Maurice Merleau-Ponty ✆ A.d. |
Stefano Scrima | 12
dicembre 1946, casa Boris Vian. Maurice Merleau-Ponty ha da poco consegnato a Les Temps Modernes1 il saggio
intitolato Le yogi et le prolétaire –
in sintesi: un rinnovo della fiducia nel marxismo, unica filosofia in grado di
competere col reale – confluito successivamente in Humanisme et terreur (1947); lo scritto richiama
volontariamente il romanzo di Koestler The
yogi and the commissar, giacché ne è la risposta, o meglio, la
critica.
Quella sera Albert Camus, incredulo lettore del fresco saggio merleaupontiano, rovesciò tutto il suo sgomento sull’amico Maurice: ai suoi occhi, da quelle macchie d’inchiostro emerge, pericolosa, la giustificazione dei processi di Mosca degli anni Trenta2, e dunque della violenza del regime comunista russo in nome della rivoluzione. Di qui la rottura fra i due.
Il problema che li divide è pertanto incentrato sull’uso della violenza in politica: è questa necessaria? E se fosse l’unico modo per raggiungere l’agognato stadio finale della Storia – il comunismo vero e proprio –, ottenuto il quale, la violenza stessa potrà assurgere a vago ricordo, a preistoria? Ma per chi non crede al comunismo? Per chi, come Camus, ritiene completamente