◆ Il fallimento
delle teorie della crisi del marxismo dell'ontologia del lavoro e le barriere
ideologiche contro la continuazione dello sviluppo della critica radicale del
capitalismo.
Karl Marx ✆ A.d. |
Robert Kurz | A ben vedere, quasi sempre si può constatare
che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche
del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente
separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella
sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le
scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano
sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una
direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il
motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere
evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la
quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree
di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un
sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere,
anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è
storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a
caso) relativo.
I
La qualità storico-sociale negativa
dell'astrazione "lavoro"
L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale
Apparentemente, questa consapevolezza della relatività
costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che
proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia
politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali
(fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il
"pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e
sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno.
Ma tutto questo non è solo apparenza. Proprio perché il
sapere e la conoscenza sono sempre determinati da un contesto storico-sociale,
condizionati come sono dalle forme sociali feticistiche che implicano dominio e
relazioni di coazione (di altri contesti, a tutt'oggi, non siamo a conoscenza),
si svolgono anche sempre sotto l'egida del pensiero apologetico.
Laddove il sapere è di per sé sapere del dominio, le cose
non possono avvenire diversamente. Nel sistema produttore di merci della
modernità, questa apologetica assume la forma dell'ideologia. Perciò, non basta
semplicemente affrontare il sapere e la conoscenza solo nella loro relatività
(come fa in gran parte il pensiero postmoderno); innanzitutto, e per di più,
tale condizionamento dev'essere sottoposto ad un'analisi critica
dell'ideologia, analisi che deve essere posta in relazione col rispettivo
processo storico-sociale reale. In ogni caso, è quello che si rende necessario
quando la riflessione pretende di inserirsi nel contesto di una necessità
emancipatrice e critica del dominio.
Ma, se si prende in considerazione questo piano di
riflessione critica sull'ideologia, la conoscenza della relatività dev'essere
esaminata nel suo potenziale ideologico ed apologetico. Il pensiero postmoderno
cerca di mettersi fuori dalla portata di un tale punto di vista, insinuando,
nei confronti della critica dell'ideologia in sé, il sospetto di
"metafisica" e di "essenzialismo". Si assume che il punto
di vista, o il calibro, della critica dell'ideologia sia sempre assoluto, totalitario,
ontologico o metafisico. Così l'osservazione si volge in una direzione
metafisica essa stessa, dal momento che paradossalmente è la relatività, né più
né meno, ad essere elevata allo statuto di Assoluto. Quello che in tal modo
viene estromesso, una volta che il piano di riferimento della relatività non
viene chiarito, è il concetto di critica in senso stretto.
Nella realtà, però, la suddetta relatività può essere
riferita soltanto al fatto che il sapere e la conoscenza sono legati ad un
determinato luogo storico, non solo nel senso di una relatività immediata, ma
nel senso di una formazione sociale globale e determinata; e lo sono, o
affermativamente, in maniera positiva (positivista), oppure criticamente, in
maniera negativa. La critica, pertanto viene assunta negativamente rispetto al
suo luogo storico, poiché fa della formazione sociale che appartiene a tale
luogo, e della corrispondente relazione di dominio, l'oggetto della sua
negazione (cosa che del resto rimanda alla possibilità della trascendenza, in
quanto movimento al di fuori dell'immanenza). Il che significa, tuttavia, che
la critica può essere solo una critica determinata, ossia, una critica riferita
a tale luogo storico, concepito come formazione sociale storica, che in tale
dimensione contiene un momento di negazione assoluta, anche se solo
relativamente a questo campo specifico: segnatamente, la sua radicalità si
volge contro la costituzione della forma sociale dominante, senza che per
questo smetta di essere relativa in riferimento ad un contesto più vasto, dal
momento che è in grado di riflettere un tale contesto.
La negazione dev'essere assoluta relativamente al suo
contenuto, il quale non è altro che la forma sociale essa stessa negativa e che
pertanto dev'essere negata: la forma della riproduzione e del soggetto, forma
distruttiva e feticista della quale non può restare niente se non l'esperienza
traumatica ad essa associata che rimane impressa nella memoria dell'umanità.
Rispetto a questa forma di feticcio oggetto di critica, la negazione dev'essere
assoluta, in quanto in caso contrario non sarebbe negazione.
Il problema del pensiero postmoderno, e delle correnti di
pensiero che risalgono al XIX secolo, a partire dalle quali esso stesso si
compone e si costruisce, consiste proprio nel fatto che non è stato sviluppato
un qualsivoglia criterio per distinguere i piani di riferimento della
relatività nell'ambito della storia dell'umanità, così come della storia delle
"culture" o delle formazioni sociali, da un lato e, dall'altro lato,
come determinazione o situazione assoluta in uno spazio storico delimitato,
esso stesso negativo, di una determinata formazione. In altre parole: non è
stata stabilita una differenza essenziale tra costituzioni storicamente diverse
della forma sociale, ed in tal modo non viene neanche costituita una
qualsivoglia concezione specifica del moderno sistema produttore di merci e
delle categorie della sua forma base. In questo senso stretto, le teorie
postmoderne, così come quelle dei predecessori, in fondo non riflettono con
precisione il proprio condizionamento storico-sociale, né la corrispondente
relatività. Il lavoro (astratto), il valore, la merce, il denaro, il mercato,
la concorrenza, lo Stato, la nazione, la politica, ecc. possono passare
benissimo per "costrutti culturali", così come tutte le altre
manifestazioni sociali "qualsiasi", ma non per questo si rivelano
meno ontologici di quanto lo siano nell'ideologia borghese volgare, così come
essa è stata ereditata anche dal marxismo del movimento operaio.
Quindi, il relativismo, irriflesso a riguardo, relativizza
anche la differenza tra la relatività di un determinato luogo storico, da un
lato, e la determinazione - ovvero l'Assoluto - all'interno di tale luogo,
dall'altro lato; non si interessa alla differenza tra lo spazio storico totale
dell'umanità - nel quale le varie costituzioni storico-sociali, e le rispettive
forme di sapere e di conoscenza, si posizionano reciprocamente in maniera
relativa - e lo spazio interno di una determinata formazione, in cui predomina
un Assoluto interno, o quanto meno domina una pretesa reale che a questo
corrisponde, vale a dire la rispettiva forma feticistica, la quale dev'essere
spezzata.
Quest'imprecisione ha delle conseguenze per il concetto di
critica, il quale in tal modo diventa esso stesso impreciso ed indeterminato.
Le categorie di base della costituzione sociale spariscono dietro il movimento
interno di questa. La critica viene fenomenologicamente ridotta, e si riferisce
soltanto ad una determinata azione od omissione in seno alle categorie rese
grigie. E' vero che queste categorie, nel pensiero postmoderno, nella maggior
parte dei casi non vengono immediatamente affermate come positive; ma ciò si
deve solo al fatto che non arrivano neppure ad essere elevate ad oggetti della
riflessione. Laddove tutto viene trattato indistintamente come se fosse un
"costrutto", smettono di esserci gradi di rigidità e dimensioni con
profondità diverse; viene livellata la differenza fra spiegazioni apparenti di
natura ideologica e l'apparenza reale della forma del feticcio. Rimane
l'essenza o la sostanzialità categoriale della formazione storica della società
su cui riflettere, quindi anche da criticare.
Avviene così un'inversione paradossale del rapporto fra il
processo sociale reale e l'ideologia; per meglio dire, tale rapporto, in una
certa misura, viene puramente e semplicemente nascosto, ed è proprio a partire
da questo che il relativismo converte sé stesso in un'ideologia miserabile. La
sostanza reale negativa della relazione di feticcio viene sottratta alla
critica radicale, nella misura in cui la "sostanzialità" si presenta
da principio come proveniente soltanto da una pretesa totalitaria del pensiero,
o dell'immaginazione. In questo modo, la questione si trova ad essere con i
piedi per aria: la critica radicale viene accusata di quello che dovrebbe
essere imputato alla relazione sociale reale. Al posto della relazione reale
soggiacente, è la critica dell'ideologia ad apparire come
"totalitaria".
E' questo, quindi, il modo in cui la conoscenza della
relatività si converte in ideologia apologetica. Per quanto riguarda il moderno
sistema produttore di merci, il suo concetto di capitale si dissolve così in un
sistema di "rapporti di forza" relazionali; in tal misura, nonostante
tutta la critica postmoderna del soggetto, viene riprodotto il regresso
all'illusione borghese della volontà, per quanto ridotta a mutazioni interne
dei "costrutti" sociali rappresentati tutti sullo stesso piano.
Questa relazionalità di già ideologica viene in seguito
"eso-differenziata" e declinata nelle diverse aree di riproduzione e
di vita. In questo modo, la critica continua nella particolarità dei fenomeni
(dai rapporti di potere nella professione medica alla deportazione nei servizi
per gli stranieri, dai "costrutti" del razzismo alla retorica
politica dei vincoli oggettivi), senza però mai riuscire a pronunciarsi sul
tutto della connessione della forma sociale, dal momento che questa non dispone
di un qualsiasi concetto sostanziale.
Questa dissoluzione della "essenza"
storico-sociale nella razionalità fenomenologica dei rapporti di potere e della
loro rispettiva costruzione, o decostruzione, copre così, che piaccia o meno,
la sostanzialità negativa non più denominabile delle categorie reali
capitaliste. Gli è che questo può manifestarsi socialmente in un movimento
emancipatore di trasformazione soltanto se la reale pretesa di validità
assoluta della forma feticista dominante viene rotta proprio nel suo contenuto
sostanziale. Per esempio, le diverse aree di esistenza e di attività hanno
ciascuna la propria logica, la propria pretesa, il proprio senso, ecc., che non
può essere compreso dalla pretesa validità assoluta di un unico principio
totalitario; solo arrivando a costituire un tutto nella relatività del
rispettivo contesto relazionale, tutto questo non viene ridotto ad una forma
unica ed alla sostanza, ugualmente unica, della stessa forma - è questa la
conoscenza che bisogna cominciare ad affermare, contro il violento
sostanzialismo reale del moderno sistema produttore di merci in generale.
E' per tutto questo che non è nemmeno possibile arrivare ad
una critica radicale senza il concetto di una sostanzialità negativa della
relazione di valore o del capitale. D'altro canto, la pretesa dell'Assoluto di
questa sostanzialità negativa entra anche in conflitto con la stessa
costituzione fisica del mondo, manifestandosi sotto forma di un processo
distruttivo annichilitore della vita; soprattutto, però, questa pretesa entra
ugualmente in conflitto con la contraddittorietà interna della sostanzialità
capitalista in quanto tale, e così si manifesta sotto forma di processo di
crisi endemico di questa formazione storico-sociale. E' per questo motivo che
senza il concetto di sostanzialità negativa non è possibile neanche sviluppare
un'adeguata teoria della crisi. Il nascondere o l'ignorare la reale
sostanzialità sociale negativa equivale, in gran parte, a nascondere o
all'ignorare la crisi, nel suo contenuto significativo del limite interno
assoluto del moderno sistema produttore di merci.
Il carattere ideologico ed apologetico di un pensiero
relativista che non affronta questa problematica, consiste essenzialmente nel
suo presumere l'esistenza della relatività e in una "apertura" in
termini storico-sociali dove in realtà si pontifica un Assoluto ed una coesione
sistemica dissimulati, postulando quindi un'emancipazione (sempre intesa solo
parzialmente) totalmente indipendente da una critica della sostanza reale
negativa e delle categorie della sua forma; per esempio, attraverso
l'intermediazione del concetto ormai solo risibile di
"democratizzazione". La sostanzialità negativa della relazione di
capitale diventa grigia, viene nascosta, diventa invisibile e viene dissolta in
una pseudo-relatività ideologica. E' proprio per questo che la riduzione e
l'accorciamento fenomenologico della critica corrisponde ad un'uguale riduzione
ed accorciamento della teoria della crisi. Questo relativismo ideologico,
invece di essere emancipatorio non è altro che un camuffamento addizionale
della soggettività borghese di tutte le classi, le quali non vogliono ammettere
la loro obsolescenza storica.
Non è un caso che il marxismo tradizionale condivida ampiamente
con il relativismo postmoderno, il rifiuto della teoria radicale della crisi.
Gli è che, come è stato dimostrato da Moishe Postone, un certo modo di
riduzione e di accorciamento ideologico e relativista è inerente anche alla
teoria del marxismo del movimento operaio in tutte le sue varianti. Quello che
nelle teorie postmoderne è un programma esplicito, nel marxismo si manifesta
come una riduzione implicita; non c'è modo di distinguere fra un concetto
globale storico che è assente nella logica della formazione della relazione del
valore e del capitale, e gli stadi di aggregazione e sviluppo corrispondenti
alla sua storia interna, cosicché il livello di astrazione dei concetti
essenziali (che soltanto sul piano meta-storico sono relativi ai concetti essenziali
delle altre formazioni) viene fondamentalmente perso:
"Si è resa storicamente manifesta la totale insufficienza delle teorie del capitalismo moderno che confondono una configurazione storica specifica del capitalismo (il libero mercato o lo Stato disciplinare burocratico) con l'essenza della formazione sociale... Tutte queste critiche sono... incomplete. Come vediamo ora, il capitalismo non rientra in nessuna di queste configurazioni... Un'adeguata teoria critica del nostro tempo dev'essere fondata su una concezione non reificata delle relazioni che costituiscono l'essenza del capitalismo e su una concezione delle differenze tra tale essenza e le varie configurazioni storiche successive del capitalismo" (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale").
In questa misura, il concetto di sostanzialità del capitale
- assente nella logica della formazione - rappresenta il piano decisivo, cui né
le teorie del marxismo tradizionale, né le teorie postmoderne possono accedere
a causa del loro rispettivo relativismo falso e ideologico.
Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista
Per poter determinare il carattere ideologico del pensiero
borghese suppostamente metafisico e, in particolare, il suo risultato
pseudo-relativistico, bisogna porre il concetto filosofico di sostanza in
relazione con la costituzione capitalista della modernità. Infatti, nella
storia della filosofia non esiste un significato generalmente accettato del
concetto di sostanza. Nella filosofia antica ed in quella medievale, la
sostanza è il nucleo essenziale, in opposizione alle mere qualità (accidenti),
è quello che perdura e rimane, ossia, l'identità in opposizione agli
"stadi" o sviluppi. In Aristotele, il concetto di sostanza sembra
significare materia, nel senso di un substrato delle "cose", che è
anche forma, nel senso dell'essenziale delle cose materiali.
Tuttavia, i diversi significati, o piani di significato,
della maggior parte dei concetti filosofici pre-moderni della sostanza hanno in
comune il fatto che non postulano necessariamente una generalità, o un Assoluto
sostanziale astratto, per lo meno nel mondo fisico e sociale conosciuto.
Esplicitamente o implicitamente, prevale la supposizione che esistano sostanze
qualitativamente diverse che possono stabilire relazioni le une con le altre.
Di conseguenza, la stessa sostanza sarebbe in un certo qual modo qualcosa di
relativo. Sia per quanto riguarda la forma che il contenuto - per la filosofia
antica o per le teologie - le stelle, le pietre, gli alberi, i cani, gli esseri
umani, ecc. rappresentano sostanze distinte. E l'identico di una determinata
sostanza, per esempio di un individuo umano, può essere rappresentato anche
come la totalità delle sue relazioni naturali, sociali, culturali, personali,
ecc. nell'unicità individuale della sua struttura. Solo Dio figura come istanza
assoluta, generale, "suprema"; ma questa sostanza rimane trascendente
al mondo.
Tuttavia, già nelle teorie atomistiche si insinua un momento
di assoluto, o di generale ed astratto, con riferimento al mondo terreno e,
concretamente, attraverso il modus della riduzione. Per Democrito, per esempio,
non "esiste" niente se non il vuoto e i corpi composti di atomi - i
più piccoli componenti in gran parte qualitativamente uguali - i quali si
distinguono solo per la forma e la dimensione. Questo anticipa la concezione di
un'unità assoluta e sostanziale del mondo come principio immanente. Non è un
caso che questo riduzionismo fisico si ripeta sistematicamente nella scienza
naturale moderna, dove celebra il suo vero trionfo.
"L'universo-orologio" meccanico di Newton consiste, come egli stesso
scrive nella sua 'Ottica', di "particelle magiche, ferme, rigide,
impenetrabili e mobili" le quali, per l'intermediazione di
"forze" agiscono esternamente le une sulle altre. In questo Universo
omogeneo, Dio è ormai soltanto una specie di orologiaio; però, una volta data
la corda, il mondo-sistema meccanico si muove da solo, e l'Illuminismo, alla
fine, fa a meno di qualsiasi sostanza creatrice trascendente "suprema e
prima".
L'unificazione fisica, che riduce il mondo in componenti o
unità morte ed uguali inserite in un continuum di spazio-tempo assoluto ed
unificato - nell'antichità soltanto abbozzata - viene, nella modernità,
per così dire, radicalizzata e generalizzata come un dogma. In questo caso, il
concetto atomista di sostanza si estende oltre che alla natura fisica, a tutte
le aree dell'esistenza, per esempio nel concetto di "monadi senza
finestre" di Leibniz. A questo corrisponde una concezione della società
umana che ormai non parte dalla comunità, quale che sia la sua definizione, ma
al contrario parte dalla separazione dei suoi membri, i quali possono soltanto
mediarsi gli uni con gli altri, a posteriori ed in maniera esterna-meccanica.
Qui, diventa già chiaro che la conoscenza della natura, apparentemente pura,
della modernità, ossia, il "costrutto" dell'universo-orologio di
Newton, riflette in realtà una determinata relazione sociale, la quale include
un paradigma di individui atomistici o astratti - dal momento che tale
paradigma contiene, nella sua astrazione apparentemente omogenea della
"individualità in generale", una particolarità storicamente ben
relativa, segnatamente quella del soggetto maschio bianco occidentale (MBO).
Detto ciò, però, non ci troviamo davanti ad una mera idea di attori della
conoscenza de "IL" mondo, senza presupposti, ma semmai ci troviamo
davanti ad una determinata costituzione storico-sociale, vale a dire, davanti
all'incipiente costituzione capitalistica del moderno sistema produttore di
merci.
Probabilmente, non si tratta di superare [Überwinden] la
metafisica, come sempre si suppone con l'avanzare di questa formazione sociale.
Sia la scienza naturale moderna, sia anche la filosofia e la teoria sociale -
apologetiche - ad essa legate hanno evidentemente basi metafisiche. Queste basi
potevano venire man mano nascoste, per poi essere apparentemente gettate via,
dal momento che non rappresentano una metafisica nel senso di una riflessione
meramente filosofica o teologica, ma una relazione sociale reale, ossia, una
metafisica reale, in una certa maniera incarnata o incorporata nel processo di
riproduzione sociale. Nella misura in cui questa metafisica reale si va
imponendo storicamente e viene interiorizzata, la sua forma di riflessione
filosofica può svanire, una volta che l'apparentemente evidente, assiomatico e
quotidiano, non dev'essere più pensato a parte, e non si presenta più come
un'essenza distinta.
In un certo senso, forse può essere lecito dire che tutte le
costituzioni sociali di feticcio - quindi anche quelle pre-moderne -
rappresentano una sorta di metafisica reale, nella misura in cui la rispettiva
metafisica non si esaurisce mai in delle mere idee o delle rappresentazioni
mentali ma tali costituzioni sociali di feticcio, attraverso questa metafisica,
regolano allo stesso tempo la riproduzione sociale reale, le relazioni sociali
ed il "processo di metabolismo con la natura" (Marx). Tuttavia, la
metafisica reale sociale pre-moderna delle relazioni sociali, delle condizioni
di riproduzione e delle strutture di potere, è in un certo qual modo
"determinata al di là", è mediata attraverso la proiezione di una
sostanza assoluta semplicemente trascendente, di un'essenza divina assoluta ed
esterna al mondo, la quale è rappresentata in maniera personalizzata; in
particolare, come un sistema di relazioni personali di dipendenza e di obbligo.
Il concetto di "dipendenza personale", tuttavia,
nella stragrande maggioranza dei casi, viene profondamente malinteso (anche in
Marx, che non se ne occupa a fondo per quanto riguarda le condizioni
pre-moderne) quando per "persone" - in questo senso delle
costituzioni sociali pre-moderne di feticcio - si intendono "persone
naturali", o perfino soggetti-di-interesse secondo l'utilizzo moderno del
linguaggio. Sembra così che la struttura "dipendenza personale"
configuri una forma di dominio diretta e non mediata, in opposizione a quella
moderna, indiretta e mediata. Per la verità, le condizioni pre-moderne sono
ugualmente mediate; solo che lo sono in un altro modo, dal momento che in quel
caso le stesse persone diventano piani di proiezione e quindi rappresentazioni
della trascendenza feticistica. Tali persone trascendentali e tali relazioni di
dipendenza personale sono, in questo senso, strettamente separate dalle persone
naturali e dalle loro relazioni personali; del resto, questo finisce per creare
delle bizzarre contraddizioni fra la personalità trascendentale e la
personalità naturale, che non hanno niente da invidiare alle assurdità della moderna
socializzazione del valore, come nel caso del concetto dei "due corpi del
re" (Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, 1957).
Perciò, le persone qui, nel contesto della costituzione
feticistica, non si presentano a sé stessi come portatori autonomi di volontà
ed azione, ma come rappresentazioni in seno al mondo dell'essenza della
sostanza trascendente proiettata. Dal momento che la sostanza rimane
trascendente, in quanto non assume una forma terrena immediata (se non nelle
rappresentazioni simboliche), essa non può includere totalitariamente il mondo
reale. Generalmente, non vi è alcuna generalità sociale astratta, ma esiste
semmai una sequenza di più gradi di rappresentazioni personali e di situazioni
relazionali a tutti i livelli.
Diverso è il caso della metafisica reale capitalistica della
modernità. Qui la trascendenza viene in un certo qual modo superata; la
sostanza feticistica proiettata - o l'essenza come Assoluto - diventa
immediatamente terrena e sociale, sotto la forma della "valorizzazione del
valore" (e, solo in questo senso di una sua immanenza al mondo,
"diretta" e non più "determinata da altrove", cioè non più
derivata da un principio esterno al mondo). Anche se il momento di trascendenza
continua ad esistere, nella misura in cui la figura essenziale del feticismo,
il "valore", non costituisce alcuna essenza direttamente fisica o
sociale, ma un'astrazione non palpabile, che paradossalmente, per così dire, è
incarnata nel "processo di metabolismo con la natura" e nelle
relazioni sociali. In questo senso, la relazione sociale così costituita
rappresenta un'astrazione reale, e non una proiezione meramente ideologica di
idee o (nel senso premoderno) religiosa, mitologica, ecc., né tanto meno
rappresenta una mera astrazione nominale.
In un certo senso, la proiezione diventa immediatamente
reale, e con questo anche palpabilmente terrena, sebbene continui ad essere
mediata, nella misura in cui si manifesta soltanto nelle relazioni sociali e
nelle cose reali (merce e denaro), in quanto l'essenza del "valore"
come astrazione non può essere immediata, né quindi, tanto meno, palpabile. Il
paradosso dell'astrazione reale consiste nel fatto che l'astrazione, in sé non
fisica/materiale/corporea - la cosa del pensiero, o per altro, un prodotto
socialmente oggettivato del cervello in quanto proiezione feticista - si
presenta così come una relazione sociale reale ed ha un'oggettività fisica
reale, soprattutto in oggetti che in sé non sono astratti, ma che diventano
oggetti realmente astratti in virtù del meccanismo di proiezione sociale.
La "cosa del pensiero", il "prodotto della
testa", non devono qui essere malintesi come qualcosa tipo "pensiero
proiettato", per esempio nel senso di un "contratto sociale"
(primordiale) come quello presente nell'ideologia dell'illuminismo, come
problema di volontà, o come ideologia; un meccanismo di proiezione feticistica
è al contrario qualcosa di sempre presupposto alla "proiezione", che
deve ancora essere decifrato.
In un certo modo si potrebbe quasi parlare di una regressione,
dacché il meccanismo di proiezione moderno regredisce ad una sorta di animismo
secondario, dove non sono più le persone ad essere trascendentalmente
rappresentative, ma sono le cose inanimate a presentarsi come animate, così
come lo ha esposto ironicamente Marx nel suo capitolo dedicato al feticcio,
tramite l'esempio del tavolo che in quanto merce diventa preda di capricci
metafisici. Tuttavia, in questo caso non si tratta più di un'animazione
individuale delle cose, bensì di un'animazione riprodotta in maniera identica
nella sempre uguale forma del valore e del prezzo, in cui si manifesta la
socialità negativa dell'anima della merce, e la relazione sociale come
relazione reificata. Quest'animismo secondario non anima soltanto le cose (la
natura) ma per così dire cosifica l'anima (la situazione reale umana).
Nella misura in cui la trascendenza della proiezione viene
superata - in quanto tale proiezione ora si presenta immediatamente nelle cose
stesse e nelle relazioni terrene - essa non può più essere personalizzata, ma
deve presentarsi sotto forma cosificata, "oggettivata", regolando in
tal modo, sotto tutti gli aspetti, il processo di produzione sociale, la
mediazione sociale. Per meglio dire: essa "è" tale mediazione, ed è per
questo che non necessita più di un'istanza trascendente esterna al mondo, né di
mediatori-persone come rappresentanti di quest'istanza assoluta; alla fine è
essa stessa stabilizzata come assoluta. Il valore, la proiezione del feticcio
che si presenta come realmente oggettivo nel denaro, si costituisce come
Assoluto terreno, sociale, attraverso il movimento di riaccoppiamento del
denaro a sé stesso in quanto capitale, in quanto processo di valorizzazione, o
"soggetto automatico" (Marx), al quale viene sottomessa tutta la riproduzione
sociale e tutta la comprensione del mondo. Qualsiasi coesistenza colorata di
situazioni relazionali naturali, culturali e sociali (relazioni) finisce e
viene sostituita dalla pretesa di Assoluto del principio essenziale astratto di
unico "valore", e dalla sua sostanzialità negativa.
Ideologicamente o "filosoficamente", come forma di
riflessione nel processo, o nel senso di un'apologetica al seguito e
fiancheggiatrice, il pensiero di questo meccanismo di proiezione
dell'astrazione reale ricorre a determinati contenuti significativi del
concetto di sostanza religioso e filosofico pre-moderno, che tuttavia si
presentano in una configurazione del tutto nuova, corrispondente alla
metafisica reale capitalistica. Al posto della divinità trascendente ed assoluta,
viene posto il principio essenziale immanente e assoluto del "valore"
o del processo di valorizzazione. Tuttavia, dal momento che si tratta della
proiezione di un processo di astrazione socialmente oggettivato, questo
principio essenziale - sebbene si presenti immediatamente nelle cose e nelle
relazioni, essendo quindi immanente - non può avere ancora un'esistenza
materiale e sociale di per sé. In quanto tale continua a non essere palpabile,
ad essere "intangibile" o "non empirico", nonostante la sua
indubitabile immanenza. In questa misura, la riflessione positiva, apologetica,
della metafisica reale capitalistica può fare ricorso al filone
"idealista" della metafisica religiosa e filosofica primordiale,
soprattutto di origine platonica. L'idealismo trascendente delle forme
essenziali di Platone e dei suoi seguaci si presenta ora, nella modernità, come
idealità immanente del principio essenziale, particolarmente nell'idealismo
tedesco.
Tuttavia c'è qui di nuovo una differenza importante nel
concetto di questa idealità. In Platone e nei suoi seguaci, si trattava di
idealità trascendente delle forme essenziali nella pluralità; di forme ideali
delle diverse cose, che nella materia terrena si presentano solo come
"ombre". Sotto questo aspetto, l'idealismo formale di Platone rimane
pluralista e, quindi, relativista in quanto al concetto tradizionale di
sostanza, del quale è parte integrante. "Al di sopra" dell'idealità
del mondo plurale delle forme, tuttavia, si erge ancora la sfera del "puro
e semplicemente buono", il grado più elevato ed origine di tutto l'Essere,
un tutt'uno, che tuttavia è talmente perso nella sua trascendenza, che non si
presenta più come tale nell'immanenza.
L'idealità della forma immanente della modernità, al
contrario, ormai non conosce più alcun pluralismo di forme, né, di conseguenza,
una qualche corrispondente relatività; la forma del valore, o il "soggetto
automatico", non tollera nessun altro dio accanto a sé. L'Assoluto
trascendente del tutt'uno ideale è disceso in terra come l'Assoluto immanente
del principio essenziale "valore". Proprio come in Platone, le cose
empiriche terrene non posseggono un'esistenza indipendente, essendo la mera
"espressione" dell'idealità della forma; ma si tratta innanzi tutto, e
in primo luogo, di un'idealità della forma già non più trascendente, bensì
immanente, la quale si manifesta nella socializzazione del valore e, in secondo
luogo, di un'idealità della forma ormai non più plurale, bensì monistica,
assoluta, totalitaria. Che essa sia la "la forma pura e semplice"
kantiana o lo "spirito del mondo" hegeliano", o la "volontà
assoluta", ecc., si tratta sempre di un principio di immanenza della forma
totale nella sua ultima istanza determinante, rispetto alla quale tutte le cose
e tutte le relazioni devono solo essere "forme di apparenza". Il
mondo non è costituito dalla razionalità delle diverse entità, ma semmai,
monisticamente, da un tutt'uno terreno della valorizzazione del valore.
Si può riconoscere a prima vista che l'universo-orologio
fisico di Newton, con i suoi componenti atomistici unitari ed il suo continuum
unitario ed assoluto di spazio tempo, corrisponde con sufficiente precisione a
questo idealismo della forma, assoluto e totalitario. L'apparente
contraddizione fra "idealismo" della forma e "materialismo"
del mondo fisico, scompare, non appena entrambi i costrutti vengono decifrati
nel loro contesto storico-sociale. Probabilmente, lo stesso vale già per le
vecchie forme incipienti di contraddizione tra l'idealismo platonico della
forma ed il materialismo atomistico della sostanza, nella misura un cui la
filosofia occidentale dell'antichità ormai rappresenta soltanto una riflessione
ancora incompiuta nel contesto della relazione non maturata fra la forma merce
e la forma pensiero.
Nella modernità si è completata la complementarietà fra
questi due costrutti, i quali dal punto di vista storico-sociale corrispondono
alla costituzione della formazione sociale "basata sul valore" (Marx)
del capitalismo. L'idealismo formale della filosofia moderna (che nelle teorie
positiviste esprime soltanto il suo volgare stato di decadenza) può essere
decifrato come il principio essenziale del valore, della forma sociale del
feticcio paradossalmente secolarizzata; il sostanziale materialismo della
fisica meccanicistica, come mondo naturale modellato ed in un certo modo
"gestito" da questo dettato della forma, è un mondo fatto di elementi
e "forze" meccaniche uguali, che nella sua condizione fisica e
biologica si pretende che venga visto degradato ad una mera "forma di
apparenza" dell'astrazione reale sociale. L'ambiente culturale ed il mondo
della vita odierni della società capitalista, sempre più unificata su scala
planetaria, si avvicinano fantasmaticamente al costrutto newtoniano di un
Universo meccanico uniforme; per la biosfera planetaria, così come per la
cultura umana nel senso più lato, però, questo significa il successivo
annichilimento.
Il concetto filosofico classico di sostanza, nella
metafisica reale capitalista della modernità, chiaramente si differenzia
soltanto in forma (forma ideale immanente-trascendente o
"trascendentale", forma del valore) e contenuto (mondo modellato in
modo meccanicistico, fisicamente ridotto). Tuttavia, in questa relazione fra la
forma ed il contenuto della sostanza reale metafisica manca ancora l'agente
sociale di tutta l'organizzazione della metafisica reale, il momento mediatore
del movimento. La relazione fra forma del valore e sostanza naturale
meccanicisticamente ridotta non può essere statica, ma può essere solamente un
processo dinamico, nel quale la natura in sé non ridotta viene realmente
ridotta solo dall'astrazione del valore, attraverso la mediazione sociale, per
mezzo di una forza sociale specificamente capitalista, nel "processo di
metabolismo con la natura".
Questa forza è essa stessa una sostanza materiale, però non naturale, bensì
sociale. La sostanza naturale dell'astrazione reale moderna, in quanto
astrazione della forma del principio essenziale di "valore", è la
materia fisica astratta e meccanicisticamente ridotta; la sostanza sociale di
questo principio della forma della metafisica reale è il "lavoro
astratto" (Marx). Il "lavoro", come forma di attività e allo
stesso tempo come sostanza del capitale, costituisce la forza sociale-materiale
ed il processo solo attraverso il quale può affermarsi nel mondo terreno il
principio della forma della metafisica reale, con la sua pretesa negativa e
distruttiva di Assoluto. Il movimento mediatore del lavoro astratto è
l'auto-mediazione della sostanza ed è, di conseguenza, un fine in sé ed una
auto-aggregazione nella forma del valore (che si manifesta nella forma del
denaro), ed in quanto "alienazione" permanente della materia naturale
e delle relazioni sociali, dalla sua costituzione fino alla rispettiva distruzione,
trasforma tutto quello che processa in sé stesso in semplici immagini
dell'astrazione reale.
Già qui diventa chiaro che il marxismo tradizionale è
rimasto completamente ostaggio della metafisica reale della modernità. Il suo
"materialismo" - con l'eterna celebrazione della rispettiva corrente
nella storia della filosofia occidentale - non rappresenta più altro che la
riflessione affermativa di un lato della relazione di valore, o di capitale;
soprattutto il materialismo sostanziale della riduzione fisica, in cui il mondo
naturale già non appare più modellato dall'astrazione reale capitalista. E' il
materialismo dell'annichilimento che sotto la forma della riproduzione
feticista sta lacerando e triturando la biosfera terrestre. Di conseguenza, nel
pensiero marxista, il materialismo sostanziale fisico positivo di una natura
strutturalmente modellata corrisponde al materialismo sostanziale sociale
positivo del "lavoro", che è l'agente di tale modellazione. Questo
"materialismo" dell'ontologia del lavoro marxista, e della sua
concomitante fede meccanicista nella scienza della natura, è ben lungi dal
soppiantare l'idealismo formale della tradizione filosofica apparentemente
contraria; a somiglianza di quanto accade nel pensiero borghese, e come suo
prolungamento modificato, si comporta in maniera meramente complementare
rispetto ad esso.
In questo senso, Hegel non è stato rimesso coi piedi per
terra e con la testa per aria, ma i piedi continuano a seguire, sotto il
comando della testa, il principio essenziale capitalista della forma ideale.
Decifrate socialmente, le relazioni di feticcio in quanto "metafisica
reale", sono sempre allo stesso tempo "idealismo reale" -
portato in auge dall'idealismo reale capitalista del "soggetto automatico",
per la prima volta immanente sotto la forma della valorizzazione del valore -
del riaccoppiamento cibernetico dell'astrazione reale del valore con sé stessa.
Ironicamente, in questo modo, il materialismo reale del lavoro e quello della
scienza della natura capitalista non sono altro che la forma dell'apparenza
pratica dell'idealismo reale del valore, e non il contrario. L'astrazione reale
del valore rappresenta un'aggregazione o una forma di esistenza della pratica
dell'astrazione reale del lavoro e viceversa; proprio per questo il lavoro
astratto costituisce il modo in cui il principio sociale non-materiale
essenziale, come un fantasma, mette le mani sul mondo materiale.
In questo modo, "l'idealismo oggettivo" di Hegel
sotto un certo aspetto arriva più vicino alla cosa di quanto faccia il
"materialismo oggettivo" del pensiero marxista; ma Hegel pensa
l'idealismo reale capitalista in maniera apologetica, come movimento di
auto-mediazione positiva dell'essenza dell'astrazione reale, sfuggendo così per
principio alla sua qualità negativa, distruttiva ed annichilatrice della vita.
Il materialismo marxista, al contrario, compra un biglietto dalla critica (in
gran misura ridotta, non andando oltre l'immanenza) di modo che, da parte sua,
gli sfugge il carattere di astrazione reale sociale. In quanto astrazione, il
valore/lavoro astratto rimane in un certo qual modo una cosa del pensiero, e
quindi un'idealità (negativa). Non si tratta, però, di un'idealità soggettiva,
soltanto riflessiva, di un'idealità costituita per mezzo di mere astrazioni
nominali (linguistiche e mentali), ma di un'idealità oggettivata dai processi
storici, "materializzata" attraverso una pratica compulsiva.
Al fine di arrivare ad una piena critica della sostanzialità
negativa della relazione di feticcio capitalistica, non è l'idealismo oggettivo
di Hegel che va messo sui piedi, ma semmai è la testa dell'astrazione reale che
dev'essere ghigliottinata. Solo questa sarebbe una prassi liberatoria e
trascendente, per cui si smetterebbe di modellare compulsivamente il mondo sociale
e naturale, ma si distruggerebbe il principio essenziale stesso di una tale
prassi distruttiva.
Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx
E' un fatto osservato da lunga data che il marxismo del movimento
operaio ha continuamente soffocato o relativizzato, ridotto e diluito il
concetto della critica dell'economia politica di Marx, fino ad arrivare ad una
"economia politica" del tutto positiva, sul terreno acriticamente
presupposto della forma moderna del feticcio. E' per questo che nei libri di
testo del mondo perduto del "socialismo reale" si è sempre parlato
con la più grande serietà di una "economia politica del socialismo",
invece di capire e sviluppare il socialismo come critica pratica dell'economia
politica in quanto tale. Di conseguenza, nella comprensione del marxismo anche
il concetto di Marx della sostanza del lavoro astratto ha finito
inevitabilmente per essere rappresentato come del tutto positivo, come mera
definizione di un fatto ontologico oggettivo, "determinato da leggi
naturali" e non da superare.
Questo ragionamento tuttavia non corrisponde in alcun modo
alla forma in cui Marx presenta il concetto di lavoro astratto, fin da pagina 4
del primo volume de Il Capitale:
"
Ma, se astraiamo dal valore d'uso delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavolo, per esempio, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o di qualsiasi altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, e le diverse forme concrete che distinguono le differenti specie di lavori. Resta pertanto solo il carattere comune a tutti questi lavori; sono tutti ridotti allo stesso lavoro umano, lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima fantasmatica oggettività, una mera massa di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di lavoro umano senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose manifestano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, che in esse è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono considerate valori - valori di merce". (Karl Marx, Il Capitale. Vol.I)
Non si può non osservare che qui il concetto di lavoro
astratto non costituisce un'arida definizione positivista, bensì l'inizio della
critica concettuale di una realtà francamente negativa. Lo "astrarre dal
valore d'uso", di modo che "tutte le (...) qualità sensibili
scompaiano" al fine di ottenere una "oggettività fantasmatica",
"un mero dispendio di lavoro umano" già significa una tendenza
assolutamente distruttiva del mondo sensibile e sociale. Poiché qui si tratta
del lato pratico, attivo, si tratta di un'astrazione reale sociale, e non di
un'astrazione meramente linguistica, che esprime le cose esistenti nel
pensiero, senza che con ciò attinga nella pratica al mondo fisico e sociale.
L'astrazione "lavoro" rappresenta qui innanzitutto un riferimento
immediato di azione, soprattutto come un apriori della riproduzione sociale con
conseguenze imprevedibili.
Marx qui si avvicina ad una critica che egli stesso non ha
mai portato fino in fondo. Egli sviluppa (contrariamente alla maggioranza dei
marxisti) una critica radicale dell'astrazione reale contenuta nel concetto di
lavoro moderno; ma, simultaneamente, rimane ostaggio dell'ontologia protestante
ed illuminista del lavoro - così come ha scritto sulle proprie bandiere il
movimento operaio - sorta nel medesimo contesto storico della sua teoria. Marx
si è così trovato costretto a tentare di separare il principio suppostamente
ontologico di "lavoro", l'astrazione così espressa, dall'astrazione
reale specificamente capitalista; progetto questo che ha finito in gran misura
per perdersi nei suoi seguaci, i quali si accontentarono di adattarsi al
concetto di lavoro interamente nell'ontologizzazione trans-storica - con poche
eccezioni, che in tal modo spiccano come in special modo riflessive, seppure
non siano mai andate oltre la riproduzione dell'aporia di Marx, con il concetto
di lavoro considerato come astrazione reale capitalista e allo stesso tempo
come principio ontologico.
Marx formula apertamente la sua aporia nei "Grundrisse", da subito, nella sua
introduzione, dove parla della definizione del concetto:
"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) Un enorme progresso lo compì Adam Smith, rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune ad un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, esso cessa di poter essere pensato soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una totalità di lavori concreti. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, in quanto determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice, e che esprime una relazione antichissima ed è valida per tutte le forme di società, in questa astrazione si presenta tuttavia praticamente vera soltanto come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni."(Karl Marx, Grundrisse)
Questa riflessione sul concetto di lavoro come categoria
sociale è aporetica sotto vari aspetti. Nel senso che, tanto l'astrazione
quanto il suo contenuto sociale appaiono, da un lato, come positivi, come
"progresso", come una "attività creatrice di ricchezza" generale,
come sviluppo di una diversità; e, dall'altro lato, come negativa, come
"indifferenza" relativa al contenuto. Alla stessa maniera, il
"lavoro" appare, da un lato, come un'astrazione
"razionale", come mera designazione generica di un "ricco
sviluppo concreto" di attività; dall'altro lato, Marx non tarda a
correggersi, richiamando l'attenzione sul fatto che questa corrispondenza non è
"solo il risultato mentale di un'attività concreta", ma corrisponde
ad una "forma di società" nella quale tale astrazione diventa reale e
in tal modo definisce l'azione. Soprattutto, però, Marx da un lato si mantiene
fedele alla concezione per cui l'astrazione "lavoro" è un'idea
"antichissima" e "valida per tutte le epoche"; dall'altro
lato, però, chiarisce simultaneamente che si tratta di "una categoria
tanto moderna" quanto "le condizioni che producono tale semplice
astrazione", di modo che questa categoria finisce per essere il
"prodotto di determinate condizioni storiche", soprattutto di quelle
moderne, e che possiede "piena validità soltanto all'interno di tali
condizioni".
Quest'argomentazione aporetica può essere risolta soltanto
se la categoria "lavoro" viene definita come astrazione reale, e
perciò come categoria storica, moderna, capitalista e, per ciò stesso, l'ontologia
del lavoro viene del tutto abbandonata. Se Marx designa disinvoltamente
quest'astrazione (probabilmente nel senso di una mera astrazione nominale) come
"antichissima", questa designazione ovviamente non si basa su nessuna
ricerca storica. In realtà, in molte società della storia, fra le altre anche
le cosiddette culture superiori come l'antico Egitto, neppure esisteva una
categoria di attività generale ed astratta. Perfino nelle società dove sembrava
esistere un simile concetto generico nominale (anche se non c'era nessuna
astrazione reale), si trattava di aree di attività molto limitate, e mai di una
generalità sociale di "attività in generale". Se qui
nell'interpretazione moderna si parla sempre di "lavoro", questo è
ingannevole, un anacronismo e fondamentalmente un errore di traduzione (cosa
che del resto si applica anche ad altre categorie specificamente moderne ed
associate alla relazione di feticcio della valorizzazione del valore, come la
politica, o lo Stato, ecc.).
Nella misura in cui l'astrazione "lavoro" è stata
adottata come concetto dalla società moderna a partire dall'area linguistica
indo-europea, essa dev'essere oggetto di una completa ridefinizione; gli è che
in queste lingue il "lavoro" designa sempre l'attività specifica
degli schiavi, dei dipendenti, dei minori, ecc.; non si tratta, quindi, di un
concetto generico mentale per diverse aree di attività, ma di un'astrazione
sociale (ed in questa misura anche di un'astrazione reale, in questo senso
specificamente premoderno), però, proprio per questo non si tratta di una
generalità sociale, né di una categoria di sintesi sociale, come avviene nella
modernità.
L'aporia di Marx rimane uguale a sé stessa anche
nell'analisi de "Il Capitale", quando Marx fornisce le definizioni di
"lavoro astratto" e di "lavoro concreto". A rigore, la
definizione "lavoro astratto" rappresenta un pleonasmo logico (come,
per esempio, "cavallo-bianco bianco"), dal momento che l'attributo è
di già contenuto nello stesso concetto; gli è che, di fatto, il
"lavoro" è già un'astrazione. All'inverso, il concetto "lavoro
concreto" rappresenta una contraddizione in termini (come, per esempio,
"cavallo-bianco nero"), giacché l'attributo è in contraddizione con
il concetto; come astrazione (anche concettualmente, nascendo solo sul terreno
di un'astrazione reale sociale) il "lavoro" non può essere di per sé
concreto", nel senso di una attività determinata.
Si può dire che queste definizioni di Marx riflettono il
paradosso reale della relazione del capitale e della sua socializzazione del
valore, giacché quello che è in sé concreto, la diversità del mondo, viene di
fatto ("realmente") ridotto ad un'astrazione, ed in questo modo la
relazione fra il generale ed il particolare viene messa coi piedi per aria. Il
generale non è più una manifestazione del particolare ma, al contrario, il
particolare è ormai una manifestazione della generalità totalitaria; anche il
concreto, così, non rappresenta già più la diversità strutturata del
particolare, ma non "è" altro che la "espressione" della
generalità realmente astratta, della "sostanza" universale.
Senza dubbio, Marx non ha piena coscienza di quello che
veramente qui è da riflettere, considerato che si attiene ad un momento
ontologico e trans-storico dell'astrazione "lavoro". In questo modo
tenta di fondare tutto questo nel concetto di valore d'uso: "Come creatore dei valori d'uso, come
lavoro utile, il lavoro è... una condizione esistenziale dell'Uomo,
indipendente da tutte le forme della società, una necessità naturale eterna per
mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, ossia, la vita umana" (Il Capitale, vol. I). Il concetto di
"utilità per determinate necessità", tuttavia, non è in alcun modo
una categoria della sintesi sociale, e perciò non può essere semplicemente
equiparata a quella del "valore d'uso", come fa sempre Marx. La
categoria valore d'uso si riferisce soltanto ad un'utilità astratta (una
definizione realmente paradossale) e in questa misura essa stessa è parte
integrante dell'astrazione reale moderna; non è un concetto dal punto di vista
delle necessità, ma un concetto di rappresentazione della mediazione della
forma valore (il valore d'uso di una merce in quanto forma equivalente esprime
soltanto il valore di scambio di un'altra merce).
Il valore d'uso come designazione ha senso soltanto nella
mediazione con il valore di scambio, in quanto polarità della relazione di
valore, e perciò non è affatto "una condizione esistenziale dell'Uomo,
indipendente da tutte le forme della società". Nella misura in cui il
"lavoro" stabilisce "il valore d'uso", non si tratta di una
definizione ontologica-trans-storica per l'astrazione del valore, ma niente più
che un modo specifico di come l'astrazione reale prende possesso dell'oggetto,
che in sé non ha niente di astratto. Quello che Marx designa paradossalmente
come "lavoro concreto" non costituisce per questo una "necessità
naturale eterna"; al contrario, non è altro che il modo materiale
specifico con cui il "lavoro astratto" si appropria della "materia"
naturale o sociale. Una volta che questo è stato chiarito, possiamo continuare
ad usare i concetti di Marx, così come sono, tuttavia con una comprensione
cambiata.
Devo anticipare a questo punto un'argomentazione che
soltanto più tardi verrà sviluppata più dettagliatamente. Riguarda il carattere
materiale della sostanza del lavoro astratto, che com'è noto è stata formulata
da Marx come "dispendio di nervi, muscoli e cervello",
indipendentemente dal modo concreto di un tale dispendio, sia sotto forma di
lavoro di falegnameria o di tessitura, ecc.. I rappresentanti di una
determinata linea neomarxista di dibattito (oggi spesso di colorazione
postmoderna) sono orgogliosi di parlare qui peggiorativamente di un falso
"sostanzialismo" ovvero di un "naturalismo" fisiologico
dello stesso Marx e dei marxisti tradizionali, dal momento che proprio per via
di questa "naturalizzazione", il lavoro astratto viene trasformato in
una realtà trans-storica ed ontologica, giacché gli esseri umano devono sempre
spendere "nervi, muscoli e cervello". Per inciso, anche Moishe Postone aderisce a
tale opinione, infelicemente (Moishe Postone, ivi, pag 224 ss.). Ora, è
vero che il marxismo tradizionale ontologizza il lavoro astratto, come
pretenderemo di dimostrare più in dettaglio nel prossimo capitolo. Nonostante
questo, la critica del "sostanzialismo" che abbiamo finito di
abbozzare parte da presupposti totalmente errati. Ossia, per essa si tratta
assai meno di chiarire il concetto di sostanza e di lavoro, che del rifiuto di
una teoria della crisi sostanziale, che argomenta per mezzo della diminuzione
storica della sostanza del lavoro in quanto sostanza del valore del capitale
(desustanzializzazione). In questo senso, il lavoro astratto viene visto come
una relazione quantitativa, come concetto di sostanza in senso quantitativo.
Gli è che, perché qualcosa possa essere aumentata o diminuita, questo qualcosa
dev'essere sostanzialmente reale in senso materiale e di contenuti; una mera
forma, come sostanza non può rappresentare una relazione quantitativa. Per questo
la critica del carattere della sostanza materiale del lavoro astratto serve a
rifiutare la teoria della crisi sostanziale, ed anche per nascondere
l'esistenza di un limite interno assoluto del processo di valorizzazione; la
crisi viene allora ridotta alla superficie del mercato - come "errore di
regolazione" del meccanismo del mercato che potrebbe essere regolato
attraverso mezzi politici - oppure scompare completamente dal dibattito teorico
fondamentale.
Poiché questa argomentazione contro il "sostanzialismo"
si inscrive innanzitutto nell'ambito della teoria della quantità e della crisi
del lavoro astratto, essa viene trattata esaustivamente soltanto nella seconda
parte del presente saggio. Qui bisogna fare un riferimento preliminare al
concetto qualitativo negativo del lavoro astratto che in questo ha un ruolo. I
neomarxisti anti-sostanzialisti apparentemente riflettono fino a regredire a
retroguardia del marxismo tradizionale, una volta che sfugge loro qualcosa di
essenziale, Gli è che Marx non parla di dispendio fisiologico di nervi, muscoli
e cervello nel senso immediatamente naturalista o trans-storico. Poiché il
dispendio fisiologico di energia umana, in termini puramente
"naturali", non può essere separato dalla forma concreta di un tale
dispendio. Ma, è proprio questo che avviene socialmente nell'astrazione del
lavoro. E questo astrarre dalla forma concreta del dispendio non è né razionale
né trans-storico. Se, per esempio, dicessimo ad un antico egizio che sta
pescando, che non stava semplicemente catturando un pesce, ma che sta spendendo
"nervi, muscoli e cervello" in senso astratto, egli avrebbe tutte le
ragioni per dubitare della nostra sanità mentale. Una tale affermazione ha
senso solo nel contesto dell'astrazione reale moderna.
Tuttavia, la sostanza astratta del lavoro non cessa di
contenere un qualche contenuto materiale o "fisico" (poiché un
dispendio di nervi, muscoli e cervello senza contenuto, semplicemente non è
possibile), sebbene non si tratti di una sostanza naturale immediata, bensì di
una sostanza sociale in quanto astrazione. Si tratta di uno dei lati della
materializzazione dell'idealità della forma feticistica (l'altro lato sarebbe
la stessa materia naturale modellata in maniera riduttiva), nella misura in
cui, sotto il dettato di questa idealità di forma negativa, in un determinato
riferimento sociale, si astrae, non solo concettualmente, ma anche
praticamente, dalla forma concreta del dispendio (che naturalmente non smette
di accadere), stabilendo come essenziale solo questo medesimo dispendio in
quanto tale, indipendentemente dalla sua determinazione concreta.
Nell'astrazione come astrazione reale, rimane quindi come
residuo un contenuto ben materiale, in particolare il dispendio di
"energia umana in generale". Per il "soggetto automatico"
del processo di valorizzazione non ha nessuna importanza se vengono prodotte
pantaloni o bombe a mano; è essenziale solo che nell'atto avvengano processi di
combustione fisica umana (dispendio di energia) che possano essere
rappresentati come un quantum di valore; un procedimento in sé assolutamente
assurdo. Tuttavia, questi processi di combustione avvengono realmente; quello
che è assurdo è solo il fatto che vengano trattati e "rappresentati"
indipendentemente dalla loro forma concreta, e di conseguenza indipendentemente
dal loro obiettivo materiale e di contenuto; il che avviene perché l'obiettivo
sociale è proprio questa "rappresentazione" feticista. La riduzione
al processo di combustione fisica è un'astrazione sociale, ma non per questo è
una mera cosa del pensiero (come, per esempio, un concetto generico nominale),
ma si riferisce ad un momento ben reale, ed è anche per questo un'astrazione
reale.
La "rappresentazione" è un processo essenziale di
quello che Marx ha designato come feticismo della forma merce. Non si tratta
solo del fatto che il quantum di energia umana spesa non può essere separato
dalla forma concreta di questo dispendio stesso; non appena i prodotti si
ritrovano prodotti, essa appartiene ormai al passato e non è più tangibile, e
perciò evidentemente non è "contenuta" nei prodotti in senso naturale
o fisico. La "rappresentazione" come processo fisico, in questa
misura avviene soltanto nelle teste dei soggetti sociali così costituiti, in
particolare come percezione e "trattamento" pratico feticizzato della
sua stessa socialità. Anche così, tale "rappresentazione" si
riferisce a qualcosa che di fatto non avviene solo nelle teste dei soggetti,
come forma di percezione e di azione, ma che è una realtà fisica, ossia,
processi di combustione passati avvenuti in corpi umani, dispendio di unità
energetiche.
Poiché il quantum di energia consumata nel processo del suo
dispendio non può essere realmente separato dalla forma, o determinazione
concreta, di tale dispendio, e poiché, trattandosi di un dispendio
definitivamente passato, che non può essere letteralmente "contenuto"
negli oggetti, la forma sociale della rappresentazione è di fatto, sotto questo
aspetto, irreale in senso duplice. Anche così, questo quantum di energia dev'essere
speso realmente nel passato, di modo che, sotto l'altro aspetto, rappresenti
una sostanza fisica reale (sebbene "rappresentata" in maniera
paradossale). La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, però, in
sé no ha niente di fisico, essendo innanzitutto un'astrazione reale, un modo di
percezione e di azione socialmente costituito, in cui le sostanze naturali ed i
beni prodotti sono realmente trattati come se fossero oggetti fisici di pura
rappresentazione dei processi di combustione passati nei corpi umani.
Il lavoro astratto è perciò un determinato stato di
aggregazione dell'idealità della forma feticista moderna, che tuttavia non
smette di riferirsi ad un quantum energetico di forza lavoro realmente spesa,
ossia, ad un contenuto materiale quantificabile (non in relazione alla merce
individuale, ma alla media sociale delle merci). Questo contenuto, tuttavia, in
quanto astrazione è "fantasmatico", non solo in quanto risultato
dell'oggettività del valore, ma già nel processo stesso del dispendio, ossia,
in termini pratici, come definizione di una massa di dispendio di nervi,
muscoli e cervello separata dalla sua forma materiale. Si procede a determinate
trasformazioni di materiali naturali, sulla base di una determinazione
essenzialmente aprioristica, nelle quali vengono spese quanta di energia umana
astratta indipendentemente dalla forma concreta del suo dispendio - tale
determinazione è sostanziale in un senso materiale, che non è un senso
naturale, ma sociale, e che non è trans-storico, ma storicamente specifico
della costituzione del feticcio moderno.
II
Il lavoro astratto come metafisica
sociale reale ed il limite interno assoluto della valorizzazione
Soggetto ed oggetto nella teoria della crisi. La soluzione apparente del problema per mezzo di mere relazioni di volontà e di forza
Robert Kurz |
Se dovessimo tornare a rivedere tutto il dibattito storico,
sarebbero due realtà a richiamare la nostra attenzione. Da una parte, la fobia
rispetto all'idea di limite interno della valorizzazione del valore in realtà
non si trova associata a situazioni sociali dell'economia e della politica, di
crisi e di prosperità. La cosiddetta teoria del collasso è stata fin
dall'inizio uno scandalo ed un estremo imbarazzo, sia durante i tempi indolenti
di notabili marxisti dell'impero guglielmino che all'epoca delle catastrofi
delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, e lo è stata
maggiormente nell'epoca di prosperità del dopoguerra, ed infine lo è anche
oggi, di nuovo, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale. Lo
scandalo è rimasto, indipendentemente dalle specifiche esperienze storiche, e
così l'idea di un limite assoluto immanente non è mai diventata egemone nel
discorso marxistamainstream, nemmeno nel bel mezzo delle maggiori catastrofi
della storia mondiale.
Dall'altra parte, però, quel che è palese è la mancanza di
profondità nella riflessione teorica intorno a tutto questo dibattito, la
rapidità con la quale si passa sopra il concetto di dinamica capitalista e
quanto poco si tenga in considerazione tutto l'armamentario concettuale che era
già rappresentato da Marx. La critica non viene poi così tanto sviluppata in
maniera immanente e fondata sulla cosa in sé - in particolare sulle
contraddizioni interne della riproduzione capitalista nell'ambito di un
processo storico dinamico - ma pretende piuttosto di passare a lato della cosa,
per arrivare il prima possibile ad un'altra cosa del tutto differente. Il
grande scandalo non sta nemmeno nell'imminente rottura con l'ontologia del
lavoro marxista, che alla fine non avviene da nessuna parte, dal momento che
anche le teorie del collasso della Luxemburg e di Grossmann non abbandonano mai
questo terreno. In ogni caso, ci deve essere stato un vago presentimento
riguardo a tale problema che, a fronte della perdita della sostanza, ha
trasformato questo horror vacui del marxismo del lavoro in una motivazione
inconfessata.
Però è un'altra cosa quella che diventa da subito pienamente
evidente e che occupa un ampio spazio in tutto il dibattito: vale a dire quello
che viene sentito come una minaccia ed un affronto, cioè che un collasso oggettivo
della valorizzazione dovuto alle sue stesse contraddizioni interne avrebbe
potuto, per così dire, rubare il ruolo al proletariato, alla meravigliosa
classe operaia, gettandola nella disoccupazione, non solo nel senso della
riproduzione immediata, ma anche come soggetto storico. E' questa la causa più
profonda della fobia risguardo l'idea di collasso. Qui, essenzialmente, non si
tratta più nemmeno di una questione di riflessione critica sull'economia, nel
contesto della teoria marxista della crisi, ma piuttosto di una coerenza
ideologica di base, che può essere compresa solamente facendo ricorso alla
critica ideologica, e non alla teoria della crisi.
Infatti, già Otto Bauer, nel dibattito intorno alla teoria dell'accumulazione
della Luxemburg, nominerà il soggetto proletario come una sorta di testimone
principale a carico contro la logica del collasso:
"Il capitalismo non crollerà a causa dell'impossibilità meccanica di realizzare il plusvalore. Soccomberà di fronte all'indignazione che esso infonde nelle masse popolari. Il capitalismo si sgretolererà, non appena l'ultimo agricoltore o l'ultimo piccolo-borghese in tutto il mondo verranno trasformati in lavoratori salariati e, perciò, non rimarrà più a disposizione del capitalismo alcun mercato da aprire; verrà abbattuto molto prima dalla crescente indignazione della classe operaia che si trova in crescita costante e che è formata, unificata ed organizzata dal meccanismo del processo di produzione capitalista stesso" (Bauer 1913).
L'argomento del soggetto proletario della volontà come deus
ex machina deciderà il dibattito sulla teoria della crisi, la quale, acutizzata
in teoria del collasso, viene denunciata come "oggettivista e
determinista". Ora, il fatto che tale recriminazione sia diretta proprio
contro Rosa Luxemburg, la quale nel frattempo era emersa come teorica della
spontaneità proletaria, dello sciopero di massa e dell'attivismo rivoluzionario
contro la legge dell'inerzia riformista della socialdemocrazia, finisce per
costituire una vero e proprio scherzo di cattivo gusto.
Rosa Luxemburg non tarda a rispondere ad Otto Bauer,
rinfacciandogli il suo opportunismo al momento della catastrofe della guerra
mondiale. Proprio un simile teorico della più infame affermazione del dominio
capitalista doveva mobilitare il "soggetto di classe rivoluzionario"!
Eppure sta proprio qui il problema da risolvere della
relazione-soggetto-oggetto nella società borghese moderna.
Rosa Luxemburg argomenta prima in maniera più difensiva,
come quando nella sua Anticritica si riferisce a questo problema:
"Lo schema dell'accumulazione di Marx - se compreso correttamente - proprio nella sua irrisolvibilità, è l'esatta prognosi della rovina, economicamente inevitabile, del capitalismo come risultato del processo di espansione imperialista... Diverrà mai realtà questo momento? Ma tutto questo non è solo una finzione teorica, proprio perché l'accumulazione del capitale è un processo non solo economico, ma politico... Qui, come in altri momenti della storia, la teoria svolge il suo servizio completo nel mostrarci la tendenza dello sviluppo, il punto logico finale che indica oggettivamente. Questo non può essere raggiunto come lo è stato in qualche periodo precedente della storia dove lo sviluppo sociale poteva avvenire fino alle ultime conseguenze. Tanto meno c'è la necessità di raggiungerlo, quanto più la coscienza collettiva, questa volta incarnata nel proletariato socialista, interviene come fattore attivo nel gioco cieco delle forze. E la concezione corretta della teoria di Marx offre a questa coscienza, anche in questo caso, le proposte più fertili e l'incentivo più vigoroso" (Rosa Luxemburg, 1914).
Naturalmente il problema non viene risolto da queste
osservazioni. La tendenza al collasso non avrebbe potuto anticipare il proletariato
e sostituirsi ad esso, prima che questi riuscisse a mettere in pratica il suo
"intervento attivo"? Dall'altro lato: il proletariato può intervenire
solo perché ha alle spalle questa tendenza oggettiva? Non potrebbe arrivare
all'emancipazione sociale in maniera del tutto indipendente da una simile
tendenza? La relazione fra soggetto e oggetto rimane da essere chiarita; si
rende solo evidente che tale relazione deve esistere e che, proprio nella sua
indefinizione, può essere strumentalizzata contro la teoria del collasso. Tutto
questo ha anche qualcosa a che vedere con la frequentemente citata
debilitazione dell'autocoscienza umana da parte delle grandi teorie
scientifiche e sociali della modernità. Se da un lato l'illuminismo incorona il
soggetto autonomo come demiurgo di sé stesso, la riflessione critica,
dall'altro lato, gli infligge una caduta ancora più dolorosa. Com'è noto, già
Copernico aveva bandito l'essere umano dal centro dell'universo; Freud gli ha
negato la piena coscienza critica di sé stesso; e in Marx il feticismo del
sistema produttore di merci la fa finita anche con la soggettività
politico-economica come ultimo fondamento dello sviluppo socio-economico.
Queste osservazioni sono diventate da tempo i topos dei discorsi della teoria
sociale. Com'è generalmente noto, lo strutturalismo e la teoria dei sistemi
hanno proseguito affermativamente su questa strada dove il soggetto è soltanto
un'ombra di sé stesso, o è il mero "ambiente" di un contesto
sistemico autoreferenziale.
Se scendiamo su questo piano, che non ha ancora avuto
l'opportunità di giocare un qualche ruolo nei dibattiti marxisti sulla teoria
del collasso, il problema appare improvvisamente diminuire un po', in termini
di dimensioni. Data la sua concezione speciale di "azione del
soggetto", un collasso, un cataclisma della società, non faceva affatto
comodo alla socialdemocrazia. Dal momento che la sua idea era quella che il
crescente grado di organizzazione sociale del capitale avrebbe dovuto essere
solo trasferito nelle mani dello Stato, e poi da questo nelle mani del
proletariato (come avviene, ad esempio, in Hilferding), arrivando così in tutta
calma, e per la via dell'azione parlamentare, al socialismo. In tal senso il
desiderio riformista si nascondeva dietro l'angolo come padre del pensiero, ad
esempio quando Gustav Eckstein, nella sua polemica contro Rosa Luxemburg,
constatava quasi con sollievo: "Insieme
ai presupposti teorici cadono anche le conseguenze pratiche, innanzitutto la
teoria della catastrofe che la compagna Luxemburg aveva edificato sulla sua
dottrina della necessità dell'esistenza dei consumatori non capitalisti".
Tanto più acuta si rivelò la reazione di Rosa Luxemburg nella sua Anticritica,
redatta subito dopo l'irrompere della vera catastrofe della guerra mondiale;
ora lei si riferiva alla "catastrofe come forma di esistenza
[Daseinsform]" del capitalismo imperialista.
Ma il dibattito non era riassumibile in alcun modo
nell'opposizione fra la teoria "riformista" e quella
"rivoluzionaria" dell'agire soggettivo. Anche le posizioni comuniste
e le altre posizioni rivoluzionarie attivistiche, che in fondo non avevano
bisogno di aver così paura di un cataclisma, attaccarono la teoria del collasso
con veemenza ancora maggiore, a causa del suo "oggettivismo" e
"determinismo". Bucharin, ad esempio, accusava Rosa Luxemburg di
"deterministo economico", quando egli stesso sembrava cadervi due
pagine dopo, quando finiva per parlare dell'instabilità e di crisi cicliche e
della loro "risoluzione condizionata": "La loro ampiezza ed intensità crescente
portano inevitabilmente al collasso del dominio capitalista"
(corsivo di Bucharin).
L'idea della "inevitabilità" è evidentemente essa
stessa determinista, ma paradossalmente lo è in una maniera per cui è affermata
in senso puramente soggettivo, quando Bucharin alla fine districa il modo in
cui intende l'opposizione al "determinismo economico":
"Oggi ci troviamo già nella posizione di non poterci più permettere di valutare il processo del collasso capitalista solo sulla base di costruzioni astratte e di prospettive teoriche. Il collasso del capitalismo è già cominciato. La rivoluzione di Ottobre è l'espressione più viva e convincente di questo. La rivoluzionarizzazione del proletariato ha, senza dubbio, a che vedere con la rovina economica, questa con la guerra, la guerra con la lotta per i mercati come sbocco per il flusso di produzione, mercati di materie prime, sfere di investimento dei capitali, in breve, con la politica imperialista nel suo insieme" (corsivo di Bucharin).
Qui, è evidente che Bucharin mette a testa in giù l'insieme
dei problemi. Il limite interno oggettivo della valorizzazione del valore sulla
base delle sue proprie contraddizioni si converte in qualcos'altro, puramente
soggettivo e politico, nel limite di una mera relazione di volontà. La crisi
proviene dalla sfera politica, da dove provengono anche l'emancipazione o la
rivoluzione, nel mentre che la cosiddetta economia, che in realtà costituisce
la base logica della valorizzazione del valore, che abbraccia tutte le sfere
ufficiali, si riduce ad un gradevole rumore di fondo, e tutto sommato
abbastanza irrilevante per il corso degli eventi. In questo contesto, il
concetto di collasso è una confezione ingannevole. Gli è che un collasso è
nella sua essenza qualcosa di oggettivo, che viene sofferto in forma passiva,
condizionato da leggi naturali o sistemiche, e non un atto di volontà o una
relazione di volontà. Un collasso avviene quando una persona soffre di un grave
disturbo circolatorio o di un infarto, quando un ponte si sbriciola per eccesso
di peso, quando un motore grippa, una stella si contrae in un buco nero, o una
connessione sistemica (ad esempio, un programma di computer) diventa instabile
e "crasha", ecc.. Il termine diventa inadeguato quando si tratta di
atti di volontà in un conflitto cosciente. Ma cosa ancora più importante è che
Bucharin, nel suo travisamento, finisce per compiere una capriola, facendo una
rivelazione involontaria. Sebbene soggettivizzi l'oggettività del collasso e la
riduca alla politica, allo stesso tempo, ed inversamente, oggettivizza questo
stesso soggetto, dichiarandone la sua attuazione "inevitabile" e di
conseguenza determinata. Arrivati a questo punto ci troviamo nuovamente davanti
la non risolta problematica-soggetto-oggetto della modernità.
E questo problema va ripetendosi e si trascina per tutto il
dibattito intorno alla crisi o al collasso. Così, qualche anno più tardi,
riappare anche nelle tirate di Eugen Varga contro Grossmann. Anche Varga tira
fuori dalla formaldeide il soggetto (soggetto di classe) come deus ex machina. "Egli (Grossmann) separa l'economia
dalla lotta di classe; perciò, il suo'collasso' non è il rovesciamento
dell'ordine sociale capitalista, ma è piuttosto una fantasia puramente
economica..." (corsivo di Varga). E, come in Bucharin, la
"volontà determinata" finisce per condensarsi nel potere sovietico,
che rende superflua qualsiasi teoria della crisi nel senso di meccanismi
sistemici ciechi.
"Chi, nell'anno 1929, ha il coraggio di pubblicare un libro di seicento pagine sul collasso del capitalismo già avvenuto in Russia, per quante citazioni di Marx accumuli, per quanto dotte siano le sue considerazioni sul metodo del marxismo - chi fa tutto questo non ha capito l'ABC del metodo di investigazione marxista!... Il motivo per cui viene taciuta in maniera così ostinata la caduta del capitalismo in Russia è dovuto al fatto che è perfettamente evidente che quelle cause, che secondo Grossmann dovrebbero essere responsabili del rovesciamento del capitalismo, non hanno avuto la minima importanza nel rovesciamento del capitalismo realmente avvenuto in Russia. Infatti sarebbe ridicolo affermare che il capitalismo in Russia - il quale, com'è noto, era un paese assai povero di capitale, che continuava ad importare grandi quantità di capitale straniero - abbia subito un tracollo a causa di un'accumulazione eccessiva di capitale!... Per noi, militanti comunisti, è un grande sollievo sapere che il rovesciamento reale del capitalismo non è vincolato al meccanismo causale proclamato con così tanto clamore dal signor Grossmann...".
E così Varga, sollevato, mentre mancano tre anni scarsi alla
presa del potere da parte dei nazionalsocialisti, gioisce dinanzi
all'aspettativa del "tracollo del capitalismo" su scala planetaria...
"molto prima che sia possibile il
verificarsi in tutto il mondo di una 'accumulazione eccessiva' di
capitale" (ivi).
Dal punto di vista dell'oggi, è più che ovvio il grandioso
errore di tutta questa argomentazione: quel che Varga vorrebbe intendere come
"tracollo del capitalismo" in Russia, similmente alla maggioranza dei
suoi contemporanei, era in realtà una "modernizzazione ritardata",
un'implementazione socio-storica in termini capitalistici del sistema del
lavoro astratto sotto la direzione del comunismo di Stato in una zona
sottosviluppata della periferia del mercato mondiale; ossia, un regime
storicamente non simultaneo di accumulazione primitiva entrato esso stesso in
collasso settant'anni più tardi, nelle condizioni della terza rivoluzione industriale.
Ma l'argomentazione di Varga non solo è assolutamente inconseguente in termini
storici ed economico-politici, nel senso del limite della socializzazione
capitalista sulla base del lavoro astratto e della rispettiva forma del valore.
Allo stesso tempo - così come nel caso di Bucharin - getta involontariamente
una luce cruda sulla struttura-soggetto-oggetto della modernità legata al
problema della crisi e del collasso, che viene sempre risolta in maniera
paradossale nella soggettività del politico - e che, per questo stesso motivo,
provoca accessi di rabbia contro il "determinismo politico" delle
teorie del collasso.
Non stupisce che, così come sono quasi identiche le
argomentazioni del socialdemocratico Otto Bauer e quelle del comunista Nicolai
Bucharin contro il "determinismo economico" di Rosa Luxemburg, la
stessa cosa si applichi anche alle corrispondenti argomentazioni del comunista
Eugen Varga e del socialdemocratico Alfred Braunthal contro Henryk Grossmann,
sebbene Braunthal qui tenti di regolare i conti anche con i comunisti:
"Tuttavia, i comunisti e i seguaci della teoria del collasso non sono solo alieni o perfino contrari alla realtà, per il fatto che le loro teorie non solo non nascono dalla viva realtà, ma trascurano anche i dati della realtà, nella misura in cui chiudono gli occhi davanti alle forze trasformatrici della società, che oggi operano già di fatto. Se prendiamo in considerazione tali forze e percepiamo l'importanza delle crescenti tendenze organizzative dell'economia, della crescente influenza degli operai e della pressione crescente da questi esercitata nel senso della democratizzazione dell'economia, nel quadro della trasformazione della società da capitalista a socialista, diventa evidente che la classe operaia non deve aspettare con cupa rassegnazione un lontano futuro, nel quale, dopo un orrendo periodo di transizione riempito di penuria e miseria, le tendenze del collasso del capitalismo si impongono in maniera automatica, ma tale conoscenza incita la classe operaia a mobilitare tutte le sue forze per imporre, non il collasso del capitalismo, ma piuttosto la sua trasformazione in un sistema di società socialista" (Braunthal).
Non si può fare a meno di sentire un brivido a fronte di una
simile ingenuità, nell'immediata vigilia della crisi economica mondiale, della
barbarie nazionalsocialista e della susseguente seconda guerra mondiale.
Tuttavia, allo stesso tempo diventa chiaro anche quanto sia piccola la
differenza fra la riforma e la rivoluzione nel rifiuto della teoria del collasso
per quel che riguarda il problema del soggetto. In fondo tutto si riduce alla
non simultaneità storica, alla differenza con cui si risponde alla stessa
domanda, una volta nelle condizioni di un capitalismo occidentale già
sviluppato, e l'altra in quelle di una società periferica di
"modernizzazione ritardata" ancora non sviluppata in termini
capitalisti. Se sia la classe operaia (occidentale) a dover esercitare una
"pressione crescente nel senso di una democratizzazione dell'economia",
oppure se dev'essere la rivoluzione proletaria a produrre il presunto
"collasso del capitalismo" sotto forma di una dittatura comunista
statale del lavoro astratto: la struttura-soggetto-oggetto, e la sua apparente
soluzione nel senso della soggettività politica e contro il "determinismo
economico", è la stessa.
Forse, diventa più chiaro che qui si nasconde un problema
che rimane da risolvere, e che non ha soluzione nell'ambito della
socializzazione del valore, se consideriamo anche la posizione dei comunisti di
sinistra o dei consigli, i quali, rispetto ai socialdemocratici ed ai comunisti
di partito, si limitavano ad acuire e a radicalizzare questa apparente
soluzione nelle relazioni di volontà soggettiva. Nella sua polemica contro
Grossmann, Pannekoek si esaspera:
"Per lui, il capitalismo è un sistema meccanico, nel quale gli esseri umani intervengono in quanto individui dell'economia, capitalisti, acquirenti, venditori, salariati, ecc., ma che per il resto devono soffrire in maniera passiva quello che il meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna... (Il) meccanismo determina le dimensioni economiche, mentre gli esseri umani che agiscono e lottano si trovano fuori da questa connessione".
Ci troviamo di fronte ad un ritornello che dovrebbe esserci
familiare; in quanto fino ad oggi è stato regolarmente cantato nei dibattiti
della sinistra radicale. Pannekoek astrae completamente dalla forma sociale
della coscienza e perfino della volontà. Vuole attribuire alle "persone
che lottano ed agiscono", indipendentemente dalla tematizzazione critica
di questa forma (la forma del valore) e della sua sostanza (il lavoro), un
potenziale trascendente di volontà, ossia, vuole atttribuire, in un accesso di
falsa immediatezza, all'esser-così [Sosein] dei soggetti costituiti in maniera
capitalista - così come sono e come agiscono - qualcosa che questi possono
ottenere solo attraverso la mediazione di una critica radicale di questa forma.
Tutto il "lottare ed agire" rimane sotto l'egida di una falsa
oggettività, in quanto non passa dalla critica della forma e della sostanza del
lavoro astratto. E se questo non avviene, le persone soffriranno proprio a
causa del loro "lottare ed agire" esattamente "quello che il
meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna" - proprio
perché non si trovano "fuori da questa connessione".
Questa connessione rimane (non solo) per Pannokoek
un'idra-dalle-sette-teste, e così egli le assegna - contrariamente a quello che
pretende di pensare, come fa anche Bucharin - l'oggettività del soggetto e la
determinazione della propria volontà:
"Il collasso del capitalismo, in Marx, dipende di fatto dalla volontà della classe operaia; ma tale volontà non è arbitraria, non è libera, ma è essa stessa totalmente determinata (!) dallo sviluppo economico. Le contraddizioni dell'economia capitalista... determinano la volontà del proletariato sempre di nuovo nel senso della rivoluzione. Il socialismo non arriva perché il capitalismo entra in collasso economico e di conseguenza gli esseri umani, operai ed altri, costretti dalla necessità, creeranno una nuova organizzazione. Al contrario, il capitalismo crolla perché, così come vive e prospera, diventa sempre più insopportabile per gli operai, istigandoli alla lotta, sempre di nuovo, fino a far crescere in loro la volontà e la forza per rovesciare il dominio del capitale ed edificare una nuova organizzazione".
Pannekoek non si accorge nemmeno che è del tutto
indifferente se la volontà della classe operaia "totalmente determinata
dalla sviluppo economico" porti soggettivamente il capitalismo al
"collasso", oppure se il capitalismo crolli per motivi ad esso
intrinsechi e quindi "obblighi" la classe operaia in maniera
oggettiva a "creare una nuova organizzazione". Senza volere, egli
illustra chiaramente l'intercambiabilità di soggetto e dell'oggetto nella
struttura feticistica della riproduzione - cosa che finisce perfino per essere
innalzata agli onori della metafisica della storia:
"Per Marx, ogni necessità sociale si impone per mezzo degli esseri umani (!); ciò significa che il pensare, il volere e l'agire umani, sebbene appaiano discrezionali rispetto alla propria coscienza - sono totalmente (!) determinati dagli effetti dell'ambiente; ed è solo a partire dalla totalità di queste azioni umane, determinate nella loro essenza dalle forze sociali, che si impone una regolarità nello sviluppo sociale... L'accumulazione del capitale, le crisi, la miseria crescente, la rivoluzione proletaria, l'appropriazione del dominio da parte della classe operaia, costituiscono tutte insieme un'unità indissolubile che attua come legge naturale (!), il collasso del capitalismo".
E' veramente grottesco: la determinazione soggettiva si
presenta immediatamente come oggettiva, senza che venga riflesso il contesto
della mediazione; così, la volontà emancipatoria appare essa stessa come parte
integrante proprio della medesima pseudo-"legge naturale", la quale a
ben vedere costituisce lo scandalo della falsa oggettivizzazione. Quella che
qui si manifesta è una concettualità assai rudimentale della relazione di
capitale stessa, che manca dei momenti decisivi della critica della forma del
feticcio e della sostanza del lavoro. Trasmette tristezza lo strutturalismo di
un Althusser, per cui anche la rivoluzione sarà un "processo senza soggetto"
- eppure Pannekoek si situa apparentemente all'altro estremo della
scala-soggetto-oggetto del radicalismo marxista di sinistra. Il prezzo perché
la classe operaia si mantenga come soggetto storico e non lasci i suoi allori
nelle mani del "determinismo economico" del collasso oggettivo,
consiste nel fatto che "la classe", essa stessa, possa agire soltanto
come esecutrice delle presunte "leggi naturali" della società - il
che costituisce un segnale inequivocabile per cui questa costruzione, in
realtà, rimane prigioniera del cerchio delle categorie capitalistiche, e che
quest'idea di una "rivoluzione proletaria" non è altro che
un'ideologia dello sviluppo del lavoro astratto, e rappresenta un prolungamento
del sistema di valorizzazione, nel quale il "lavoro senza capitale"
possa tornare ad essere una semplice relazione del capitale.
Ovviamente, lo stesso Grossmann non è estraneo alla
metacritica ideologica della sua opera, basata sul problema del soggetto, al di
là delle definizioni immanenti della teoria della crisi. Quando era in esilio
negli Stati Uniti, più di dieci anni dopo che era interrotto il dibattito,
aveva tentato indirettamente di difendersi dall'accusa di "determinismo
economico", asserendo, similmente a Rosa Luxemburg, che la tendenza oggettiva
al collasso non rendeva superfluo in alcun modo l'agire emancipatorio
soggettivo. Secondo Grossmann, un "momento della teoria generale di
Marx" consisteva essenzialmente
"nella dottrina secondo la quale nessun sistema economico, per quanto tormentato sia, entra in collasso di sua propria iniziativa; dev'essere 'rovesciato'. L'analisi teorica delle tendenze oggettive dello sviluppo che portano al collasso del sistema serve a scoprire gli 'anelli deboli', da utilizzare come una sorta di barometro, che indichi quando il sistema diventa maturo per un cambiamento fondamentale. Ed anche che quando un tale punto viene raggiunto, la rivoluzione viene effettuata dall'agire attivo dei fattori soggettivi... E' grazie a tale agire che le tendenze oggettive possono essere realizzate" (Grossmann, 1943).
Quindi, Grossmann arriva ora allo stesso punto cui è
arrivato Pannekoek; l'oggettività (negativa, falsa) viene soggettivata, mentre,
inversamente, l'agire soggettivo viene oggettivizzato ("realizzazione
delle tendenze oggettive"), e lo stesso soggetto è ormai soltanto un
"fattore", la confusione è totale. E' ovvio che Grossmann non sia mai
stato studiato attentamente a questo meta-livello, dove ora, a posteriori, si
apre alla comprensione, dopo che da tempo è diventato chiaro che il suo sforzo
di analisi sul piano delle categorie del valore, e della teoria delle crisi ad
esse legate, non poteva arrivare da nessuna parte.
Mancava solo da fare un piccolo passo per ridurre questo
vero e proprio dilemma alla pura soggettività delle relazioni di volontà e
dichiarare le categorie della critica dell'economia politica di Marx
completamente irrilevanti nella pratica. La relazione di capitale, come
relazione esterna di volontà, allora non è niente di più che "volontà
contro volontà" (espressa ancora nuovamente in forma oggettivata come
"classe contro classe", visto che, com'è noto, la categoria classe è
da parte sua costituita sistemicamente, ed in questo modo fa parte
dell'oggettività). Per essere più esatti: l'oggettività incompresa della
categoria classe viene ridotta ad una semplice questione di volontà, di modo
che l'oggettività del feticcio capitalista si risolve apparentemente in un
semplice "rapporto di forza" di determinazioni di volontà in
conflitto.
E' stato Karl Korsch che, nella discussione sulla
meta-problematica della relazione-soggetto-oggetto nell'ambito del dibattitto
sulla crisi e sul collasso, ha contribuito a preparare questa svolta. Per lui,
qualsiasi teoria del collasso rappresenta un "deformazione oggettivista":
"Una simile teoria non mi sembra appropriata per produrre quella piena serietà dell'agire auto-responsabile della classe operaia che lotta per i suoi propri obiettivi, necessaria tanto alla guerra di classe degli operai quanto a qualsiasi altra guerra comune" (Korsch, citato da Marramao, 1977). Come constata Marramao, Korsch arriva al punto di valutare "la rappresentazione dialettica del Marx maturo come una mera allegoria destinata ad eccitare la volontà di lotta e lo spirito rivoluzionario del proletariato" (ivi).
Giacomo Marramao, che si è occupato del problema nel
contesto del marxismo della nuova sinistra degli anni settanta, designa a
ragione quest'opinione di Korsch come "riduzione pragmatica del momento
dialettico-morfologico della critica dell'economia politica" (ivi). Come
conseguenza di quest'ultima opinione, le categorie del lavoro astratto, valore,
merce, prezzo, plusvalore, composizione organica, caduta tendenziale del saggio
di profitto, ecc., ossia, i punti di riferimento teorici della riproduzione
capitalistica così come della sua crisi, devono ridursi a mere
"allegorie" delle determinazioni di volontà delle "classi",
pensate come soggetti di volontà senza presupposti. Il piano della costituzione
del feticcio e del "soggetto automatico" - che in ogni caso non è mai
stato compreso - viene ora abolito per sempre, le oggettivazioni reali si
convertono in meri rivestimenti delle relazioni di volontà puramente
soggettive.
E' vero che Korsch si pronuncia anche contro un mero
soggettivismo dell'azione diretta non mediata ecc., ma ciò si riferisce
unicamente ai piani della mediazione nell'ambito delle presunte pure relazioni
di volontà, e non all'oggettività negativa della relazione di feticcio e della
crisi come limite oggettivo:
"Questa posizione dichiara che tutta la questione della necessità o dell'evitabilità oggettiva delle crisi capitalista è una questione che non ha senso, in una tale generalità, nell'ambito di una teoria della rivoluzione pratica del proletariato... Innanzitutto essa crede che, attraverso un'investigazione empirica sempre più esatta e dettagliata del presente modo di produzione capitalista e delle sue chiare tendenze di sviluppo futuro, possano anche essere fatti certi pronostici che, seppure molto limitati, arrivano sempre alla necessità dell'azione pratica" (Korsch).
Qui appaiono le conseguenze di questo "riduzionismo
pragmatico" delle categorie capitalistiche di forma e sostanza: il
movimento storico non si presenta più come movimento di queste stesse
categorie, che sarebbe possibile estendere solo sulla base della corrispondente
teoria, ma si manifesta solamente nella riduzione a relazioni di volontà,
ossia, ridotto al "piano empirico" ed alla sua
"investigazione", dal momento che questo empirismo viene concepito in
modo immediato come riferito ai rapporti di forza fra determinazioni di volontà
antagoniste.
Nasce qui la famigerata analisi di classe: si mette fine a
qualsiasi indagine ed a qualsiasi dibattito sul movimento categoriale e sul suo
nesso interno, finisce il dibattito sulle teorie della crisi e del collasso,
sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, sul problema della
realizzazione e così via - vengono tutte retrocesse a "questioni che in
questa generalità non hanno senso". Al loro posto rimane soltanto l'analisi
empirica nel senso delle strutture di classe e delle loro alterazioni, che in
questo modo includono anche le alterazioni nelle relazioni di volontà. Vale a
dire, proprio quello che l'operaismo, con i suoi teoremi di ricomposizione
della classe operaia, aveva scritto nella sua agenda come programma
riduzionista di investigazione permanente.
Com'è ovvio, con questo tipo di espediente non si riesce a
sfuggire alla relazione-soggetto-oggetto della costituzione del feticcio
moderno. Si estende soltanto il dilemma che era già apparso in Pannekoek e che
si radica nella comprensione ridotta del movimento operaio in generale: quanto
più è soggettivo, tanto più è oggettivo; quanto più la relazione di feticcio
viene concepita come una pura relazione di volontà di soggetti di volontà
pensati senza presupposti ("classi"), i cui presupposti reali
rimangono nell'ombra, tanto più l'oggettività falsa, negativa, finisce per
rientrare per la porta di servizio, ed i teorici dell'immediatezza, che non
riflettono più nemmeno sui propri presupposti, si vedono costretti a cosificare
completamente la struttura e la coscienza del loro splendido "soggetto
proletario di volontà" e ad "investigarlo" come se fosse un
oggetto naturale oggettivo, cosa che evidentemente smentisce in maniera
imbarazzante la loro enfasi riguardo allo "agire auto-responsabile della
classe proletaria in una lotta per i suoi propri obiettivi".
Allo stesso modo in cui la storia segreta del dibattito del
marxismo tradizionale sulla crisi e sul collasso ha consistito, al di là del
piano ridotto dell'economia politica, nella sgradevole tematizzazione di questa
poco chiarita struttura-soggetto-oggetto della socializzazione moderna del
valore, così il programma segreto della sua soluzione ha consistito nella
riduzione delle categorie oggettivate del capitale a pure relazioni di volontà,
che in seguito potevano essere osservate ed indagate sotto aspetti diversi. La
storia del dopoguerra della nuova sinistra è stata, tutta quanta, permeata da
tale paradigma. Questa soluzione del dibattito sul collasso venne semplicemente
adottata, in maniera del tutto irriflessa e senza che fosse soggetta alla
minima analisi critica; ed è stato proprio per questo che non solo il concetto
di collasso, come parola non grata, si è trasformato in un mero fantasma, ma
anche la strada verso un ulteriore sviluppo della critica dell'ontologia del
lavoro è rimasta ostruita, ed i concetti abbastanza tematizzati di reificazione
e di alienazione non sono andati al di là di una superficiale formulazione
socio-filosofica.
Il piano della costituzione sociale, il problema della
costituzione del feticcio e del "soggetto automatico", doveva così
continuare a non essere elaborato, e perfino espressamente rifiutato.
Nonostante le apparenze esteriori, una simile tendenza non è stata contrastata
nemmeno dalla corrente del dibattito sullo strutturalismo di Althusser.
Althusser ha fatto rimanere il "soggetto proletario" in uno stato
perfettamente irriflesso, ma spogliato della sua enfasi e ridotto ad un
"esecutore" di processi strutturali. Tuttavia, come si è già detto,
anche Pannekoek era arrivato a quel punto, che in fondo è stato anche il
presupposto implicito o esplicito di ogni "materialismo storico". Il
polo opposto operaista ha solo costituito il rovescio della stessa medaglia.
Non è un caso che sia Luis Althusser che Toni Negri abbiano respinto
espressamente tanto il concetto di feticcio quanto ogni argomentazione di Marx
edificata su tale concetto. In questo modo, unitamente al problema del limite
interno oggettivo della valorizzazione, anche la forma sociale del soggetto e
la sua sostanza (del lavoro) sono state definitivamente cancellate come
possibili oggetti della riflessione e della critica radicale.
La crisi e la critica, l'illusione politica e la relazione di dissociazione sessuale
La soggettività riduzionista delle categorie veniva
politico-economicamente giustificata con lo sviluppo del capitalismo stesso,
visto allora come un capitalismo "organizzato" (Hilferding). I
problemi della valorizzazione, in realtà derivanti da un processo secolare di
desustanzializzazione del valore stesso, che veniva potenziato dagli interventi
statali a partire dalla fine del 19° secolo (con i successivi impulsi
dell'economia di guerra dell'epoca delle guerre mondiali e più tardi della
regolazione fordista nella seconda metà del 20° secolo), apparivano più
che altro come "rimozione della legge del valore", attraverso il
preteso comando diretto della politica e della gestione dei conglomerati
imprenditoriali sulla riproduzione capitalista. Questa rappresentazione assilla
ogni ambito dei modelli interpretativi comunque classificati con l'etichetta di
"marxismo occidentale" e che pretendono di andare oltre lo
"economicismo" del marxismo tradizionale - quando in realtà rappresentano
solo il rovescio soggettivo-ideologico della stessa medaglia.
In questo modo si estende e si potenzia l'illusione
politica, nello stesso identico modo in cui essa aveva caratterizzato il
marxismo del vecchio movimento operaio fin dall'inizio. La "lotta per il
riconoscimento", sul terreno del lavoro astratto e quindi della
socializzazione del valore, in realtà, proprio a causa della sua limitazione,
poteva essere condotta soltanto in forma politica, in quanto la politica non è
altro che la "sfera del trattamento" secondaria dei problemi sociali
continuamente causati dalla relazione di capitale. Tale sfera, secondo il suo
proprio concetto, presuppone come positiva la valorizzazione del valore, in
quanto viene considerata una componente immanente del valore come forma
sociale. Qualsiasi contrapposizione dell'economia e della politica che si
distingue a partire da questa differenza e che suppone le due sfere come
reciprocamente esterne, senza riuscire a comprendere la loro interconnessione
[übergreifenden Zusammenhang] nella relazione del valore e nella sostanza del
lavoro, rimane decisamente ridotta e sfocia in una qualche variante
dell'illusione politica. La politica, secondo il suo proprio concetto, è
relazionata con lo Stato, ma lo Stato come categoria e come dispositivo
concreto rappresenta il meccanismo del trattamento politico del capitalismo,
che di per sé non può portare oltre il fine in sé della valorizzazione del
valore, in quanto non è altro che una semplice funzione di questa coazione (le
frizioni nel decorso del processo di trattamento politico possono
involontariamente liberare potenziali di critica, ma questo non cambia niente
nello stato strutturale delle cose).
La comprensione del carattere di compromissione con il
sistema dello Stato e della politica, presuppone tuttavia la comprensione della
falsa oggettività delle categorie capitaliste in generale e la comprensione del
carattere di fine in sé del "soggetto automatico". Da qui ne risulta
una critica dello Stato del tutto differente da quella del marxismo
tradizionale. Il parlare di Stato come "comitato di gestione degli affari
della borghesia", così come viene usato occasionalmente anche da Marx e
come si è consolidato alla fine nel concetto di "Stato di classe", è
assai miope ed è l'espressione di una soggettivazione sociologistica. Le classi
non determinate nei loro presupposti, ma nella realtà categorie derivate dalla
relazione di feticcio che vengono adottate come soggetti senza presupposti,
sembrano allora sussumere sotto questa soggettività sociologica, come loro
ultima base, tutte le categorie della riproduzione del capitale. Proprio per
questo, però, le categorie lavoro, valore, Stato, politica, ecc. sono
ontologizzate, in quanto vengono definite come oggetti della critica solamente
in conseguenza dei loro attributi, come "lavoro (trans-storico) sfruttato
dal capitale", "valore di cui si appropriano i dominanti
(plusvalore)", "Stato della borghesia", ecc., di modo che si
vorrebbe immaginare un "lavoro libero", un "valore di cui ci si
appropria con autodeterminazione, cioè, giustamente ripartito", uno
"Stato proletario" e, nota bene, una "politica
emancipatoria".
La falsa soggettivazione era già insita nell'ipostasi del
concetto di classe sociologicamente ridotto, come preteso punto di partenza di
tutta la riflessione (mentre Marx comincia dalla forma della cellula
capitalistica valore, con la determinazione della riproduzione in forma
feticista, e non dalla classe sociologica). Nel marxismo tradizionale,
tuttavia, le categorie della critica dell'economia politica sviluppate da Marx,
che non esprimono altro che l'oggettivazione negativa della costituzione del
feticcio, del "soggetto automatico", conducono per qualche tempo una
propria vita fantasmatica e producono quei dibattiti sullo sviluppo
capitalista, tendenze alla crisi ed al collasso, che rimangono sistematicamente
non mediate con la problematica delle "classi" e della loro
"politica", che viene supposta come "autentica"; di qui
anche l'andare a finire e a fallire nella non risolta questione astratta della
struttura-soggetto-oggetto.
Nella misura in cui il movimento operaio - nella sua
"lotta per il riconoscimento" come soggetto del lavoro, del diritto e
della cittadinanza statale, che assumeva necessariamente una forma politica -
ha avuto successo, si è trasformato esso stesso in soggetto borghese, dentro la
"gabbia di ferro" (Max Weber) della socializzazione del valore. Il
suo successo è stato simultaneamente un'autocondanna alla forma feticcio, e la
politica è rimasta il veicolo di un tale incantesimo. L'ascesa del movimento
operaio, il suo successo nella "lotta per il riconoscimento" (un
successo scritto col sangue, in quanto ha incontrato la sua realizzazione nella
prima guerra mondiale - il pieno riconoscimento è arrivato insieme al
sacrificio di sangue sull'altare della nazione borghese) e l'ascesa
dell'intervento statale hanno camminato mano nella mano. Cosa ci può essere di
più ovvio che portare ora a termine la soggettivizzazione delle categorie,
fraintendere definitivamente la politica come forma di emancipazione e
giustificare tutto questo con lo sviluppo stesso del capitale?
La teoria del "capitalismo organizzato", della
pretesa "soppiantazione della legge del valore" e del "comando
politico" sulle categorie reali del lavoro astratto e del valore ha solo
continuato, da un lato, la classica tendenza della socialdemocrazia a
"raggiungere gradualmente" e senza rotture il "socialismo"
di un'auto-polverizzazione aututodeterminata in una società industriale o
"fabbrica sociale totale"; dall'altro lato, a portato fino in fondo
la soggettivizzazione e si è così resa suscettibile anche di dar luogo ad
interpretazioni da sinistra radicale, che tuttavia sono rimaste sedute sulla
medesima logica. Questo si applica tanto alla teoria di Horkheimer e di Adorno
dello "Stato autoritario", che si presume agisca al di là della legge
del valore, quanto per le successive posizioni operaiste. In ogni caso, volere
che il preteso regime di comando politico sul lavoro astratto/forma del valore
sia rappresentato come positivo (socialdemocrazia), volere (non in ultimo sotto
l'impressione del nazionalsocialismo) che venga inteso come
"fatalità" (Horkheimer/Adorno), o averlo raffigurato come pura
"determinazione di volontà" del nemico di classe, che doveva sfidare
e mobilitare sempre e di nuovo la "contro-volontà" del proletariato
(Negri-Operaismo) - davanti a questo sfondo, quando tutto si dissolve nella
"politica", non è più pensabile un limite interno oggettivo. Con
questo, tuttavia, l'apparente "soppiantazione" delle teorie del
collasso divengono identiche all'illusione politica finita, con un orientamento
del pensiero di emancipazione verso la sfera della funzione politica della
modernità capitalista.
E' a ragione che Giacomo Marramao, negli anni 70, richiama
l'attenzione sul fatto che "sono precisamente i teorici
dell'austromarxismo che aprono nel marxismo europeo quella 'stagione della
soggettività' che consiste in una lettura rinnovata, militante, delle opere di
Marx, attraverso il filtro di determinati temi del neo-kantismo".
Assolutamente non a caso, gli attivisti radicali di sinistra dell'operaismo e
di correnti similari degli anni 70 (ed in parte anche oggi) invocano nelle loro
analisi teoriche proprio il teorema di Hilferding del "capitalismo organizzato".
Quest'orientamento generale ha avuto come conseguenza, però, come di seguito
constata Marramao, "sia nell'insieme degli austromarxisti neo-kantiani,
sia nell'insieme dell'ala maggioritaria del comunismo di sinistra, una
restrizione gnoseologica a quella sfera che in Marx è determinata dalle
relazioni sociali di produzione. Il postulato del momento soggettivo
(etico-universalista) corrisponde all'analisi sociologico-empirica del
"multiplo o del reale". Invece di rendere riconoscibili le leggi che
determinano le tendenze del modo di produzione, l'analisi economica si perde
così in un esercizio di micro-sociologia" (Marramao).
Questa comprensione critica finisce però per sviluppare un
singolo elemento, e non ha potuto impedire che il mainstream della nuova
sinistra si sia trasferita nelle varianti della falsa soggettivazione di Negri.
Il che si ritrova anche nella stessa argomentazione di Marramao, dal momento
che non raggiunge il problema della costituzione-feticcio, né la soluzione del
dilemma-soggetto-oggetto, ma è essa stessa a partire a priori dalla riduzione
deconcettualizzata alla politica; l'obiettivo del suo saggio, chiarito già fin
dall'inizio, stava dentro "la prospettiva di una nuova complessa
definizione di una politica adeguata alla situazione dei paesi
tardo-capitalisti". Questo ricorda fatalmente Christoph Deutschmann, in
cui l'approssimazione al problema del limite oggettivo in quanto
desustanzializzazione si trasforma anche immediatamente nel paradigma del
trattamento politico; quello che in Deutschmann appare sul piano delle
categorie del capitale, come "politica economica", in Marramao si
trasforma nell'astrazione vuota della "politica" in generale, sul
metapiano del problema-soggetto-oggetto.
E così è rimasto fino ad oggi. Sia il post-operaismo di
Negri, che da un po' di tempo a questa parte ha fatto nuovamente furore (per lo
meno nei supplementi culturali), che la sinistra postmoderna in termini
generali, ma anche posizioni del marxismo tradizionale della "lotta di
classe", rimangono attaccati ad un concetto tanto diffuso quanto
inflazionato di "politica", degradato a frase vuota. Non sanno
nemmeno di quale storia siano il risultato. La politica viene equiparata in
qualche modo all'intervento in generale, passando al lato delle categorie, che
sono più che mai degradate ad un mero rumore di fondo. Quello che in Pannekoek
era ancora pensato con poca chiarezza, si è concluso con l'instupidimento
categoriale della sinistra. Si invocano i soggetti o il "soggetto"
puro e semplice, la forma non è niente e la volonta, tutto. Indifferenti al
lavoro astratto, alla sostanza del valore ed alla forma del valore, allo
sviluppo ed alla crisi, si pretende di mobilitare negli esseri umani con una
falsa immediatezza tutto quello che in qualche modo non "s'incastra"
nella valorizzazione del valore, come se questo fosse possibile senza la
mediazione della critica della forma del soggetto e della sua sostanza sociale.
"La capacità di intervento" è tutto, e proprio per questo non dà mai
niente. Nei media di sinistra, che sono determinati da questo contesto politico
inflazionario, vuoto e sbiadito, l'idea di un limite interno oggettivo provoca
solo una sorta di grugniti e, un mese sì ed uno no, si celebra l'estremo saluto
ai "teorici del collasso". E questi grugniti diventano tanto più
ringhi e catarri quanto più penosamente e regolarmente "l'intervento
politico" si ridicolizza fino al midollo.
E' tempo perso voler presentare a questi mezzi di
comunicazione, che non sono altro che gli ultimi Mohicani della storia
marxista, una riformulazione della riflessione categoriale, in quanto essi
stessi non compiono alcun passo in questa direzione, dando priorità di fronte a
questo al loro comportamento da lemming dell'interventismo politico. Tuttavia,
la riflessione categoriale può anche essere sviluppata indipendentemente dalla
capacità di ricezione da parte di questi illusionisti politici del sociale allo
stadio terminale. Riprendiamo la discussione al punto in cui il dibattito
storico ha collassato nella soggettivazione delle categorie. Qual è il senso in
cui il problema si pone di nuovo, se l'ontologia marxista del lavoro viene
criticata e superata, cosa che da parte sua condurrà ad una nuova definizione
del sistema categoriale del lavoro astratto?
Nonostante la sua riduzione alla sociologia delle classi e
alla politica, il marxismo tradizionale può vivere con l'oggettivazione delle
categorie che vengono positivizzate e trasformate in oggetti ontologici di un
trattamento politico ridotto agli attributi, il cui risultato finirebbe per
essere la soggettivizzazione categoriale totale; il punto di partenza di questa
soggettivizzazione era costituito dalla discussione intorno alla teoria del
collasso, che ha condotto alla paralisi nell'insolubile aporia-soggetto-oggetto.
Il ritorno alle categorie dopo il passaggio dalla critica radicale
dell'ontologia del lavoro non può più intendere positivamente la connessione
categoriale del lavoro astratto, ma solo negativamente (come spiegato nella
prima parte di questo studio). Ma con questo si colloca in maniera differente
anche il problema-soggetto-oggetto nel contesto della questione della crisi e
del collasso. Il soggetto e l'oggetto non possono più essere relazionati in
maniera semplicistica come unità positiva, ma devono essere percepiti in primo
luogo nella loro rottura [Zerrissenheit].
Logicamente la questione della crisi e del collasso era
allora basata puramente sul piano dell'oggettivazione falsa, negativa, e del
movimento categoriale autonomizzato della dinamica capitalista. La questione
della crisi e del collasso deve pertanto essere rigorosamente separata dalla
questione dell'emancipazione. In primo luogo, entrambe sono separate
concettualmente e realmente, così come la società-feticcio moderna si
costituisce in generale secondo polarità autonomizzate opposte. L'emancipazione
può essere solamente cosciente; crisi e collasso, al contrario, secondo il loro
stesso concetto, possono avvenire soltanto nel corso di un processo inconscio
di sviluppi oggettivati e non hanno immediatamente a che vedere con l'agire
cosciente. Quindi il capitalismo può collassare senza che gli esseri umani si
emancipino. Il risultato sarebbe l'auto-annichilimento dell'umanità, o la
"caduta nella barbarie", alternativa sottolineata metaforicamente da
Marx. Il concetto è problematico e di provenienza eurocentrica, ma è quello più
incline a segnalare una possibilità, ultima, di oggettivazione negativa. Così,
infatti, si possono vedere in televisione le "catastrofi di natura
sociale", finché non arriva la propria, ma non la propria emancipazione
dal contesto che provoca tali catastrofi. Al contrario, gli esseri umani in
linea di principio posson emanciparsi senza che il capitalismo collassi. Questo
collasso non è in alcun modo una pre-condizione sociale indispensabile
all'emancipazione, ma può, nella sua cieca oggettività, divenire la condizione
dell'ambito sociale del pensare e dell'agire emancipatori, se la trasformazione
emancipatoria si dovesse fare attendere per troppo tempo e venisse data al
capitalismo l'opportunità di sviluppare completamente le sue contraddizioni
interne. Critica e crisi sono quindi come le calzature di due paia di stivali,
e calzarne una di ciascun paio e voler correre in questa falsa unità significa
inciampare nei propri piedi.
In questa prospettiva diventa del tutto impossibile
un'affermazione come quella di Paul Mattick, che unisce in maniera
semplicistica entrambi i poli e astrae dalla loro rottura [Zerrissenheit] in
favore di un monismo non mediato di soggetto ed oggetto: "La conoscenza
teorica per cui il sistema capitalista, a causa delle contraddizioni che lo
spingono, può solo sfociare nel collasso non obbliga per questo all'opinione
che il collasso reale sarebbe un processo automatico, indipendente dagli esseri
umani" (Mattick). La formula impotente di collasso "reale, come se ce
ne fosse uno autentico ed un altro non autentico, si riferisce solo al fatto
che non si è arrivati al fondo del problema. Sia la tendenza secolare al
collasso, in quanto desustanzializzazione o svalorizzazione del valore, sia
anche un processo reale di collasso, alla fine della capacità di sviluppo
capitalista, sono in realtà nella legalità sistemica un "processo
automatico", in quanto gli esseri umani agiscono conformemente alla
determinazione della forma capitalista; ma da questo non consegue mai
"automaticamente" un'altra società, emancipata.
Fino a questo punto il problrma è stato discusso altrove. Ma
con ciò non si è ancora esaurita la collocazione della questione, anche se ha
quanto meno contribuito a disfare la distorsione del problema-soggetto-oggetto
nel contesto della problematica della crisi e del collasso. Si potrebbe
tuttavia obiettare che, con l'accento posto sulla rigorosa oggettività della
tendenza della crisi e del collasso, in contrapposizione alla critica e
all'emancipazione, il problema ha finito per essere di nuovo oggettivato, dal
momento che qui quello che viene messo in discussione non è l'oggettività dei
processi della "prima natura" effettiva, ma l'oggettività di una
pseudo-natura sociale, che in ultima analisi dev'essere mediata da azioni
umane. Dal momento che non ci può essere altro modo, la questione da porre di
seguito è evidentemente quella della mediazione "soggettiva"
dell'oggettività sociale, anziché soggettivizzare questa oggettività in maniera
non mediata (come fa, in gran misura, il marxismo della sociologia delle classi
ed in particolare il comunismo di sinistra/operaismo); oppure fraintenderla
come oggettività nel senso delle scienze naturali (come fa la dottrina dell'economia
politica). In fondo si tratta del medesimo problema che nelle scienze sociali
borghesi si è da sempre costituito come opposizione fra teoria della struttura
e teoria dell'azione.
Una volta che in ultima analisi tutte le manifestazioni,
categorie e processi sociali non sono prodotti né condotti da nessuna
"cosa dall'esternO", ma si riferiscono ad azioni ed a decisioni
umane, alloraa non c'è davvero alcun determinismo in generale, almeno assoluto.
Tutto ciò che è avvenuto e che accade, inclusa l'oggettivizzazione della
"seconda natura", è determinato da azioni e decisioni. La pura
oggettività di un processo storico e la filosofia positiva della storia su di
esso costruita è sempre un'interpretazione ex post, la quale glorifica come "necessità"
un percorso semplicemente reale (in Hegel, elevato a sistema e poi
semplicemente "rovesciato" nel cosiddetto materialismo storico). In
realtà tutti i processi storici sono sempre in qualche misura aperti ed
indeterminati, quando non sono state prese decisioni né sono state eseguite
azioni. Similmente a quel che avviene per le spiegazioni popolari della fisica
quantistica, si può rappresentare la storia come una nube di probabilità di
possibilità indeterminate, che solo al momento di agire si consolidano in realtà
storica.
Ma, prima, ci sono azioni e decisioni di portata diversa; in
secondo luogo, le azioni e le decisioni costituiscono una connessione a catena,
di modo che una volta eseguite non possono più essere annullate. E in questa
misura tutte le azioni si trovano sempre legate ai risultati delle azioni
precedenti, e sono da queste condizionate. In quanto la società umana non
raggiunge una coscienza propria come "associazione di liberi
individui", che co-riflette sempre sulle condizioni e sulle conseguenze
della sua azione sociale e che, con una decisione libera e cosciente, decide
sulla realizzazione delle sue possibilità, anche le connessioni in catena
tornano sempre ad addensarsi in modelli ciechi di azione, nella matrice di una
"seconda natura" che si autonomizza nei confronti degli individui e
si presenta a loro come una "cosa esterna".
In termini generali, questo potrebbe essere definito come
costituzione del feticcio, dal momento che tutta la storia fino ad oggi è stata
la storia delle relazioni di feticcio. Una simile matrice è quella che Marx
designa come modo di produzione storico ed il cui concetto può essere allargato
a modo di vita e di produzione; nella scienza storica borghese si parla spesso
di culture, nel marxismo a volte anche di formazioni sociali. Ricorrendo ancora
una volta ad una comparazione con la fisica, si può anche parlare di campo
storico. Si tratta qui proprio di quello che all'inizio di questo studio è
stato criticato come deficit sistematico di percezione del pensiero postmoderno,
che vede la contingenza in azione in maniera quasi indifferente, senza
sviluppare un concetto di questi campi storici e delle differenze delle
rispettive matrici. Il pensiero postmoderno è non storico, proprio in questo
senso di intendere la contingenza come meramente diffusa.
Ma una volta costituito un tale campo, questo limita la
contingenza, che finisce per essere ridotta alle possibilità all'interno della
sua matrice. Pertanto nella contingenza storico-sociale dobbiamo confrontarci
con due distinte nuvole di probabilità; una, è la nuvola di probabilità di
ordine superiore della storia, a partire dalla quale i campi storici, o
formazioni, si condensano, e, l'altra, una nuvola di probabilità secondaria, a
partire dalla quale la storia interna di tale campo si sviluppa secondo il
modello della sua specifica matrice.
Naturalmente, va detto subito che questa concettualità, pur
rappresentando una generalizzazione , è dovuta interamente all'esperienza
criticamente elaborata della costituzione sociale capitalista moderna. Per
l'investigazione di stadi precedenti e della storia anteriore nel suo insieme
in quanto "storia delle relazioni di feticcio", bisogna che venga
aggiunta solamente una prudente pretesa euristica, ma nessuna nuova ideologica
"filosofia della storia". E' pertanto necessario evitare gli errori
della filosofia dell'illuminismo e del materialismo storico, entrambe le quali
- in un caso affermativamente, nell'altro con intento critico - hanno
ontologizzato trans-storicamente le categorie capitalistiche moderne, con le
quali il materialismo storico ha rivestito la storia di una logica di sviluppo
dinamico, come "dialettica delle forze produttive e relazioni di
produzione", che nella realtà caratterizza soltanto il capitalismo, la moderna
socializzazione del valore.
Fra tutti i campi storici, quello capitalista della
modernità è l'unico la cui matrice abbia prodotto la dinamica interna di un
processo cieco di contraddizione nella realizzazione del modello di azione e,
insieme a questo, un'oggettività della seconda natura che può provocare un
collasso oggettivo; al contrario di quanto avviene in tutte le costituzioni
pre-moderne, come ad esempio nei campi storici delle società agrarie, nelle
quali l'oggettività feticista non si è configurata in alcuna dinamica interna
di questo tipo. Perciò anche la società capitalista è l'unica ad aver portato,
in forza di questa dinamica distruttiva, ai limiti di una "storia delle
relazioni di feticcio" e ad aver reso possibile la conoscenza del carattere
di feticcio in generale; tuttavia, assolutamente in maniera non positiva, come
coronamento di una necessaria "storia del progresso", bensì in modo
puramente negativo, come problema di una dinamica interna del collasso
specificamente appartenente a questo campo storico.
In questo contesto (nuovamente generalizzabile storicamente
solo in maniera limitata), ci si deve ora interrogare sul carattere differente
della nuvola di probabilità delle possibilità di azione e di decisione. La
contingenza si presenta in modo differente, a seconda se ci poniamo sul piano
della costituzione del campo storico come tale, o sul piano della storia
interna. Non c'è nessun processo di necessità storica, a partire dal quale il
capitalismo come formazione storica "doveva nascere", ma una sorta di
alterazione climativa nella nuvola di probabilità delle possibilità di azione,
quando la contingenza ha raggiunto uno stadio in cui un determinato campo
storico della società agraria cominciò a decomporsi. In questa decomposizione,
la peste svolse un ruolo, ma lo svolse più ancora la rivoluzione militare delle
armi da fuoco, nei primordi della cosiddetta età moderna; la spiegazione
dettagliata di questi sviluppo costituisce un tema proprio e non è qui il caso
di approfondirla. Ma è importante la constatazione per cui con questo si
verificò nella nuvola di probabilità della storia la possibilità di un salto
qualitativo nelle condensazioni di azioni e di decisioni, di un passaggio alla
costituzione di un nuovo campo storico, la cui natura inizialmente rimaneva
ancora indeterminata.
In questa fase di trasformazione sarebbe stata possibile
anche la costituzione di un nuovo campo del tutto differente da quello del
capitalismo. Oppure che la condensazione della nuvola di probabilità del campo
capitalista si poteva fermare ad un detereminato livello di sviluppo,
trasformandosi in un'altra configurazione. Questo diventa particolarmente
chiaro in tre punti storici. Le guerre contadine del 15° e 16° secolo hanno
rappresentato una rivolta contro la costituzione iniziale della matrice
capitalista, quando questa si trovava solamente in una formazione embrionale;
se fossero state vittoriose (la loro sconfitta non era in alcun modo
"necessaria") allora si sarebbe costituita un'altra matrice a partire
dalla nuvola di probabilità; anche se presumibilmente non ci sarebbe stato un
soppiantamento della storia delle relazioni di feticcio, ma sempre un altro
nuovo campo storico, con un altro modello di azione che non quello capitalista.
I movimenti sociali e le rivolte del 18° secolo e dell'inizio del 19° si
trovavano già impregnati della matrice capitalista in formazione, ma anche così
contenevano la negazione del lavoro astratto; se fossero stati vittoriosi ( e
la loro sconfitta non era in alcun modo "necessaria"), allora la
costituzione capitalista si sarebbe fermata in quel punto e la nuvola di
probabilità avrebbe assunto un'altra qualità nella sua condensazione. Il
movimento operaio moderno classico della fine del 19° secolo, alla fine, aveva
già interiorizzato ampiamente nella pratica il modello di disciplinamento del
lavoro astratto, ma allo stesso tempo, attraverso la ricezione della teoria di
Marx, che per la prima volta aveva tematizzato in critica radicale il concetto
non solo del lavoro astratto e della forma del valore, ma anche della relazione
di feticcio in generale, si era riempito della possibilità di una rottura
cosciente; molto brillante, per inciso, nei primi programmi ed intenzioni
marxiste, che nella realtà non tardarono ad essere abbandonati - ma anche
questo non era assolutamente "necessario". Anche in questo caso, la
costituzione capitalista poteva ancora essere fermata e poteva essere dato
inizio ad una trasformazione, la quale sarebbe stata sicuramente accompagnata
da violente frizioni, ma non per questo sarebbe stato "impossibile"
(sarebbe stato sconfitto il problema del lavoro astratto, cioè, il movimento di
trasformazione avrebbe dovuto emanciparsi da questa matrice per mezzo dello
sviluppo della critica, e con essa degli stessi momenti di interiorizzazione).
Proprio perché a questo punto di rottura la nuvola delle
probabilità si era condensata in decisioni concrete, in nessun modo definite a
priori, che risultavano essere sempre più a favore di un consolidamento
maggiormente ampio e di uno sviluppo del campo capitalista, la dinamica della
contraddizione capitalista poteva continuare a sviluppare la sua logica di un
movimento oggettivo delle categorie autonome, sulla base della matrice
costituita. La contingenza che rimaneva ancora sempre in una nuvola di
probabilità di second'ordine, in una storia interna al campo capitalista, era
allora a sua volta determinata dal punto di vista della logica dello sviluppo
generale; all'interno di questo determinismo del campo d'insieme, tuttavia,
tutte le decisioni e tutte le azioni realizzate rimanevano aperte ed
indeterminate. Così, per esempio, la costituzione ritardata dello Stato
nazionale tedesca, nel 19° secolo, non dove necessariamente avere successo,
ciascuna delle parti del successivo impero tedesco avrebbe potuto integrarsi in
un'altra struttura statale, e all'umanità sarebbero state risparmiate molte
cose (ugualmente, al contrario, poteva aver luogo la costituzione di questa
stessa nazione con l'inclusione dell'Austria). Né la vittoria del nazionalsocialismo,
né la conseguente storia di catastrofi erano forzatamente o "storicamente
necessarie"; anche con uno sviluppo più approfondito del campo
capitalista, l'umanità non doveva necessariamente sopportare incondizionalmente
queste esasperazioni, nella barbarie, del potere all'interno del capitalismo.
Qui, però, non si tratta della contingenza della storia
all'interno del capitalismo, ma della questione della logica del collasso che
si riferice inequivocabilmente al campo capitalista in quanto tale. Se la
dinamica della contraddizione del capitalismo contiene in sé una tendenza al
collasso, allora questo è il risultato di questa oggettivazione del campo
con tali qualità. Anche la costituzione di quest'oggettivazione delle categorie
e della loro cieca dinamica di collasso, in quanto processo logicamente
determinato, è di fatto determinata dalle azioni umane ed è realizzata dalle
azioni umane; ma non dalle azioni e dalla loro intenzionalità immediata, ma dal
fatto che queste stesse azioni, in un processo incontrollato, hanno prima fatto
una matrice, un quadro di azione, che si è oggettivato nelle categorie sociali
e ha dato luogo ad una dinamica di contraddizione che si è autonomizzata; e
nella misura in cui il successivo agire si realizza dentro queste categorie e
secondo questa matrice, gli esseri umani, senza che siano coscienti di questo e
senza che su questo abbiano controllo, mettono in moto essi stessi il motore
categoriale dell'autocontraddizione e del programma del collasso, fino a che
non vengono conseguiti i rispettivi risultati. Il "soggetto
automatico" non è altro che l'auto-movimento delle categorie reali
capitaliste, che sono state create inconsciamente dagli esseri umani e che si
mettono in movimento in maniera autonomizzata proprio perché gli individuo
realizzano la propria vita in queste categorie, senza voler immaginare niente
di diverso per sé e cercano ad ogni costo la loro felicità nella soddisfazione
delle esigenze prodotte da questa matrice.
La tendenza al collasso è pertanto oggettivamente
determinata dal fatto che gli esseri umano organizzano soggettivamente il loro
agire secondo la matrice capitalista istituita, ossia, costruiscono e
riproducono sempre più il sistema di lavoro astratto e della sua forma valore,
fino per così dire ad impiccarvisi. Vale a dire, quanto più i soggetti
agiscono, lottano e si muovono, senza mettere in discussione la matrice di un
tale agire, lottare ecc., il sistema di lavoro astratto, senza neppure che essi
lo percepiscano come problema, tanto più sono essi stessi a mettere in moto il
meccanismo dell'orologio del "collasso automatico". Essi non lo
vogliono, non lo sanno, ma lo fanno semplicemente perché non immobilizzano la
macchina sociale del "soggetto automatico" prodottasi nella lunga
catena storica di azioni e sempre più sviluppatasi nella sua dinamica di
contraddizione. Quanto più è soggettivo, tanto più è oggettivo - quest'enigma
della moderna struttura-soggetto-oggetto si risolve sulla base delle
concettualizzazioni della costituzione del feticcio e del campo storico o della
sua matrice.
La conseguenza della conoscenza della tendenza al collasso
automatico è perciò esattamente il contrario del fatalismo, vale a dire una
qualità completamente nuova della stessa critica radicale. La falsa soggettivazione
delle categorie, l'insistere sulla pretesamente libera capacità di azione del
soggetto, generalmente contingente alle categorie, porta sicuramente di più
all'automatismo oggettivo del collasso, in quanto la stessa matrice dell'agire
viene ignorata ed è da criticare. Viceversa, la conoscenza del carattere di
quest'automatismo di collasso porta alla critica delle categorie in sé e della
matrice che ad esse sottende, porta quindi ad una radicalità che va più in
profondità, che è necessaria per trasformare il campo storico.
Ma la matrice appartiene non solo alla forma ed alla
sostanza del lavoro astratto, essa appartiene anche al portatore d'azione di
questa connessione sistemica cieca, che mette in moto il "soggetto
automatico" attraverso il suo proprio modello di azione pre-strutturato -
il soggetto. Tale soggetto può essere definito come trans-storico e ontologico
altrettanto poco di quanto possa essere così definito il lavor astratto. Il
soggetto rappresente assai più il moderno portatore di azione del lavoro
astratto e delle sue funzioni derivate - egli non è altro che la forma sociale
dell'agire negli individui stessi: forma di percezione, forma di pensiero,
forma di relazionamento, forma di attività. Pertanto, non bisogna chiedersi
come si configura la nuova qualità della critica attraverso il soggetto, ma
questa nuova qualità implica la critica del soggetto stesso: la critica della
"forma soggetto", che non è altro che la moderna forma capitalista
dell'agire. Questo può forse essere difficile da concepire dal momento che
siamo abituati a pensare le azioni e le decisioni in generale soltanto nella
categoria del soggetto. Ma è precisamente in questo che consiste l'impostazione
nella matrice capitalista. Critica del soggetto non significa abbassare le braccia
e arrendersi al fatalismo bensì, proprio al contrario, una nuova qualità della
propria lotta, che si pone coscientemente l'obiettivo della rottura con la
matrice capitalista.
Decisivo, ai fini di una critica radicale della "forma
soggetto", è anche la conoscenza della struttura di tale soggetto. Esso
non è di fatto lo "essere umano" in quanto tale, ma il soggetto
maschile bianco occidentale (MBO) della modernità. Qui bisogna tornare ancora
una volta alla concettualità spezzata dell'astrazione reale del lavoro, assunta
nella prima parte di questo studio in connessione con la teoria della
dissociazione di Roswitha Scholz. L'astrazione reale si trova sempre, non solo
accidentalmente o empiricamente, bensì in accordo dalla sua determinazione
essenzialmente logica, unita alla dissociazione sessualmente determinata dei
momenti di riproduzione sociale materiali, socio-psichici e cultural-simbolici,
che non rientrano nel lavoro astratto/forma valore. Questa dissociazione non
dev'essere intesa (e in tal modo malintesa) come "sfera" separata (ad
esempio, semplicemente come "privacy") o come dominio subordinato, ma
come momento essenziale globale, trasversale a tutte le sfere, in quanto si
fonda sul piano della logica di base o della matrice stessa. La totalità capitalista
non è quindi una totalità monistica, coerente, come ad esempio appare in Moishe
Postone, bensì, in quanto deve sempre essere pensata insieme alla struttura di
dissociazione, una totalità spezzata, che in sé non è coerente (cosa che
implica una critica fondamentale del concetto hegeliano di totalità).
Per questo la dissociazione, come momento della struttura
essenziale del lavoro astratto, deve essere trovata nei soggetti di questa
forma e sostanza. Le donne nella modernità sono sempre "doppiamente
socializzate" (Regina Becker-Schmidt), esse sono in una certa qual misura
solo a metà nella forma del soggetto, poiché devono anche sempre rappresentare
e trattare simultaneamente la dissociazione, che viene a sua volta in qualche
maniera spezzata e differenziata. La dissociazione si estende, in quanto
momento essenziale, non solo attraverso tutte le sfere della riproduzione
costituita dalla matrice capitalista, ma anche attraverso tutte le epoche della
sua storia interna, con marchi diversi per ciascuna epoca, fino alla
postmodernità (vedi, in dettaglio, Roswitha Scholz, 2000). La stessa cosa si
applica all'umanità non bianca, non occidentale, che sotto le élite della
modernizzazione non ha mai interamente raggiunto la forma moderna del soggetto,
e perciò è sempre la prima a minacciare di fallire nella matrice capitalista,
che viene ad essa presentata sotto un profilo di esigenza, senza che possa
soddisfare alle condizioni a questo necessarie.
La nuova qualità della critica radicale che si accompagna alla soluzione del
moderno dilemma-soggetto-oggetto (e non solo) nella teoria della crisi e del
collasso, esige per questo non solo una critica dell'ontologia del lavoro, ma
anche una critica del soggetto, come portatore di azione di quest'ontologia; e
non solo una critica del soggetto, ma anche una critica della struttura di
dissociazione ad esso legata da una logica essenziale. Una "critica del
lavoro" riduzionista, che oirta avanti solo a metà la critica del soggetto
(cioè, ad un concetto di soggetto sessualmente neutro) e che ignora la logica
della dissociazione, oppure la degrada a qualcosa di meramente
storico-empirico, rimane sotto l'egida del MBO ed è condannata al fallimento.
Solo una critica radicale che comprende in ugual misura il lavoro astratto, la
forma soggetto e la dissociazione sessualmente determinata può ottenere la
forza di impatto ai fini di un soppiantamento dell'ontologia del lavoro, e
insieme ad esso della matrice del campo capitalista. Inoltre, per inciso: il
contenuto della critica non può essere solo l'eterna invocazione del soggetto
nelle categorie o insieme alle categorie, ma semmai la critica e perfino la
distruzione pratica della matrice categoriale e insieme ad essa del soggetto,
dello stesso MBO, maschio bianco occidentale.
Pubblicato sulla rivista Exit!, 2/2004
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