John Maynard Keynes ✆ Graziano Origa |
Karl Marx ✆ Graziano Origa |
Un nuovo ritorno d’attualità lo abbiamo
ai giorni nostri, quando le sue ipotesi più propriamente tecniche sulla spirale
debito-deflazione hanno ripreso a circolare anche nelle élites americane
più orientate all’orizzonte democratico.
Sia come sia, a muovere le crisi, dietro ai fatti
contingenti sui quali le statistiche si arrestano, sembra esserci troppo,
perché un mero grafico lo contenga. Anche per questo, Keynes scrisse – in un
altro, diversamente disatteso vaticinio – che in futuro gli economisti
“dovranno essere considerati alla stregua dei dentisti”: tecnici, ma nulla di
più. Eppure, è stato proprio Keynes, suggestionato in questo da Freud, a
intuire che dietro quelle crisi, su un fondo oscuro, si muove una pulsione,
umanissima ma dagli effetti disumanizzanti. Quella pulsione che proprio John
Maynard Keynes, l’economista a cui molti guarderanno dopo il 1929, chiamò “a morbid
desire for liquidity”.
Questa richiesta di denaro a mezzo denaro, questa costante
invocazione di liquidità – da parte di banche e “mercati”, oggi bizzarramente
declinati all’impersonale plurale – è forse il cuore nero della crisi e di quelcasinò-capitalismo che
nelle prima pagine della sua Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta l’economista
inglese così descriverà: “Quando l’accumulazione di capitale di un Paese
diventa il sottoprodotto delle attività di un Casinò, è probabile che le cose
vadano male”.
Era il 1936 e gli effetti del crollo del ’29 avevano si
dispiegavano ancora evidenti su scala globale. ohn Maynard Keynes aveva allora
53 anni, essendo nato a Cambridge il 5 giugno 1883. Pochi mesi prima, il 14
marzo, a pochi chilometri di distanza da Cambridge, precisamente i 90 che la
separano da Londra, moriva Karl Marx. Una coincidenza fortuita, ma non per
questo meno significativa.
È proprio questa coincidenza, proiettata in forma di
distopia storica, che si trova al centro di Marx & Keynes. Un romanzo economico (Jaca book) firmato da un altro economista, Pierangelo Dacrema, che da alcuni anni
sta portando avanti una ricerca sulla “fine del denaro” e l’economia
postmonetaria. Al cuore del romanzo, documentato e avvincente, ci sono non solo
due vite, ma anche due teorie sempre considerate sconfitte sulla scena del
mondo eppure sempre destinate a riaffiorare quando una nuova crisi scompiglia i
termini primi e ultimi di quella scena. Accomunati dall’anno di morte e di
nascita, Marx e Keynes sono da sempre contemporanei della fine del mondo.
L’interesse per il loro lavoro riaffiora, soprattutto nei punti in cui ancora
sfugge dall’orizzonte salvifico declinato in chiave mainstream. Nessun
ritorno a Marx, nessun bentornato a Keynes: casomai la necessità di inscrivere
una rilettura in quel tentativo di andare oltre che già faceva dire a una frase
variamente attribuita al filosofo di Treviri, amante ironico delle criptocitazioni
letterarie, “moi, je ne suis pas marxiste”. Il
Capitale, opus magnum di Marx al pari della Teoria Generale di Keynes, diventa allora oggetto delle loro
riflessioni, proprio là dove qualcosa al dibattito generale era sfuggito. Il Capitale, leggiamo nel volume di
Dacrema, è allora una sorta di elegia dell’impenetrabilità del fatto economico
e di uno dei suoi nodi critici dirimenti: il denaro, la cosiddetta “merce
esclusa”.
Così, nel 1932, mentre con l’elezione di Roosevelt negli
Stati Uniti si cercò di porre un argine alla crescente disoccupazione – 15
milioni di disoccupati – e alla coda lunga della crisi del ’29, e le analisi di
Keynes prendevano a riscuotere grande eco, vennero editati per la prima volta i Manoscritti economici filosofici del 1844.
Anche qui, la riflessione si declina su quel “morbid desire for liquidity” che
ha un nome chiaro, ma un’essenza ben più imprescrutabile: il denaro. Marx, a
proposito della potente astuzia del capitale capace attraverso il denaro di
canalizzare le pulsioni di morte in direzione della crescita, parlerà di un io
che “tramite il denaro può tutto ciò che un cuore umano desidera”. Attraverso
il denaro, annotava Marx in pagine note per nitidezza insuperate, “l’uomo ha
cessato di essere schiavo dell’uomo ed è diventato schiavo della cosa; il
capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di
trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più
disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell’era feudale”.
Il tempo è denaro, affermava Benjamin Franklin. Ma quel
tempo, ora, ai protagonisti del romanzo di Dacrema, proiettati dinanzi alla
crisi dei subprime, appare fuori di sesto ben più di quanto potessero
immaginare. La velocità ha superato persino l’ultima resistenza materiale,
quasi fisica, del denaro. La carta moneta è un attrito troppo grande perché non
debba cedere a quella smaterializzazione che ha già travolto le strutture
materiali della società, dado vita a un nuovo feudalesimo digitale. Avanza,
favorita dalle tecnostrutture, una forma di denaro che è liquido nella sua
dimensione temporale, non meno che in quella materiale. Il desiderio perverso – morbid
desire – diventa infinito, perché esteso, potenziato, dilatato,
potenzialmente sempre in atto grazie alle tecnostrutture.
Eppure, nelle discussioni fra Keynes e Marx messe in scena
nel “romanzo economico”, qualche dubbio affiora. “Il denaro è lento”, afferma
il Marx immaginato da Dacrema, “un cinese povero, legittimamente desideroso di
diventare ricco, vuole appropriarsi dello stile di vita occidentale non per i
suoi figli ma per sé, non domani ma oggi, subito, ed è la tecnica delle
comunicazioni televisive e telematiche a digli che l’obiettivo è a portata di
mano”. Qui è ancora l’uomo – ma per quanto? Per quantpo questa lentezza
permettera a un soggetto di desiderare? – a declinare il proprio, per quanto
morboso, desiderio. Ma se l’uomo stesse per diventare nient’altro che un
orpello, un piccolo desiderio morboso della tecnostruttura del denaro? Infatti,
il “denaro esige molti sacrifici, tutti destinati alla sua sopravvivenza e al
suo benessere”. In un contesto sistemico di questo tipo, si potrebbe avanzare
l’ipotesi -adombrata dai due interlocutori – che il denaro esiga sacrifici
umani, ma possa, da un momento all’altro, trascendere dalla presenza stessa e
persino dal sacrificio dell’uomo. “La linfa del denaro è il numero, suo unico
alimento e appoggio nel mondo. Ciò è ancor più vero ora, in un’epoca in cui la
moneta è oramai svincolata da oro, argento e da qualsiasi altro metallo. Anche
il suo supporto cartaceo è diventato sempre più irrilevante, ragione per cui la
vera armatura della moneta è il numero. E a occuparsi di numeri, soltanto di
numeri, non sono solo banchieri e finanziari, agenti di cambio e società di
intermediazione mobiliare, compagnie assicurative, intermediari finanziari,
cassieri e scassinatori. È una comunità ben più vasta, quella degli addetti
alla cura del numero, estesa a ogni Paese, ogni settore e ogni luogo di lavoro.
Si tratta di tutti i contabili del pianeta, coloro la cui unica professione e
mansione giornaliera è la contabilità, l’addizione, la sottrazione e la
distinzione di ciò che è mio da ciò che è tuo, l’imputazione di numeri a conti,
la spartizione e l’assegnazione di somme certificate dal processo contabile”.
“A morbid desire for liquidity”: e se, rovesciandon
uovamente il rapporto tra oggetto e soggetto, l’uomo stesse per diventare
nient’altro che un orpello, un piccolo desiderio morboso della tecnostruttura
del denaro? Jacques Ellul scriveva che l’uomo avrebbe presto ridotto la propria
parte attiva nel mondo a quella di un essere che, come dinanzi a una slot
machine globale, innesca processi che poi non è in grado di contenere. Ancora
non è tardi, si dicono con non meno realismo, ma con più senso dell’umana
speranza, i due protagonisti nell’appassionante finale del libro. “Non è tardi,
ma qualcosa va fatto, ora”. Ora o mai più. Prima che l’innesco e la
smaterializzazione del denaro – magari con l’alibi di “tracciare i capitali” –
si riveli fatale e il denaro ridotto a pura liquidity prenda a correre più
veloce di ogni gesto, di ogni desiderio, di ogni pensiero, di ogni azione e
persino di ogni eventuale, ma a quel punto chissà quanto possibile reazione.