8/1/16

Moneta, finanza e crisi — Marx nel circuito monetario

Marco Veronese Passarella   |   Fin dalla pubblicazione postuma del Terzo Libro de Il Capitale, il dibattito “economico” attorno alla grande opera incompiuta di Karl Marx si è concentrato prevalentemente sul cosiddetto problema della trasformazione (dei valori-lavoro in prezzi di produzione), nonché sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. In altri termini, è soprattutto sulla possibile frizione tra Primo Libro e (prima e terza sezione del) Terzo Libro che si è storicamente focalizzata l’attenzione dei più, dentro e fuori le mura accademiche. Per contro, ad eccezione dei capitoli finali dedicati agli schemi di riproduzione,1 il Secondo Libro de Il Capitale è stato a lungo trascurato. Peggior sorte è toccata alla quinta sezione del Terzo Libro, dedicata al credito, al capitale fittizio ed al sistema bancario. In effetti, se l’analisi delle due forme – mercantile e capitalistica – della circolazione è stata solitamente sminuita a sorta di breve introduzione al problema dell’individuazione dell’origine del plusvalore (problema affrontato compiutamente da Marx nel Primo Libro), il ruolo della moneta, del credito e della finanza nell’ambito della teoria marxiana, laddove contemplato, è stato quasi sempre ridotto a quello di amplificatori del ciclo economico.2 
Introduzione: l’altro Marx
Lungi dall’essere considerati elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico, e dunque di ogni modello analitico che aspiri ad indagarne le leggi di movimento, moneta, istituzioni creditizie e finanza sono state di norma assimilate a “frizioni” nell’ambito di un modello fondato sull’interazione tra grandezze “reali”. Paradossalmente, si tratta di una visione non dissimile da quella che ha permeato il pensiero economico dominante a partire dalla fine del diciannovesimo secolo.

È proprio in opposizione a tale visione “a-monetaria” che, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del novecento, alcuni studiosi francesi ed italiani hanno concepito e poi portato a compimento, in modo pressoché indipendente, un nuovo sistema teorico fondato sul riconoscimento esplicito della natura essenzialmente monetaria delle economie capitalistiche. Il riferimento è alla cosiddetta “Teoria del circuito monetario” (TCM, d’ora in avanti), nota anche come “Teoria monetaria della produzione”.3 La TCM costituisce il punto di approdo di un insieme di teorie e riflessioni economiche piuttosto eterogenee per matrice socio-politica, ma accomunate dall’enfasi posta sul ruolo della moneta quale istituzione fondamentale del capitalismo. In Italia, è soprattutto all’opera di Augusto Graziani che si deve l’elaborazione di una visione teorica e di un modello analitico radicalmente alternativi al paradigma di teoria economica dominante fino alla metà degli anni ottanta, in cui la moneta era appena un velo posto esogenamente sulle grandezze reali.4 Benché la TCM sia stata a lungo relegata nei “sottomondi eterodossi” del pensiero economico, l’affermazione recente della modellistica “Nuovo-Keynesiana” (New Keynesian), in cui la moneta viene riguardata come grandezza creata endogenamente dal sistema economico, rappresenta un (sia pure implicito, tardivo e assai parziale) riconoscimento della proficuità delle riflessioni monetarie dei teorici del circuito e, in generale, delle scuole di pensiero economico critico.5 L’importanza di quelle riflessioni non è, peraltro, confinata al solo dibattito teorico tra macroeconomisti, passato e presente, ma investe direttamente l’analisi più generale delle leggi di movimento di un’economia capitalistica. Su questo piano, il legame della teoria di Graziani con la riflessione di Marx, benché non sempre immediatamente riconoscibile, è nondimeno assai profondo.6 Si potrebbe, anzi, argomentare che la TCM, per lo meno nella sua trasposizione “italiana”, rappresenti una declinazione compiutamente marxiana della metodologia degli aggregati sviluppata da Keynes e dai sui allievi a partire dagli anni Trenta del Novecento.

Proprio della fecondità di tale approccio come schema di re-interpretazione delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave marxiana, e soprattutto come strumento di analisi critica del reale, a partire dai processi di finanziarizzazione in atto, si cercherà di dar conto brevemente nelle pagine che seguono. La riflessione verterà, in particolare, sulla funzionelogica dei mercati finanziari nel processo di creazione di valore sociale in una economia capitalistica (paragrafo 2) e sul ruolo paradossale da essi svolto nei paesi anglosassoni nell’ultimo ventennio quale causa ultima di fragilità finanziaria, instabilità e crisi (paragrafo 3). Seguiranno alcune considerazioni sul nesso tra finanziarizzazione e ridefinizione delle forme di sfruttamento del “lavoro vivo” nella sfera della produzione, nonché delle modalità di appropriazione del valore creato (paragrafo 4).
Circuito monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica
Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la TCM è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non riproducibile internamente. Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e interessi bancari.7

È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali contrapposti all’interno dello spazio capitalistico. Il livello di astrazione a cui i teorici del circuito si muovono è, infatti, se non quello massimo del capital en général (Primo Libro de Il Capitale), quello assai elevato della circolazione, rotazione e riproduzione del capitale (Secondo Libro de Il Capitale).8 Proprio l’adozione di tale livello di astrazione consente, inter alia, di mettere a fuoco il ruolo peculiare giocato dal sistema bancario, da un lato, e dai mercati finanziari, dall’altro, nell’ambito di un’economia monetaria di produzione. Spetta al primo, identificabile con la sotto-classe dei capitalisti monetari, il ruolo di “eforo” del sistema capitalistico.9 È, infatti, l’erogazione del finanziamento bancario che consente alle imprese di dare il via al processo di produzione e di scambio. Si noti, al riguardo, che in un’economia compiutamente capitalistica le banche non si limitano a trasferire risorse monetarie dai propri depositi ai capitalisti industriali, in forma di prestiti alle imprese.10 Ciò che contraddistingue le banche dalle altre unità socio-economiche è la loro capacità esclusiva di creare moneta-credito, mediante semplice annotazione contabile (ovvero mediante impulsi elettronici).11 Da un punto di vista logico, in assenza di tale atto di creazione ex nihilo, lo scambio “salario monetario verso forza-lavoro” non potrebbe darsi, e dunque l’intero processo di produzione e di scambio non potrebbe nemmeno essere avviato. Per contro i mercati finanziari rappresentano il luogo in cui le imprese, mediante emissione e collocamento di “titoli”, recuperano in tutto o in parte la liquidità (moneta bancaria) precedentemente immessa nel sistema in forma di massa salariale. Si tratta di due funzioni logicamente e temporalmente distinte, dato che l’una (la creazione di moneta bancaria) è precondizione per l’avvio del circuito dei pagamenti e, in presenza di razionamento del suo ammontare, concorre a determinare la scala della produzione, mentre l’altra (il rastrellamento dei risparmi dei lavoratori salariati tramite i mercati finanziari) segue logicamente tale processo ed è condizione per la chiusura del circuito.12 È questa la ragione per cui il flusso di moneta creato dalle banche a favore delle imprese in avvio di circuito viene solitamente denominato “finan-ziamento iniziale” (e corrisponde al “capitale monetario” di Marx), mentre la liquidità veicolata dai mercati finanziari alle imprese costituisce, assieme ai consumi dei lavoratori salariati, il “finanziamento finale” alle imprese (e costituisce la base del cosiddetto “capitale fittizio”). Quest’ultimo concorre a definire il grado di realizzazione monetaria, ossia di “validazione sociale” del valore creato nella produzione.13

In effetti, la TCM consente di far luce su alcuni aspetti controversi della teoria marxiana del valore. In primo luogo, tale approccio distingue chiaramente il momento dell’acquisto della forza-lavoro, quale prerequisito necessario per l’avvio del processo di produzione, da quello dell’acquisizione degli altri fattori produttivi che, come ogni acquisto di merci capitalisticamente prodotte, segue sempre logicamente tale processo. Si noti che è proprio nel procedimento di contabilizzazione dei fattori produttivi diversi dalla forza-lavoro (il cosiddetto “capitale costante” o, nel gergo degli economisti, i “beni capitale” o “intermedi”) nel valore delle merci prodotte che si annida quell’“errore”, imputato a Marx, che ha dato storicamente il via all’annosa diatriba sulla trasformazione. Eppure la TCM vale a chiarire che l’acquisto iniziale di beni capitale è appena un’“illusione ottica” generata, nella realtà, o comunque ad un minor livello di astrazione teorica, dalla concatenazione dei cicli produttivi. La parte di prodotto destinata a rimpiazzare i beni capitali consumati, ovvero ad investimento addizionale, viene sempre acquistata al termine di ciascun ciclo (per essere impiegata nel ciclo successivo). Ne deriva che il prezzo dei beni capitali corrisponde sempre al loro “prezzo di riproduzione”, e non al loro “costo storico”.14Il problema della misura della quantità di “lavoro morto” cristallizzato negli elementi del capitale costante viene, dunque, svuotato di significato.

In secondo luogo, la TCM dà sostegno alla teoria di Marx sull’origine del plusvalore dallo “scambio ineguale” tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, ove tale teoria venga correttamente intesa in termini macro-monetari. Il fatto è che, se si considera l’insieme delle imprese come un unico settore consolidato e aggregato (la classe dei capitalisti industriali), è evidente che nessuno scambio che avvenga al suo interno può contribuire alla valorizzazione del capitale anticipato. Detto diversamente, la compravendita di beni capitali rappresenta un gioco a somma zero, dal quale nessun plusvalore può derivare per le imprese (nel loro insieme). Come ribadito da Graziani, sulla scia di Marx, la “valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto”. Ecco perché, per Graziani, come per Marx, il profitto dei capitalisti “può nascere soltanto dalla differenza fra quantità di lavoro totale impiegato e quantità di lavoro che torna al lavoratore sotto forma di salario reale”. Come poi il plusvalore sociale creato (in potenza) nella produzione si distribuisca tra le imprese dipenderà, di volta in volta, dallo specifico sistema di fissazione dei prezzi relativi “che riguarda esclusivamente i capitalisti nei loro rapporti reciproci”.15
Moneta, finanza e crisi
Come è stato argomentato, sin dalla fine degli anni Settanta la finanza sembra aver assunto un ruolo centrale nel processo di produzione e riproduzione capitalistica, in particolar modo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sembrerebbe, anzi, che in tali economie il ruolo dei mercati finanziari non possa essere più confinato alla funzione ancillare e passiva loro assegnata dalla TCM.16 Anzitutto, l’aumento dei profitti realizzati dalle grandi corporation multinazionali, a fronte di investimenti “produttivi” relativamente modesti (anche prima delle due crisi finanziarie recenti), ha lentamente trasformato tali soggetti in creditori netti, ossia in rentier a caccia dei maggiori rendimenti derivanti dall’“investimento” in attività finanziarie. D’altra parte, il collocamento di titoli azionari e obbligazionari sui mercati finanziari ha gradualmente rimpiazzato il ricorso al credito bancario quale fonte privilegiata di finanziamento.17 In secondo luogo, il risparmio dei lavoratori salariati (le famiglie) è crollato verticalmente negli ultimi due decenni. Il ricorso crescente a carte di credito, credito al consumo e mutui immobiliari ha, anzi, progressivamente trasformato i percettori di redditi da lavoro, un tempo risparmiatori netti (in veste di sottoscrittori di titoli), in debitori netti.18 Infine, il sistema bancario, specie quello di matrice anglosassone, ha lentamente spostato il baricentro della propria attività dal finanziamento alla produzione al credito ai salariati, fino alla fornitura di servizi finanziari a famiglie e imprese, ed alla gestione di operazioni e titoli finanziari fuori-bilancio (su cui lucrare laute commissioni) mediante società-veicolo.

È, perciò, sembrato che il tradizionale asse produttivo “banche-imprese” fosse destinato ad essere gradualmente rimpiazzato dall’asse speculativo “banche-mercati finanziari”. Nel “modello anglosassone” le banche concedono, infatti, un’apertura di credito non tanto alle imprese, quanto alle famiglie (sulla base del loro fondo di ricchezza). Queste, nella misura in cui destinano tali risorse a consumi, consentono alle imprese di conseguire extra-profitti da destinare ad investimenti finanziari. È, del resto, proprio attraverso il collocamento di prodotti sui mercati finanziari che il sistema bancario torna in possesso delle somme erogate in avvio di circuito. A sua volta, la crescita del valore di mercato delle attività finanziarie (e/o immobiliari) generata dall’afflusso dei “risparmi” delle imprese sostiene (temporaneamente) la solvibilità dei salariati, che sono così in grado di accedere a nuovi prestiti. Come detto, è questo il modello che si è progressivamente sviluppato nei paesi anglosassoni negli ultimi decenni. D’altra parte, se è vero che alcune tra le altre maggiori economie avanzate hanno mantenuto saldamente la propria vocazione industriale (è il caso del sistema tedesco) e che alcuni paesi emergenti si sono affacciati nell’ultimo ventennio come nuovi colossi manifatturieri (l’economia cinese è solo l’esempio più noto), la finanziarizzazione delle relazioni economiche è un processo che sembra aver avuto una dimensione globale.19

Il riconoscimento degli indubbi elementi di novità del “capitalismo finanziarizzato” di matrice anglosassone deve certamente portare ad un’analisi della ridefinizione delle modalità di valorizzazione capitalistica determinata dai processi di finanziarizzazione. Tale riconoscimento non deve, per contro, condurre ad accantonare l’analisi di Marx, o la TCM, quali raffigurazioni stilizzate del sistema manifatturiero prevalente nella Belle Époque o Golden Age del capitalismo industriale. La sequenza definita nel paragrafo 2 fornisce, infatti, la descrizione delle condizioni strutturali di riproducibilità, ad un tempo, reale e monetario-finanziaria (solvibilità), del sistema economico capitalistico – a prescindere, cioè, dalle funzioni di comportamento delle singole unità socioeconomiche (gli “agenti” individuali della modellistica economica dominante). Detto diversamente, lo schema del circuito continua marxianamente a dar conto delle relazioni necessarie intercorrenti tra le macro-classi sociali (e tra queste e i mercati del credito, delle merci e dei titoli) nello spazio capitalistico, a prescindere da qualsivoglia specifica declinazione geografico-temporale. In tal senso, pare possibile rinvenire nella doppia crisi finanziaria esplosa nel 2000 e nel 2007, con epicentro gli Stati Uniti d’America, il punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo crescente tra il ruolo necessario (logico) di mercati finanziari e sistema bancario, da un lato, e la funzione storica paradossale progressivamente assunta da tali soggetti nelle economie anglosassoni, dall’altro. Dal conflitto, cioè, tra processi di creazione del valore e del plusvalore sociale, e processi di acquisizione-realizzazione monetaria del valore creato.

Se le cose stanno così, l’interrogativo di fondo con cui ci si deve misurare non è, dunque, perché vi sia stata una doppia crisi finanziaria negli anni Duemila, ma perché la deflagrazione borsistica del 2000 e la crisi che ne è seguita non si siano protratte più a lungo, ponendo anzi le premesse per la formazione di nuove bolle speculative e per lo scoppio della crisi finanziaria del 2007-2008. La ragione è che il circuito paradossale affermatosi nelle economie anglosassoni è, in linea di principio, temporaneamente sostenibile. Come è stato sottolineato, i consumi a credito dei salariati generano extraprofitti per le imprese. Queste possono re-investire tali somme nell’acquisto di prodotti finanziari che il sistema bancario crea utilizzando come base (il cosiddetto “collaterale”) proprio il rapporto di credito con i salariati. A sua volta, la crescita dei valori finanziari (e immobiliari) così generata sostiene la capacità di accesso al credito delle famiglie, le quali possono alimentare ulteriormente i propri consumi (anche in presenza di redditi da lavoro stagnanti o calanti), e così via.20Naturalmente, si tratta di un equilibrio instabile. Shock esogeni ovvero mutamenti endogeni anche di modesta entità sono in grado di innescare una reazione a catena, in cui la caduta dei valori di mercato delle attività finanziarie (e immobiliari) abbatte la capacità dei salariati di ripagare i propri debiti proprio mentre il sistema bancario preme per un rientro immediato, con un effetto depressivo sulla domanda aggregata, e dunque sui livelli occupazionali e di reddito. Si tratta della sequenza di fasi che hanno scandito le due crisi recenti dell’economia statunitense e, sulla sua scia, delle economie europee. Così come lo sviluppo della finanza, nelle fasi ascendenti del ciclo economico, consente di accelerare senza pari il processo di estrazione di valore e plusvalore (sia mediante riduzione del tempo di turnover del capitale che mediante intensificazione dei processi di sfruttamento della forza-lavoro nella produzione), nelle fasi di crisi essa favorisce i processi di distruzione, nonché di concentrazione/centralizzazione, dei capitali.
Conclusioni
In questo breve saggio si è cercato di dar conto della fecondità della teoria del circuito monetario come schema di re-interpretazione delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave marxiana, e soprattutto come strumento di analisi critica del reale, a partire dai processi di finanziarizzazione in atto. In particolare, si è cercato di mostrare come la doppia crisi finanziaria degli anni duemila possa essere riguardata come il punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo crescente tra il ruolo necessario di mercati finanziari e sistema bancario, da un lato, e la funzione paradossale progressivamente assunta dal settore finanziario nelle economie anglosassoni negli ultimi decenni. A questo proposito, appare interessante rilevare che mentre lo schema-base del circuito riserva ai mercati finanziari una funzione meramente redistributiva, nel capitalismo finanziarizzato di matrice anglosassone i mercati finanziari non si limitano a ripartire le risorse monetarie circolanti nel sistema, ovvero ad accelerare/decelerare il reinvestimento del capitale monetario.21 Essi, attraverso l’indebitamento delle famiglie, nonché tramite la partecipazione dei salariati alle “sorti” dei mercati finanziari (per esempio, mediante il dirottamento dei risparmi in fondi di investimento e fondi pensione), sono altresì in grado di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di creazione di valore e di plusvalore. Insomma, se, da un lato, rimane confermata l’intuizione marxiana secondo cui la finanza non crea valore sociale, dall’altro, i processi di finanziarizzazione sembrano aver ridefinito in profondità le forme della sua creazione nonché le modalità della sua appropriazione. La doppia crisi finanziaria del 2000 e del 2007-2008 emerge, in tal senso, come punto di frizione tra legge di produzione del valore e del plusvalore (che tutt’ora rimanda all’allargamento e all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro nella sfera produttiva quali suoi prerequisiti necessari) e modalità di appropriazione privata del valore creato (ossia alle modalità storicamente date di fissazione dei prezzi relativi, incluso il rendimento delle attività finanziarie) nell’attuale capitalismo finanziarizzato. Ecco perché, in assenza di meccanismi di “repressione dei mercati finanziari” e di pianificazione dell’investimento sociale, l’instabilità e le crisi ricorrenti che hanno segnato le economie avanzate in questo inizio di ventunesimo secolo sono destinate a ripresentarsi, in forme nuove, anche nei decenni a venire.22
Note
1 È da tali schemi che Wassily Leontief, premio Nobel per le scienze economiche nel 1973, ha tratto spunto per le proprie tavole delle interdipendenze strutturali di un’economia, il cosiddetto modello inputoutput. D’altra parte, se la discussione circa la caduta del saggio del profitto e le sue controtendenze continua ad animare il dibattito specialistico (si vedano, ad esempio, G. Reuten e P. Thomas, “From the ‘fall of the rate of profit’ in the Grundrisse to the cyclical development of the profit rate in Capital”, Science & Society, 2011, 95(1), pp. 74-90), la diatriba sulla trasformazione, intensa e a tratti aspra, ha visto la partecipazione di alcuni dei più autorevoli economisti del Novecento (L. Bortkievitz, E. Bohm-Bawerk, M. Dobb, L. Einaudi, D. Foley, O. Lange, C. Napoleoni, V. Pareto, J. Robinson, P. Samuelson, P. Sraffa, I. Steedman e P. Sweezy, per citarne solo alcuni). Per una rivisitazione recente di tale vexata quaestio, si rinvia a M. [Veronese] Passarella, “Marx in the matrix. L’agebra del ‘lavoro vivo’”, Storia del Pensiero Economico (History of Economic Thought and Policy), 2009, 6(2), pp. 31-48).

2 Tra le rare eccezioni, S. De Brunhoff, La monnaie chez Marx, Éditions Sociales, Parigi, 1973.

3 In realtà, quello di “Teoria monetaria della produzione” è il titolo preliminare dato da John M. Keynesagli scritti preparatori della propria Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, data alle stampe nel 1936. A tale concetto rimanda oggi un’ampia messe di approcci monetari eterodossi, molti dei quali ascrivibili al filone di pensiero cosiddetto Post Keynesiano.

4 Per un’introduzione alla TCM, si rinvia, anzitutto, a A. Graziani, La teoria monetaria della produzione, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Collana Studi e Ricerche, Arezzo, 1994, nonché a A. Graziani, The Monetary Theory of Production, Cambridge University Press, Cambridge, 2003. Per una panoramica, si vedano, tra gli altri: R. Realfonzo, “The Italian circuitist approach”, in P. Arestis e M. Sawyer (a cura di), A Handbook of Alternative Monetary Economics, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton, 2006, pp.105-120; M. [Veronese] Passarella, Finance Matters! Genesi e sviluppo della Teoria del circuito monetarioin Italia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, A.A. 2007-2008, scaricabile all’indirizzo web: http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Finance-matters-WEB.pdf ; S. Lucarelli e M. [Veronese] Passarella, “New Research Perspectives in the Monetary Theory of Production: an Introduction”,in S. Lucarelli e M. [Veronese] Passarella (a cura di), New Research Perspectives in the MonetaryTheory of Production, Bergamo University Press of Sestante Edizioni, Bergamo, 2012, pp. 13-21; R. Bellofiore,“A heterodox structural Keynesian: honouring Augusto Graziani”, Review of Keynesian Economics, 2013, 1(4), pp. 425-430; e, infine, M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a macro-accounting approach”, Review of Political Economy, 2014, 26(1), pp. 128-148.

5 La modellistica economica di derivazione “monetarista”, dominante fino alla fine degli anni ottanta, assumeva che la moneta fosse una grandezza esogena sotto il pieno controllo della Banca Centrale. Problemi di natura sia teorica che pratica, hanno condotto, in anni più recenti, ad una revisione di quei modelli al fine di dar conto non soltanto di imperfezioni e asimmetrie che caratterizzano il “mondo reale”, ma anche della natura dell’offerta di moneta quale grandezza residuale. Il suo ammontare viene determinato dalla domanda di finanziamento delle unità economiche, mentre la Banca Centrale si limita a fissare il“prezzo” delle riserve, ossia a determinare il tasso di interesse di riferimento del sistema. Per un’analisi critica puntuale del modello oggi dominante, si rinvia a G. Fontana e M. Veronese Passarella, “Unconventional monetary policy from conventional models? Changes in risk premia and the reaction function of the central banker”, articolo presentato all’XI Convegno STOREP, Bergamo, 27 giugno 2014.

6 Tra i tentativi dello stesso Graziani di mettere in luce tale nesso, si vedano: A. Graziani, “The Marxist theory of money”, International Journal of Political Economy, 1997, 27(2), pp. 26-50; A. Graziani, “L’analisi marxista e la struttura del capitalismo moderno”, in Storia del marxismo, Vol. IV, Einaudi, Torino, 1982; A. Graziani, “La teoria marxiana della moneta”, in C. Mancina (a cura di.), Marx e il mondo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 1986. Si vedano inoltre: M. Messori, “Moneta senza crisi: un commento”, Materiali filosofici, 1983, 7: 113-156; M. Messori, “Teoria del valore senza merce-denaro. Considerazioni preliminari sull’analisi monetaria di Marx”, Quaderni di storia dell’economia politica, 1984, 2(1-2), pp. 185-232; R. Bellofiore, G.F. Davanzati e R. Realfonzo, “Marx Inside the Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining and Unemployment in a Sequential Monetary Economy”, Review of Political Economy, 2000, 12(4), pp. 403-417; e, più di recente, R. Bellofiore e M. [Veronese] Passarella, “Finance and the realization problem in Rosa Luxemburg: a ‘circuitist’ reappraisal”, in J.F. Ponsot e S. Rossi (a cura di), The Political Economy of Monetary Circuits: Tradition and Change in Post-Keynesian EconomicsPalgrave Macmillan, Basingstoke & New York, 2009, pp. 98-115.

7 Lo schema base del circuito della moneta è riportato in Fig. 1 nell’Appendice al presente articolo liberamente scaricabile all’indirizzo web: http://www.marcopassarella.it/didattica/. Per una descrizione dettagliata delle fasi del circuito si rinvia, inoltre, a A. Graziani, La teoria monetaria della produzione, op. cit., e A. Graziani, The Monetary Theory of Production, op. cit. Si veda, infine, M. Passarella, Finance Matters! Genesi e sviluppo della Teoria del circuito monetario in Italia, op. cit.

8 In questo senso, lo schema del circuito può essere riguardato come un meta-modello teorico, assimilabile agli schemi di riproduzione marxiani o al Tableau économique di François Quesnay.

9 La metafora si deve all’economista austriaco Joseph Schumpeter, il quale, assieme a Knut Wicksell e a Nicholas Kaldor (oltre che allo stesso Keynes, naturalmente) è, in genere, considerato il maggior precursore (o “padre nobile”) della TCM.

10 Una volta valutata la solvibilità della clientela, e stabilito un congruo ricarico sul tasso di interesse di riferimento fissato dalla banca centrale, le banche commerciali non sono mai vincolate (nella concessione di prestiti) dal rapporto tra riserve immediatamente disponibili e depositi. Laddove necessario, le riserve vengono sempre costituite ex post mediante ricorso a prestiti elargiti da altre banche ovvero tramite cessione di titoli alla banca centrale (la quale non può far altro che assecondare le necessità del sistema bancario). In effetti, in un sistema compiutamente capitalistico non soltanto la quantità di mezzi monetari è fuori dalle possibilità di controllo della banca centrale, essendo creata endogenamente dal sistema, ma la moneta perde anche qualsivoglia agganciamento metallico. È, per contro, possibile stabilire un’equivalenza tra valore aggiunto monetario della produzione in un dato periodo e la quantità di lavoro vivo erogato nel processo produttivo. Su quest’ultimo punto, cfr. G. Duménil e D. Foley, “The Marxian transformation problem”, in S.N. Durlauf e L.E. Blume (a cura di), The New Palgrave Dictionary of Economics, Seconda Edizione, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2008; e M. [Veronese] Passarella, “Marx in the matrix. L’algebra del ‘lavoro vivo’”, op. cit.

11 Il maggiore problema in cui si incorre allorché si tenta di conciliare lo schema del circuito monetario con la teoria marxiana del valore è la diversa concezione della moneta che vi è sottesa. In effetti, il testo del Primo Libro de Il Capitale avalla l’idea del “denaro” come merce, e sia pure di una merce “molto speciale”, in quanto “equivalente generale” di tutti i beni capitalisticamente prodotti. Eppure, laddove Marx analizza in dettaglio il funzionamento del mercato del credito, il capitale fittizio ed il ruolo del sistema bancario, ossia nella quinta sezione del Libro Terzo de Il Capitale, egli accenna anche ad una visione della moneta come “simbolo sociale” (cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro Primo, Editori Riuniti, Roma, 1964[1867], capp. 1-3; e K. Marx, Il Capitale. Libro Terzo, Editori Riuniti, Roma, 1965[1894], capp. 21-33). Del resto, già nei Grundrisse Marx oscilla tra una concezione della moneta come merce ed una come simbolo (cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1976[1857-58], Quaderno I, pp. 39-179). Su questo aspetto controverso, si rinvia, tra gli altri, a: R. Bellofiore R., “A monetary labour theory of value”, Review of Radical Political Economics, 1989, 21(1-2), pp. 1-25; e R. Bellofiore et al., “Marx Inside the Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining and Unemployment in a Sequential Monetary Economy”, op. cit.

12 L’erogazione di credito bancario determina il grado di indebitamento iniziale del sistema delle imprese verso le banche, mentre il collocamento di titoli determina un debito puramente figurativo delle imprese verso i loro sottoscrittori. Si noti, però, che, nella misura in cui questi ultimi trattengono in forma di scorte liquide inattive parte degli interessi (o altri flussi di reddito) maturati sui titoli, le imprese rimangono corrispondentemente indebitate verso il sistema bancario al termine del circuito.

13 In un modello ad un solo bene, utilizzabile sia come bene di consumo che come bene intermedio, il “prezzo di produzione” di tale bene è pari al suo costo unitario (dato dal rapporto tra il salario monetario unitario e il prodotto per unità di lavoro) maggiorato di un saggio di profitto lordo. Si dimostra fácilmente che tale saggio riflette le decisioni autonome di investimento delle imprese, data la propensione al consumo dei salariati (cfr. A. Graziani, La teoria monetaria della produzione, op. cit., e A. Graziani, The Monetary Theory of Production, op. cit.). Esso, peraltro, corrisponde al rapporto tra tempo di lavoro speso per la porzione di prodotto appropriata dalle imprese e tempo di lavoro necessario a produrre la quota destinata ai salariati, ossia corrisponde al “saggio di sfruttamento” della forza-lavoro per l’economia nel suoinsieme (cfr. R. Bellofiore et al., “Marx Inside the Circuit: Discipline Device, Wage Bargaining andUnemployment in a Sequential Monetary Economy”, op. cit.).

14 Il loro “valore-lavoro” corrisponde, dunque, al rapporto tra il prezzo di riproduzione e la cosiddetta“espressione monetaria del tempo di lavoro” (Monetary Expression of Labour Time, MELT), per una definizione rigorosa della quale si rinvia a G. Duménil e D. Foley, “The Marxian transformation problem”,op. cit.

15 Le tre citazioni sono tratte da: A. Graziani, “Riabilitiamo la teoria del valore”, in Graziani A., I conti senza l'oste, Bollati Boringhieri, Torino, 1983, pp. 235-240.

16 Cfr. M. Seccareccia, “Financialization and the transformation of commercial banking: understanding the recent Canadian experience before and during the international financial crisis”, Journal of Post Keynesian Economics, 35(2), pp. 277-300; e M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a macro-accounting approach”, op. cit.

17 Su questo aspetto, si vedano R. Bellofiore, J. Halevi e M. [Veronese] Passarella, “Minsky in the ‘new’ capitalism. The new clothes of the Financial Instability Hypothesis”, in D. Papadimitriou e L.R. Wray (a cura di), The Elgar Companion to Hyman Minsky, Edward Elgar, Northampton, 2010, pp. 84-99.

18 Si rinvia a M. [Veronese] Passarella, “A simplified stock-flow consistent dynamic model of the systemic financial fragility in the ‘New Capitalism’”, Journal of Economic Behavior & Organization, 2012, 83(3), pp. 570-582; e M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a macroaccounting approach”, op. cit.

19 Una raffigurazione stilizzata del circuito dei pagamenti così come esso si è storicamente riconfigurato nelle economie anglosassoni è riportata in Fig. 2 nell’Appendice al presente articolo liberamente scaricabile all’indirizzo web: http://www.marcopassarella.it/didattica/.

20 Per una descrizione più approfondita si rinvia a M. Veronese Passarella, “Financialization and the monetary circuit: a macro-accounting approach”, op. cit.

21 L’impatto dello sviluppo della finanza sul coefficiente di rotazione del capitale e, tramite questo, sulla creazione di valore e di plusvalore, è analizzato in dettaglio in M. Veronese Passarella e H. Baron, “Capital’s humpbacked bridge. Financialisation and the rate of turnover in Marx’s economic theory”, Cambridge Journal of Economics, in corso di pubblicazione.

22 Di “repressione dei mercati finanziari” hanno parlato esplicitamente Reinhart e Rogoff (cfr. M.C. Reinhart e K. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore, Milano, 2010). Per un approfondimento, si rinvia a E. Brancaccio e M. [Veronese] Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano, 2012. Sulla necessità di un rilancio della pianificazione economica, si rinvia, inoltre, a M. Veronese Passarella, “Welfare, mercato e piano. Critica del paradigma liberoscambista”, Ragion Pratica, 2014, 42(1), pp. 9-33.
Nota Editorial

Foto: Marco Veronese Passarella
Ricorre il 5 gennaio il secondo anniversario della morte di Augusto Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre del filone teorico eterodosso noto come Teoria del circuito monetario. Per l’occasione, rendo qui disponibile la bozza preliminare di un mio contributo recente  su Teoria del circuito monetario, critica marxiana e finanziarizzazione. Per gli aspetti più tecnici della teoria del circuito, rinvio ad un secondo contributo (in lingua inglese) in uscita su Metroeconomica
Marco Veronese Passarella  è ricercatore presso la Leeds University Business School, Economics Division.
Indirizzo e-mail: m.passarella@leeds.ac.uk.

Web: www.marcopassarella.it.
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Sono grato ad Hervé Baron, Marco Boffo e Thomas Casadei per i suggerimenti preziosi. Un ringraziamento particolare va a Giorgio Gattei, a cui devo il mio interesse per Marx e la critica dell’economia politica. Ovviamente, nessuno degli studiosi citati è responsabile per eventuali errori o imprecisioni presenti nello scritto, né per le tesi da me sostenute.
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