato dell’appropriazione.
Quello appena citato è solo di uno dei tanti passi in questo
senso all’interno di un abbozzo di critica a Ricardo, ma è curioso che ciò non
sia bastato a prevenire questa disputa. Le crisi ci dicono che tale modo di
produzione non è né naturale né eterno ed è destinato a fare spazio, pena
l’arretramento della nostra civiltà, a un modo superiore di produrre, in cui le
scelte vengano effettuate dai produttori
associati su base consapevole, con riguardo ai bisogni umani e non
demandate alla spontaneità del mercato e guidate dalla brama di arricchimento
privato.
Per questo lascia perplessi anche una recente affermazione
di Vladimiro Giacché, secondo cui la caduta del saggio del profitto «non è una
spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo
periodo del modo di produzione capitalistico»30. Invece è l’una non meno
dell’altra. Non solo perché la stessa teoria della crisi in Marx è uno
strumento efficace per sostenere l’esigenza di superare il modo di produzione
capitalistico e non solo per spiegare il “ciclo” economico, ma anche in quanto
la crisi si sviluppa proprio nel rapporto dialettico fra le diverse
contraddizioni di questo modo di produzione, dal momento che la legge non
agisce isolatamente fino a compromettere le prospettive di lungo periodo,
scontrandosi quotidianamente con gli altri problemi dell’economia borghese.
I tasselli di una teoria coerente e unitaria sono costituiti
dall’insieme delle contraddizioni individuate da Marx, in quanto è sempre
possibile mettere delle pezze quando una singola classe di ostacoli tocca
particolarmente il corpo sociale e soprattutto la tasca dei capitalisti, ma non
è altrettanto agevole aggredire contemporaneamente l’insieme degli intoppi.
Infatti, nel caso di crisi da domanda è possibile farvi fronte con una più equa
distribuzione, con il sostegno della spesa pubblica e con altri accorgimenti
che anche il buon Keynes ci ha suggerito. Ma queste misure vanno a deprimere il
saggio del profitto, in quanto accrescono il costo della forza-lavoro, dato dal
salario diretto, indiretto e differito.
Non a caso dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, a
seguito di una contrazione del saggio del profitto, queste politiche sono state
messe al bando, non solo nella pratica e nelle istituzioni accademiche, ma
perfino nel disegno istituzionale dell’Europa. La risposta è stata quindi - dal
Cile di Pinochet alla Gran Bretagna della Thatcher, all’America di Reagan e
successivamente alla generalità delle economia occidentali - l’introduzione del
nuovo vangelo liberista, che, contraendo il reddito dei lavoratori e la spesa
pubblica, ha determinato problemi di domanda.
A questi ultimi si è cercato di far fronte con il ricorso al
credito. Come ha rilevato acutamente Vladimiro Giacché, si è cercato di
realizzare così «il sogno di ogni capitalista»: lavoratori pagati poco ma
buoni consumatori31. Per accertare per quanto tempo può funzionare il trucco, è
bastato avere la pazienza di attendere lo scoppio della bolla creditizia come
nel caso dei mutui subprime e dei loro derivati negli USA32.
Analogamente si può intervenire sul saggio del profitto
riducendo i salari diretti, indiretti e differiti, dislocando le produzioni
dove i salari sono più bassi, aumentando la velocità di circolazione del
capitale, riducendo le scorte e procedendo alla cosiddetta produzione
snellaecc. Ma in questo modo si deprime la domanda33.
È come se il sistema economico fosse un vascello che naviga
in uno stretto fra due pericolosi scogli: il sottoconsumo e la caduta del
saggio del profitto, omettendone per semplicità un terzo, la questione
ambientale connessa ai limiti fisiologici dello sfruttamento della natura, per
quanto in buona parte dilatabili grazie al progresso della scienza. Con le
misure che servono per promuovere la domanda al fine di evitare Scilla si
riducono i margini di profitto, in quanto cresce il valore della forza-lavoro e
ci si avvicina paurosamente a Cariddi. Cercando di allontanarci da
quest’ultima, ripristinando i margini di profitto, sia pure entro i limiti già
visti, si deprime la domanda e ci si avvicina pericolosamente a Scilla.
Certo, esistono poi altre politiche che possono aggredire la
caduta tendenziale, per esempio le privatizzazioni, cioè la sussunzione sotto
il dominio del capitale di attività finora demandate alla socialità pubblica,
non mediata dal mercato (istruzione, cultura, previdenza, tutela dell’ambiente,
mobilità), oppure alla socialità immediata comunitaria, quali alcune attività
domestiche. Infine soccorre lo sfruttamento più intenso dell’ambiente dei beni
comuni. Ma anche questa pervasività non può andare oltre il limite del capitale
che si impadronisce di tutto, abbracciando ogni aspetto dell’esistenza naturale
e sociale.
Possiamo concordare con l’osservazione di Sgro’ che in Marx
non vi sia un’unica teoria della crisi, solo nel senso che quest’ultimo non ha
individuato un’unica causa ma almeno due. Tuttavia l’intreccio di queste cause
permette di comporre un sistema coerente. Si può anche assentire che non esista
una teoria marxiana della crisi compiuta, così come invece lo è l’analisi della
merce e del denaro, del plusvalore ecc. Nondimeno è altrettanto vero che, nel
contesto di una serie di abbozzi in cui non è facile districarsi, emergono con
nettezza tutti gli elementi fondamentali che, opportunamente
organizzati, possano offrirci una teoria generale unitaria, nel suo insieme
robusta, ovviamente nell’ambito di un modello semplificato in cui non
intervengono molti altri fattori che devono essere considerati nell’analisi
delle crisi reali, tra cui il mercato mondiale, la finanza, il ruolo dello
Stato, argomenti che non possiamo trattare in questa sede.
Nel paragrafo precedente abbiamo posto l’evidenza
su «tutti» pensando all’articolo di Breda citato in premessa. Infatti
ci pare che non ci sia necessità di introdurre teorie cuscinetto per una
spiegazione generale della crisi. Certamente ogni crisi fa storia a sé. Se
vogliamo esporre come si è verificata, per esempio, la crisi esplosa nel 2007
(ma in realtà avente origine negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso),
dobbiamo introdurre tutta una serie di elementi empirici, dati e analisi che ci
possano far cogliere le particolarità di questa crisi. Se poi vogliamo
intervenire politicamente nel contesto di questa crisi, a maggior ragione
devono essere prese in considerazione ulteriori variabili, quali i rapporti di
forza, gli strumenti per operare, il contesto istituzionale le possibili
alleanze internazionali ecc. Ma solo disponendo di una teoria generale
appropriata, anche al livello di astrazione cui è potuto giungere Marx, è
possibile valutare adeguatamente questi elementi e isolare le specificità che
rendono questa crisi diversa dalle altre. Se la teoria di Marx non fosse
coerente, dovremmo invece inventarcene un’altra, per evitare di incorrere in
una «descrizione caotica di un insieme» senza pervenire a «una totalità ricca,
fatta di determinazioni e relazioni»34.
Appendice
Per una discussione sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto
La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto è
stata oggetto di discussione e di tentativi di confutazione. Ne è un esempio
assai citato il teorema di Okishio35, ampiamente citato e pure utilizzato con
scopi alquanto diversi da quelli che si prefigurava l’autore. In questa sede mi
sottraggo dalla tentazione di entrare nel merito di questo teorema, in quanto
ne considero i risultati assolutamente dipendenti dal tipo di teoria del valore
utilizzata e non dimostrabili nell’ambito della teoria marxiana. Quello che mi
preme invece qui discutere è se la legge ha una sua coerenza e tenuta
all’interno del sistema di analisi di Marx.
A questo proposito altre e diffuse obiezioni, anche in
ambito “marxista”, si riferiscono agli effetti che le innovazioni producono sul
valore degli elementi di capitale, sia costante che variabile. Infatti,
nell’ipotesi assolutamente ragionevole che nel tempo le innovazioni andranno a
interessare tutti i settori, tenderà a diminuire il valore dei singoli elementi
unitari che costituiscono sia c che v, in quanto è possibile
produrre spendendo meno ore di lavoro sia i beni di consumo dei lavoratori che
i mezzi di produzione, dal che si deduce che la composizione del capitale (c/v)
potrebbe non registrare una tendenza alla crescita o comunque registrarla di
entità diversa da quella attesa se si considerassero solo le masse di merci e
non anche il loro valore. Diminuendo anche il lavoro necessario alla
riproduzione della forza-lavoro aumenterà sia saggio del plusvalore che il
plusvalore in termini assoluti. È vero che l’accresciuta produttività farà sì
che nello stesso tempo di lavoro aumenti la massa dei mezzi di produzione messi
in movimento dal singolo operaio, ma tenendo conto della riduzione dei valori
unitari, tale processo si risolve o no in un accrescimento della composizione
di valore del capitale (c/v) e in una sostituzione di lavoratori con macchine
in misura tale da più che compensare l’aumento del saggio del plusvalore?
L’obiezione di fondo è che, a fronte dell’aumento della massa dei mezzi di
produzione, considerando la diminuzione del loro valore unitario, non è detto
che aumenti il loro valore complessivo o comunque che possa aumentare in una
misura tale da non poter essere controbilanciata o superata dall’aumento del
plusvalore e del saggio del plusvalore.
Infatti, se dividiamo per V numeratore e denominatore della
(2), abbiamo:
r = Pv/V = pv’
C/V+V/V c´+1 (3)
dove pv’ è il saggio del plusvalore Pv/V e c’ la
composizione organica del capitale C/V.
Con l’aumento della produttività aumenta il plusvalore e
diminuisce il capitale variabile. Pertanto aumenta il saggio del plusvalore
posto al numeratore e niente ci dice se il denominatore aumenti più o meno
rapidamente del numeratore. Diventa quindi indeterminata la dinamica della
relazione (3).
È innegabile che la trattazione marxiana nei manoscritti
disponibili sia piuttosto carente, ma è possibile una dimostrazione piuttosto
semplice della legge se muoviamo dalle seguenti tre premesse che fanno
indubbiamente parte delle assunzioni presenti nel Capitale.
1. Per la natura
stessa del capitale, l’accumulazione non è solo accumulazione di masse di merci
ma essenzialmente accumulazione di valore. Per di più, incessante e
tendenzialmente illimitata («smisurata»). Il capitale non sarebbe capitale se
non tendesse all’accumulazione di valore. Anche se, senza dubbio, è fortemente
attiva la tendenza al deprezzamento dei singoli elementi, non ci sarebbe più
accumulazione se complessivamente il valore del capitale cessasse di aumentare.
In questo contesto si deve quindi presupporre che tale aumento non sia
limitato. O meglio, il limite è dato solo dall’arresto del processo di
accumulazione dovuto alla crisi.
2. Detto valore
aumenta non solo in assoluto ma anche in relazione al numero di lavoratori
occupati. Cioè il valore del capitale per addetto tende ad aumentare. Questa
ipotesi la si può desumere dal capitolo ventitreesimo del libro primo del Capitale sulla legge fondamentale
dell’accumulazione capitalistica36. In base a questa legge, allorquando il
capitale impiega troppi lavoratori, e con ciò si contrae l’esercito industriale
di riserva, si verifica un aumento della pressione in direzione del rialzo dei
salari. Un alto livello di occupazione dà infatti più forza contrattuale ai
lavoratori, difficilmente sostituibili. In tali casi devono essere prese misure
per ricostruire l’esercito industriale di riserva. La crescita dei lavoratori
impiegati, contrariamente all’incessante accumulazione di valore, è soggetta a
precise restrizioni. Oggi si potrebbero aggiungere anche dei limiti naturali
all’espansione della popolazione in un pianeta assai sovraffollato e
sofferente, ma possiamo tralasciare questo argomento.
3. La riduzione
del valore della forza-lavoro, pur ipotizzando aumenti spettacolari della
produttività, ha un limite. Se anche, nel caso estremo, i lavoratori
«campassero», scrive Marx, e tutto il loro lavoro consistesse di
pluslavoro; se anche l’orario di lavoro si protraesse fino agli estremi limiti
biologici e si potesse perfino forzare, grazie a una scienza perversa, questi
limiti, il plusvalore giornaliero per addetto non potrebbe superare quello che
si può ottenere nel corso della giornata lavorativa, di durata comunque non
superiore a 24 ore. Quindi l’aumento del plusvalore ha un limite.
Date queste premesse, la relazione (2) può essere
trasformata, ponendo Pv = L-V, ove L è la quantità di lavoro vivo impiegato,
nella seguente:
C+V (4)
Trascurando V, cioè adottando l’ipotesi estrema che i
lavoratori campino d’aria, la relazione diventa
r =L/C
(5)
Ora, in base alla supposizione che L cresca meno rapidamente
di C e che la sua crescita abbia un limite, il saggio del profitto non può che
decrescere.
Un altro modo di vedere la faccenda: dividiamo il numeratore
e il denominatore della (5) per il numero dei lavoratori (N) ottenendo
R = L/N
C/N (6)
L/N rappresenta le ore di lavoro messe in moto da un singolo
lavoratore, quindi, come abbiamo visto il massimo a cui possono tendere è 24, e
C/N il valore del capitale per addetto, che invece tende ad aumentare senza
limiti. Di nuovo è evidente la tendenza alla diminuzione del saggio del
profitto.
Né vale l’obiezione che l’accumulazione potrebbe
indirizzarsi verso il denaro e la finanza e non verso il capitale produttivo. Certo
anche tutto ciò si verifica, ed è un formidabile espediente per alcuni, ma il
plusvalore prodotto deriva solo dal lavoro e viene ripartito fra i tutti i
capitali, è la fonte di tutti i profitti: quelli industriali, quelli
commerciali, quelli bancari, quelli speculativi ecc. Quindi, se consideriamo la
finanza, L si contrappone non solo al capitale industriale, ma a tutto il
capitale, quello finanziario incluso, ed escluso solo quello fittizio. Con la
finanziarizzazione avviene solo una diversa ripartizione del plusvalore fra i
capitalisti. Per questo i boom della finanza, come è stato preventivato sempre
dagli economisti più accorti, prima o poi si sgonfiano.
Restano naturalmente in piedi tutti i discorsi sulle
controtendenze, sulla dinamica effettiva che procede contraddittoriamente e a
fasi alterne fra tendenze e controtendenze, sulla non linearità, quindi,
dell’andamento. In ogni caso, per salvaguardare il saggio del profitto è
necessario interrompere l’accumulazione o distruggere il valore del capitale,
quindi la crisi trova anche nella legge una sua spiegazione.
Non posso condividere pertanto l’affermazione di Fineschi il
quale, in un pur importante lavoro37, sostiene, in compagnia di molti altri
studiosi, che lo sviluppo della produttività consente di produrre le merci che
entrano a far parte del capitale costante sempre più a buon mercato e che
quindi «non è possibile stabilire la grandezza» del denominatore
dell’espressione (1) e di conseguenza «si possono ipotizzare vari rapporti»38,
non considerando adeguatamente che l’accumulazione è accumulazione di
ricchezza sociale astratta e non solo di valori d’uso.
L’altro elemento del lavoro di Fineschi che non mi trova
convinto, è la riconduzione della caduta del saggio del profitto al problema
delle difficoltà di realizzazione39.
Il ragionamento di Fineschi è sviluppato nel contesto di
un’attenta illustrazione dei vari livelli di astrazione che si susseguono
nel Capitale, collocando,
giustamente, la trattazione marxiana di questo argomento laddove si introduce
la concorrenza fra «molti capitali in azione reciproca», che poi corrisponde
al particolare della logica di Hegel. In effetti, le innovazioni sono
pensabili nell’ambito della concorrenza, come abbiamo visto illustrandone i
motivi. Il livello di astrazione quindi è più basso rispetto alle precedenti
pagine dedicate alla circolazione del capitale e con essa ai problemi di
realizzazione del plusvalore, che quindi, parrebbe, debbano essere presupposti
a questa trattazione.
Tuttavia ho l’impressione che non sia sempre agevole esporre
una complessa teoria seguendo linearmente lo sviluppo dall’astratto al
concreto. Talvolta può rendersi necessario un passo indietro, astrarre da
alcuni elementi già trattati in precedenza per isolare un problema e studiarlo
nella sua versione depurata da altre complicazioni. Non propongo qui una
tecnica alternativa di interpretare Marx, perché non ne ho gli strumenti. Mi
limito a dire che è possibile spiegare la legge astraendo dai problemi della
realizzazione, cioè dimostrare che, anche nell’ipotesi in cui tutto il
plusvalore sia realizzato, in cui tutte le merci siano vendute al loro valore,
il saggio del profitto tende a diminuire. È necessario cioè isolare due
problemi che sul piano analitico devono essere distinti, pur dovendo
successivamente trattare le loro reciproche ripercussioni che effettivamente si
presentano nel mondo reale.
Non a caso già in alcune pagine del primo libro del Capitale, in cui l’autore non è ancora
pervenuto al livello di astrazione del libro secondo, dedicato al processo di
circolazione del capitale, Marx è in grado di illustrare dinamiche analoghe a
quelle indicate nelle tre premesse contenute in questa appendice. Essendo la
stesura del libro primo posteriore a quella dei manoscritti per i successivi
libri, questi brani suonano quasi come un’anticipazione dei presupposti 1., 2.
e 3. che potevano quindi essere esposti già in quella sede e a quel livello di
astrazione40.
Ciò conforta l’opinione che per gli scopi analitici sia
utile distinguere e isolare due ordini di problemi: quello della produzione di
un insufficiente plusvalore e quello di una sua insufficiente realizzazione,
fermi restanti gli indubbi rapporti fra le due questioni e la dialettica del
loro contemporaneo movimento nell’economia reale.
Un’ultima notazione. A me pare che la tesi di Fineschi sia
speculare al suo ragionamento sul problema della trasformazione dei valori in
prezzi di produzione, laddove egli riduce tale problema alla formazione dei
valori di mercato e, vedendo in Marx «due teorie della “trasformazione”»,
rigetta quella che presuppone l’inesistenza dei problemi di realizzazione41.
Anche in questo caso senz’altro il processo reale passa
attraverso la variazione dei prezzi conseguenti alla concorrenza (questa volta
fra i capitali di distinti settori) e quindi è corretta la collocazione
dell’argomento nel terzo libro del Capitale.
Ma non per questo può essere elusa la necessità di dimostrare la coerenza di
una teoria a livello macro dimostrando che gli aggregati Pv, C e V in termine
di valori corrispondono a quelli in termini di prezzo nel presupposto che tutto
il valore prodotto sia realizzato. Anche in questo caso, quindi, è utile fare
un passo indietro, verso un più alto livello di astrazione, per dimostrarlo.
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Note
1 Per una informazione in lingua
italiana sulle novità di questa edizione si vedano, fra l’altro, A. Mazzone (a
cura di), Mega: Marx ritrovato, grazie alla nuova edizione critica, Laboratorio
Europeo per la Critica Sociale, Roma, 2013; R. Fineschi, Un nuovo Marx.
Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (Mega2),
Carocci, Roma, 2008; R. Fineschi - T. Redolfi Riva - G. Sgro’ (a cura di), Karl
Marx 2013, «Il ponte», LXIX (2013), nn. 5-6 (maggio-giugno 2013); G. Sgro’,
MEGA-Marx. Studi sulla edizione e sulla recezione di Marx in Germania e in
Italia, Napoli-Salerno, Orthotes Editrice, 2016. Roberto Fineschi è anche il
curatore di una nuova, pregevole edizione del libro I del Capitale che segue i
nuovi criteri filologici della MEGA2 (La città del sole,
Napoli, 2011, 2 tomi).
2 Cfr. G. Sgro’ (a cura di), Crisi e
critica in Karl Marx. Dialettica, economia politica e storia,
«Pagine inattuali. Rivista di filosofia e letteratura», n. 5 (2016), con
contributi di Giovanni Sgro’, Roberto Fineschi, Richard Sperl, Luca Basso,
Stefano Breda, Stefano Perri, Vladimiro Giacché e Riccardo Bellofiore.
3 G. Sgro’, La genesi della
teoria marxiana del denaro, del feticismo e della crisi nei Quaderni di Londra
(I-VII) e nel manoscritto Reflection (1851), ivi, pp. 29-65
4 Ivi, p. 65 (corsivi di G.S.).
5 La necessità di una teoria cuscinetto è
stata introdotta da Roberto Fineschi. Per esempio nel suo Marx e Hegel,
sostiene che «la politica, collocandosi ad un livello di astrazione molto più
basso [di quello del Capitale], per essere raggiungibile ha innanzitutto
bisogno di una serie di teorie cuscinetto che il Moro non ha sviluppato» (R.
Fineschi, Marx ed Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, Roma, 2006, pp.
9-10).
6 S. Breda, Di comete e costellazioni. La
crisi come categoria della critica dell’economia politica, in G. Sgro’ (a cura
di), Crisi e critica in Karl Marx, cit., p. 159.
7 «No man produces but with a view to
consume or sell, and he never sells but with an intention to purchase [...]. By
producing, then, he necessarily become either the consumer of his own goods, or
the purchaser and the consumer of the goods of some other person» (Nessuno
produce se non allo scopo di consumare o vendere e non vende mai se non con
l’intenzione di comprare [...]. Producendo, quindi, diventa necessariamente sia
il consumatore delle proprie merci che l’acquirente e consumatore di merci
altrui). D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation,
Prometheus Books, Amherst-New York, 1996, p. 201.
8 W.S. Jevons scrisse diverse opere su
questo argomento, segnaliamo qui per brevità Commercial Crises and Sun-Spots,
«Nature», vol. 19 (14.11.1878), pp. 33-37 (parte 1) e vol. 19 (24.4.1879), pp.
588-590 (parte 2).
9 Da qui fino alle contraddizioni insite
nella metamorfosi della merce incluse, il riferimento è K. Marx, Il capitale,
libro I, a cura di R. Fineschi, La città del sole, Napoli, 2011, pp. 45-159.
10 È da evidenziare che la posteriore
confutazione da parte di Keynes della legge di Say, così come esposta nella sua
Teoria Generale, è in maniera impressionante sovrapponibile a quella precedente
di Marx. Cfr. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta, Utet, Torino, 2001, pp. 202-206.
11 K. Marx, Il capitale, libro I, cit.,
p. 126.
12 Id., Storia delle teorie economiche,
Einaudi, Torino, 1955, vol. II, pp. 546-547.
13 «In un sistema di produzione in cui
tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve
evidentemente prodursi una crisi, un’affannosa ricerca di mezzi di pagamento,
al momento in cui improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti
devono essere fatti in contanti. A prima vista sembra quindi che la crisi nel
suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria». Id., Il
capitale, libro III, Ed. Riuniti, Roma, 1965, p. 576.
14 Cfr. Id., Il capitale, libro II, Ed. Riuniti, Roma, 1965, pp. 411-544.
15 Il motivo è che se i prezzi di mercato
non rispettano questo rapporto, un settore realizzerà meno valore di quello
necessario ad acquistare dall’altro e quindi la riproduzione sarà possibile a
condizione che uno dei due settori sia deficitario. A questa situazione si può
rimediare col credito fra industrie o col credito bancario. Tuttavia, se
l’equilibrio di bilancio in qualche modo non si ripristina, qualche impresa
prima o poi deve fallire o comunque le quantità prodotte e gli scambi non
soddisfano i rapporti che assicurerebbero la crescita ottimale.
16 «Che c’entra la sovrapproduzione in
generale con i bisogni assoluti? Essa ha a che fare solo con i bisogni capaci
di pagamento». K. Marx, Storia delle teorie economiche, cit., vol. II, p. 570.
17 Id., Lineamenti fondamentali della
critica dell ’economia politica, vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p.
27. È vero che con il credito anche questa contraddizione può essere per un po’
ed entro certi limiti dimenticata. Ma la crisi dei mutui subprime, per esempio,
è stato il modo pratico per rammentare questi limiti.
18 Fra gli innumerevoli studi al riguardo
si possono citare A. Shaikh, The Falling Rate of Profits as the Cause of Long
Waves: Theory and Empirical Evidence, in A. Kleinknecht - E. Mandel - I.
Wallerstein (eds.), New Findings in Long-Wave Research, Macmillan Press,
London, 1992; F. Moseley, The Rate of Profit and the Future of Capitalism, in
«Review of Political Economics», may 1997; D. Basu - P.T. Manolakos, Is there a
tendency for the rate of profit to fall? Econometric evidence for the U.S.
economy, 1948-2007, Working Paper Univ. of Massachusetts, Amherst, 2010; A.
Freeman, National Accounts in Value Terms: the Social Wage and Profit Rate in
Britain 1950-1986, in P. Dunne (ed.), Quantitative Marxism, Polity Press,
Cambridge, 1991; A. Kliman, The Falling-Rate-of-Profit Tendency, Insufficient
Destruction of Capital, and Bubbles, Depart. of Economic, Pace University,
Pleasantville-New York, 2009; G. Duménil - D. Lévy, The Economics of the Profit
Rate: Competition, Crises, and Historical Tendencies in Capitalism, Edward
Elgar, Aldershot, 1993; F. Moseley, The Falling Rate of Profit in the Postwar
United States Economy, Palgrave Macmillan, London, 1991; M. Li - F. Xiao - A.
Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a crisi study of
the longterm movement of the profit rate in the capitalist world economy, in
«Journal of World-Systems Research», vol. XIII (2007), n. 1. È da precisare che
se c’è sufficiente accordo sulla tendenza rilevata, non altrettanto è per le
cause. Per esempio Moseley preferisce parlare di Profit Squeeze e ne attribuisce
la causa al processo di crescita del lavoro e degli investimenti improduttivi,
molti altri autori invece ritengono di spiegare questa tendenza storica con i
crescenti problemi di realizzo del plusvalore.
19 Si tratta della nota teoria della
rendita differenziale. Cfr., D. Ricardo, On the Principles of Politicai Economy
and Taxation, cit., pp. 45-57.
20 Prescindiamo qui dal problema della
trasformazione dei valori in prezzi di produzione, la cui trattazione ci
porterebbe a dilungarci troppo. Ai nostri fini è sufficiente osservare i valori
di mercato, purché si consideri già risolto opportunamente, come ritengo sia
avvenuto, tale problema, a proposito del quale rimando al volume collettaneo A.
Freeman - G. Carchedi (eds.), Marx and Non-equilibrium Economics, Edward Elgar,
Cheltenham, 1996 e, in lingua italiana, a L. Vasapollo (a cura di), Un vecchio
falso problema, la trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di Marx,
Laboratorio per la Critica Sociale, Roma, 2002. Per un’impostazione diversa
dalla TSSI (Temporal Single-System Interpretation) si veda G. Cingolani, La
teoria del valore-lavoro dopo Sraffa, Franco Angeli, Milano, 2006.
21 Come aveva notato anche Joseph
Schumpeter, le innovazioni possono riguardare non solo la tecnologia, ma anche
l’organizzazione della fabbrica, le relazioni con i lavoratori (Marchionne
docet), l’individuazione di nuovi prodotti o mercati, la creazione di un
marchio o di un altro strumento in grado di assicurarsi un monopolio, la
ricerca di nuove e più convenienti forme di approvvigionamento delle materie
prime, ecc. (cfr. J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Etas,
Milano, 2002, p. 68). Tuttavia il “verso” delle innovazioni tecnologiche rimane
quello indicato e anche una parte degli altri tipi di innovazione si traduce in
risparmio di lavoro.
22 Cfr. K. Marx, Il capitale, libro III,
cit., pp. 259-281.
23 Cfr. ivi, pp. 283-292.
24 Cfr. Id., Lineamenti fondamentali
della critica dell’economia politica, vol. II, cit., pp. 398-411.
25 Ivi, p. 402.
26 Ivi, pp. 401-402.
27 Keynes aveva trattato formalmente le
ripercussioni di un incremento o di una diminuzione dell’investimento, o anche
della spesa pubblica, introducendo la nozione di moltiplicatore degli
investimenti (J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, cit., pp.
301-308). Marx, pur trattando l’argomento in maniera non formalizzata, era più
che consapevole di queste interrelazioni e per alcuni aspetti le aveva
anticipate o quantomeno aveva indicato una linea di ricerca nella medesima
direzione. Per esempio, in un passo delle Teorie sul plusvalore, evidenziò come
la contrazione iniziale della spesa per investimenti in un’industria possa
innescare una spirale con conseguenze in tutto il sistema, determinando una
generalizzata carenza di domanda e disoccupazione (cfr. K. Marx, Storia delle
teorie economiche, cit., vol. II, pp. 576-78). Nel secondo volume delle Teorie
sul plusvalore (ivi, pp. 585-587) troviamo invece un’anticipazione di un altro
concetto sviluppato poi da Albert Aftalion e da John Maurice Clark nelle prime
due decadi del Novecento: l’acceleratore degli investimenti.
28 Per quanto lo consenta la raccolta e
l’organizzazione dei dati statistici, è utile a tal fine accertare l’andamento
nel tempo del valore del capitale per addetto.
29 K. Marx, Storia delle teorie
economiche, cit., vol. II, p. 560 (corsivo mio).
30 Giacché lo sostiene in una recente
recensione su «Micromega» a un libro di Cesaratto, cfr. V. Giacché, “Sei
lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa. E uscirne,
13/12/2016:http://temi.repubblica.it/micromega-online/%E2%80%9Csei-lezioni-di-economia%E2%80%9D-un-libro-per-capire-la-crisi-dell%E2%80%99europa-e-uscirne/ . Il libro di Cesaratto - Sei lezioni
di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più. lunga (e come
uscirne), Imprimatur, Reggio Emilia, 2016 - è indubbiamente un importante testo
divulgativo di critica dell’economia ortodossa, utile alla comprensione della
natura della crisi attuale e alla demistificazione delle “ricette” fin qui
seguite per uscirne. Tuttavia, proprio per essere un testo divulgativo ma
rigoroso, dispiace che vi venga licenziata con troppa sicurezza la teoria del
“valore-lavoro” (le virgolette sono d’obbligo, visto che l’espressione non è di
Marx) e conseguentemente la legge della caduta tendenziale del saggio del
profitto, senza dare conto delle interpetazioni della teoria del valore di Marx
alternative a quelle della scuola sraffiana, limitandosi a liquidare come
«orfanelli del valore-lavoro» e «anacronisti» i relativi fautori.
31 V. Giacché, Il ritorno del rimosso.
Marx, la caduta del saggio del profitto e la crisi, in G. Sgro’ (a cura di),
Crisi e critica in Karl Marx, cit., p. 261. Per motivi di brevità non trattiamo
il credito alle imprese e la finanza, rispetto al quale comunque troviamo negli
abbozzi di Marx notevoli spunti. Si veda per esempio i capitoli del terzo libro
del Capitale dedicati al capitale fittizio. Cfr. K. Marx, Il capitale, libro
III, cit., pp. 547-690.
32 «Il sistema monetario è essenzialmente
cattolico, il sistema creditizio essenzialmente protestante. [...] Come carta
l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto un’esistenza sociale. È la fede
che rende beati [...]. Ma come il protestantesimo non riesce a emanciparsi dai
principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla
base del sistema monetario» (ivi, p. 690). Questo monito funziona ancora per
l’odierna “base monetaria” inconvertibile in oro creata dalle banche centrali
e, a maggior ragione, per la base monetaria creata dal niente, attraverso i
depositi, dalle banche ordinarie. Lo testimoniano le ricorrenti crisi
monetarie.
33 Altre cause antagonistiche possono
essere la centralizzazione del capitale e il mercato mondiale ecc. Ma la prima
avviene spesso attraverso la distruzione del capitale delle imprese che
chiudono i battenti e il mercato mondiale non rappresenta altro che un trasferimento
su una scala più vasta delle medesime contraddizioni.
34 K. Marx, Lineamenti della critica
dell’economia politica, vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 26-27.
35 Cfr. N. Okishio, Technical change and
the rate of profits, «Kobe University Economic Review», vol. 7 (1961).
36 Cfr. K. Marx, Il capitale, libro I,
cit., pp. 679-786.
37 Cfr. R. Fineschi, Ripartire da Marx.
Processo storico ed economia politica nella teoria del «capitale», La città del
sole, Napoli, 2011.
38 Ivi, p. 317.
39 «La mancata realizzazione da parte del
prodotto fa sì che non tutto il plusvalore sia trasformato in denaro; se
diminuisce la massa del plusvalore [realizzato], di conseguenza diminuisce
anche il saggio del profitto. Così è la crisi di sovrapproduzione a determinare
la caduta del saggio del profitto e non la caduta a determinare la crisi» (ivi,
p 321, corsivo di R.F.).
40 Con riferimento alla «diminuzione
relativa della parte variabile del capitale durante il progresso
dell’accumulazione e della concentrazione che l’accompagna», all’aumento della
composizione del capitale e alla circostanza che l’accumulazione,
«l’ininterrotta trasformazione del plusvalore in capitale si espone come
grandezza crescente del capitale che entra nel processo di produzione», si veda
K. Marx, Il capitale, libro I, cit., pp 689-696 (ove evidentemente «capitale»
non può significare banalmente massa di mezzi di produzione ma essenzialmente
valore che si autovalorizza). Si farebbe un torto al Moro che si è sempre
prodigato in critiche verso gli economisti borghesi che non hanno distinto fra
i valori d’uso costituenti i mezzi di produzione e il capitale. Sempre a p. 696
si legge: «Da un lato il capitale addizionale formato nel progredire
dell’accumulazione attrae, in rapporto alla propria grandezza, sempre meno
lavoratori. Dall’altro il capitale vecchio riprodotto periodicamente in nuova
composizione respinge un numero sempre maggiore di lavoratori prima occupati».
Mentre alle pp. 331-332 si legge che «il limite assoluto della giornata
lavorativa [...] costituisce un limite assoluto alla sostituzione della
diminuzione del capitale variabile per mezzo dell’aumento del saggio del
plusvalore».
41 R. Fineschi, Ripartire da Marx, cit., pp. 264-279.
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