18/6/15

Karl Marx e il colonialismo

Colonialismo ✆ Latuff 
Enrico Galavotti   |   Che Marx ed Engels avessero un atteggiamento ambivalente nei confronti del capitalismo (lo giudicavano negativamente in rapporto al socialismo, ma positivamente in rapporto a qualunque formazione pre-capitalistica), è testimoniato anche dal fatto che la loro analisi del colonialismo non è sempre stata coerente. Da un lato infatti era esplicita la condanna del colonialismo come strumento di oppressione e sfruttamento; dall'altro però essi tendevano a considerarlo come occasione di sviluppo per popoli arretrati e "senza storia". In questo loro giudizio pesava ovviamente il retaggio della filosofia occidentale, specie quella hegeliana. Nel Capitale non è affatto chiaro l'apporto determinante del colonialismo alla realizzazione dell'accumulazione originaria. È singolare come nel Capitale non venga mai ipotizzata l'inevitabilità di una serie infinita di guerre civili cui in Europa avrebbe portato l'accumulazione originaria, se nel contempo non fossero state conquistate America, Africa e Asia. La popolazione si sarebbe dimezzata e lo sviluppo capitalistico, se ancora ci fosse stato, avrebbe subìto un rallentamento considerevole.

Nel cap. XXV (libro I del Capitale) dedicato al colonialismo, Marx afferma che la proprietà basata sul proprio lavoro era presente nei territori extra-europei successivamente colonizzati dalle nazioni capitalistiche più industrializzate. Anche questo però è un modo astratto di vedere le cose, poiché al tempo di Marx la proprietà libera in Asia non esisteva più, mentre in America latina era già in forte disuso nel XV sec. Solo in Africa si poteva ancora ampiamente costatare.

Marx ed Engels capivano perfettamente i limiti del colonialismo, ma, poiché nutrivano forti pregiudizi nei confronti delle società pre-capitalistiche, preferivano indulgere verso certe interpretazioni contraddittorie piuttosto che dover ammettere la sostanziale inadeguatezza delle soluzioni capitalistiche, globalmente intese, all'arretratezza dei paesi pre-capitalistici.
In Miseria della filosofia Marx scrive:
"Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era l'accumulazione dei capitali, facilitata dalla scoperta dell'America e dall'introduzione dei suoi metalli preziosi... e dall'aumento delle merci messe in circolazione dal momento in cui il commercio penetrò nelle Indie orientali per la via del Capo di Buona Speranza, dal regime coloniale, dallo sviluppo del commercio marittimo... dal licenziamento dei numerosi seguiti dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima di entrare nell'officina... molti contadini, cacciati di continuo dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in praterie o in seguito al fatto che i lavori agricoli richiedevano meno braccia per la coltivazione della terra, affluirono nelle città per secoli interi" (ed. Samonà e Savelli, Roma 1968, p. 174).
Poi riassume dicendo: "L'allargamento del mercato, l'accumulazione dei capitali, i mutamenti intervenuti nella posizione delle classi sociali...".

Dunque si noti:
1. per Marx, in questo testo, il capitalismo nasce anche e soprattutto in forza dell'espansione dei commerci, resa possibile dalla conquista dell'America, delle Indie ecc.;
2. egli non sembra riporre le cause della nascita del capitalismo soltanto all'interno della nazione capitalistica, ma le fa dipendere anche dall'esterno, soprattutto dalla conquista militare di paesi non europei.
Viceversa, nel Capitale (cap. XXIV) Marx dirà che il capitalismo nasce tutto all'interno della nazione mercantile; il rapporto con le colonie è marginale o comunque conseguente rispetto al ruolo che ha avuto il commercio interno, che, raggiunto un certo livello, ha appunto generato il capitalismo e che, raggiunto un livello superiore, ha prodotto il colonialismo. In pratica il ragionamento del Marx maturo è di tipo hegeliano: da una serie di determinazioni quantitative ad un certo punto sorge una nuova qualità.

Il giovane Marx era invece convinto che il commercio interno si fosse sviluppato grazie soprattutto al commercio estero, che, a sua volta, dipendeva dal colonialismo. Le domande rimaste senza risposta nel periodo giovanile portarono il Marx della maturità a formulare delle tesi fataliste.

In realtà il marxismo non ha mai spiegato perché il colonialismo sia una caratteristica tipica dell'Europa occidentale e soprattutto perché la nascita del colonialismo abbia favorito in maniera decisiva soltanto in Europa occidentale (specie nei paesi protestanti) la nascita del capitalismo.

L'Italia comunale, con le sue città marinare, era già un paese colonialista (attività commerciale con attività militare) nei confronti del Medio Oriente (sin dai tempi delle crociate), e tuttavia non diventò un paese capitalista industriale, ma si fermò allo stadio commerciale; anzi, con la Controriforma regredì a livelli para-feudali. Anche la Polonia, tra i paesi cattolici nord-europei, reagì al progredire del capitalismo delle nazioni vicine, accentuando il peso del servaggio. Basta leggersi i testi dell'economista W. Kula. Anche nei paesi danubiani accadde la stessa cosa (si leggano i testi di H. Stahl).

Spagna e Portogallo, che pur erano già delle nazioni, ebbero bisogno di diventare prima di tutto paesi colonialisti, al fine di poter fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi manifatturieri del Nord Europa: eppure gli imperi coloniali che riuscirono a creare non servirono loro per diventare potenze industriali.

Questo significa che se il colonialismo appartiene come eredità culturale all'Europa occidentale pre-industriale (anzi, addirittura pre-borghese), il capitalismo invece ha bisogno di un terreno culturale specifico, quale solo la religione protestante poteva offrire.

Singolare inoltre il fatto che Marx abbia visto nel colonialismo soprattutto la possibilità per l'operaio salariato immigrato di diventare un capitalista. Marx cioè non ha mai analizzato il rapporto di stretta dipendenza che legava le colonie alla madrepatria occidentale (salvo qualcosa nei rapporti tra Irlanda e Inghilterra o tra questa e l'India). Eppure il colonialismo era iniziato con la scoperta-conquista dell'America. Era cioè tempo di rendersi conto che il capitalismo non è mai stato un fenomeno tipicamente euroccidentale, nato in Inghilterra e da qui trasferito in tutto il mondo. Esso in realtà è nato come fenomeno mondiale.

In altre parole, senza colonialismo non ci sarebbe stato il capitalismo, che non avrebbe potuto sopravvivere nel mero ambito dell'Europa occidentale. Esso aveva necessariamente bisogno di espandersi ovunque fosse possibile. Marx insomma considerò il colonialismo un effetto del capitalismo, mentre esso in realtà ne è una concausa.

Non bisogna inoltre mai dimenticare che proprio in virtù dell'apporto decisivo delle colonie allo sviluppo delle metropoli europee, la borghesia imprenditoriale ha potuto corrompere, con salari relativamente alti, una parte del proletariato, creando la cosiddetta "aristocrazia operaia".

In Occidente il proletariato industriale è sì sfruttato dalla classe dei capitalisti, ma insieme essi partecipano, secondo proporzioni diverse, allo sfruttamento dei proletari del Terzo Mondo. È quindi dubbio, sotto questo aspetto, che il proletariato occidentale potrà mai solidarizzare col proletariato terzomondista finché resterà immutata questa copertura favorevole all'occidente e allo sfruttamento delle ingenti risorse umane e materiali del Terzo Mondo.

***
 Il capitalismo nasce da un centro (l'Europa occidentale), ma ha bisogno immediatamente di una periferia per svilupparsi. La periferia può essere cercata inizialmente all'interno della stessa nazione che ha imboccato la strada del capitalismo (il Mezzogiorno p.es. può essere considerato una colonia interna dell'Italia), ma il capitale ha bisogno di una riproduzione continuamente allargata. È così che la Luxemburg spiega la necessità intrinseca del colonialismo.

In realtà noi vorremmo fare un discorso più culturale: poiché il capitalismo, per evolversi, ha bisogno di una ideologia favorevole alla libertà individuale e poiché la consapevolezza di questa libertà porta a un atteggiamento di ribellione nei confronti delle imposizioni (vedi la resistenza prima contadina, poi operaia, durata sino alla fine del XIX secolo, ma in Italia, p.es., sino alla fine della mezzadria e alla costituzione del movimento cooperativistico), il capitalismo, ad un certo punto, per riprodursi agevolmente, ha bisogno di espandersi in territori periferici extra-nazionali, ove il livello culturale sia più basso di quello nazionale.

Il capitalismo, infatti, da un lato, per imporsi, deve promettere benessere per tutti, dall'altro però non può mantenere le proprie promesse, poiché il benessere di pochi è frutto della miseria di molti. Di qui l'esigenza di sfruttare altri lavoratori, di paesi coloniali, il cui livello culturale è troppo basso perché siano in grado di ostacolare lo sviluppo del capitale e il cui grado di sfruttamento sia tale da permettere al capitalismo metropolitano di soddisfare le esigenze di libertà (economica e culturale) dei lavoratori occidentali. Ecco perché là dove esiste solo "precarietà di mezzi" o produzione per l'autosussistenza, il capitalismo crea miseria, degrado e sottosviluppo.

Questo significa che fino a quando i lavoratori del Terzo Mondo non si emanciperanno dallo sfruttamento imperialistico (e non solo dalla dipendenza politica), sarà molto difficile che i lavoratori dei paesi occidentali lottino per la realizzazione del socialismo.

Lenin aveva già capito molto bene che in presenza dell'imperialismo, la consapevolezza rivoluzionaria della classe operaia occidentale arriva a porre, come massimo, delle rivendicazioni di tipo sindacale, cioè perde quell'istinto sociale alla rivoluzione che invece Marx le aveva riconosciuto, condizionata com'è e da un relativo benessere pagato altrove e dai potenti mezzi persuasivi (propagandistici) del capitale.

Quando Lenin cominciò a predicare la necessità di offrire dall'esterno una vera consapevolezza rivoluzionaria, egli non fece altro che constatare una situazione di fatto: spontaneamente gli operai occidentali, nel sistema dell'imperialismo, non sono rivoluzionari ma piccolo-borghesi, non meno degli intellettuali di sinistra che li rappresentano.