Giulio Di Donato
◆ Per
Marx la libertà comunista non è l’uscita dal lavoro ma il superamento del
lavoro determinato da una necessità eteronoma ed etero-finalistica
Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx,
“manifestazione di libertà”, “oggettivazione/realizzazione del soggetto”,
“libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha però
sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere
“repellente”, è stato sempre “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, non
si sono mai create le condizioni soggettive ed oggettive che gli permettessero
di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”.
[1]
Perché si ritorni alla sua vera e profonda essenza, deve
cessare di essere lavoro “antitetico” e divenire “libero”. Ciò non significa,
ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco;
un “lavoro realmente libero, per es. comporre, è al tempo stesso la cosa
maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”.
E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente
“universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e
controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze
naturali”. [2]