14/2/16

La sostanza del Capitale

Il fallimento delle teorie della crisi del marxismo dell'ontologia del lavoro e le barriere ideologiche contro la continuazione dello sviluppo della critica radicale del capitalismo.

Karl Marx ✆ A.d. 
Robert Kurz    |    A ben vedere, quasi sempre si può constatare che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere, anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a caso) relativo.

I
La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro"

L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale
Apparentemente, questa consapevolezza della relatività costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali (fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il "pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno.

Ma tutto questo non è solo apparenza. Proprio perché il sapere e la conoscenza sono sempre determinati da un contesto storico-sociale, condizionati come sono dalle forme sociali feticistiche che implicano dominio e relazioni di coazione (di altri contesti, a tutt'oggi, non siamo a conoscenza), si svolgono anche sempre sotto l'egida del pensiero apologetico.
Laddove il sapere è di per sé sapere del dominio, le cose non possono avvenire diversamente. Nel sistema produttore di merci della modernità, questa apologetica assume la forma dell'ideologia. Perciò, non basta semplicemente affrontare il sapere e la conoscenza solo nella loro relatività (come fa in gran parte il pensiero postmoderno); innanzitutto, e per di più, tale condizionamento dev'essere sottoposto ad un'analisi critica dell'ideologia, analisi che deve essere posta in relazione col rispettivo processo storico-sociale reale. In ogni caso, è quello che si rende necessario quando la riflessione pretende di inserirsi nel contesto di una necessità emancipatrice e critica del dominio.

Ma, se si prende in considerazione questo piano di riflessione critica sull'ideologia, la conoscenza della relatività dev'essere esaminata nel suo potenziale ideologico ed apologetico. Il pensiero postmoderno cerca di mettersi fuori dalla portata di un tale punto di vista, insinuando, nei confronti della critica dell'ideologia in sé, il sospetto di "metafisica" e di "essenzialismo". Si assume che il punto di vista, o il calibro, della critica dell'ideologia sia sempre assoluto, totalitario, ontologico o metafisico. Così l'osservazione si volge in una direzione metafisica essa stessa, dal momento che paradossalmente è la relatività, né più né meno, ad essere elevata allo statuto di Assoluto. Quello che in tal modo viene estromesso, una volta che il piano di riferimento della relatività non viene chiarito, è il concetto di critica in senso stretto.

Nella realtà, però, la suddetta relatività può essere riferita soltanto al fatto che il sapere e la conoscenza sono legati ad un determinato luogo storico, non solo nel senso di una relatività immediata, ma nel senso di una formazione sociale globale e determinata; e lo sono, o affermativamente, in maniera positiva (positivista), oppure criticamente, in maniera negativa. La critica, pertanto viene assunta negativamente rispetto al suo luogo storico, poiché fa della formazione sociale che appartiene a tale luogo, e della corrispondente relazione di dominio, l'oggetto della sua negazione (cosa che del resto rimanda alla possibilità della trascendenza, in quanto movimento al di fuori dell'immanenza). Il che significa, tuttavia, che la critica può essere solo una critica determinata, ossia, una critica riferita a tale luogo storico, concepito come formazione sociale storica, che in tale dimensione contiene un momento di negazione assoluta, anche se solo relativamente a questo campo specifico: segnatamente, la sua radicalità si volge contro la costituzione della forma sociale dominante, senza che per questo smetta di essere relativa in riferimento ad un contesto più vasto, dal momento che è in grado di riflettere un tale contesto.

La negazione dev'essere assoluta relativamente al suo contenuto, il quale non è altro che la forma sociale essa stessa negativa e che pertanto dev'essere negata: la forma della riproduzione e del soggetto, forma distruttiva e feticista della quale non può restare niente se non l'esperienza traumatica ad essa associata che rimane impressa nella memoria dell'umanità. Rispetto a questa forma di feticcio oggetto di critica, la negazione dev'essere assoluta, in quanto in caso contrario non sarebbe negazione.

Il problema del pensiero postmoderno, e delle correnti di pensiero che risalgono al XIX secolo, a partire dalle quali esso stesso si compone e si costruisce, consiste proprio nel fatto che non è stato sviluppato un qualsivoglia criterio per distinguere i piani di riferimento della relatività nell'ambito della storia dell'umanità, così come della storia delle "culture" o delle formazioni sociali, da un lato e, dall'altro lato, come determinazione o situazione assoluta in uno spazio storico delimitato, esso stesso negativo, di una determinata formazione. In altre parole: non è stata stabilita una differenza essenziale tra costituzioni storicamente diverse della forma sociale, ed in tal modo non viene neanche costituita una qualsivoglia concezione specifica del moderno sistema produttore di merci e delle categorie della sua forma base. In questo senso stretto, le teorie postmoderne, così come quelle dei predecessori, in fondo non riflettono con precisione il proprio condizionamento storico-sociale, né la corrispondente relatività. Il lavoro (astratto), il valore, la merce, il denaro, il mercato, la concorrenza, lo Stato, la nazione, la politica, ecc. possono passare benissimo per "costrutti culturali", così come tutte le altre manifestazioni sociali "qualsiasi", ma non per questo si rivelano meno ontologici di quanto lo siano nell'ideologia borghese volgare, così come essa è stata ereditata anche dal marxismo del movimento operaio.

Quindi, il relativismo, irriflesso a riguardo, relativizza anche la differenza tra la relatività di un determinato luogo storico, da un lato, e la determinazione - ovvero l'Assoluto - all'interno di tale luogo, dall'altro lato; non si interessa alla differenza tra lo spazio storico totale dell'umanità - nel quale le varie costituzioni storico-sociali, e le rispettive forme di sapere e di conoscenza, si posizionano reciprocamente in maniera relativa - e lo spazio interno di una determinata formazione, in cui predomina un Assoluto interno, o quanto meno domina una pretesa reale che a questo corrisponde, vale a dire la rispettiva forma feticistica, la quale dev'essere spezzata.

Quest'imprecisione ha delle conseguenze per il concetto di critica, il quale in tal modo diventa esso stesso impreciso ed indeterminato. Le categorie di base della costituzione sociale spariscono dietro il movimento interno di questa. La critica viene fenomenologicamente ridotta, e si riferisce soltanto ad una determinata azione od omissione in seno alle categorie rese grigie. E' vero che queste categorie, nel pensiero postmoderno, nella maggior parte dei casi non vengono immediatamente affermate come positive; ma ciò si deve solo al fatto che non arrivano neppure ad essere elevate ad oggetti della riflessione. Laddove tutto viene trattato indistintamente come se fosse un "costrutto", smettono di esserci gradi di rigidità e dimensioni con profondità diverse; viene livellata la differenza fra spiegazioni apparenti di natura ideologica e l'apparenza reale della forma del feticcio. Rimane l'essenza o la sostanzialità categoriale della formazione storica della società su cui riflettere, quindi anche da criticare.

Avviene così un'inversione paradossale del rapporto fra il processo sociale reale e l'ideologia; per meglio dire, tale rapporto, in una certa misura, viene puramente e semplicemente nascosto, ed è proprio a partire da questo che il relativismo converte sé stesso in un'ideologia miserabile. La sostanza reale negativa della relazione di feticcio viene sottratta alla critica radicale, nella misura in cui la "sostanzialità" si presenta da principio come proveniente soltanto da una pretesa totalitaria del pensiero, o dell'immaginazione. In questo modo, la questione si trova ad essere con i piedi per aria: la critica radicale viene accusata di quello che dovrebbe essere imputato alla relazione sociale reale. Al posto della relazione reale soggiacente, è la critica dell'ideologia ad apparire come "totalitaria".

E' questo, quindi, il modo in cui la conoscenza della relatività si converte in ideologia apologetica. Per quanto riguarda il moderno sistema produttore di merci, il suo concetto di capitale si dissolve così in un sistema di "rapporti di forza" relazionali; in tal misura, nonostante tutta la critica postmoderna del soggetto, viene riprodotto il regresso all'illusione borghese della volontà, per quanto ridotta a mutazioni interne dei "costrutti" sociali rappresentati tutti sullo stesso piano. Questa relazionalità di già ideologica viene in seguito "eso-differenziata" e declinata nelle diverse aree di riproduzione e di vita. In questo modo, la critica continua nella particolarità dei fenomeni (dai rapporti di potere nella professione medica alla deportazione nei servizi per gli stranieri, dai "costrutti" del razzismo alla retorica politica dei vincoli oggettivi), senza però mai riuscire a pronunciarsi sul tutto della connessione della forma sociale, dal momento che questa non dispone di un qualsiasi concetto sostanziale.

Questa dissoluzione della "essenza" storico-sociale nella razionalità fenomenologica dei rapporti di potere e della loro rispettiva costruzione, o decostruzione, copre così, che piaccia o meno, la sostanzialità negativa non più denominabile delle categorie reali capitaliste. Gli è che questo può manifestarsi socialmente in un movimento emancipatore di trasformazione soltanto se la reale pretesa di validità assoluta della forma feticista dominante viene rotta proprio nel suo contenuto sostanziale. Per esempio, le diverse aree di esistenza e di attività hanno ciascuna la propria logica, la propria pretesa, il proprio senso, ecc., che non può essere compreso dalla pretesa validità assoluta di un unico principio totalitario; solo arrivando a costituire un tutto nella relatività del rispettivo contesto relazionale, tutto questo non viene ridotto ad una forma unica ed alla sostanza, ugualmente unica, della stessa forma - è questa la conoscenza che bisogna cominciare ad affermare, contro il violento sostanzialismo reale del moderno sistema produttore di merci in generale.

E' per tutto questo che non è nemmeno possibile arrivare ad una critica radicale senza il concetto di una sostanzialità negativa della relazione di valore o del capitale. D'altro canto, la pretesa dell'Assoluto di questa sostanzialità negativa entra anche in conflitto con la stessa costituzione fisica del mondo, manifestandosi sotto forma di un processo distruttivo annichilitore della vita; soprattutto, però, questa pretesa entra ugualmente in conflitto con la contraddittorietà interna della sostanzialità capitalista in quanto tale, e così si manifesta sotto forma di processo di crisi endemico di questa formazione storico-sociale. E' per questo motivo che senza il concetto di sostanzialità negativa non è possibile neanche sviluppare un'adeguata teoria della crisi. Il nascondere o l'ignorare la reale sostanzialità sociale negativa equivale, in gran parte, a nascondere o all'ignorare la crisi, nel suo contenuto significativo del limite interno assoluto del moderno sistema produttore di merci.

Il carattere ideologico ed apologetico di un pensiero relativista che non affronta questa problematica, consiste essenzialmente nel suo presumere l'esistenza della relatività e in una "apertura" in termini storico-sociali dove in realtà si pontifica un Assoluto ed una coesione sistemica dissimulati, postulando quindi un'emancipazione (sempre intesa solo parzialmente) totalmente indipendente da una critica della sostanza reale negativa e delle categorie della sua forma; per esempio, attraverso l'intermediazione del concetto ormai solo risibile di "democratizzazione". La sostanzialità negativa della relazione di capitale diventa grigia, viene nascosta, diventa invisibile e viene dissolta in una pseudo-relatività ideologica. E' proprio per questo che la riduzione e l'accorciamento fenomenologico della critica corrisponde ad un'uguale riduzione ed accorciamento della teoria della crisi. Questo relativismo ideologico, invece di essere emancipatorio non è altro che un camuffamento addizionale della soggettività borghese di tutte le classi, le quali non vogliono ammettere la loro obsolescenza storica.

Non è un caso che il marxismo tradizionale condivida ampiamente con il relativismo postmoderno, il rifiuto della teoria radicale della crisi. Gli è che, come è stato dimostrato da Moishe Postone, un certo modo di riduzione e di accorciamento ideologico e relativista è inerente anche alla teoria del marxismo del movimento operaio in tutte le sue varianti. Quello che nelle teorie postmoderne è un programma esplicito, nel marxismo si manifesta come una riduzione implicita; non c'è modo di distinguere fra un concetto globale storico che è assente nella logica della formazione della relazione del valore e del capitale, e gli stadi di aggregazione e sviluppo corrispondenti alla sua storia interna, cosicché il livello di astrazione dei concetti essenziali (che soltanto sul piano meta-storico sono relativi ai concetti essenziali delle altre formazioni) viene fondamentalmente perso:
"Si è resa storicamente manifesta la totale insufficienza delle teorie del capitalismo moderno che confondono una configurazione storica specifica del capitalismo (il libero mercato o lo Stato disciplinare burocratico) con l'essenza della formazione sociale... Tutte queste critiche sono... incomplete. Come vediamo ora, il capitalismo non rientra in nessuna di queste configurazioni... Un'adeguata teoria critica del nostro tempo dev'essere fondata su una concezione non reificata delle relazioni che costituiscono l'essenza del capitalismo e su una concezione delle differenze tra tale essenza e le varie configurazioni storiche successive del capitalismo" (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale").
In questa misura, il concetto di sostanzialità del capitale - assente nella logica della formazione - rappresenta il piano decisivo, cui né le teorie del marxismo tradizionale, né le teorie postmoderne possono accedere a causa del loro rispettivo relativismo falso e ideologico.
Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista
Per poter determinare il carattere ideologico del pensiero borghese suppostamente metafisico e, in particolare, il suo risultato pseudo-relativistico, bisogna porre il concetto filosofico di sostanza in relazione con la costituzione capitalista della modernità. Infatti, nella storia della filosofia non esiste un significato generalmente accettato del concetto di sostanza. Nella filosofia antica ed in quella medievale, la sostanza è il nucleo essenziale, in opposizione alle mere qualità (accidenti), è quello che perdura e rimane, ossia, l'identità in opposizione agli "stadi" o sviluppi. In Aristotele, il concetto di sostanza sembra significare materia, nel senso di un substrato delle "cose", che è anche forma, nel senso dell'essenziale delle cose materiali.

Tuttavia, i diversi significati, o piani di significato, della maggior parte dei concetti filosofici pre-moderni della sostanza hanno in comune il fatto che non postulano necessariamente una generalità, o un Assoluto sostanziale astratto, per lo meno nel mondo fisico e sociale conosciuto. Esplicitamente o implicitamente, prevale la supposizione che esistano sostanze qualitativamente diverse che possono stabilire relazioni le une con le altre. Di conseguenza, la stessa sostanza sarebbe in un certo qual modo qualcosa di relativo. Sia per quanto riguarda la forma che il contenuto - per la filosofia antica o per le teologie - le stelle, le pietre, gli alberi, i cani, gli esseri umani, ecc. rappresentano sostanze distinte. E l'identico di una determinata sostanza, per esempio di un individuo umano, può essere rappresentato anche come la totalità delle sue relazioni naturali, sociali, culturali, personali, ecc. nell'unicità individuale della sua struttura. Solo Dio figura come istanza assoluta, generale, "suprema"; ma questa sostanza rimane trascendente al mondo.

Tuttavia, già nelle teorie atomistiche si insinua un momento di assoluto, o di generale ed astratto, con riferimento al mondo terreno e, concretamente, attraverso il modus della riduzione. Per Democrito, per esempio, non "esiste" niente se non il vuoto e i corpi composti di atomi - i più piccoli componenti in gran parte qualitativamente uguali - i quali si distinguono solo per la forma e la dimensione. Questo anticipa la concezione di un'unità assoluta e sostanziale del mondo come principio immanente. Non è un caso che questo riduzionismo fisico si ripeta sistematicamente nella scienza naturale moderna, dove celebra il suo vero trionfo. "L'universo-orologio" meccanico di Newton consiste, come egli stesso scrive nella sua 'Ottica', di "particelle magiche, ferme, rigide, impenetrabili e mobili" le quali, per l'intermediazione di "forze" agiscono esternamente le une sulle altre. In questo Universo omogeneo, Dio è ormai soltanto una specie di orologiaio; però, una volta data la corda, il mondo-sistema meccanico si muove da solo, e l'Illuminismo, alla fine, fa a meno di qualsiasi sostanza creatrice trascendente "suprema e prima".

L'unificazione fisica, che riduce il mondo in componenti o unità morte ed uguali inserite in un continuum di spazio-tempo assoluto ed unificato -  nell'antichità soltanto abbozzata - viene, nella modernità, per così dire, radicalizzata e generalizzata come un dogma. In questo caso, il concetto atomista di sostanza si estende oltre che alla natura fisica, a tutte le aree dell'esistenza, per esempio nel concetto di "monadi senza finestre" di Leibniz. A questo corrisponde una concezione della società umana che ormai non parte dalla comunità, quale che sia la sua definizione, ma al contrario parte dalla separazione dei suoi membri, i quali possono soltanto mediarsi gli uni con gli altri, a posteriori ed in maniera esterna-meccanica. Qui, diventa già chiaro che la conoscenza della natura, apparentemente pura, della modernità, ossia, il "costrutto" dell'universo-orologio di Newton, riflette in realtà una determinata relazione sociale, la quale include un paradigma di individui atomistici o astratti - dal momento che tale paradigma contiene, nella sua astrazione apparentemente omogenea della "individualità in generale", una particolarità storicamente ben relativa, segnatamente quella del soggetto maschio bianco occidentale (MBO). Detto ciò, però, non ci troviamo davanti ad una mera idea di attori della conoscenza de "IL" mondo, senza presupposti, ma semmai ci troviamo davanti ad una determinata costituzione storico-sociale, vale a dire, davanti all'incipiente costituzione capitalistica del moderno sistema produttore di merci.

Probabilmente, non si tratta di superare [Überwinden] la metafisica, come sempre si suppone con l'avanzare di questa formazione sociale. Sia la scienza naturale moderna, sia anche la filosofia e la teoria sociale - apologetiche - ad essa legate hanno evidentemente basi metafisiche. Queste basi potevano venire man mano nascoste, per poi essere apparentemente gettate via, dal momento che non rappresentano una metafisica nel senso di una riflessione meramente filosofica o teologica, ma una relazione sociale reale, ossia, una metafisica reale, in una certa maniera incarnata o incorporata nel processo di riproduzione sociale. Nella misura in cui questa metafisica reale si va imponendo storicamente e viene interiorizzata, la sua forma di riflessione filosofica può svanire, una volta che l'apparentemente evidente, assiomatico e quotidiano, non dev'essere più pensato a parte, e non si presenta più come un'essenza distinta.

In un certo senso, forse può essere lecito dire che tutte le costituzioni sociali di feticcio - quindi anche quelle pre-moderne - rappresentano una sorta di metafisica reale, nella misura in cui la rispettiva metafisica non si esaurisce mai in delle mere idee o delle rappresentazioni mentali ma tali costituzioni sociali di feticcio, attraverso questa metafisica, regolano allo stesso tempo la riproduzione sociale reale, le relazioni sociali ed il "processo di metabolismo con la natura" (Marx). Tuttavia, la metafisica reale sociale pre-moderna delle relazioni sociali, delle condizioni di riproduzione e delle strutture di potere, è in un certo qual modo "determinata al di là", è mediata attraverso la proiezione di una sostanza assoluta semplicemente trascendente, di un'essenza divina assoluta ed esterna al mondo, la quale è rappresentata in maniera personalizzata; in particolare, come un sistema di relazioni personali di dipendenza e di obbligo.

Il concetto di "dipendenza personale", tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, viene profondamente malinteso (anche in Marx, che non se ne occupa a fondo per quanto riguarda le condizioni pre-moderne) quando per "persone" - in questo senso delle costituzioni sociali pre-moderne di feticcio - si intendono "persone naturali", o perfino soggetti-di-interesse secondo l'utilizzo moderno del linguaggio. Sembra così che la struttura "dipendenza personale" configuri una forma di dominio diretta e non mediata, in opposizione a quella moderna, indiretta e mediata. Per la verità, le condizioni pre-moderne sono ugualmente mediate; solo che lo sono in un altro modo, dal momento che in quel caso le stesse persone diventano piani di proiezione e quindi rappresentazioni della trascendenza feticistica. Tali persone trascendentali e tali relazioni di dipendenza personale sono, in questo senso, strettamente separate dalle persone naturali e dalle loro relazioni personali; del resto, questo finisce per creare delle bizzarre contraddizioni fra la personalità trascendentale e la personalità naturale, che non hanno niente da invidiare alle assurdità della moderna socializzazione del valore, come nel caso del concetto dei "due corpi del re" (Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, 1957).

Perciò, le persone qui, nel contesto della costituzione feticistica, non si presentano a sé stessi come portatori autonomi di volontà ed azione, ma come rappresentazioni in seno al mondo dell'essenza della sostanza trascendente proiettata. Dal momento che la sostanza rimane trascendente, in quanto non assume una forma terrena immediata (se non nelle rappresentazioni simboliche), essa non può includere totalitariamente il mondo reale. Generalmente, non vi è alcuna generalità sociale astratta, ma esiste semmai una sequenza di più gradi di rappresentazioni personali e di situazioni relazionali a tutti i livelli.

Diverso è il caso della metafisica reale capitalistica della modernità. Qui la trascendenza viene in un certo qual modo superata; la sostanza feticistica proiettata - o l'essenza come Assoluto - diventa immediatamente terrena e sociale, sotto la forma della "valorizzazione del valore" (e, solo in questo senso di una sua immanenza al mondo, "diretta" e non più "determinata da altrove", cioè non più derivata da un principio esterno al mondo). Anche se il momento di trascendenza continua ad esistere, nella misura in cui la figura essenziale del feticismo, il "valore", non costituisce alcuna essenza direttamente fisica o sociale, ma un'astrazione non palpabile, che paradossalmente, per così dire, è incarnata nel "processo di metabolismo con la natura" e nelle relazioni sociali. In questo senso, la relazione sociale così costituita rappresenta un'astrazione reale, e non una proiezione meramente ideologica di idee o (nel senso premoderno) religiosa, mitologica, ecc., né tanto meno rappresenta una mera astrazione nominale.

In un certo senso, la proiezione diventa immediatamente reale, e con questo anche palpabilmente terrena, sebbene continui ad essere mediata, nella misura in cui si manifesta soltanto nelle relazioni sociali e nelle cose reali (merce e denaro), in quanto l'essenza del "valore" come astrazione non può essere immediata, né quindi, tanto meno, palpabile. Il paradosso dell'astrazione reale consiste nel fatto che l'astrazione, in sé non fisica/materiale/corporea - la cosa del pensiero, o per altro, un prodotto socialmente oggettivato del cervello in quanto proiezione feticista - si presenta così come una relazione sociale reale ed ha un'oggettività fisica reale, soprattutto in oggetti che in sé non sono astratti, ma che diventano oggetti realmente astratti in virtù del meccanismo di proiezione sociale.

La "cosa del pensiero", il "prodotto della testa", non devono qui essere malintesi come qualcosa tipo "pensiero proiettato", per esempio nel senso di un "contratto sociale" (primordiale) come quello presente nell'ideologia dell'illuminismo, come problema di volontà, o come ideologia; un meccanismo di proiezione feticistica è al contrario qualcosa di sempre presupposto alla "proiezione", che deve ancora essere decifrato.

In un certo modo si potrebbe quasi parlare di una regressione, dacché il meccanismo di proiezione moderno regredisce ad una sorta di animismo secondario, dove non sono più le persone ad essere trascendentalmente rappresentative, ma sono le cose inanimate a presentarsi come animate, così come lo ha esposto ironicamente Marx nel suo capitolo dedicato al feticcio, tramite l'esempio del tavolo che in quanto merce diventa preda di capricci metafisici. Tuttavia, in questo caso non si tratta più di un'animazione individuale delle cose, bensì di un'animazione riprodotta in maniera identica nella sempre uguale forma del valore e del prezzo, in cui si manifesta la socialità negativa dell'anima della merce, e la relazione sociale come relazione reificata. Quest'animismo secondario non anima soltanto le cose (la natura) ma per così dire cosifica l'anima (la situazione reale umana).

Nella misura in cui la trascendenza della proiezione viene superata - in quanto tale proiezione ora si presenta immediatamente nelle cose stesse e nelle relazioni terrene - essa non può più essere personalizzata, ma deve presentarsi sotto forma cosificata, "oggettivata", regolando in tal modo, sotto tutti gli aspetti, il processo di produzione sociale, la mediazione sociale. Per meglio dire: essa "è" tale mediazione, ed è per questo che non necessita più di un'istanza trascendente esterna al mondo, né di mediatori-persone come rappresentanti di quest'istanza assoluta; alla fine è essa stessa stabilizzata come assoluta. Il valore, la proiezione del feticcio che si presenta come realmente oggettivo nel denaro, si costituisce come Assoluto terreno, sociale, attraverso il movimento di riaccoppiamento del denaro a sé stesso in quanto capitale, in quanto processo di valorizzazione, o "soggetto automatico" (Marx), al quale viene sottomessa tutta la riproduzione sociale e tutta la comprensione del mondo. Qualsiasi coesistenza colorata di situazioni relazionali naturali, culturali e sociali (relazioni) finisce e viene sostituita dalla pretesa di Assoluto del principio essenziale astratto di unico "valore", e dalla sua sostanzialità negativa.

Ideologicamente o "filosoficamente", come forma di riflessione nel processo, o nel senso di un'apologetica al seguito e fiancheggiatrice, il pensiero di questo meccanismo di proiezione dell'astrazione reale ricorre a determinati contenuti significativi del concetto di sostanza religioso e filosofico pre-moderno, che tuttavia si presentano in una configurazione del tutto nuova, corrispondente alla metafisica reale capitalistica. Al posto della divinità trascendente ed assoluta, viene posto il principio essenziale immanente e assoluto del "valore" o del processo di valorizzazione. Tuttavia, dal momento che si tratta della proiezione di un processo di astrazione socialmente oggettivato, questo principio essenziale - sebbene si presenti immediatamente nelle cose e nelle relazioni, essendo quindi immanente - non può avere ancora un'esistenza materiale e sociale di per sé. In quanto tale continua a non essere palpabile, ad essere "intangibile" o "non empirico", nonostante la sua indubitabile immanenza. In questa misura, la riflessione positiva, apologetica, della metafisica reale capitalistica può fare ricorso al filone "idealista" della metafisica religiosa e filosofica primordiale, soprattutto di origine platonica. L'idealismo trascendente delle forme essenziali di Platone e dei suoi seguaci si presenta ora, nella modernità, come idealità immanente del principio essenziale, particolarmente nell'idealismo tedesco.

Tuttavia c'è qui di nuovo una differenza importante nel concetto di questa idealità. In Platone e nei suoi seguaci, si trattava di idealità trascendente delle forme essenziali nella pluralità; di forme ideali delle diverse cose, che nella materia terrena si presentano solo come "ombre". Sotto questo aspetto, l'idealismo formale di Platone rimane pluralista e, quindi, relativista in quanto al concetto tradizionale di sostanza, del quale è parte integrante. "Al di sopra" dell'idealità del mondo plurale delle forme, tuttavia, si erge ancora la sfera del "puro e semplicemente buono", il grado più elevato ed origine di tutto l'Essere, un tutt'uno, che tuttavia è talmente perso nella sua trascendenza, che non si presenta più come tale nell'immanenza.

L'idealità della forma immanente della modernità, al contrario, ormai non conosce più alcun pluralismo di forme, né, di conseguenza, una qualche corrispondente relatività; la forma del valore, o il "soggetto automatico", non tollera nessun altro dio accanto a sé. L'Assoluto trascendente del tutt'uno ideale è disceso in terra come l'Assoluto immanente del principio essenziale "valore". Proprio come in Platone, le cose empiriche terrene non posseggono un'esistenza indipendente, essendo la mera "espressione" dell'idealità della forma; ma si tratta innanzi tutto, e in primo luogo, di un'idealità della forma già non più trascendente, bensì immanente, la quale si manifesta nella socializzazione del valore e, in secondo luogo, di un'idealità della forma ormai non più plurale, bensì monistica, assoluta, totalitaria. Che essa sia la "la forma pura e semplice" kantiana o lo "spirito del mondo" hegeliano", o la "volontà assoluta", ecc., si tratta sempre di un principio di immanenza della forma totale nella sua ultima istanza determinante, rispetto alla quale tutte le cose e tutte le relazioni devono solo essere "forme di apparenza". Il mondo non è costituito dalla razionalità delle diverse entità, ma semmai, monisticamente, da un tutt'uno terreno della valorizzazione del valore.

Si può riconoscere a prima vista che l'universo-orologio fisico di Newton, con i suoi componenti atomistici unitari ed il suo continuum unitario ed assoluto di spazio tempo, corrisponde con sufficiente precisione a questo idealismo della forma, assoluto e totalitario. L'apparente contraddizione fra "idealismo" della forma e "materialismo" del mondo fisico, scompare, non appena entrambi i costrutti vengono decifrati nel loro contesto storico-sociale. Probabilmente, lo stesso vale già per le vecchie forme incipienti di contraddizione tra l'idealismo platonico della forma ed il materialismo atomistico della sostanza, nella misura un cui la filosofia occidentale dell'antichità ormai rappresenta soltanto una riflessione ancora incompiuta nel contesto della relazione non maturata fra la forma merce e la forma pensiero.

Nella modernità si è completata la complementarietà fra questi due costrutti, i quali dal punto di vista storico-sociale corrispondono alla costituzione della formazione sociale "basata sul valore" (Marx) del capitalismo. L'idealismo formale della filosofia moderna (che nelle teorie positiviste esprime soltanto il suo volgare stato di decadenza) può essere decifrato come il principio essenziale del valore, della forma sociale del feticcio paradossalmente secolarizzata; il sostanziale materialismo della fisica meccanicistica, come mondo naturale modellato ed in un certo modo "gestito" da questo dettato della forma, è un mondo fatto di elementi e "forze" meccaniche uguali, che nella sua condizione fisica e biologica si pretende che venga visto degradato ad una mera "forma di apparenza" dell'astrazione reale sociale. L'ambiente culturale ed il mondo della vita odierni della società capitalista, sempre più unificata su scala planetaria, si avvicinano fantasmaticamente al costrutto newtoniano di un Universo meccanico uniforme; per la biosfera planetaria, così come per la cultura umana nel senso più lato, però, questo significa il successivo annichilimento.

Il concetto filosofico classico di sostanza, nella metafisica reale capitalista della modernità, chiaramente si differenzia soltanto in forma (forma ideale immanente-trascendente o "trascendentale", forma del valore) e contenuto (mondo modellato in modo meccanicistico, fisicamente ridotto). Tuttavia, in questa relazione fra la forma ed il contenuto della sostanza reale metafisica manca ancora l'agente sociale di tutta l'organizzazione della metafisica reale, il momento mediatore del movimento. La relazione fra forma del valore e sostanza naturale meccanicisticamente ridotta non può essere statica, ma può essere solamente un processo dinamico, nel quale la natura in sé non ridotta viene realmente ridotta solo dall'astrazione del valore, attraverso la mediazione sociale, per mezzo di una forza sociale specificamente capitalista, nel "processo di metabolismo con la natura".
Questa forza è essa stessa una sostanza materiale, però non naturale, bensì sociale. La sostanza naturale dell'astrazione reale moderna, in quanto astrazione della forma del principio essenziale di "valore", è la materia fisica astratta e meccanicisticamente ridotta; la sostanza sociale di questo principio della forma della metafisica reale è il "lavoro astratto" (Marx). Il "lavoro", come forma di attività e allo stesso tempo come sostanza del capitale, costituisce la forza sociale-materiale ed il processo solo attraverso il quale può affermarsi nel mondo terreno il principio della forma della metafisica reale, con la sua pretesa negativa e distruttiva di Assoluto. Il movimento mediatore del lavoro astratto è l'auto-mediazione della sostanza ed è, di conseguenza, un fine in sé ed una auto-aggregazione nella forma del valore (che si manifesta nella forma del denaro), ed in quanto "alienazione" permanente della materia naturale e delle relazioni sociali, dalla sua costituzione fino alla rispettiva distruzione, trasforma tutto quello che processa in sé stesso in semplici immagini dell'astrazione reale.

Già qui diventa chiaro che il marxismo tradizionale è rimasto completamente ostaggio della metafisica reale della modernità. Il suo "materialismo" - con l'eterna celebrazione della rispettiva corrente nella storia della filosofia occidentale - non rappresenta più altro che la riflessione affermativa di un lato della relazione di valore, o di capitale; soprattutto il materialismo sostanziale della riduzione fisica, in cui il mondo naturale già non appare più modellato dall'astrazione reale capitalista. E' il materialismo dell'annichilimento che sotto la forma della riproduzione feticista sta lacerando e triturando la biosfera terrestre. Di conseguenza, nel pensiero marxista, il materialismo sostanziale fisico positivo di una natura strutturalmente modellata corrisponde al materialismo sostanziale sociale positivo del "lavoro", che è l'agente di tale modellazione. Questo "materialismo" dell'ontologia del lavoro marxista, e della sua concomitante fede meccanicista nella scienza della natura, è ben lungi dal soppiantare l'idealismo formale della tradizione filosofica apparentemente contraria; a somiglianza di quanto accade nel pensiero borghese, e come suo prolungamento modificato, si comporta in maniera meramente complementare rispetto ad esso.

In questo senso, Hegel non è stato rimesso coi piedi per terra e con la testa per aria, ma i piedi continuano a seguire, sotto il comando della testa, il principio essenziale capitalista della forma ideale. Decifrate socialmente, le relazioni di feticcio in quanto "metafisica reale", sono sempre allo stesso tempo "idealismo reale" - portato in auge dall'idealismo reale capitalista del "soggetto automatico", per la prima volta immanente sotto la forma della valorizzazione del valore - del riaccoppiamento cibernetico dell'astrazione reale del valore con sé stessa. Ironicamente, in questo modo, il materialismo reale del lavoro e quello della scienza della natura capitalista non sono altro che la forma dell'apparenza pratica dell'idealismo reale del valore, e non il contrario. L'astrazione reale del valore rappresenta un'aggregazione o una forma di esistenza della pratica dell'astrazione reale del lavoro e viceversa; proprio per questo il lavoro astratto costituisce il modo in cui il principio sociale non-materiale essenziale, come un fantasma, mette le mani sul mondo materiale.

In questo modo, "l'idealismo oggettivo" di Hegel sotto un certo aspetto arriva più vicino alla cosa di quanto faccia il "materialismo oggettivo" del pensiero marxista; ma Hegel pensa l'idealismo reale capitalista in maniera apologetica, come movimento di auto-mediazione positiva dell'essenza dell'astrazione reale, sfuggendo così per principio alla sua qualità negativa, distruttiva ed annichilatrice della vita. Il materialismo marxista, al contrario, compra un biglietto dalla critica (in gran misura ridotta, non andando oltre l'immanenza) di modo che, da parte sua, gli sfugge il carattere di astrazione reale sociale. In quanto astrazione, il valore/lavoro astratto rimane in un certo qual modo una cosa del pensiero, e quindi un'idealità (negativa). Non si tratta, però, di un'idealità soggettiva, soltanto riflessiva, di un'idealità costituita per mezzo di mere astrazioni nominali (linguistiche e mentali), ma di un'idealità oggettivata dai processi storici, "materializzata" attraverso una pratica compulsiva.

Al fine di arrivare ad una piena critica della sostanzialità negativa della relazione di feticcio capitalistica, non è l'idealismo oggettivo di Hegel che va messo sui piedi, ma semmai è la testa dell'astrazione reale che dev'essere ghigliottinata. Solo questa sarebbe una prassi liberatoria e trascendente, per cui si smetterebbe di modellare compulsivamente il mondo sociale e naturale, ma si distruggerebbe il principio essenziale stesso di una tale prassi distruttiva.
Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx
E' un fatto osservato da lunga data che il marxismo del movimento operaio ha continuamente soffocato o relativizzato, ridotto e diluito il concetto della critica dell'economia politica di Marx, fino ad arrivare ad una "economia politica" del tutto positiva, sul terreno acriticamente presupposto della forma moderna del feticcio. E' per questo che nei libri di testo del mondo perduto del "socialismo reale" si è sempre parlato con la più grande serietà di una "economia politica del socialismo", invece di capire e sviluppare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale. Di conseguenza, nella comprensione del marxismo anche il concetto di Marx della sostanza del lavoro astratto ha finito inevitabilmente per essere rappresentato come del tutto positivo, come mera definizione di un fatto ontologico oggettivo, "determinato da leggi naturali" e non da superare.

Questo ragionamento tuttavia non corrisponde in alcun modo alla forma in cui Marx presenta il concetto di lavoro astratto, fin da pagina 4 del primo volume de Il Capitale: "
Ma, se astraiamo dal valore d'uso delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavolo, per esempio, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o di qualsiasi altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, e le diverse forme concrete che distinguono le differenti specie di lavori. Resta pertanto solo il carattere comune a tutti questi lavori; sono tutti ridotti allo stesso lavoro umano, lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima fantasmatica oggettività, una mera massa di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di lavoro umano senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose manifestano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, che in esse è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono considerate valori - valori di merce". (Karl Marx, Il Capitale. Vol.I)
Non si può non osservare che qui il concetto di lavoro astratto non costituisce un'arida definizione positivista, bensì l'inizio della critica concettuale di una realtà francamente negativa. Lo "astrarre dal valore d'uso", di modo che "tutte le (...) qualità sensibili scompaiano" al fine di ottenere una "oggettività fantasmatica", "un mero dispendio di lavoro umano" già significa una tendenza assolutamente distruttiva del mondo sensibile e sociale. Poiché qui si tratta del lato pratico, attivo, si tratta di un'astrazione reale sociale, e non di un'astrazione meramente linguistica, che esprime le cose esistenti nel pensiero, senza che con ciò attinga nella pratica al mondo fisico e sociale. L'astrazione "lavoro" rappresenta qui innanzitutto un riferimento immediato di azione, soprattutto come un apriori della riproduzione sociale con conseguenze imprevedibili.

Marx qui si avvicina ad una critica che egli stesso non ha mai portato fino in fondo. Egli sviluppa (contrariamente alla maggioranza dei marxisti) una critica radicale dell'astrazione reale contenuta nel concetto di lavoro moderno; ma, simultaneamente, rimane ostaggio dell'ontologia protestante ed illuminista del lavoro - così come ha scritto sulle proprie bandiere il movimento operaio - sorta nel medesimo contesto storico della sua teoria. Marx si è così trovato costretto a tentare di separare il principio suppostamente ontologico di "lavoro", l'astrazione così espressa, dall'astrazione reale specificamente capitalista; progetto questo che ha finito in gran misura per perdersi nei suoi seguaci, i quali si accontentarono di adattarsi al concetto di lavoro interamente nell'ontologizzazione trans-storica - con poche eccezioni, che in tal modo spiccano come in special modo riflessive, seppure non siano mai andate oltre la riproduzione dell'aporia di Marx, con il concetto di lavoro considerato come astrazione reale capitalista e allo stesso tempo come principio ontologico.

Marx formula apertamente la sua aporia nei "Grundrisse", da subito, nella sua introduzione, dove parla della definizione del concetto:
"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) Un enorme progresso lo compì Adam Smith,  rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune ad un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, esso cessa di poter essere pensato soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una totalità di lavori concreti. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, in quanto determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice, e che esprime una relazione antichissima ed è valida per tutte le forme di società, in questa astrazione si presenta tuttavia praticamente vera soltanto come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in  questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni."(Karl Marx, Grundrisse)
Questa riflessione sul concetto di lavoro come categoria sociale è aporetica sotto vari aspetti. Nel senso che, tanto l'astrazione quanto il suo contenuto sociale appaiono, da un lato, come positivi, come "progresso", come una "attività creatrice di ricchezza" generale, come sviluppo di una diversità; e, dall'altro lato, come negativa, come "indifferenza" relativa al contenuto. Alla stessa maniera, il "lavoro" appare, da un lato, come un'astrazione "razionale", come mera designazione generica di un "ricco sviluppo concreto" di attività; dall'altro lato, Marx non tarda a correggersi, richiamando l'attenzione sul fatto che questa corrispondenza non è "solo il risultato mentale di un'attività concreta", ma corrisponde ad una "forma di società" nella quale tale astrazione diventa reale e in tal modo definisce l'azione. Soprattutto, però, Marx da un lato si mantiene fedele alla concezione per cui l'astrazione "lavoro" è un'idea "antichissima" e "valida per tutte le epoche"; dall'altro lato, però, chiarisce simultaneamente che si tratta di "una categoria tanto moderna" quanto "le condizioni che producono tale semplice astrazione", di modo che questa categoria finisce per essere il "prodotto di determinate condizioni storiche", soprattutto di quelle moderne, e che possiede "piena validità soltanto all'interno di tali condizioni".

Quest'argomentazione aporetica può essere risolta soltanto se la categoria "lavoro" viene definita come astrazione reale, e perciò come categoria storica, moderna, capitalista e, per ciò stesso, l'ontologia del lavoro viene del tutto abbandonata. Se Marx designa disinvoltamente quest'astrazione (probabilmente nel senso di una mera astrazione nominale) come "antichissima", questa designazione ovviamente non si basa su nessuna ricerca storica. In realtà, in molte società della storia, fra le altre anche le cosiddette culture superiori come l'antico Egitto, neppure esisteva una categoria di attività generale ed astratta. Perfino nelle società dove sembrava esistere un simile concetto generico nominale (anche se non c'era nessuna astrazione reale), si trattava di aree di attività molto limitate, e mai di una generalità sociale di "attività in generale". Se qui nell'interpretazione moderna si parla sempre di "lavoro", questo è ingannevole, un anacronismo e fondamentalmente un errore di traduzione (cosa che del resto si applica anche ad altre categorie specificamente moderne ed associate alla relazione di feticcio della valorizzazione del valore, come la politica, o lo Stato, ecc.).

Nella misura in cui l'astrazione "lavoro" è stata adottata come concetto dalla società moderna a partire dall'area linguistica indo-europea, essa dev'essere oggetto di una completa ridefinizione; gli è che in queste lingue il "lavoro" designa sempre l'attività specifica degli schiavi, dei dipendenti, dei minori, ecc.; non si tratta, quindi, di un concetto generico mentale per diverse aree di attività, ma di un'astrazione sociale (ed in questa misura anche di un'astrazione reale, in questo senso specificamente premoderno), però, proprio per questo non si tratta di una generalità sociale, né di una categoria di sintesi sociale, come avviene nella modernità.

L'aporia di Marx rimane uguale a sé stessa anche nell'analisi de "Il Capitale", quando Marx fornisce le definizioni di "lavoro astratto" e di "lavoro concreto". A rigore, la definizione "lavoro astratto" rappresenta un pleonasmo logico (come, per esempio, "cavallo-bianco bianco"), dal momento che l'attributo è di già contenuto nello stesso concetto; gli è che, di fatto, il "lavoro" è già un'astrazione. All'inverso, il concetto "lavoro concreto" rappresenta una contraddizione in termini (come, per esempio, "cavallo-bianco nero"), giacché l'attributo è in contraddizione con il concetto; come astrazione (anche concettualmente, nascendo solo sul terreno di un'astrazione reale sociale) il "lavoro" non può essere di per sé concreto", nel senso di una attività determinata.

Si può dire che queste definizioni di Marx riflettono il paradosso reale della relazione del capitale e della sua socializzazione del valore, giacché quello che è in sé concreto, la diversità del mondo, viene di fatto ("realmente") ridotto ad un'astrazione, ed in questo modo la relazione fra il generale ed il particolare viene messa coi piedi per aria. Il generale non è più una manifestazione del particolare ma, al contrario, il particolare è ormai una manifestazione della generalità totalitaria; anche il concreto, così, non rappresenta già più la diversità strutturata del particolare, ma non "è" altro che la "espressione" della generalità realmente astratta, della "sostanza" universale.

Senza dubbio, Marx non ha piena coscienza di quello che veramente qui è da riflettere, considerato che si attiene ad un momento ontologico e trans-storico dell'astrazione "lavoro". In questo modo tenta di fondare tutto questo nel concetto di valore d'uso: "Come creatore dei valori d'uso, come lavoro utile, il lavoro è... una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società, una necessità naturale eterna per mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, ossia, la vita umana" (Il Capitale, vol. I). Il concetto di "utilità per determinate necessità", tuttavia, non è in alcun modo una categoria della sintesi sociale, e perciò non può essere semplicemente equiparata a quella del "valore d'uso", come fa sempre Marx. La categoria valore d'uso si riferisce soltanto ad un'utilità astratta (una definizione realmente paradossale) e in questa misura essa stessa è parte integrante dell'astrazione reale moderna; non è un concetto dal punto di vista delle necessità, ma un concetto di rappresentazione della mediazione della forma valore (il valore d'uso di una merce in quanto forma equivalente esprime soltanto il valore di scambio di un'altra merce).

Il valore d'uso come designazione ha senso soltanto nella mediazione con il valore di scambio, in quanto polarità della relazione di valore, e perciò non è affatto "una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società". Nella misura in cui il "lavoro" stabilisce "il valore d'uso", non si tratta di una definizione ontologica-trans-storica per l'astrazione del valore, ma niente più che un modo specifico di come l'astrazione reale prende possesso dell'oggetto, che in sé non ha niente di astratto. Quello che Marx designa paradossalmente come "lavoro concreto" non costituisce per questo una "necessità naturale eterna"; al contrario, non è altro che il modo materiale specifico con cui il "lavoro astratto" si appropria della "materia" naturale o sociale. Una volta che questo è stato chiarito, possiamo continuare ad usare i concetti di Marx, così come sono, tuttavia con una comprensione cambiata.

Devo anticipare a questo punto un'argomentazione che soltanto più tardi verrà sviluppata più dettagliatamente. Riguarda il carattere materiale della sostanza del lavoro astratto, che com'è noto è stata formulata da Marx come "dispendio di nervi, muscoli e cervello", indipendentemente dal modo concreto di un tale dispendio, sia sotto forma di lavoro di falegnameria o di tessitura, ecc.. I rappresentanti di una determinata linea neomarxista di dibattito (oggi spesso di colorazione postmoderna) sono orgogliosi di parlare qui peggiorativamente di un falso "sostanzialismo" ovvero di un "naturalismo" fisiologico dello stesso Marx e dei marxisti tradizionali, dal momento che proprio per via di questa "naturalizzazione", il lavoro astratto viene trasformato in una realtà trans-storica ed ontologica, giacché gli esseri umano devono sempre spendere "nervi, muscoli e cervello". Per inciso, anche Moishe Postone aderisce a tale opinione, infelicemente (Moishe Postone, ivi, pag 224 ss.). Ora, è vero che il marxismo tradizionale ontologizza il lavoro astratto, come pretenderemo di dimostrare più in dettaglio nel prossimo capitolo. Nonostante questo, la critica del "sostanzialismo" che abbiamo finito di abbozzare parte da presupposti totalmente errati. Ossia, per essa si tratta assai meno di chiarire il concetto di sostanza e di lavoro, che del rifiuto di una teoria della crisi sostanziale, che argomenta per mezzo della diminuzione storica della sostanza del lavoro in quanto sostanza del valore del capitale (desustanzializzazione). In questo senso, il lavoro astratto viene visto come una relazione quantitativa, come concetto di sostanza in senso quantitativo. Gli è che, perché qualcosa possa essere aumentata o diminuita, questo qualcosa dev'essere sostanzialmente reale in senso materiale e di contenuti; una mera forma, come sostanza non può rappresentare una relazione quantitativa. Per questo la critica del carattere della sostanza materiale del lavoro astratto serve a rifiutare la teoria della crisi sostanziale, ed anche per nascondere l'esistenza di un limite interno assoluto del processo di valorizzazione; la crisi viene allora ridotta alla superficie del mercato - come "errore di regolazione" del meccanismo del mercato che potrebbe essere regolato attraverso mezzi politici - oppure scompare completamente dal dibattito teorico fondamentale.

Poiché questa argomentazione contro il "sostanzialismo" si inscrive innanzitutto nell'ambito della teoria della quantità e della crisi del lavoro astratto, essa viene trattata esaustivamente soltanto nella seconda parte del presente saggio. Qui bisogna fare un riferimento preliminare al concetto qualitativo negativo del lavoro astratto che in questo ha un ruolo. I neomarxisti anti-sostanzialisti apparentemente riflettono fino a regredire a retroguardia del marxismo tradizionale, una volta che sfugge loro qualcosa di essenziale, Gli è che Marx non parla di dispendio fisiologico di nervi, muscoli e cervello nel senso immediatamente naturalista o trans-storico. Poiché il dispendio fisiologico di energia umana, in termini puramente "naturali", non può essere separato dalla forma concreta di un tale dispendio. Ma, è proprio questo che avviene socialmente nell'astrazione del lavoro. E questo astrarre dalla forma concreta del dispendio non è né razionale né trans-storico. Se, per esempio, dicessimo ad un antico egizio che sta pescando, che non stava semplicemente catturando un pesce, ma che sta spendendo "nervi, muscoli e cervello" in senso astratto, egli avrebbe tutte le ragioni per dubitare della nostra sanità mentale. Una tale affermazione ha senso solo nel contesto dell'astrazione reale moderna.

Tuttavia, la sostanza astratta del lavoro non cessa di contenere un qualche contenuto materiale o "fisico" (poiché un dispendio di nervi, muscoli e cervello senza contenuto, semplicemente non è possibile), sebbene non si tratti di una sostanza naturale immediata, bensì di una sostanza sociale in quanto astrazione. Si tratta di uno dei lati della materializzazione dell'idealità della forma feticistica (l'altro lato sarebbe la stessa materia naturale modellata in maniera riduttiva), nella misura in cui, sotto il dettato di questa idealità di forma negativa, in un determinato riferimento sociale, si astrae, non solo concettualmente, ma anche praticamente, dalla forma concreta del dispendio (che naturalmente non smette di accadere), stabilendo come essenziale solo questo medesimo dispendio in quanto tale, indipendentemente dalla sua determinazione concreta.

Nell'astrazione come astrazione reale, rimane quindi come residuo un contenuto ben materiale, in particolare il dispendio di "energia umana in generale". Per il "soggetto automatico" del processo di valorizzazione non ha nessuna importanza se vengono prodotte pantaloni o bombe a mano; è essenziale solo che nell'atto avvengano processi di combustione fisica umana (dispendio di energia) che possano essere rappresentati come un quantum di valore; un procedimento in sé assolutamente assurdo. Tuttavia, questi processi di combustione avvengono realmente; quello che è assurdo è solo il fatto che vengano trattati e "rappresentati" indipendentemente dalla loro forma concreta, e di conseguenza indipendentemente dal loro obiettivo materiale e di contenuto; il che avviene perché l'obiettivo sociale è proprio questa "rappresentazione" feticista. La riduzione al processo di combustione fisica è un'astrazione sociale, ma non per questo è una mera cosa del pensiero (come, per esempio, un concetto generico nominale), ma si riferisce ad un momento ben reale, ed è anche per questo un'astrazione reale.

La "rappresentazione" è un processo essenziale di quello che Marx ha designato come feticismo della forma merce. Non si tratta solo del fatto che il quantum di energia umana spesa non può essere separato dalla forma concreta di questo dispendio stesso; non appena i prodotti si ritrovano prodotti, essa appartiene ormai al passato e non è più tangibile, e perciò evidentemente non è "contenuta" nei prodotti in senso naturale o fisico. La "rappresentazione" come processo fisico, in questa misura avviene soltanto nelle teste dei soggetti sociali così costituiti, in particolare come percezione e "trattamento" pratico feticizzato della sua stessa socialità. Anche così, tale "rappresentazione" si riferisce a qualcosa che di fatto non avviene solo nelle teste dei soggetti, come forma di percezione e di azione, ma che è una realtà fisica, ossia, processi di combustione passati avvenuti in corpi umani, dispendio di unità energetiche.

Poiché il quantum di energia consumata nel processo del suo dispendio non può essere realmente separato dalla forma, o determinazione concreta, di tale dispendio, e poiché, trattandosi di un dispendio definitivamente passato, che non può essere letteralmente "contenuto" negli oggetti, la forma sociale della rappresentazione è di fatto, sotto questo aspetto, irreale in senso duplice. Anche così, questo quantum di energia dev'essere speso realmente nel passato, di modo che, sotto l'altro aspetto, rappresenti una sostanza fisica reale (sebbene "rappresentata" in maniera paradossale). La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, però, in sé no ha niente di fisico, essendo innanzitutto un'astrazione reale, un modo di percezione e di azione socialmente costituito, in cui le sostanze naturali ed i beni prodotti sono realmente trattati come se fossero oggetti fisici di pura rappresentazione dei processi di combustione passati nei corpi umani.

Il lavoro astratto è perciò un determinato stato di aggregazione dell'idealità della forma feticista moderna, che tuttavia non smette di riferirsi ad un quantum energetico di forza lavoro realmente spesa, ossia, ad un contenuto materiale quantificabile (non in relazione alla merce individuale, ma alla media sociale delle merci). Questo contenuto, tuttavia, in quanto astrazione è "fantasmatico", non solo in quanto risultato dell'oggettività del valore, ma già nel processo stesso del dispendio, ossia, in termini pratici, come definizione di una massa di dispendio di nervi, muscoli e cervello separata dalla sua forma materiale. Si procede a determinate trasformazioni di materiali naturali, sulla base di una determinazione essenzialmente aprioristica, nelle quali vengono spese quanta di energia umana astratta indipendentemente dalla forma concreta del suo dispendio - tale determinazione è sostanziale in un senso materiale, che non è un senso naturale, ma sociale, e che non è trans-storico, ma storicamente specifico della costituzione del feticcio moderno.

II

Il lavoro astratto come metafisica sociale reale ed il limite interno assoluto della valorizzazione
Soggetto ed oggetto nella teoria della crisi. La soluzione apparente del problema per mezzo di mere relazioni di volontà e di forza
Robert Kurz
Se dovessimo tornare a rivedere tutto il dibattito storico, sarebbero due realtà a richiamare la nostra attenzione. Da una parte, la fobia rispetto all'idea di limite interno della valorizzazione del valore in realtà non si trova associata a situazioni sociali dell'economia e della politica, di crisi e di prosperità. La cosiddetta teoria del collasso è stata fin dall'inizio uno scandalo ed un estremo imbarazzo, sia durante i tempi indolenti di notabili marxisti dell'impero guglielmino che all'epoca delle catastrofi delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, e lo è stata maggiormente nell'epoca di prosperità del dopoguerra, ed infine lo è anche oggi, di nuovo, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale. Lo scandalo è rimasto, indipendentemente dalle specifiche esperienze storiche, e così l'idea di un limite assoluto immanente non è mai diventata egemone nel discorso marxistamainstream, nemmeno nel bel mezzo delle maggiori catastrofi della storia mondiale.

Dall'altra parte, però, quel che è palese è la mancanza di profondità nella riflessione teorica intorno a tutto questo dibattito, la rapidità con la quale si passa sopra il concetto di dinamica capitalista e quanto poco si tenga in considerazione tutto l'armamentario concettuale che era già rappresentato da Marx. La critica non viene poi così tanto sviluppata in maniera immanente e fondata sulla cosa in sé - in particolare sulle contraddizioni interne della riproduzione capitalista nell'ambito di un processo storico dinamico - ma pretende piuttosto di passare a lato della cosa, per arrivare il prima possibile ad un'altra cosa del tutto differente. Il grande scandalo non sta nemmeno nell'imminente rottura con l'ontologia del lavoro marxista, che alla fine non avviene da nessuna parte, dal momento che anche le teorie del collasso della Luxemburg e di Grossmann non abbandonano mai questo terreno. In ogni caso, ci deve essere stato un vago presentimento riguardo a tale problema che, a fronte della perdita della sostanza, ha trasformato questo horror vacui del marxismo del lavoro in una motivazione inconfessata.

Però è un'altra cosa quella che diventa da subito pienamente evidente e che occupa un ampio spazio in tutto il dibattito: vale a dire quello che viene sentito come una minaccia ed un affronto, cioè che un collasso oggettivo della valorizzazione dovuto alle sue stesse contraddizioni interne avrebbe potuto, per così dire, rubare il ruolo al proletariato, alla meravigliosa classe operaia, gettandola nella disoccupazione, non solo nel senso della riproduzione immediata, ma anche come soggetto storico. E' questa la causa più profonda della fobia risguardo l'idea di collasso. Qui, essenzialmente, non si tratta più nemmeno di una questione di riflessione critica sull'economia, nel contesto della teoria marxista della crisi, ma piuttosto di una coerenza ideologica di base, che può essere compresa solamente facendo ricorso alla critica ideologica, e non alla teoria della crisi.
Infatti, già Otto Bauer, nel dibattito intorno alla teoria dell'accumulazione della Luxemburg, nominerà il soggetto proletario come una sorta di testimone principale a carico contro la logica del collasso:
"Il capitalismo non crollerà a causa dell'impossibilità meccanica di realizzare il plusvalore. Soccomberà di fronte all'indignazione che esso infonde nelle masse popolari. Il capitalismo si sgretolererà, non appena l'ultimo agricoltore o l'ultimo piccolo-borghese in tutto il mondo verranno trasformati in lavoratori salariati e, perciò, non rimarrà più a disposizione del capitalismo alcun mercato da aprire; verrà abbattuto molto prima dalla crescente indignazione della classe operaia che si trova in crescita costante e che è formata, unificata ed organizzata dal meccanismo del processo di produzione capitalista stesso" (Bauer 1913).
L'argomento del soggetto proletario della volontà come deus ex machina deciderà il dibattito sulla teoria della crisi, la quale, acutizzata in teoria del collasso, viene denunciata come "oggettivista e determinista". Ora, il fatto che tale recriminazione sia diretta proprio contro Rosa Luxemburg, la quale nel frattempo era emersa come teorica della spontaneità proletaria, dello sciopero di massa e dell'attivismo rivoluzionario contro la legge dell'inerzia riformista della socialdemocrazia, finisce per costituire una vero e proprio scherzo di cattivo gusto.

Rosa Luxemburg non tarda a rispondere ad Otto Bauer, rinfacciandogli il suo opportunismo al momento della catastrofe della guerra mondiale. Proprio un simile teorico della più infame affermazione del dominio capitalista doveva mobilitare il "soggetto di classe rivoluzionario"! Eppure sta proprio qui il problema da risolvere della relazione-soggetto-oggetto nella società borghese moderna.

Rosa Luxemburg argomenta prima in maniera più difensiva, come quando nella sua Anticritica si riferisce a questo problema:
"Lo schema dell'accumulazione di Marx - se compreso correttamente - proprio nella sua irrisolvibilità, è l'esatta prognosi della rovina, economicamente inevitabile, del capitalismo come risultato del processo di espansione imperialista... Diverrà mai realtà questo momento? Ma tutto questo non è solo una finzione teorica, proprio perché l'accumulazione del capitale è un processo non solo economico, ma politico... Qui, come in altri momenti della storia, la teoria svolge il suo servizio completo nel mostrarci la tendenza dello sviluppo, il punto logico finale che indica oggettivamente. Questo non può essere raggiunto come lo è stato in qualche periodo precedente della storia dove lo sviluppo sociale poteva avvenire fino alle ultime conseguenze. Tanto meno c'è la necessità di raggiungerlo, quanto più la coscienza collettiva, questa volta incarnata nel proletariato socialista, interviene come fattore attivo nel gioco cieco delle forze. E la concezione corretta della teoria di Marx offre a questa coscienza, anche in questo caso, le proposte più fertili e l'incentivo più vigoroso" (Rosa Luxemburg, 1914).
Naturalmente il problema non viene risolto da queste osservazioni. La tendenza al collasso non avrebbe potuto anticipare il proletariato e sostituirsi ad esso, prima che questi riuscisse a mettere in pratica il suo "intervento attivo"? Dall'altro lato: il proletariato può intervenire solo perché ha alle spalle questa tendenza oggettiva? Non potrebbe arrivare all'emancipazione sociale in maniera del tutto indipendente da una simile tendenza? La relazione fra soggetto e oggetto rimane da essere chiarita; si rende solo evidente che tale relazione deve esistere e che, proprio nella sua indefinizione, può essere strumentalizzata contro la teoria del collasso. Tutto questo ha anche qualcosa a che vedere con la frequentemente citata debilitazione dell'autocoscienza umana da parte delle grandi teorie scientifiche e sociali della modernità. Se da un lato l'illuminismo incorona il soggetto autonomo come demiurgo di sé stesso, la riflessione critica, dall'altro lato, gli infligge una caduta ancora più dolorosa. Com'è noto, già Copernico aveva bandito l'essere umano dal centro dell'universo; Freud gli ha negato la piena coscienza critica di sé stesso; e in Marx il feticismo del sistema produttore di merci la fa finita anche con la soggettività politico-economica come ultimo fondamento dello sviluppo socio-economico. Queste osservazioni sono diventate da tempo i topos dei discorsi della teoria sociale. Com'è generalmente noto, lo strutturalismo e la teoria dei sistemi hanno proseguito affermativamente su questa strada dove il soggetto è soltanto un'ombra di sé stesso, o è il mero "ambiente" di un contesto sistemico autoreferenziale.

Se scendiamo su questo piano, che non ha ancora avuto l'opportunità di giocare un qualche ruolo nei dibattiti marxisti sulla teoria del collasso, il problema appare improvvisamente diminuire un po', in termini di dimensioni. Data la sua concezione speciale di "azione del soggetto", un collasso, un cataclisma della società, non faceva affatto comodo alla socialdemocrazia. Dal momento che la sua idea era quella che il crescente grado di organizzazione sociale del capitale avrebbe dovuto essere solo trasferito nelle mani dello Stato, e poi da questo nelle mani del proletariato (come avviene, ad esempio, in Hilferding), arrivando così in tutta calma, e per la via dell'azione parlamentare, al socialismo. In tal senso il desiderio riformista si nascondeva dietro l'angolo come padre del pensiero, ad esempio quando Gustav Eckstein, nella sua polemica contro Rosa Luxemburg, constatava quasi con sollievo: "Insieme ai presupposti teorici cadono anche le conseguenze pratiche, innanzitutto la teoria della catastrofe che la compagna Luxemburg aveva edificato sulla sua dottrina della necessità dell'esistenza dei consumatori non capitalisti". Tanto più acuta si rivelò la reazione di Rosa Luxemburg nella sua Anticritica, redatta subito dopo l'irrompere della vera catastrofe della guerra mondiale; ora lei si riferiva alla "catastrofe come forma di esistenza [Daseinsform]" del capitalismo imperialista.

Ma il dibattito non era riassumibile in alcun modo nell'opposizione fra la teoria "riformista" e quella "rivoluzionaria" dell'agire soggettivo. Anche le posizioni comuniste e le altre posizioni rivoluzionarie attivistiche, che in fondo non avevano bisogno di aver così paura di un cataclisma, attaccarono la teoria del collasso con veemenza ancora maggiore, a causa del suo "oggettivismo" e "determinismo". Bucharin, ad esempio, accusava Rosa Luxemburg di "deterministo economico", quando egli stesso sembrava cadervi due pagine dopo, quando finiva per parlare dell'instabilità e di crisi cicliche e della loro "risoluzione condizionata": "La loro ampiezza ed intensità crescente portano inevitabilmente al collasso del dominio capitalista" (corsivo di Bucharin).

L'idea della "inevitabilità" è evidentemente essa stessa determinista, ma paradossalmente lo è in una maniera per cui è affermata in senso puramente soggettivo, quando Bucharin alla fine districa il modo in cui intende l'opposizione al "determinismo economico":
"Oggi ci troviamo già nella posizione di non poterci più permettere di valutare il processo del collasso capitalista solo sulla base di costruzioni astratte e di prospettive teoriche. Il collasso del capitalismo è già cominciato. La rivoluzione di Ottobre è l'espressione più viva e convincente di questo. La rivoluzionarizzazione del proletariato ha, senza dubbio, a che vedere con la rovina economica, questa con la guerra, la guerra con la lotta per i mercati come sbocco per il flusso di produzione, mercati di materie prime, sfere di investimento dei capitali, in breve, con la politica imperialista nel suo insieme" (corsivo di Bucharin).
Qui, è evidente che Bucharin mette a testa in giù l'insieme dei problemi. Il limite interno oggettivo della valorizzazione del valore sulla base delle sue proprie contraddizioni si converte in qualcos'altro, puramente soggettivo e politico, nel limite di una mera relazione di volontà. La crisi proviene dalla sfera politica, da dove provengono anche l'emancipazione o la rivoluzione, nel mentre che la cosiddetta economia, che in realtà costituisce la base logica della valorizzazione del valore, che abbraccia tutte le sfere ufficiali, si riduce ad un gradevole rumore di fondo, e tutto sommato abbastanza irrilevante per il corso degli eventi. In questo contesto, il concetto di collasso è una confezione ingannevole. Gli è che un collasso è nella sua essenza qualcosa di oggettivo, che viene sofferto in forma passiva, condizionato da leggi naturali o sistemiche, e non un atto di volontà o una relazione di volontà. Un collasso avviene quando una persona soffre di un grave disturbo circolatorio o di un infarto, quando un ponte si sbriciola per eccesso di peso, quando un motore grippa, una stella si contrae in un buco nero, o una connessione sistemica (ad esempio, un programma di computer) diventa instabile e "crasha", ecc.. Il termine diventa inadeguato quando si tratta di atti di volontà in un conflitto cosciente. Ma cosa ancora più importante è che Bucharin, nel suo travisamento, finisce per compiere una capriola, facendo una rivelazione involontaria. Sebbene soggettivizzi l'oggettività del collasso e la riduca alla politica, allo stesso tempo, ed inversamente, oggettivizza questo stesso soggetto, dichiarandone la sua attuazione "inevitabile" e di conseguenza determinata. Arrivati a questo punto ci troviamo nuovamente davanti la non risolta problematica-soggetto-oggetto della modernità.

E questo problema va ripetendosi e si trascina per tutto il dibattito intorno alla crisi o al collasso. Così, qualche anno più tardi, riappare anche nelle tirate di Eugen Varga contro Grossmann. Anche Varga tira fuori dalla formaldeide il soggetto (soggetto di classe) come deus ex machina. "Egli (Grossmann) separa l'economia dalla lotta di classe; perciò, il suo'collasso' non è il rovesciamento dell'ordine sociale capitalista, ma è piuttosto una fantasia puramente economica..." (corsivo di Varga). E, come in Bucharin, la "volontà determinata" finisce per condensarsi nel potere sovietico, che rende superflua qualsiasi teoria della crisi nel senso di meccanismi sistemici ciechi.
"Chi, nell'anno 1929, ha il coraggio di pubblicare un libro di seicento pagine sul collasso del capitalismo già avvenuto in Russia, per quante citazioni di Marx accumuli, per quanto dotte siano le sue considerazioni sul metodo del marxismo - chi fa tutto questo non ha capito l'ABC del metodo di investigazione marxista!... Il motivo per cui viene taciuta in maniera così ostinata la caduta del capitalismo in Russia è dovuto al fatto che è perfettamente evidente che quelle cause, che secondo Grossmann dovrebbero essere responsabili del rovesciamento del capitalismo, non hanno avuto la minima importanza nel rovesciamento del capitalismo realmente avvenuto in Russia. Infatti sarebbe ridicolo affermare che il capitalismo in Russia - il quale, com'è noto, era un paese assai povero di capitale, che continuava ad importare grandi quantità di capitale straniero - abbia subito un tracollo a causa di un'accumulazione eccessiva di capitale!... Per noi, militanti comunisti, è un grande sollievo sapere che il rovesciamento reale del capitalismo non è vincolato al meccanismo causale proclamato con così tanto clamore dal signor Grossmann...".
E così Varga, sollevato, mentre mancano tre anni scarsi alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti, gioisce dinanzi all'aspettativa del "tracollo del capitalismo" su scala planetaria... "molto prima che sia possibile il verificarsi in tutto il mondo di una 'accumulazione eccessiva' di capitale" (ivi).

Dal punto di vista dell'oggi, è più che ovvio il grandioso errore di tutta questa argomentazione: quel che Varga vorrebbe intendere come "tracollo del capitalismo" in Russia, similmente alla maggioranza dei suoi contemporanei, era in realtà una "modernizzazione ritardata", un'implementazione socio-storica in termini capitalistici del sistema del lavoro astratto sotto la direzione del comunismo di Stato in una zona sottosviluppata della periferia del mercato mondiale; ossia, un regime storicamente non simultaneo di accumulazione primitiva entrato esso stesso in collasso settant'anni più tardi, nelle condizioni della terza rivoluzione industriale. Ma l'argomentazione di Varga non solo è assolutamente inconseguente in termini storici ed economico-politici, nel senso del limite della socializzazione capitalista sulla base del lavoro astratto e della rispettiva forma del valore. Allo stesso tempo - così come nel caso di Bucharin - getta involontariamente una luce cruda sulla struttura-soggetto-oggetto della modernità legata al problema della crisi e del collasso, che viene sempre risolta in maniera paradossale nella soggettività del politico - e che, per questo stesso motivo, provoca accessi di rabbia contro il "determinismo politico" delle teorie del collasso.

Non stupisce che, così come sono quasi identiche le argomentazioni del socialdemocratico Otto Bauer e quelle del comunista Nicolai Bucharin contro il "determinismo economico" di Rosa Luxemburg, la stessa cosa si applichi anche alle corrispondenti argomentazioni del comunista Eugen Varga e del socialdemocratico Alfred Braunthal contro Henryk Grossmann, sebbene Braunthal qui tenti di regolare i conti anche con i comunisti:
"Tuttavia, i comunisti e i seguaci della teoria del collasso non sono solo alieni o perfino contrari alla realtà, per il fatto che le loro teorie non solo non nascono dalla viva realtà, ma trascurano anche i dati della realtà, nella misura in cui chiudono gli occhi davanti alle forze trasformatrici della società, che oggi operano già di fatto. Se prendiamo in considerazione tali forze e percepiamo l'importanza delle crescenti tendenze organizzative dell'economia, della crescente influenza degli operai e della pressione crescente da questi esercitata nel senso della democratizzazione dell'economia, nel quadro della trasformazione della società da capitalista a socialista, diventa evidente che la classe operaia non deve aspettare con cupa rassegnazione un lontano futuro, nel quale, dopo un orrendo periodo di transizione riempito di penuria e miseria, le tendenze del collasso del capitalismo si impongono in maniera automatica, ma tale conoscenza incita la classe operaia a mobilitare tutte le sue forze per imporre, non il collasso del capitalismo, ma piuttosto la sua trasformazione in un sistema di società socialista" (Braunthal).
Non si può fare a meno di sentire un brivido a fronte di una simile ingenuità, nell'immediata vigilia della crisi economica mondiale, della barbarie nazionalsocialista e della susseguente seconda guerra mondiale. Tuttavia, allo stesso tempo diventa chiaro anche quanto sia piccola la differenza fra la riforma e la rivoluzione nel rifiuto della teoria del collasso per quel che riguarda il problema del soggetto. In fondo tutto si riduce alla non simultaneità storica, alla differenza con cui si risponde alla stessa domanda, una volta nelle condizioni di un capitalismo occidentale già sviluppato, e l'altra in quelle di una società periferica di "modernizzazione ritardata" ancora non sviluppata in termini capitalisti. Se sia la classe operaia (occidentale) a dover esercitare una "pressione crescente nel senso di una democratizzazione dell'economia", oppure se dev'essere la rivoluzione proletaria a produrre il presunto "collasso del capitalismo" sotto forma di una dittatura comunista statale del lavoro astratto: la struttura-soggetto-oggetto, e la sua apparente soluzione nel senso della soggettività politica e contro il "determinismo economico", è la stessa.

Forse, diventa più chiaro che qui si nasconde un problema che rimane da risolvere, e che non ha soluzione nell'ambito della socializzazione del valore, se consideriamo anche la posizione dei comunisti di sinistra o dei consigli, i quali, rispetto ai socialdemocratici ed ai comunisti di partito, si limitavano ad acuire e a radicalizzare questa apparente soluzione nelle relazioni di volontà soggettiva. Nella sua polemica contro Grossmann, Pannekoek si esaspera:
"Per lui, il capitalismo è un sistema meccanico, nel quale gli esseri umani intervengono in quanto individui dell'economia, capitalisti, acquirenti, venditori, salariati, ecc., ma che per il resto devono soffrire in maniera passiva quello che il meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna... (Il) meccanismo determina le dimensioni economiche, mentre gli esseri umani che agiscono e lottano si trovano fuori da questa connessione".
Ci troviamo di fronte ad un ritornello che dovrebbe esserci familiare; in quanto fino ad oggi è stato regolarmente cantato nei dibattiti della sinistra radicale. Pannekoek astrae completamente dalla forma sociale della coscienza e perfino della volontà. Vuole attribuire alle "persone che lottano ed agiscono", indipendentemente dalla tematizzazione critica di questa forma (la forma del valore) e della sua sostanza (il lavoro), un potenziale trascendente di volontà, ossia, vuole atttribuire, in un accesso di falsa immediatezza, all'esser-così [Sosein] dei soggetti costituiti in maniera capitalista - così come sono e come agiscono - qualcosa che questi possono ottenere solo attraverso la mediazione di una critica radicale di questa forma. Tutto il "lottare ed agire" rimane sotto l'egida di una falsa oggettività, in quanto non passa dalla critica della forma e della sostanza del lavoro astratto. E se questo non avviene, le persone soffriranno proprio a causa del loro "lottare ed agire" esattamente "quello che il meccanismo impone loro in forza della sua struttura interna" - proprio perché non si trovano "fuori da questa connessione".

Questa connessione rimane (non solo) per Pannokoek un'idra-dalle-sette-teste, e così egli le assegna - contrariamente a quello che pretende di pensare, come fa anche Bucharin - l'oggettività del soggetto e la determinazione della propria volontà:
"Il collasso del capitalismo, in Marx, dipende di fatto dalla volontà della classe operaia; ma tale volontà non è arbitraria, non è libera, ma è essa stessa totalmente determinata (!) dallo sviluppo economico. Le contraddizioni dell'economia capitalista... determinano la volontà del proletariato sempre di nuovo nel senso della rivoluzione. Il socialismo non arriva perché il capitalismo entra in collasso economico e di conseguenza gli esseri umani, operai ed altri, costretti dalla necessità, creeranno una nuova organizzazione. Al contrario, il capitalismo crolla perché, così come vive e prospera, diventa sempre più insopportabile per gli operai, istigandoli alla lotta, sempre di nuovo, fino a far crescere in loro la volontà e la forza per rovesciare il dominio del capitale ed edificare una nuova organizzazione".
Pannekoek non si accorge nemmeno che è del tutto indifferente se la volontà della classe operaia "totalmente determinata dalla sviluppo economico" porti soggettivamente il capitalismo al "collasso", oppure se il capitalismo crolli per motivi ad esso intrinsechi e quindi "obblighi" la classe operaia in maniera oggettiva a "creare una nuova organizzazione". Senza volere, egli illustra chiaramente l'intercambiabilità di soggetto e dell'oggetto nella struttura feticistica della riproduzione - cosa che finisce perfino per essere innalzata agli onori della metafisica della storia:
"Per Marx, ogni necessità sociale si impone per mezzo degli esseri umani (!); ciò significa che il pensare, il volere e l'agire umani, sebbene appaiano discrezionali rispetto alla propria coscienza - sono totalmente (!) determinati dagli effetti dell'ambiente; ed è solo a partire dalla totalità di queste azioni umane, determinate nella loro essenza dalle forze sociali, che si impone una regolarità nello sviluppo sociale... L'accumulazione del capitale, le crisi, la miseria crescente, la rivoluzione proletaria, l'appropriazione del dominio da parte della classe operaia, costituiscono tutte insieme un'unità indissolubile che attua come legge naturale (!), il collasso del capitalismo".
E' veramente grottesco: la determinazione soggettiva si presenta immediatamente come oggettiva, senza che venga riflesso il contesto della mediazione; così, la volontà emancipatoria appare essa stessa come parte integrante proprio della medesima pseudo-"legge naturale", la quale a ben vedere costituisce lo scandalo della falsa oggettivizzazione. Quella che qui si manifesta è una concettualità assai rudimentale della relazione di capitale stessa, che manca dei momenti decisivi della critica della forma del feticcio e della sostanza del lavoro. Trasmette tristezza lo strutturalismo di un Althusser, per cui anche la rivoluzione sarà un "processo senza soggetto" - eppure Pannekoek si situa apparentemente all'altro estremo della scala-soggetto-oggetto del radicalismo marxista di sinistra. Il prezzo perché la classe operaia si mantenga come soggetto storico e non lasci i suoi allori nelle mani del "determinismo economico" del collasso oggettivo, consiste nel fatto che "la classe", essa stessa, possa agire soltanto come esecutrice delle presunte "leggi naturali" della società - il che costituisce un segnale inequivocabile per cui questa costruzione, in realtà, rimane prigioniera del cerchio delle categorie capitalistiche, e che quest'idea di una "rivoluzione proletaria" non è altro che un'ideologia dello sviluppo del lavoro astratto, e rappresenta un prolungamento del sistema di valorizzazione, nel quale il "lavoro senza capitale" possa tornare ad essere una semplice relazione del capitale.

Ovviamente, lo stesso Grossmann non è estraneo alla metacritica ideologica della sua opera, basata sul problema del soggetto, al di là delle definizioni immanenti della teoria della crisi. Quando era in esilio negli Stati Uniti, più di dieci anni dopo che era interrotto il dibattito, aveva tentato indirettamente di difendersi dall'accusa di "determinismo economico", asserendo, similmente a Rosa Luxemburg, che la tendenza oggettiva al collasso non rendeva superfluo in alcun modo l'agire emancipatorio soggettivo. Secondo Grossmann, un "momento della teoria generale di Marx" consisteva essenzialmente
"nella dottrina secondo la quale nessun sistema economico, per quanto tormentato sia, entra in collasso di sua propria iniziativa; dev'essere 'rovesciato'. L'analisi teorica delle tendenze oggettive dello sviluppo che portano al collasso del sistema serve a scoprire gli 'anelli deboli', da utilizzare come una sorta di barometro, che indichi quando il sistema diventa maturo per un cambiamento fondamentale. Ed anche che quando un tale punto viene raggiunto, la rivoluzione viene effettuata dall'agire attivo dei fattori soggettivi... E' grazie a tale agire che le tendenze oggettive possono essere realizzate" (Grossmann, 1943).
Quindi, Grossmann arriva ora allo stesso punto cui è arrivato Pannekoek; l'oggettività (negativa, falsa) viene soggettivata, mentre, inversamente, l'agire soggettivo viene oggettivizzato ("realizzazione delle tendenze oggettive"), e lo stesso soggetto è ormai soltanto un "fattore", la confusione è totale. E' ovvio che Grossmann non sia mai stato studiato attentamente a questo meta-livello, dove ora, a posteriori, si apre alla comprensione, dopo che da tempo è diventato chiaro che il suo sforzo di analisi sul piano delle categorie del valore, e della teoria delle crisi ad esse legate, non poteva arrivare da nessuna parte.

Mancava solo da fare un piccolo passo per ridurre questo vero e proprio dilemma alla pura soggettività delle relazioni di volontà e dichiarare le categorie della critica dell'economia politica di Marx completamente irrilevanti nella pratica. La relazione di capitale, come relazione esterna di volontà, allora non è niente di più che "volontà contro volontà" (espressa ancora nuovamente in forma oggettivata come "classe contro classe", visto che, com'è noto, la categoria classe è da parte sua costituita sistemicamente, ed in questo modo fa parte dell'oggettività). Per essere più esatti: l'oggettività incompresa della categoria classe viene ridotta ad una semplice questione di volontà, di modo che l'oggettività del feticcio capitalista si risolve apparentemente in un semplice "rapporto di forza" di determinazioni di volontà in conflitto.

E' stato Karl Korsch che, nella discussione sulla meta-problematica della relazione-soggetto-oggetto nell'ambito del dibattitto sulla crisi e sul collasso, ha contribuito a preparare questa svolta. Per lui, qualsiasi teoria del collasso rappresenta un "deformazione oggettivista":
"Una simile teoria non mi sembra appropriata per produrre quella piena serietà dell'agire auto-responsabile della classe operaia che lotta per i suoi propri obiettivi, necessaria tanto alla guerra di classe degli operai quanto a qualsiasi altra guerra comune" (Korsch, citato da Marramao, 1977). Come constata Marramao, Korsch arriva al punto di valutare "la rappresentazione dialettica del Marx maturo come una mera allegoria destinata ad eccitare la volontà di lotta e lo spirito rivoluzionario del proletariato" (ivi).
Giacomo Marramao, che si è occupato del problema nel contesto del marxismo della nuova sinistra degli anni settanta, designa a ragione quest'opinione di Korsch come "riduzione pragmatica del momento dialettico-morfologico della critica dell'economia politica" (ivi). Come conseguenza di quest'ultima opinione, le categorie del lavoro astratto, valore, merce, prezzo, plusvalore, composizione organica, caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc., ossia, i punti di riferimento teorici della riproduzione capitalistica così come della sua crisi, devono ridursi a mere "allegorie" delle determinazioni di volontà delle "classi", pensate come soggetti di volontà senza presupposti. Il piano della costituzione del feticcio e del "soggetto automatico" - che in ogni caso non è mai stato compreso - viene ora abolito per sempre, le oggettivazioni reali si convertono in meri rivestimenti delle relazioni di volontà puramente soggettive.

E' vero che Korsch si pronuncia anche contro un mero soggettivismo dell'azione diretta non mediata ecc., ma ciò si riferisce unicamente ai piani della mediazione nell'ambito delle presunte pure relazioni di volontà, e non all'oggettività negativa della relazione di feticcio e della crisi come limite oggettivo:
"Questa posizione dichiara che tutta la questione della necessità o dell'evitabilità oggettiva delle crisi capitalista è una questione che non ha senso, in una tale generalità, nell'ambito di una teoria della rivoluzione pratica del proletariato... Innanzitutto essa crede che, attraverso un'investigazione empirica sempre più esatta e dettagliata del presente modo di produzione capitalista e delle sue chiare tendenze di sviluppo futuro, possano anche essere fatti certi pronostici che, seppure molto limitati, arrivano sempre alla necessità dell'azione pratica" (Korsch).
Qui appaiono le conseguenze di questo "riduzionismo pragmatico" delle categorie capitalistiche di forma e sostanza: il movimento storico non si presenta più come movimento di queste stesse categorie, che sarebbe possibile estendere solo sulla base della corrispondente teoria, ma si manifesta solamente nella riduzione a relazioni di volontà, ossia, ridotto al "piano empirico" ed alla sua "investigazione", dal momento che questo empirismo viene concepito in modo immediato come riferito ai rapporti di forza fra determinazioni di volontà antagoniste.

Nasce qui la famigerata analisi di classe: si mette fine a qualsiasi indagine ed a qualsiasi dibattito sul movimento categoriale e sul suo nesso interno, finisce il dibattito sulle teorie della crisi e del collasso, sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, sul problema della realizzazione e così via - vengono tutte retrocesse a "questioni che in questa generalità non hanno senso". Al loro posto rimane soltanto l'analisi empirica nel senso delle strutture di classe e delle loro alterazioni, che in questo modo includono anche le alterazioni nelle relazioni di volontà. Vale a dire, proprio quello che l'operaismo, con i suoi teoremi di ricomposizione della classe operaia, aveva scritto nella sua agenda come programma riduzionista di investigazione permanente.

Com'è ovvio, con questo tipo di espediente non si riesce a sfuggire alla relazione-soggetto-oggetto della costituzione del feticcio moderno. Si estende soltanto il dilemma che era già apparso in Pannekoek e che si radica nella comprensione ridotta del movimento operaio in generale: quanto più è soggettivo, tanto più è oggettivo; quanto più la relazione di feticcio viene concepita come una pura relazione di volontà di soggetti di volontà pensati senza presupposti ("classi"), i cui presupposti reali rimangono nell'ombra, tanto più l'oggettività falsa, negativa, finisce per rientrare per la porta di servizio, ed i teorici dell'immediatezza, che non riflettono più nemmeno sui propri presupposti, si vedono costretti a cosificare completamente la struttura e la coscienza del loro splendido "soggetto proletario di volontà" e ad "investigarlo" come se fosse un oggetto naturale oggettivo, cosa che evidentemente smentisce in maniera imbarazzante la loro enfasi riguardo allo "agire auto-responsabile della classe proletaria in una lotta per i suoi propri obiettivi".

Allo stesso modo in cui la storia segreta del dibattito del marxismo tradizionale sulla crisi e sul collasso ha consistito, al di là del piano ridotto dell'economia politica, nella sgradevole tematizzazione di questa poco chiarita struttura-soggetto-oggetto della socializzazione moderna del valore, così il programma segreto della sua soluzione ha consistito nella riduzione delle categorie oggettivate del capitale a pure relazioni di volontà, che in seguito potevano essere osservate ed indagate sotto aspetti diversi. La storia del dopoguerra della nuova sinistra è stata, tutta quanta, permeata da tale paradigma. Questa soluzione del dibattito sul collasso venne semplicemente adottata, in maniera del tutto irriflessa e senza che fosse soggetta alla minima analisi critica; ed è stato proprio per questo che non solo il concetto di collasso, come parola non grata, si è trasformato in un mero fantasma, ma anche la strada verso un ulteriore sviluppo della critica dell'ontologia del lavoro è rimasta ostruita, ed i concetti abbastanza tematizzati di reificazione e di alienazione non sono andati al di là di una superficiale formulazione socio-filosofica.

Il piano della costituzione sociale, il problema della costituzione del feticcio e del "soggetto automatico", doveva così continuare a non essere elaborato, e perfino espressamente rifiutato. Nonostante le apparenze esteriori, una simile tendenza non è stata contrastata nemmeno dalla corrente del dibattito sullo strutturalismo di Althusser. Althusser ha fatto rimanere il "soggetto proletario" in uno stato perfettamente irriflesso, ma spogliato della sua enfasi e ridotto ad un "esecutore" di processi strutturali. Tuttavia, come si è già detto, anche Pannekoek era arrivato a quel punto, che in fondo è stato anche il presupposto implicito o esplicito di ogni "materialismo storico". Il polo opposto operaista ha solo costituito il rovescio della stessa medaglia. Non è un caso che sia Luis Althusser che Toni Negri abbiano respinto espressamente tanto il concetto di feticcio quanto ogni argomentazione di Marx edificata su tale concetto. In questo modo, unitamente al problema del limite interno oggettivo della valorizzazione, anche la forma sociale del soggetto e la sua sostanza (del lavoro) sono state definitivamente cancellate come possibili oggetti della riflessione e della critica radicale.
La crisi e la critica, l'illusione politica e la relazione di dissociazione sessuale
La soggettività riduzionista delle categorie veniva politico-economicamente giustificata con lo sviluppo del capitalismo stesso, visto allora come un capitalismo "organizzato" (Hilferding). I problemi della valorizzazione, in realtà derivanti da un processo secolare di desustanzializzazione del valore stesso, che veniva potenziato dagli interventi statali a partire dalla fine del 19° secolo (con i successivi impulsi dell'economia di guerra dell'epoca delle guerre mondiali e più tardi della regolazione fordista  nella seconda metà del 20° secolo), apparivano più che altro come "rimozione della legge del valore", attraverso il preteso comando diretto della politica e della gestione dei conglomerati imprenditoriali sulla riproduzione capitalista. Questa rappresentazione assilla ogni ambito dei modelli interpretativi comunque classificati con l'etichetta di "marxismo occidentale" e che pretendono di andare oltre lo "economicismo" del marxismo tradizionale - quando in realtà rappresentano solo il rovescio soggettivo-ideologico della stessa medaglia.

In questo modo si estende e si potenzia l'illusione politica, nello stesso identico modo in cui essa aveva caratterizzato il marxismo del vecchio movimento operaio fin dall'inizio. La "lotta per il riconoscimento", sul terreno del lavoro astratto e quindi della socializzazione del valore, in realtà, proprio a causa della sua limitazione, poteva essere condotta soltanto in forma politica, in quanto la politica non è altro che la "sfera del trattamento" secondaria dei problemi sociali continuamente causati dalla relazione di capitale. Tale sfera, secondo il suo proprio concetto, presuppone come positiva la valorizzazione del valore, in quanto viene considerata una componente immanente del valore come forma sociale. Qualsiasi contrapposizione dell'economia e della politica che si distingue a partire da questa differenza e che suppone le due sfere come reciprocamente esterne, senza riuscire a comprendere la loro interconnessione [übergreifenden Zusammenhang] nella relazione del valore e nella sostanza del lavoro, rimane decisamente ridotta e sfocia in una qualche variante dell'illusione politica. La politica, secondo il suo proprio concetto, è relazionata con lo Stato, ma lo Stato come categoria e come dispositivo concreto rappresenta il meccanismo del trattamento politico del capitalismo, che di per sé non può portare oltre il fine in sé della valorizzazione del valore, in quanto non è altro che una semplice funzione di questa coazione (le frizioni nel decorso del processo di trattamento politico possono involontariamente liberare potenziali di critica, ma questo non cambia niente nello stato strutturale delle cose).

La comprensione del carattere di compromissione con il sistema dello Stato e della politica, presuppone tuttavia la comprensione della falsa oggettività delle categorie capitaliste in generale e la comprensione del carattere di fine in sé del "soggetto automatico". Da qui ne risulta una critica dello Stato del tutto differente da quella del marxismo tradizionale. Il parlare di Stato come "comitato di gestione degli affari della borghesia", così come viene usato occasionalmente anche da Marx e come si è consolidato alla fine nel concetto di "Stato di classe", è assai miope ed è l'espressione di una soggettivazione sociologistica. Le classi non determinate nei loro presupposti, ma nella realtà categorie derivate dalla relazione di feticcio che vengono adottate come soggetti senza presupposti, sembrano allora sussumere sotto questa soggettività sociologica, come loro ultima base, tutte le categorie della riproduzione del capitale. Proprio per questo, però, le categorie lavoro, valore, Stato, politica, ecc. sono ontologizzate, in quanto vengono definite come oggetti della critica solamente in conseguenza dei loro attributi, come "lavoro (trans-storico) sfruttato dal capitale", "valore di cui si appropriano i dominanti (plusvalore)", "Stato della borghesia", ecc., di modo che si vorrebbe immaginare un "lavoro libero", un "valore di cui ci si appropria con autodeterminazione, cioè, giustamente ripartito", uno "Stato proletario" e, nota bene, una "politica emancipatoria".

La falsa soggettivazione era già insita nell'ipostasi del concetto di classe sociologicamente ridotto, come preteso punto di partenza di tutta la riflessione (mentre Marx comincia dalla forma della cellula capitalistica valore, con la determinazione della riproduzione in forma feticista, e non dalla classe sociologica). Nel marxismo tradizionale, tuttavia, le categorie della critica dell'economia politica sviluppate da Marx, che non esprimono altro che l'oggettivazione negativa della costituzione del feticcio, del "soggetto automatico", conducono per qualche tempo una propria vita fantasmatica e producono quei dibattiti sullo sviluppo capitalista, tendenze alla crisi ed al collasso, che rimangono sistematicamente non mediate con la problematica delle "classi" e della loro "politica", che viene supposta come "autentica"; di qui anche l'andare a finire e a fallire nella non risolta questione astratta della struttura-soggetto-oggetto.

Nella misura in cui il movimento operaio - nella sua "lotta per il riconoscimento" come soggetto del lavoro, del diritto e della cittadinanza statale, che assumeva necessariamente una forma politica - ha avuto successo, si è trasformato esso stesso in soggetto borghese, dentro la "gabbia di ferro" (Max Weber) della socializzazione del valore. Il suo successo è stato simultaneamente un'autocondanna alla forma feticcio, e la politica è rimasta il veicolo di un tale incantesimo. L'ascesa del movimento operaio, il suo successo nella "lotta per il riconoscimento" (un successo scritto col sangue, in quanto ha incontrato la sua realizzazione nella prima guerra mondiale - il pieno riconoscimento è arrivato insieme al sacrificio di sangue sull'altare della nazione borghese) e l'ascesa dell'intervento statale hanno camminato mano nella mano. Cosa ci può essere di più ovvio che portare ora a termine la soggettivizzazione delle categorie, fraintendere definitivamente la politica come forma di emancipazione e giustificare tutto questo con lo sviluppo stesso del capitale?

La teoria del "capitalismo organizzato", della pretesa "soppiantazione della legge del valore" e del "comando politico" sulle categorie reali del lavoro astratto e del valore ha solo continuato, da un lato, la classica tendenza della socialdemocrazia a "raggiungere gradualmente" e senza rotture il "socialismo" di un'auto-polverizzazione aututodeterminata in una società industriale o "fabbrica sociale totale"; dall'altro lato, a portato fino in fondo la soggettivizzazione e si è così resa suscettibile anche di dar luogo ad interpretazioni da sinistra radicale, che tuttavia sono rimaste sedute sulla medesima logica. Questo si applica tanto alla teoria di Horkheimer e di Adorno dello "Stato autoritario", che si presume agisca al di là della legge del valore, quanto per le successive posizioni operaiste. In ogni caso, volere che il preteso regime di comando politico sul lavoro astratto/forma del valore sia rappresentato come positivo (socialdemocrazia), volere (non in ultimo sotto l'impressione del nazionalsocialismo) che venga inteso come "fatalità" (Horkheimer/Adorno), o averlo raffigurato come pura "determinazione di volontà" del nemico di classe, che doveva sfidare e mobilitare sempre e di nuovo la "contro-volontà" del proletariato (Negri-Operaismo) - davanti a questo sfondo, quando tutto si dissolve nella "politica", non è più pensabile un limite interno oggettivo. Con questo, tuttavia, l'apparente "soppiantazione" delle teorie del collasso divengono identiche all'illusione politica finita, con un orientamento del pensiero di emancipazione verso la sfera della funzione politica della modernità capitalista.

E' a ragione che Giacomo Marramao, negli anni 70, richiama l'attenzione sul fatto che "sono precisamente i teorici dell'austromarxismo che aprono nel marxismo europeo quella 'stagione della soggettività' che consiste in una lettura rinnovata, militante, delle opere di Marx, attraverso il filtro di determinati temi del neo-kantismo". Assolutamente non a caso, gli attivisti radicali di sinistra dell'operaismo e di correnti similari degli anni 70 (ed in parte anche oggi) invocano nelle loro analisi teoriche proprio il teorema di Hilferding del "capitalismo organizzato". Quest'orientamento generale ha avuto come conseguenza, però, come di seguito constata Marramao, "sia nell'insieme degli austromarxisti neo-kantiani, sia nell'insieme dell'ala maggioritaria del comunismo di sinistra, una restrizione gnoseologica a quella sfera che in Marx è determinata dalle relazioni sociali di produzione. Il postulato del momento soggettivo (etico-universalista) corrisponde all'analisi sociologico-empirica del "multiplo o del reale". Invece di rendere riconoscibili le leggi che determinano le tendenze del modo di produzione, l'analisi economica si perde così in un esercizio di micro-sociologia" (Marramao).

Questa comprensione critica finisce però per sviluppare un singolo elemento, e non ha potuto impedire che il mainstream della nuova sinistra si sia trasferita nelle varianti della falsa soggettivazione di Negri. Il che si ritrova anche nella stessa argomentazione di Marramao, dal momento che non raggiunge il problema della costituzione-feticcio, né la soluzione del dilemma-soggetto-oggetto, ma è essa stessa a partire a priori dalla riduzione deconcettualizzata alla politica; l'obiettivo del suo saggio, chiarito già fin dall'inizio, stava dentro "la prospettiva di una nuova complessa definizione di una politica adeguata alla situazione dei paesi tardo-capitalisti". Questo ricorda fatalmente Christoph Deutschmann, in cui l'approssimazione al problema del limite oggettivo in quanto desustanzializzazione si trasforma anche immediatamente nel paradigma del trattamento politico; quello che in Deutschmann appare sul piano delle categorie del capitale, come "politica economica", in Marramao si trasforma nell'astrazione vuota della "politica" in generale, sul metapiano del problema-soggetto-oggetto.

E così è rimasto fino ad oggi. Sia il post-operaismo di Negri, che da un po' di tempo a questa parte ha fatto nuovamente furore (per lo meno nei supplementi culturali), che la sinistra postmoderna in termini generali, ma anche posizioni del marxismo tradizionale della "lotta di classe", rimangono attaccati ad un concetto tanto diffuso quanto inflazionato di "politica", degradato a frase vuota. Non sanno nemmeno di quale storia siano il risultato. La politica viene equiparata in qualche modo all'intervento in generale, passando al lato delle categorie, che sono più che mai degradate ad un mero rumore di fondo. Quello che in Pannekoek era ancora pensato con poca chiarezza, si è concluso con l'instupidimento categoriale della sinistra. Si invocano i soggetti o il "soggetto" puro e semplice, la forma non è niente e la volonta, tutto. Indifferenti al lavoro astratto, alla sostanza del valore ed alla forma del valore, allo sviluppo ed alla crisi, si pretende di mobilitare negli esseri umani con una falsa immediatezza tutto quello che in qualche modo non "s'incastra" nella valorizzazione del valore, come se questo fosse possibile senza la mediazione della critica della forma del soggetto e della sua sostanza sociale. "La capacità di intervento" è tutto, e proprio per questo non dà mai niente. Nei media di sinistra, che sono determinati da questo contesto politico inflazionario, vuoto e sbiadito, l'idea di un limite interno oggettivo provoca solo una sorta di grugniti e, un mese sì ed uno no, si celebra l'estremo saluto ai "teorici del collasso". E questi grugniti diventano tanto più ringhi e catarri quanto più penosamente e regolarmente "l'intervento politico" si ridicolizza fino al midollo.

E' tempo perso voler presentare a questi mezzi di comunicazione, che non sono altro che gli ultimi Mohicani della storia marxista, una riformulazione della riflessione categoriale, in quanto essi stessi non compiono alcun passo in questa direzione, dando priorità di fronte a questo al loro comportamento da lemming dell'interventismo politico. Tuttavia, la riflessione categoriale può anche essere sviluppata indipendentemente dalla capacità di ricezione da parte di questi illusionisti politici del sociale allo stadio terminale. Riprendiamo la discussione al punto in cui il dibattito storico ha collassato nella soggettivazione delle categorie. Qual è il senso in cui il problema si pone di nuovo, se l'ontologia marxista del lavoro viene criticata e superata, cosa che da parte sua condurrà ad una nuova definizione del sistema categoriale del lavoro astratto?

Nonostante la sua riduzione alla sociologia delle classi e alla politica, il marxismo tradizionale può vivere con l'oggettivazione delle categorie che vengono positivizzate e trasformate in oggetti ontologici di un trattamento politico ridotto agli attributi, il cui risultato finirebbe per essere la soggettivizzazione categoriale totale; il punto di partenza di questa soggettivizzazione era costituito dalla discussione intorno alla teoria del collasso, che ha condotto alla paralisi nell'insolubile aporia-soggetto-oggetto. Il ritorno alle categorie dopo il passaggio dalla critica radicale dell'ontologia del lavoro non può più intendere positivamente la connessione categoriale del lavoro astratto, ma solo negativamente (come spiegato nella prima parte di questo studio). Ma con questo si colloca in maniera differente anche il problema-soggetto-oggetto nel contesto della questione della crisi e del collasso. Il soggetto e l'oggetto non possono più essere relazionati in maniera semplicistica come unità positiva, ma devono essere percepiti in primo luogo nella loro rottura [Zerrissenheit].

Logicamente la questione della crisi e del collasso era allora basata puramente sul piano dell'oggettivazione falsa, negativa, e del movimento categoriale autonomizzato della dinamica capitalista. La questione della crisi e del collasso deve pertanto essere rigorosamente separata dalla questione dell'emancipazione. In primo luogo, entrambe sono separate concettualmente e realmente, così come la società-feticcio moderna si costituisce in generale secondo polarità autonomizzate opposte. L'emancipazione può essere solamente cosciente; crisi e collasso, al contrario, secondo il loro stesso concetto, possono avvenire soltanto nel corso di un processo inconscio di sviluppi oggettivati e non hanno immediatamente a che vedere con l'agire cosciente. Quindi il capitalismo può collassare senza che gli esseri umani si emancipino. Il risultato sarebbe l'auto-annichilimento dell'umanità, o la "caduta nella barbarie", alternativa sottolineata metaforicamente da Marx. Il concetto è problematico e di provenienza eurocentrica, ma è quello più incline a segnalare una possibilità, ultima, di oggettivazione negativa. Così, infatti, si possono vedere in televisione le "catastrofi di natura sociale", finché non arriva la propria, ma non la propria emancipazione dal contesto che provoca tali catastrofi. Al contrario, gli esseri umani in linea di principio posson emanciparsi senza che il capitalismo collassi. Questo collasso non è in alcun modo una pre-condizione sociale indispensabile all'emancipazione, ma può, nella sua cieca oggettività, divenire la condizione dell'ambito sociale del pensare e dell'agire emancipatori, se la trasformazione emancipatoria si dovesse fare attendere per troppo tempo e venisse data al capitalismo l'opportunità di sviluppare completamente le sue contraddizioni interne. Critica e crisi sono quindi come le calzature di due paia di stivali, e calzarne una di ciascun paio e voler correre in questa falsa unità significa inciampare nei propri piedi.

In questa prospettiva diventa del tutto impossibile un'affermazione come quella di Paul Mattick, che unisce in maniera semplicistica entrambi i poli e astrae dalla loro rottura [Zerrissenheit] in favore di un monismo non mediato di soggetto ed oggetto: "La conoscenza teorica per cui il sistema capitalista, a causa delle contraddizioni che lo spingono, può solo sfociare nel collasso non obbliga per questo all'opinione che il collasso reale sarebbe un processo automatico, indipendente dagli esseri umani" (Mattick). La formula impotente di collasso "reale, come se ce ne fosse uno autentico ed un altro non autentico, si riferisce solo al fatto che non si è arrivati al fondo del problema. Sia la tendenza secolare al collasso, in quanto desustanzializzazione o svalorizzazione del valore, sia anche un processo reale di collasso, alla fine della capacità di sviluppo capitalista, sono in realtà nella legalità sistemica un "processo automatico", in quanto gli esseri umani agiscono conformemente alla determinazione della forma capitalista; ma da questo non consegue mai "automaticamente" un'altra società, emancipata.

Fino a questo punto il problrma è stato discusso altrove. Ma con ciò non si è ancora esaurita la collocazione della questione, anche se ha quanto meno contribuito a disfare la distorsione del problema-soggetto-oggetto nel contesto della problematica della crisi e del collasso. Si potrebbe tuttavia obiettare che, con l'accento posto sulla rigorosa oggettività della tendenza della crisi e del collasso, in contrapposizione alla critica e all'emancipazione, il problema ha finito per essere di nuovo oggettivato, dal momento che qui quello che viene messo in discussione non è l'oggettività dei processi della "prima natura" effettiva, ma l'oggettività di una pseudo-natura sociale, che in ultima analisi dev'essere mediata da azioni umane. Dal momento che non ci può essere altro modo, la questione da porre di seguito è evidentemente quella della mediazione "soggettiva" dell'oggettività sociale, anziché soggettivizzare questa oggettività in maniera non mediata (come fa, in gran misura, il marxismo della sociologia delle classi ed in particolare il comunismo di sinistra/operaismo); oppure fraintenderla come oggettività nel senso delle scienze naturali (come fa la dottrina dell'economia politica). In fondo si tratta del medesimo problema che nelle scienze sociali borghesi si è da sempre costituito come opposizione fra teoria della struttura e teoria dell'azione.

Una volta che in ultima analisi tutte le manifestazioni, categorie e processi sociali non sono prodotti né condotti da nessuna "cosa dall'esternO", ma si riferiscono ad azioni ed a decisioni umane, alloraa non c'è davvero alcun determinismo in generale, almeno assoluto. Tutto ciò che è avvenuto e che accade, inclusa l'oggettivizzazione della "seconda natura", è determinato da azioni e decisioni. La pura oggettività di un processo storico e la filosofia positiva della storia su di esso costruita è sempre un'interpretazione ex post, la quale glorifica come "necessità" un percorso semplicemente reale (in Hegel, elevato a sistema e poi semplicemente "rovesciato" nel cosiddetto materialismo storico). In realtà tutti i processi storici sono sempre in qualche misura aperti ed indeterminati, quando non sono state prese decisioni né sono state eseguite azioni. Similmente a quel che avviene per le spiegazioni popolari della fisica quantistica, si può rappresentare la storia come una nube di probabilità di possibilità indeterminate, che solo al momento di agire si consolidano in realtà storica.

Ma, prima, ci sono azioni e decisioni di portata diversa; in secondo luogo, le azioni e le decisioni costituiscono una connessione a catena, di modo che una volta eseguite non possono più essere annullate. E in questa misura tutte le azioni si trovano sempre legate ai risultati delle azioni precedenti, e sono da queste condizionate. In quanto la società umana non raggiunge una coscienza propria come "associazione di liberi individui", che co-riflette sempre sulle condizioni e sulle conseguenze della sua azione sociale e che, con una decisione libera e cosciente, decide sulla realizzazione delle sue possibilità, anche le connessioni in catena tornano sempre ad addensarsi in modelli ciechi di azione, nella matrice di una "seconda natura" che si autonomizza nei confronti degli individui e si presenta a loro come una "cosa esterna".

In termini generali, questo potrebbe essere definito come costituzione del feticcio, dal momento che tutta la storia fino ad oggi è stata la storia delle relazioni di feticcio. Una simile matrice è quella che Marx designa come modo di produzione storico ed il cui concetto può essere allargato a modo di vita e di produzione; nella scienza storica borghese si parla spesso di culture, nel marxismo a volte anche di formazioni sociali. Ricorrendo ancora una volta ad una comparazione con la fisica, si può anche parlare di campo storico. Si tratta qui proprio di quello che all'inizio di questo studio è stato criticato come deficit sistematico di percezione del pensiero postmoderno, che vede la contingenza in azione in maniera quasi indifferente, senza sviluppare un concetto di questi campi storici e delle differenze delle rispettive matrici. Il pensiero postmoderno è non storico, proprio in questo senso di intendere la contingenza come meramente diffusa.

Ma una volta costituito un tale campo, questo limita la contingenza, che finisce per essere ridotta alle possibilità all'interno della sua matrice. Pertanto nella contingenza storico-sociale dobbiamo confrontarci con due distinte nuvole di probabilità; una, è la nuvola di probabilità di ordine superiore della storia, a partire dalla quale i campi storici, o formazioni, si condensano, e, l'altra, una nuvola di probabilità secondaria, a partire dalla quale la storia interna di tale campo si sviluppa secondo il modello della sua specifica matrice.

Naturalmente, va detto subito che questa concettualità, pur rappresentando una generalizzazione , è dovuta interamente all'esperienza criticamente elaborata della costituzione sociale capitalista moderna. Per l'investigazione di stadi precedenti e della storia anteriore nel suo insieme in quanto "storia delle relazioni di feticcio", bisogna che venga aggiunta solamente una prudente pretesa euristica, ma nessuna nuova ideologica "filosofia della storia". E' pertanto necessario evitare gli errori della filosofia dell'illuminismo e del materialismo storico, entrambe le quali - in un caso affermativamente, nell'altro con intento critico - hanno ontologizzato trans-storicamente le categorie capitalistiche moderne, con le quali il materialismo storico ha rivestito la storia di una logica di sviluppo dinamico, come "dialettica delle forze produttive e relazioni di produzione", che nella realtà caratterizza soltanto il capitalismo, la moderna socializzazione del valore.

Fra tutti i campi storici, quello capitalista della modernità è l'unico la cui matrice abbia prodotto la dinamica interna di un processo cieco di contraddizione nella realizzazione del modello di azione e, insieme a questo, un'oggettività della seconda natura che può provocare un collasso oggettivo; al contrario di quanto avviene in tutte le costituzioni pre-moderne, come ad esempio nei campi storici delle società agrarie, nelle quali l'oggettività feticista non si è configurata in alcuna dinamica interna di questo tipo. Perciò anche la società capitalista è l'unica ad aver portato, in forza di questa dinamica distruttiva, ai limiti di una "storia delle relazioni di feticcio" e ad aver reso possibile la conoscenza del carattere di feticcio in generale; tuttavia, assolutamente in maniera non positiva, come coronamento di una necessaria "storia del progresso", bensì in modo puramente negativo, come problema di una dinamica interna del collasso specificamente appartenente a questo campo storico.

In questo contesto (nuovamente generalizzabile storicamente solo in maniera limitata), ci si deve ora interrogare sul carattere differente della nuvola di probabilità delle possibilità di azione e di decisione. La contingenza si presenta in modo differente, a seconda se ci poniamo sul piano della costituzione del campo storico come tale, o sul piano della storia interna. Non c'è nessun processo di necessità storica, a partire dal quale il capitalismo come formazione storica "doveva nascere", ma una sorta di alterazione climativa nella nuvola di probabilità delle possibilità di azione, quando la contingenza ha raggiunto uno stadio in cui un determinato campo storico della società agraria cominciò a decomporsi. In questa decomposizione, la peste svolse un ruolo, ma lo svolse più ancora la rivoluzione militare delle armi da fuoco, nei primordi della cosiddetta età moderna; la spiegazione dettagliata di questi sviluppo costituisce un tema proprio e non è qui il caso di approfondirla. Ma è importante la constatazione per cui con questo si verificò nella nuvola di probabilità della storia la possibilità di un salto qualitativo nelle condensazioni di azioni e di decisioni, di un passaggio alla costituzione di un nuovo campo storico, la cui natura inizialmente rimaneva ancora indeterminata.

In questa fase di trasformazione sarebbe stata possibile anche la costituzione di un nuovo campo del tutto differente da quello del capitalismo. Oppure che la condensazione della nuvola di probabilità del campo capitalista si poteva fermare ad un detereminato livello di sviluppo, trasformandosi in un'altra configurazione. Questo diventa particolarmente chiaro in tre punti storici. Le guerre contadine del 15° e 16° secolo hanno rappresentato una rivolta contro la costituzione iniziale della matrice capitalista, quando questa si trovava solamente in una formazione embrionale; se fossero state vittoriose (la loro sconfitta non era in alcun modo "necessaria") allora si sarebbe costituita un'altra matrice a partire dalla nuvola di probabilità; anche se presumibilmente non ci sarebbe stato un soppiantamento della storia delle relazioni di feticcio, ma sempre un altro nuovo campo storico, con un altro modello di azione che non quello capitalista. I movimenti sociali e le rivolte del 18° secolo e dell'inizio del 19° si trovavano già impregnati della matrice capitalista in formazione, ma anche così contenevano la negazione del lavoro astratto; se fossero stati vittoriosi ( e la loro sconfitta non era in alcun modo "necessaria"), allora la costituzione capitalista si sarebbe fermata in quel punto e la nuvola di probabilità avrebbe assunto un'altra qualità nella sua condensazione. Il movimento operaio moderno classico della fine del 19° secolo, alla fine, aveva già interiorizzato ampiamente nella pratica il modello di disciplinamento del lavoro astratto, ma allo stesso tempo, attraverso la ricezione della teoria di Marx, che per la prima volta aveva tematizzato in critica radicale il concetto non solo del lavoro astratto e della forma del valore, ma anche della relazione di feticcio in generale, si era riempito della possibilità di una rottura cosciente; molto brillante, per inciso, nei primi programmi ed intenzioni marxiste, che nella realtà non tardarono ad essere abbandonati - ma anche questo non era assolutamente "necessario". Anche in questo caso, la costituzione capitalista poteva ancora essere fermata e poteva essere dato inizio ad una trasformazione, la quale sarebbe stata sicuramente accompagnata da violente frizioni, ma non per questo sarebbe stato "impossibile" (sarebbe stato sconfitto il problema del lavoro astratto, cioè, il movimento di trasformazione avrebbe dovuto emanciparsi da questa matrice per mezzo dello sviluppo della critica, e con essa degli stessi momenti di interiorizzazione).

Proprio perché a questo punto di rottura la nuvola delle probabilità si era condensata in decisioni concrete, in nessun modo definite a priori, che risultavano essere sempre più a favore di un consolidamento maggiormente ampio e di uno sviluppo del campo capitalista, la dinamica della contraddizione capitalista poteva continuare a sviluppare la sua logica di un movimento oggettivo delle categorie autonome, sulla base della matrice costituita. La contingenza che rimaneva ancora sempre in una nuvola di probabilità di second'ordine, in una storia interna al campo capitalista, era allora a sua volta determinata dal punto di vista della logica dello sviluppo generale; all'interno di questo determinismo del campo d'insieme, tuttavia, tutte le decisioni e tutte le azioni realizzate rimanevano aperte ed indeterminate. Così, per esempio, la costituzione ritardata dello Stato nazionale tedesca, nel 19° secolo, non dove necessariamente avere successo, ciascuna delle parti del successivo impero tedesco avrebbe potuto integrarsi in un'altra struttura statale, e all'umanità sarebbero state risparmiate molte cose (ugualmente, al contrario, poteva aver luogo la costituzione di questa stessa nazione con l'inclusione dell'Austria). Né la vittoria del nazionalsocialismo, né la conseguente storia di catastrofi erano forzatamente o "storicamente necessarie"; anche con uno sviluppo più approfondito del campo capitalista, l'umanità non doveva necessariamente sopportare incondizionalmente queste esasperazioni, nella barbarie, del potere all'interno del capitalismo.

Qui, però, non si tratta della contingenza della storia all'interno del capitalismo, ma della questione della logica del collasso che si riferice inequivocabilmente al campo capitalista in quanto tale. Se la dinamica della contraddizione del capitalismo contiene in sé una tendenza al collasso, allora questo  è il risultato di questa oggettivazione del campo con tali qualità. Anche la costituzione di quest'oggettivazione delle categorie e della loro cieca dinamica di collasso, in quanto processo logicamente determinato, è di fatto determinata dalle azioni umane ed è realizzata dalle azioni umane; ma non dalle azioni e dalla loro intenzionalità immediata, ma dal fatto che queste stesse azioni, in un processo incontrollato, hanno prima fatto una matrice, un quadro di azione, che si è oggettivato nelle categorie sociali e ha dato luogo ad una dinamica di contraddizione che si è autonomizzata; e nella misura in cui il successivo agire si realizza dentro queste categorie e secondo questa matrice, gli esseri umani, senza che siano coscienti di questo e senza che su questo abbiano controllo, mettono in moto essi stessi il motore categoriale dell'autocontraddizione e del programma del collasso, fino a che non vengono conseguiti i rispettivi risultati. Il "soggetto automatico" non è altro che l'auto-movimento delle categorie reali capitaliste, che sono state create inconsciamente dagli esseri umani e che si mettono in movimento in maniera autonomizzata proprio perché gli individuo realizzano la propria vita in queste categorie, senza voler immaginare niente di diverso per sé e cercano ad ogni costo la loro felicità nella soddisfazione delle esigenze prodotte da questa matrice.

La tendenza al collasso è pertanto oggettivamente determinata dal fatto che gli esseri umano organizzano soggettivamente il loro agire secondo la matrice capitalista istituita, ossia, costruiscono e riproducono sempre più il sistema di lavoro astratto e della sua forma valore, fino per così dire ad impiccarvisi. Vale a dire, quanto più i soggetti agiscono, lottano e si muovono, senza mettere in discussione la matrice di un tale agire, lottare ecc., il sistema di lavoro astratto, senza neppure che essi lo percepiscano come problema, tanto più sono essi stessi a mettere in moto il meccanismo dell'orologio del "collasso automatico". Essi non lo vogliono, non lo sanno, ma lo fanno semplicemente perché non immobilizzano la macchina sociale del "soggetto automatico" prodottasi nella lunga catena storica di azioni e sempre più sviluppatasi nella sua dinamica di contraddizione. Quanto più è soggettivo, tanto più è oggettivo - quest'enigma della moderna struttura-soggetto-oggetto si risolve sulla base delle concettualizzazioni della costituzione del feticcio e del campo storico o della sua matrice.

La conseguenza della conoscenza della tendenza al collasso automatico è perciò esattamente il contrario del fatalismo, vale a dire una qualità completamente nuova della stessa critica radicale. La falsa soggettivazione delle categorie, l'insistere sulla pretesamente libera capacità di azione del soggetto, generalmente contingente alle categorie, porta sicuramente di più all'automatismo oggettivo del collasso, in quanto la stessa matrice dell'agire viene ignorata ed è da criticare. Viceversa, la conoscenza del carattere di quest'automatismo di collasso porta alla critica delle categorie in sé e della matrice che ad esse sottende, porta quindi ad una radicalità che va più in profondità, che è necessaria per trasformare il campo storico.

Ma la matrice appartiene non solo alla forma ed alla sostanza del lavoro astratto, essa appartiene anche al portatore d'azione di questa connessione sistemica cieca, che mette in moto il "soggetto automatico" attraverso il suo proprio modello di azione pre-strutturato - il soggetto. Tale soggetto può essere definito come trans-storico e ontologico altrettanto poco di quanto possa essere così definito il lavor astratto. Il soggetto rappresente assai più il moderno portatore di azione del lavoro astratto e delle sue funzioni derivate - egli non è altro che la forma sociale dell'agire negli individui stessi: forma di percezione, forma di pensiero, forma di relazionamento, forma di attività. Pertanto, non bisogna chiedersi come si configura la nuova qualità della critica attraverso il soggetto, ma questa nuova qualità implica la critica del soggetto stesso: la critica della "forma soggetto", che non è altro che la moderna forma capitalista dell'agire. Questo può forse essere difficile da concepire dal momento che siamo abituati a pensare le azioni e le decisioni in generale soltanto nella categoria del soggetto. Ma è precisamente in questo che consiste l'impostazione nella matrice capitalista. Critica del soggetto non significa abbassare le braccia e arrendersi al fatalismo bensì, proprio al contrario, una nuova qualità della propria lotta, che si pone coscientemente l'obiettivo della rottura con la matrice capitalista.

Decisivo, ai fini di una critica radicale della "forma soggetto", è anche la conoscenza della struttura di tale soggetto. Esso non è di fatto lo "essere umano" in quanto tale, ma il soggetto maschile bianco occidentale (MBO) della modernità. Qui bisogna tornare ancora una volta alla concettualità spezzata dell'astrazione reale del lavoro, assunta nella prima parte di questo studio in connessione con la teoria della dissociazione di Roswitha Scholz. L'astrazione reale si trova sempre, non solo accidentalmente o empiricamente, bensì in accordo dalla sua determinazione essenzialmente logica, unita alla dissociazione sessualmente determinata dei momenti di riproduzione sociale materiali, socio-psichici e cultural-simbolici, che non rientrano nel lavoro astratto/forma valore. Questa dissociazione non dev'essere intesa (e in tal modo malintesa) come "sfera" separata (ad esempio, semplicemente come "privacy") o come dominio subordinato, ma come momento essenziale globale, trasversale a tutte le sfere, in quanto si fonda sul piano della logica di base o della matrice stessa. La totalità capitalista non è quindi una totalità monistica, coerente, come ad esempio appare in Moishe Postone, bensì, in quanto deve sempre essere pensata insieme alla struttura di dissociazione, una totalità spezzata, che in sé non è coerente (cosa che implica una critica fondamentale del concetto hegeliano di totalità).

Per questo la dissociazione, come momento della struttura essenziale del lavoro astratto, deve essere trovata nei soggetti di questa forma e sostanza. Le donne nella modernità sono sempre "doppiamente socializzate" (Regina Becker-Schmidt), esse sono in una certa qual misura solo a metà nella forma del soggetto, poiché devono anche sempre rappresentare e trattare simultaneamente la dissociazione, che viene a sua volta in qualche maniera spezzata e differenziata. La dissociazione si estende, in quanto momento essenziale, non solo attraverso tutte le sfere della riproduzione costituita dalla matrice capitalista, ma anche attraverso tutte le epoche della sua storia interna, con marchi diversi per ciascuna epoca, fino alla postmodernità (vedi, in dettaglio, Roswitha Scholz, 2000). La stessa cosa si applica all'umanità non bianca, non occidentale, che sotto le élite della modernizzazione non ha mai interamente raggiunto la forma moderna del soggetto, e perciò è sempre la prima a minacciare di fallire nella matrice capitalista, che viene ad essa presentata sotto un profilo di esigenza, senza che possa soddisfare alle condizioni a questo necessarie.

La nuova qualità della critica radicale che si accompagna alla soluzione del moderno dilemma-soggetto-oggetto (e non solo) nella teoria della crisi e del collasso, esige per questo non solo una critica dell'ontologia del lavoro, ma anche una critica del soggetto, come portatore di azione di quest'ontologia; e non solo una critica del soggetto, ma anche una critica della struttura di dissociazione ad esso legata da una logica essenziale. Una "critica del lavoro" riduzionista, che oirta avanti solo a metà la critica del soggetto (cioè, ad un concetto di soggetto sessualmente neutro) e che ignora la logica della dissociazione, oppure la degrada a qualcosa di meramente storico-empirico, rimane sotto l'egida del MBO ed è condannata al fallimento. Solo una critica radicale che comprende in ugual misura il lavoro astratto, la forma soggetto e la dissociazione sessualmente determinata può ottenere la forza di impatto ai fini di un soppiantamento dell'ontologia del lavoro, e insieme ad esso della matrice del campo capitalista. Inoltre, per inciso: il contenuto della critica non può essere solo l'eterna invocazione del soggetto nelle categorie o insieme alle categorie, ma semmai la critica e perfino la distruzione pratica della matrice categoriale e insieme ad essa del soggetto, dello stesso MBO, maschio bianco occidentale.

Pubblicato sulla rivista Exit!, 2/2004
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