Karl Marx ✆ Jaime Molina |
Toni Negri |
È possibile essere comunisti senza Marx? È evidente che sì. Ciò non
toglie che mi capiti spesso di discuterne con compagni e con intellettuali
sovversivi di differenti estrazioni. Soprattutto in Francia – e le
considerazioni che seguono riguardano essenzialmente la Francia. Debbo
comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su questi argomenti, ci
son linee troppo diverse e contraddizioni che raramente son condotte a
confrontarsi con verifiche o soluzioni sperimentali. Si tratta spesso di
confrontarsi con retoriche che astrattamente affrontano la pratica politica. E
tuttavia, talora, ci si scontra con posizioni che negano addirittura che ci si
possa dichiarare comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un
importante studioso – che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del
“maoismo” più radicale – mi diceva che, se ci si attenesse al marxismo
rivoluzionario, che prevedeva il “deperimento dello Stato”, la sua
“estinzione”, dopo la conquista proletaria del potere, e certo non ha
realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più dichiarare “comunisti”.
Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso perché il Giudizio
Universale non è arrivato nei tempi prossimi, previsti dall’Apocalisse di
Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non la si è proprio vista!
Ed
aggiungevo che nell’epoca del disincantamento, la fine del secolo mondano per i
cristiani e la crisi della escatologia socialista equivocamente sembrano
giacere sotto la stessa coperta, meglio, subire eguali ingiunzioni
epistemologiche – però, del tutto fallaci. È certo infatti che il
cristianesimo è falso – ma io credo che lo sia per tutt’altre ragioni. E se
anche il comunismo è falso, non lo è certo perché la speranza escatologica non
si è in questo caso realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti
implicita nella premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei
dispositivi teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che
oggi è ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta
contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente, sarebbe
importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a Marx…
E allora? Non si è data l’estinzione dello Stato, in Russia
e in Cina lo Stato è divenuto onnipotente ed il comune è stato
organizzato (e falsificato) nelle forme del pubblico: lo statalismo ha
quindi vinto e, sotto quest’egemonia, non il comune ma un capitalismo
burocratico sommamente centralizzato si è imposto. Tuttavia a me sembra che
attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie comuniste del secolo ventesimo,
l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un “comune degli uomini”, sia stata
dimostrata possibile. Ed intendo la “democrazia assoluta” come un progetto
politico che si costruisce oltre la democrazia “relativa” dello Stato liberale,
e dunque come l’indice di una radicale rivoluzione contro lo Stato, di una
pratica di resistenza e di costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del
rifiuto dell’esistente e dell’esercizio della potenza costituente da parte
della classe dei lavoratori sfruttati.
Qui interviene la differenza. Qualunque sia stata la
conclusione, il comunismo (quello che si è mosso secondo l’ipotesi marxista) si
è provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme di pratiche che non
sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di pratiche
ontologiche. La questione, dunque, se si possa esser comunisti senza
essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione
ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa
ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel episodio
nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il comunismo è una
costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la costruzione di una nuova
società da parte dell’uomo produttore, del lavoratore collettivo, attraverso un
agire che si rivela efficace perché è diretto all’accrescimento dell’essere.
Questo processo si è aleatoriamente dato, quest’esperienza
si è parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata sconfitta, non dimostra
che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che essa è possibile. Molti
milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato, lavorato e vissuto dentro
questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca del “socialismo reale” abbia
ceduto a, e sia stata attraversata da, orribili derive. Ma sono esse tali da
avere determinato un annullamento di quell’esperienza, da aver tolto
quell’accrescimento dell’essere che il realizzarsi del possibile e la
potenza dell’evento rivoluzionario avevano costruito? Se ciò fosse avvenuto, se
il negativo che ha pur pesantemente intaccato la vicenda del “socialismo reale”,
avesse prodotto una prevalente distruzione dell’essere, l’esperienza del
comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel nulla. Ma questo non
è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”, l’istanza di costruire il
“comune degli uomini” restano attrattivi, intatti nel nostro desiderio e nella
nostra volontà. Non dimostra forse questa permanenza, questo materialismo del
desiderio, la validità del pensiero di Marx? Non è perciò difficile, se non
impossibile, essere comunisti senza Marx?
All’obiezione sullo statalismo che “necessariamente”
deriverebbe dalle pratiche marxiste, occorre dunque rispondere riarticolando la
nostra analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere, il progredire
della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e dell’uguaglianza,
passano attraverso e subiscono incessantemente soste, interruzioni, catastrofi
– ma che quest’accumulazione è più forte dei momenti distruttivi che pur
conosce. Questo processo infatti non è finalistico, teleologico e neppure è una
mossa di filosofia della storia: non lo è perché quest’accumulazione di essere
che pur vive attraverso le vicende storiche, non è un destino e neppure una
provvidenza, ma è la risultante, l’intersezione di mille e mille pratiche
e volontà, trasformazioni e metamorfosi che hanno costituito i soggetti. Quella
storia, quest’accumulazione sono prodotti delle singolarità concrete (che la
storia ci mostra in azione) e produzioni di soggettività. Noi le assumiamo e le
descriviamo a posteriori. Non c’è nulla di necessario, tutto è
contingente ma concluso, tutto è aleatorio ma compiuto, nella storia che
raccontiamo. Nihil factum infectum fieri potest: c’è forse filosofia della
storia laddove i viventi desiderano solo continuare a vivere e per ciò esprimono
dal basso una teleologia intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non
risolve i problemi e le difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio
come urgenza e potenza di costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e
rotture, esse si rivelano nella continuità storica – una continuità sempre
frastagliata, mai progressiva – ma neppure globalmente, ontologicamente
catastrofica. L’essere non può mai essere totalmente distrutto.
Altro tema: quell’accumulazione di essere costruisce
del comune. Il comune non è una finalità necessaria – è bensì un aumento
dell’essere perché l’uomo desidera essere molteplicità, stabilire relazioni,
essere moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo soprattutto la
solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non sarà neppure
identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di
consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni linguistiche e
di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri. Va qui soprattutto
sottolineato che il comune non si presenta come l’universale. Può
contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più esteso e temporalmente
dinamico. L’universale si può predicare di ogni e di tutti gli individui. Ma il
concetto di individuo autosussistente è contraddittorio. Non c’è individualità
ma solo relazione di singolarità. Il comune ricompone l’insieme delle
singolarità. Questa differenza del comune dall’universale è qui assolutamente
centrale: Spinoza la definì quando, alla generica vuotezza dell’universale e
all’inconsistenza dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle
“nozioni comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni
soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può
costruire, costituireontologicamente a partire dal fatto che ogni
singolarità è molteplice ma determinata concretamente nella molteplicità,
nella comune relazione. L’universale è detto del molteplice, mentre il comune è
determinato, è costruito attraverso il molteplice e qui specificato.
L’universalità considera il comune come un astratto e lo immobilizza nel corso
storico: il comune sottrae l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo
costruisce invece concretamente.
Ma tutto questo presuppone l’ontologia. Ecco dunque dove il
comunismo ha bisogno di Marx: per impiantarsi nel comune, nell’ontologia. E
viceversa. Senza ontologia storica non c’è comunismo.
Si può essere comunisti senza essere marxisti? Diversamente
dal “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx (ma su questo
ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza essere
marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al punto che si
favoleggiò di un Deleuze autore, in punctuo mortis, di un libro intitolato
“La grandeur di Marx”. Deleuze e Guattari costruiscono il comune attraverso
degli agencements collectifs e un materialismo metodologico che li
avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal socialismo classico, e comunque
da ogni ideale organico di socialismo e/o statalistico di comunismo.
Sicuramente Deleuze e Guattari si dichiararono tuttavia comunisti. Perché?
Perché, senza essere marxisti, furono implicati in quei movimenti di pensiero
che si aprivano continuamente alla pratica, alla militanza comuniste. In
particolare, il loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si sviluppò
sui mille plateaux della pratica trasformativa. Mancava loro la
storia, quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel
comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo dispositivo è
finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora tuttavia la storiografia
positivista, certo, ma talora la storia può essere iscritta all’interno della
metodologia materialista, senza quegli orpelli cronologici e quell’eccessiva
insistenza sugli eventi, tipica di ogni Historismus – e appunto ciò
che avviene in Deleuze-Guattari. Insisto sulla complementarietà di materialismo
e ontologia perché la storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo
classico quanto del positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per
finalizzarla ad ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione
ontologica) può, invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta –
quando l’ontologia costituisca dispositivi particolarmente forti, come avveniva
in Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il marxismo non vive
solo nella scienza ma piuttosto si svolge dentro esperienze “situate”: il
marxismo è spesso rivelato dai dispositivi militanti.
Diversamente van le cose quando, ad esempio, si confronti il
nostro problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia) alle numerose varianti
del socialismo utopistico, soprattutto a quello di derivazione “maoista”.
Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al diffondersi di una
specie di “odio per la storia”, che – qui consistete la sua spaventosa
deficienza – rivelava un estremo disagio quando si trattasse di produrre obiettivi
politici. Così, infatti, evacuando la storia, si evacuava non solo il marxismo
ma anche la politica. Paradossalmente si ripeteva, nella direzione opposta,
quello che era avvenuto in Francia nel periodo della fondazione della scuola
degli “Annales” di Marc Bloch e di Lucien Febvre: in quell’occasione il
marxismo venne introdotto nella discussione filosofica attraverso la
storiografia. E la storiografia divenne politica!
Altrettanto vale per il socialismo utopistico: si deve
riconoscere che, in talune delle sue esperienze (fuori dalle varianti maoiste),
esso ha offerto connessioni materialiste di ontologia e storia – non sempre, ma
sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda l’esperienza francese – ai
formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà allora di comprendere se
e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni diverse, emergono talora
posizioni che (in nome dell’universalità del progetto politico proposto) si
oppongono alla praxis ontologica – negando, ad esempio, la storicità
di categorie come l’“accumulazione originaria” e proponendo di conseguenza
l’ipotesi di un comunismo come pura restaurazione, immediata, dei commons,
oppure svalutando le metamorfosi produttive che configurano variamente la
“composizione tecnica” della forza lavoro (che è vera e propria produzione
materialista di soggettività nella relazione fra rapporti produttivi e forze
produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura umana (sempre
uguale, sub forma arithmeticae) l’origine della protesta comunista, ecc.
ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua dell’idealismo nella
sua figura trascendentale.
Per esempio: in Jacques Rancière abbiamo recentemente visto
accentuarsi i dispositivi che negano ogni connessione ontologica di
materialismo storico e comunismo. La prospettiva dell’emancipazione del lavoro
si sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini di autenticità della
coscienza, assumendosi conseguentemente la soggettività in termini
individuali, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di cominciare – ogni
possibilità di chiamare comune la produzione di soggettività. Inoltre
l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni determinazione storica e proclama
la sua indipendenza dalla temporalità concreta: la politica, per Rancière, è
un’azione paradossale che stacca il soggetto dalla storia, dalla società, dalle
istituzioni, pur quando, senza quella partecipazione (quell’inerenza che può
essere radicalmente contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure
predicabile. Il movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni
caratteristica di antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto delle
lotte, e le determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e
(parallelamente) non costituisce più problema l’accumulazione del potere
nemico, della “polizia” (sempre presentata in una figura indeterminata,
non quantitate signata). Quando il discorso di emancipazione non riposa
sull’ontologia, diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che trova.
Siamo così entrati in medias res, al punto di
chiederci se (dopo il sessantotto) ci sia mai stato un comunismo collegato al
marxismo in Francia. C’è stato certamente (e permane) nelle due varianti dello
stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra ormai partecipanti di una storia
lontana ed esoterica. Quando invece si viene alla filosofia del ’68, qui il
rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo riferirci essenzialmente alle
posizioni di Badiou, che godono di una certa popolarità.
Una breve precisazione. Quando Rancière, nelle immediate
adiacenze del ’68, sviluppava (dopo aver partecipato alla comune lettura de “Il
Capitale”) una critica pesante delle posizioni di Althusser, e metteva in luce
come nella critica dell’umanesimo marxista (che solo dopo il ’68 – con un certo
ritardo, dunque! – si apriva in Althusser alla critica dello stalinismo)
permanessero in realtà gli stessi presupposti intellettualisti dell’“uomo di
partito” e l’astrazione strutturalista del “processo senza soggetto” – aveva
ragione da vendere. Ma non si dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la
stessa critica nei confronti di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo
l’indipendenza della ragione, la sua garanzia di verità, la sistematicità di
un’autonomia ideologica – è solo a queste condizioni che si determina la
definizione del comunismo. “N’est-ce pas, sous l’apparance du multiple, le
retour à une vieille conception de la philosophie supérieure?” – si chiedono
Deleuze-Guattari. È quindi molto difficile capire dove stiano per Badiou le
condizioni ontologiche del soggetto e della rottura rivoluzionaria. Per lui,
infatti ogni movimento di massa costituisce una performancepiccolo
borghese, ogni lotta immediata, del lavoro materiale o cognitivo, di classe o
del “lavoro sociale”, è qualcosa che mai toccherà la sostanza del potere – ogni
allargamento della capacità collettiva di produzione dei soggetti proletari non
sarà altro che un allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema
– quindi, l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la
teoria non lo produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di
innalzarlo all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma tutto
questo è ancor poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo il pensiero di
Badiou: ogni quadro di lotta, specificamente determinato, gli sembra (se la
teoria e l’esperienza militante gli attribuiscono una potenza di sovversione)
solo un’allucinazione onirica. Insistere ad esempio sul “potere costituente”
sarebbe per lui sognare la trasformazione di un immaginario “diritto naturale”
in una potenza politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un
evento che sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da
ogni pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’evento per
Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione
francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito a
posteriori, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di
conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esistesenza Gesù, senza Robespierre, senza Mao.
Ma, privato di una logica interna di produzione dell’evento, come si potrà mai
distinguere l’evento da un oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con
ciò a ripetere l’affermazione mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “credo
quia absurdum” – credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene spazzata
via. Ed il ragionamento comunista è ridotto o a un colpo di matto o a
un business dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo Deleuze-Guattari:
“l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins comme une singolarità que
comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou se soustrait au site, dans la
trascendance du vide ou la vérité comme vide, sans qu’on puisse décider de
l’appartenance de l’événement à la situation dans laquelle se trouve son site
(l’indécidable). Peut-être en revanche y a-t-il une intervention comme un jet
de dé sur le site qui qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation,
une puissance de « faire » l’événement”.
Ora, si comprendono facilmente alcuni dei presupposti di
queste posizioni teoretiche (che comunque partono da una sofferta e condivisa
autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si trattava, infatti, in
primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia di un “socialismo
reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di premesse dogmatiche e
di un’organica disposizione al tradimento. In secondo luogo, si voleva evitare
di stabilire qualsiasi relazione fra le dinamiche dei movimenti sovversivi e i
contenuti e le istituzioni dello sviluppo capitalistico. Giocare con
questi, dentro/contro, come la tradizione sindacale proponeva, aveva
infatti prodotto corruzione del desiderio rivoluzionario ed illusione delle
volontà in lotta. Ma trarre da questi giusti obiettivi critici la conseguenza
che ogni tentativo politico, tattico e strategico di ricostruzione di una
pratica comunista e la fatica di questo esercizio, siano esclusi dalla
prospettiva di liberazione; che non possa darsi un progetto costituente, né
alcuna presa trasformativa dentro la dimensione materiale, immediatamente
antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di render conto delle forme
attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si sviluppi, sia comunque
subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che infine ogni riferimento
alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a lotte – dunque – che
considerino in una prospettiva materialistica le articolazioni del Welfare,non
rappresentino altro che un rigurgito vitalista – bene, tutto questo ha un solo
significato:la negazione della lotta di classe. E ancora: secondo
l’“estremismo” badiousiano, il progetto del comunismo non può darsi se non in
maniera privativa e dentro forme di sottrazione dal potere, e la nuova comunità
non potrà che essere il prodotto dei senza comunità (come d’altra parte
sostiene Rancière). Quello che offende, in questo progetto, è la purezza
giansenista che esso esibisce: ma quando le forme dell’intelligenza collettiva
sono a tal punto disprezzate – perché ogni forma d’intelligenza prodotta nella
storia concreta degli uomini è ricondotta alla logica del sistema di produzione
capitalista – allora, non c’è più niente da fare. O, meglio, resta da
riaffermare l’osservazione sopra già fatta, e cioè che la pragmatica
materialista (quella che abbiamo conosciuto fra Machiavelli e Nietzsche,
fra Spinoza e Deleuze), quel movimento che vale esclusivamente per sé stesso,
quel lavoro che rinvia solo alla propria potenza, quell’immanenza che si
concentra sull’azione e sull’atto di produzione di essere – è in ogni caso più
comunista di ogni altra utopia che abbia un rapporto schizzinoso con la storia
ed incertezze formali con l’ontologia.
Noi non crediamo dunque possibile parlare di comunismo senza
Marx. Certo, il marxismo va profondamente, radicalmente riletto e rinnovato. Ma
anche questa trasformazione creativa del materialismo storico può avvenire
seguendo le indicazioni di Marx – arricchendolo con quelle che derivano dalle
correnti “alternative” vissute nella modernità, da Machiavelli a Spinoza, da
Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx studiava le leggi di movimento della
società capitalista, ora si tratta di studiare le leggi del lavoro
operaio, meglio, dell’attività sociale tutta intera, e della produzione di
soggettività dentro la sussunzione della società nel capitale e l’immanenza
della resistenza allo sfruttamento sull’orizzonte globale. Oggi non basta più
studiare le leggi del capitale, bisogna lavorare all’espressione della potenza
della ribellione dei lavoratori ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci
interessa “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come valore esso
stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la
ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza
generale come sua possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è
affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la
miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della
ricchezza come soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo
modo, e cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è
il problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo questo problema
possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre lo è)
sporcandoci le mani. Tutto il
resto è chiacchiera intellettualista.
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