Karl Marx ✆ Dale Edwin Murray |
Sembrano spunti quasi paradossali, ma la realtà della
dinamica reale di sviluppo della filosofia occidentale, da circa 2000 anni e
fino all’inizio del nostro terzo millennio, ha riprodotto al suo interno la
coesistenza e lotta quasi ininterrotta tra due tendenze principali, alternative
tra loro, rispetto ai problemi e alle opzioni politico-sociali: e cioè tra una
“linea nera” (partendo da Trasimaco e Aristotele) che accettava e legittimava
più o meno criticamente l’esistenza e la riproduzione delle multiformi
formazioni economico-sociali classiste (schiavistiche, feudali o
capitalistiche) basate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e una “linea
rossa” (inaugurata da Pitagora e dalla sua scuola di pensiero) che ha via via
effettuato invece una precisa scelta di campo collettivistica ed egualitaria, a
favore di rapporti sociali di produzione (e politico-sociali) fondati sulla
cooperazione e la fraternità tra gli uomini, le diverse nazioni e i sessi, in
assenza di proprietà privata e di sfruttamento tra gli esseri umani, attraverso
un percorso multiforme che arriva fino a J. Derrida e A. Tosel passando per
Dolcino, Winstanley, Marx, Engels e Lenin, per citare solo pochi nomi.
Prima di entrare nell’esame delle due “linee” filosofico-sociali (e filosofico-politiche) alternative, risulta tuttavia indispensabile fornire una definizione di massima rispetto alla natura e alle funzioni principali di quello strano ma importante fenomeno chiamato filosofia.
La filosofia costituisce una sorta di “terra di confine” e
un particolare punto di interconnessione della pratica teorica umana posta tra
il campo protoscientifico/scientifico, il settore politico-sociale e
l’esperienza diretta di tutti gli esseri umani (il senso della vita, il
problema della morte, il rapporto tra bene e male, ecc.). La filosofia risulta
il settore della praxis riflessiva umana che ricerca la verità e le possibili
soluzioni per le mutevoli “questioni fondamentali” e domande essenziali, non
risolvibili (o non ancora risolvibili) attraverso la pratica protoscientifica/scientifica,
che mano a mano hanno interessato e assillato tuttora il genere umano in modo
mutevole e proteiforme, mediante il processo composito di elaborazione
autocosciente di concetti e categorie teoriche (il Begriff hegeliano) dotate di
un raggio d’azione generale (ad esempio il concetto di archè-principio
fondamentale, sviluppato dai presocratici), create e costruite via via in base
alle conoscenze e esperienze, alle capacità intellettuali e all’immaginazione
creativa dei diversi filosofi; a volte, come nel caso della filosofia di
matrice irrazionalista, arrivando a conclusioni demolitorie proprio rispetto ai
poteri e potenzialità della ragione umana, ma sempre tentando di dimostrare
tali tesi per via autonoma e utilizzando in parte degli argomenti che si
appellano alla riflessione e al giudizio critico degli esseri umani, come nel
caso di Pascal, Schopenhauer, Kierkegaard, ecc.
L’oggetto e le questioni fondamentali che suscitano come
minimo da due millenni l’interesse della nostra specie, formando gli oggetti e
le “meraviglie” specifiche delle lotte e del processo di sviluppo della
filosofia, della sua ricerca della verità da Talete (600 a.C.) fino ai nostri
giorni, della sua caccia al senso/ordine e immagine del mondo, in una continua
dialettica tra domande e risposte di respiro generale, risultano di varia
natura e assai variegate. Possono essere comunque sottolineate le più importanti,
e cioè:
- la questione della priorità tra materia e spirito (il “Cielo”, nella terminologia confuciana): Engels, nel suo “L. Feuerbach”, la definì correttamente come la questione centrale e decisiva nella storia filosofica, partendo proprio da Talete e dai “presocratici” ;
- Il correlato problema dell’esistenza/inesistenza di divinità (o di una sola divinità) superpotenti e superiori al genere umano: le domande/risposte sull’esistenza di Dio, in altri termini;
- il “problema-morte” e le questioni correlate dell’esistenza/inesistenza dell’anima e della sua immortalità, da Pitagora in poi;
- la possibilità/impossibilità di conoscere in modo adeguato sia l’uomo che la realtà esterna dell’uomo, oltre ai criteri utilizzabili per accertare la verità (la praxis di Marx, ecc.);
- l’autoanalisi dello stesso pensiero umano, alias la logica formale e dialettica (da Pitagora ed Eraclito) e lo studio delle corrette modalità di funzionamento ed espressione della ragione umana;
- il dubbio “diabolico” (Cartesio) rispetto alla stessa esistenza, autonoma e indipendente, dell’uomo e/o dei fenomeni, processi ed oggetti diversi da quest’ultimo: il problema del primo film della serie Matrix, se si vuole, o dei “cervelli in una vasca” di H. Putman ;
- la questione dell’essenza più profonda dell’Universo: ad esempio l’acqua per Talete costituiva il fondamento del reale, “perché ciò da cui tutto si genera è il principio di tutto” . Non a caso i primi filosofi occidentali dell’area ionica si interessarono principalmente dell’“ontologia, della natura, dell’universo, delle origini e della destinazione finale di tutte le cose. Gli antichi pensatori furono profondamente interessati rispetto ai problemi cosmologici. Tutto ciò in seguito venne definito come ontologia – lo studio della natura dell’essere”;
- la dialettica tra infinito e finito, relazione e problema che attraversa la filosofia occidentale a partire dal geniale filosofo idealista Pitagora fino al geniale materialista Lenin dei “Quaderni filosofici” del 1908/1918;
- il problema della modificazione e trasformazione continua (Eraclito, ecc.) o, viceversa, della permanenza e “continuità” profonda della realtà (Parmenide, ecc.), dell’ “Essere” e dell’Universo, con lo scontro tra il metodo dialettico e quello invece contraddistinto dalla cristallizzazione metafisica della realtà ;
- l’enigma delle relazioni/assenza di relazioni tra tempo, spazio e materia in movimento (Agostino, Engels, lo spazio curvo di Einstein, ecc.);
- la questione della natura umana, della sua componente principale (uomo buono/cattivo, originariamente buono o egoista, ecc.) e della sua immutabilità o trasformazione in base alla stessa pratica sociale/individuale;
- la questione del pensiero umano e della sua “fonte”, e cioè se esso sia il frutto di un’anima immateriale o del corpo umano: Alcmeone di Crotone già nel sesto secolo A.C., diversamente dal suo contemporaneo Pitagora, individuò nel cervello la sede del pensiero;
- le domande/risposte sul ruolo e posizione generale della nostra specie all’interno dell’universo, sul senso e significato (o assenza di significato) della vita, sulle potenzialità e limiti umani (prometeismo e antiprometeismo, ecc.);
- la possibilità/impossibilità per l’uomo di raggiungere la felicità e serenità d’animo, con i modi diversi per conseguire tali stati d’animo (Epicuro, stoici, ecc.);
- l’etica e il processo di definizione e scelta tra “bene” e “male”, tra azioni buone e cattive, oltre all’analisi dell’unità e contraddizioni tra fini e mezzi, alla ricerca del senso dell’esistenza umana e al processo di verifica dell’esistenza/inesistenza della libertà, ecc.;
- l’estetica: il processo di definizione di “bello e brutto”, dell’arte e creazione artistica;
- le domande/risposte sulle potenzialità e i limiti della ragione umana, alias la dialettica tra razionalismo e irrazionalismo nel pensiero occidentale ;
- la possibilità/impossibilità per la stessa filosofia di riprodurre “la realtà come in sé” (Lukacs) e, come affermava I. Kant, di creare una “scienza della relazione” (dei rapporti e interconnessioni) “di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana”, a sua volta capace (Lukacs) di “riunire i principi e le leggi” della conoscenza scientifica e di trovare il sacro Graal delle leggi universali dell’universo, in altri termini.
Tuttavia l’elenco in via d’esposizione, approssimativo anche
per economia di spazio, non può non comprendere tra le sezioni principali della
pratica sociale filosofica anche il processo di focalizzazione teorica
sull’economia (intesa in senso ampio), sulla politica e sulla società; sui
rapporti sociali di produzione via via creatisi tra gli esseri umani, sullo
stato e sul potere, sulle ricchezze e il denaro; sulla valutazione delle
disuguaglianze sociali (la schiavitù come tema ricorrente tra i filosofi e
pensatori occidentali, da Platone e Aristotele fino a Locke e Voltaire) e sulla
costruzione di modelli considerati ottimali per
l’organizzazione/riorganizzazione delle relazioni politico-sociali, e cioè le
“utopie” e i progetti di ricostruzione della società, da Pitagora e dalla Repubblica di
Platone in poi…
Visto che la filosofia risulta una forma particolare di
riflessione sociale sui processi naturali e umani, non poteva non interessarsi
e interrogarsi anche sulla praxis politica (e scientifica, ponendosi spesso
essa come “ponte” e punto d’interconnessione tra i due segmenti dell’attività
umana in oggetto), e da Pitagora e Socrate fino all’inizio del nostro terzo
millennio la filosofia ha mostrato pertanto una sorta di attrazione fatale per
la politica e la scienza politica. In altri termini la filosofia occidentale (e
quella di altre aree geopolitiche, a partire da quella cinese), almeno fin
dalle lontane elaborazioni di Pitagora e Senofane, dei sofisti e di Socrate
risulta anche, e a volte principalmente una “filosofia politica” e
politico-sociale, che ha avuto anche (e a volte principalmente) come oggetto
specifico della sua ricerca la sfera politica e politico-sociale, ivi comprese
tematiche concrete e “volgari” quali violenza e potere, denaro e schiavitù,
guerre e rivoluzioni, lotte di classe (la Politica di Aristotele risulta
illuminante sotto questo aspetto), gerarchie socio-produttive e
legittimità/illegittimità della proprietà privata dei mezzi di produzione,
costituendo pertanto una sorta di prosecuzione della politica nel campo teorico
e la riflessione di natura sistematica sulla sfera politica, come rilevò
Althusser nel 1968.
Già il padre fondatore della filosofia occidentale, Talete,
vissuto alla fine del settimo secolo a.C. nella zona greca del mar Ionio, non
si interessò esclusivamente di rintracciare e riconoscere “l’unica sostanza”
(Abbagnano) “che fa della natura stessa un mondo, … che costituisce il suo
essere, l’unica legge che regola il suo divenire”, ma si occupò anche
direttamente di altre questioni più prosaiche, di natura scientifica e
politico-economica, risultando a tutti gli effetti un politico, “un uomo
politico, astronomo, matematico e fisico, oltre che filosofo”. Come uomo
politico spinse i Greci della Ionia, come narra Erodoto (I, 170), a unirsi a
uno stato federativo con capitale Teo. Come astronomo predisse un eclisse
solare (probabilmente quello del 28 maggio 585 a.C.). Come matematico, trovò
vari temi di geometria. Come fisico, scoprì le proprietà del magnete. Un altro
aneddoto riferito da Aristotele (Pol., I, 11, 1259 a) tende invece a mettere in
luce la sua abilità di uomo d’affari: prevedendo un abbondantissimo raccolto di
olive, egli prese in affitto tutti i frantoi della regione e li subaffittò poi
a un prezzo molto più alto agli stessi proprietari. Si tratta probabilmente di
aneddoti spuri, riferiti a Talete più come a simbolo e incarnazione del savio
che come a persona”.
Sempre sul piano delle questioni “prosaiche” e materiali
fornite via via dall’economia e dalla politica, G. Lukacs giustamente si chiese
in modo retorico “è forse Hegel il solo pensatore di rilievo nella cui opera
complessiva l’economia occupi un posto importante? Ogni conoscitore della
filosofia inglese risponderà subito energicamente di no ad una domanda di
questo genere. Egli sa dei rapporti che intercorrono fra Hobbes e Petty; sa che
Locke, Berkeley e Hume furono anche economisti, che Adam Smith è stato anche
filosofo, che le concezioni sociali di Mandeville sono inseparabili dalle sue
idee economiche, ecc. Ma sa nello stesso tempo che il nesso metodologico tra,
poniamo, l’economia e la gnoseologia di Locke, è un campo che non è stato
ancora studiato, che la letteratura si è finora limitata a stabilire
biograficamente questa unione personale di economia e filosofia, e a trattare
poi separatamente, l’uno accanto all’altro, i due campi di attività dei
relativi pensatori.
Naturalmente questi rapporti non sussistono solo nella
filosofia inglese. A partire da Platone e da Aristotele, anzi, da Eraclito, non
c’è praticamente un solo pensatore universale, un solo filosofo, che non abbia
prestato alcuna attenzione a questo complesso di problemi”.
Anche se il processo concreto di sviluppo della filosofia
occidentale ha visto solo una minoranza dei suoi protagonisti principali
impegnarsi direttamente nell’area politico-sociale (Pitagora, Marx ed Engels,
Sartre, ecc.), la passione rivolta alla ricerca della verità e al processo di
analisi sulla gestione degli affari comuni della società, ivi comprese lo
studio dei diversi modelli di organizzazione sociopolitica, ha costituito molto
spesso una molla irresistibile e una nobile tentazione per i filosofi, almeno a
partire dalla scuola di Pitagora e da circa 2500 anni fa , fino ad arrivare
all’inizio del terzo millennio. Nell’opera “La Repubblica”, Platone giunse fino
ad affermare che “se i filosofi non governano le città o se quelli che ora
chiamiamo governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il
potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la
moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’una o all’altra
non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i
mali delle città e anche quelli del genere umano”.
Sotto questo aspetto e per questa materia specifica di
elaborazione teorica, i filosofi occidentali si sono divisi e confrontati
appartenendo a due tendenze e “squadre” principali, i “rossi” e i “neri”.
La squadra più numerosa e quasi sempre egemone, che partì
dal sofista Trasimaco per arrivare a Nietzsche e al lucido delirio nazista dei
“Quaderni neri” del filosofo antisemita/anticomunista M. Heidegger, a Popper, a
Rothbard e agli anarco-capitalisti, in forme diverse e con livelli assai
variabili di elaborazione e passione ha costituito una sorta di raffinato
branco di “cani da guardia”, collocati e posizionati sul piano teorico e
intellettuale, dei ricchi/privilegiati e del processo di riproduzione dei
mutevoli rapporti sociali di produzione/potere di matrice classista, esprimendo
e sostenendo via via una scelta di campo (più o meno critica, più o meno
convinta) a favore della disuguaglianza sociale e dello sfruttamento dell’uomo
sull’uomo e spesso contestando le tesi contrapposte degli avversari della proprietà
privata dei mezzi di produzione, come avvenne ad esempio nel caso del geniale
ma filoschiavista Aristotele.
Siamo in presenza (plurimillenaria) di un insieme variegato
di “cani da guardia” intellettuali spesso feroci, come nel caso
dell’apparentemente etereo filosofo Kierkegaard, che dopo il 1847 abbandonò il
suo iniziale anticapitalismo romantico scrivendo nel 1849 che “se la
provvidenza deve mandare profeti e giudici, ciò deve avvenire unicamente per
aiutare il governo” e sottolineando, pochi anni dopo, che “tutta la mia opera è
rivolta alla difesa della situazione esistente”.
Ma per fortuna si è via via sviluppata simultaneamente anche
una nutrita “squadra rossa” che, da Pitagora e Diogene di Sinope fino a
giungere a Lenin e Gramsci, ha invece espresso (seppur in forme mutevoli, oltre
che con livelli di elaborazione e passione molto variabili) una precisa opzione
teorica a favore del comunismo e del processo di creazione di relazioni
fraterne ed egualitarie fra gli uomini, tentando di legittimare sul piano
filosofico-razionale una scelta di campo socioproduttiva di matrice
collettivistica, a volte non priva di limiti e contraddizioni secondarie, come
nel caso di Lucrezio.
Oltre a essere in dissenso oggettivo, i due gruppi e “campi”
filosofico-sociali (e politici) principali si sono spesso scontrati tra loro
direttamente: basti pensare ad esempio alla polemica di Aristotele e della sua
scuola contro le tesi favorevoli alla comunione dei beni, alla lotta millenaria
dei teologi cattolici, a partire da Agostino, contro gli “eretici”
collettivistici e i loro pensatori (manichei, marcioniti, ecc.), oppure allo
scontro creatosi anche sul piano filosofico dopo il 1840 tra socialisti e
antisocialisti, tra marxisti e antimarxisti, ecc.: anche sotto questo profilo
la filosofia è risultata, per dirla con Kant, un “campo di battaglia” a volte
feroce e cruento, sul piano intellettuale, con precise ricadute anche su quello
politico e pratico .
Collocata e posta in una zona intermedia rispetto alle due
tendenze principali, è emersa anche l’interessante e variegata “squadra dei
meticci”: e cioè il gruppo dei filosofi (Senofane, Eraclito, Platone, Pico
della Mirandola, Giovanni Scoto Eriugena, G. Bruno, Rousseau, J. Stuart Mill
junior, John Rawls, ecc.) che, nel corso dei processi di sviluppo della loro
proteiforme elaborazione teorica, ha fatto emergere nelle loro opere
(filosofico-politiche e filosofico-sociali) sia elementi e spunti tipici della
“linea rossa” che analisi, tensioni ideali e tesi appartenenti invece a pieno
titolo alla tendenza filoclassista in campo filosofico, con un parziale
equilibrio al loro interno del peso specifico via via assunto dalle due “anime”
teoriche in conflitto/coesistenza reciproca al loro interno.
Usando le immagini e un concetto già elaborato dal grande
regista (e filosofo, a modo suo) Sergio Leone nel suo splendido film “Il buono,
il brutto e il cattivo”, stiamo esaminando un particolare, mutevole e
bimillenario “triello” che ha contraddistinto la dinamica di sviluppo della
filosofia occidentale, in una lotta continua (con numerose contaminazioni
reciproche, tentativi di sintesi e ricerche di ricomposizione/riconciliazione
tra i tre “duellanti”) e in un processo di interconnessione quasi costante tra
i filosofi “rossi”, “neri” e “meticci” che via via hanno elaborato analisi,
progetti e – a volte – pratiche collettive rivolte alla sfera politico-sociale.
Lo scontro plurisecolare tra “squadra rossa” e “squadra
nera”, tra due linee e tendenze alternative in campo filosofico-politico, con
l’intervento poi della zona intermedia, “meticcia”, rappresenta una realtà
concreta e un “fatto testardo” (Lenin) e di un certo rilievo, dimostrando tra
l’altro la persistenza e continuità dell’effetto di sdoppiamento non solo sul
piano socioproduttivo, dal 9000 a.C. fino ai nostri giorni e al terzo
millennio, ma anche nel livello della “sovrastruttura” marxiana e delle
pratiche sociali tese a produrre idee e teorie filosofiche, concezioni del
mondo basate sul connubio variabile tra analisi razionale (autonoma,
autodiretta) ed esperienza concreta.
Cos’è l’effetto di sdoppiamento? Ripetendo concetti e
metafore già sviluppate in altre opere precedenti, si può notare che secondo la
concezione marxista-ortodossa della storia universale, quest’ultima può essere
paragonata ad una grande e lunga strada a senso unico, anche se composta da
alcune diramazioni secondarie che in seguito si ricollegano al sentiero
principale, oltre che da una serie di “vicoli ciechi” che vengono via via
abbandonati, più o meno rapidamente.
In questa prospettiva storica, la “grande strada” è formata
via via da vari segmenti socio-produttivi interconnessi, seppur ben distinti
tra loro (comunismo primitivo/comunitarismo del paleolitico, nella preistoria
della nostra specie; fase del modo di produzione asiatico; periodo
schiavistico; fase feudale; epoca capitalistica e, infine,
socialismo/comunismo), ma essa era ed è considerata tuttora un tracciato
predeterminato, almeno in ultima istanza: qualunque “viaggiatore” e società
potevano/possono anche prendere delle “scorciatoie” ma alla fine, volenti o
nolenti, erano /sono costretti a rientrare nel sentiero di marcia principale e
nelle sue variegate, ma obbligate tappe di percorso.
In base ai dati storici allora a conoscenza e a disposizione
di Marx ed Engels fino al 1883/95, questa teoria risultava l’unica visione
complessiva del processo di sviluppo della storia universale che poteva essere
(genialmente) elaborata a quel tempo ma, proprio dopo il 1883/95, tutta una
serie di nuove scoperte ed avvenimenti storici portano a preferire una diversa
concezione generale della dinamica del genere umano: l’effetto di sdoppiamento.
Immaginiamoci una “grande strada” che, dopo un lunghissimo
segmento (fase paleolitica e mesolitica) di scorrimento, si trovi di fronte
improvvisamente ad un “grande bivio” ed a una gigantesca biforcazione: da tale
bivio partono e si diramano due diverse ed alternative strade, che conducono a
mete assai dissimili, senza alcun obbligo a priori per i “viaggiatori” (a causa
del Fato/forze produttive) di scegliere l’una o l’altra.
Ma non basta. Non solo non vi è più una sola strada
obbligata di percorso, ma - a determinate condizioni e pagando determinati
“pedaggi” – qualunque “viaggiatore” e qualunque società umana possono
trasferirsi nell’altro tracciato, alternativo a quello selezionato in
precedenza, cambiando pertanto radicalmente le proprie condizioni materiali di
“viaggio” nell’autobus che stanno utilizzando con altri passeggeri: la scelta
iniziale di partenza “al bivio”, giusta o sbagliata, risulta sempre reversibile
in tutte e due le direzioni di marcia, in meglio o anche in peggio.
Fuor di metafora, la concezione che proponiamo ritiene che
subito dopo il 9000 a.C., ben undici millenni fa nell’Eurasia del periodo
neolitico, con la scoperta dell’agricoltura, allevamento e artigianato
specializzato, si sia creato e riprodotto costantemente fino ai nostri giorni
un “grande bivio”, da cui si sono diramate due “strade”, due linee e due
tendenze socioproduttive di matrice alternativa, l’una di tipo
comunitario-collettivistico e l’altra di natura classista, fondata invece
sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Pertanto dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, nell’era
del surplus e dai tempi lontani neolitici della Gerico collettivistica dell’8500
a.C., non sussiste alcun determinismo storico, ma altresì un campo di
potenzialità oggettive (sviluppo delle forze produttive e
creazione/riproduzione ininterrotta di un plusprodotto accumulabile… l’era del
surplus) su cui si possono innestare, e si innestano poi concretamente e
realmente delle prassi sociali contrapposte, volte a condividere in modo
fraterno mezzi di produzione/ricchezza/surplus o, viceversa, a fare in modo che
essi vadano sotto il controllo e possesso di una minoranza del genere umano, in
entrambi i casi con immediate ricadute anche sulla sfera politico-sociale delle
diverse società.
Detto in altri termini, a parità di sviluppo qualitativo
delle forze produttive e già formatisi elementi cardine quali
agricoltura/allevamento/surplus costante, fin dal 9000 a.C. per arrivare ai
nostri giorni era possibile che si sviluppasse sia l’egemonia di rapporti di
produzione collettivistici, che quella alternativa di matrice classista: un
effetto di sdoppiamento nel quale nulla era/è tuttora scritto a priori, nei
libri mastri della Storia.
Situazione di “sdoppiamento”, potenziale/reale, valida nel
9000 avanti Cristo ma anche nel 2014 della nostra era, valida nel 8999 a.C., ma
anche nel prossimo anno e nei prossimi decenni: uno stato di sdoppiamento ed
un’alternativa radicale nei rapporti di produzione possibili e praticabili sul
piano storico, che da undici millenni esclude a priori qualunque forma di
determinismo storico e di metafisica basata sul “progresso inevitabile” del
genere umano.
Certo, qualunque regressione ad uno stadio paleolitico
basato sulla caccia/raccolta di cibo era ed è tuttora impedita proprio da quel
processo di sviluppo qualitativo delle forze produttive, da quell’ “era del
surplus” costante/accumulabile che determina il sorgere e la riproduzione
ininterrotta dell’effetto di sdoppiamento. Ma astraendo da tale “dettaglio” non
trascurabile, negli ultimi undici millenni il corso della storia universale è
diventato decisamente multilineare, composto com’è dal “bivio” e da due “strade”
alternative in campo socioproduttivo e politico, la cui logica più profonda
risulta essere l’antideterminismo e l’emersione costante di un campo di
potenzialità alternative, nel quale la pratica collettiva degli uomini del
passato, presente (noi stessi…) e del futuro assume un ruolo decisivo, sotto
tutti gli aspetti”.
Diventano in ogni caso necessarie alcune precisazioni, prima
di avviare il viaggio avventuroso tra le agitate e tumultuose correnti del
“oceano-filosofia”.
Va innanzitutto sottolineato come la differenza tra “linea
rossa” e “linea nera” in campo filosofico-politico spesso coincida con la
grande faglia di separazione tra esponenti materialistici (=primato e priorità
temporale della materia rispetto allo spirito e alla coscienza-intelletto) e pensatori
idealistici (primato delle idee/spirito rispetto alla materia): ma non sempre e
non in ogni caso, e vi sono anzi numerosi esempi di segno contrario in tutte e
due le direzioni.
Ad esempio Tertulliano risultava profondamente cristiano, ma
del genere “rivoluzionario-apocalittico”.
E a sua volta Dolcino, per la sua elaborazione
filosofico-religiosa apparteneva chiaramente al campo filosofico di matrice
idealista, a causa della sua appassionata fede nell’esistenza-onnipotenza della
divinità cristiana, oltre che nella prossima venuta salvifica-apocalittica di
uno (splendido) Gesù-liberatore degli oppressi, rientrando sicuramente nella
categoria dei filosofi per cui “l’idea” e/o lo “spirito” (Dio, nel caso in
oggetto) preesistevano alla formazione della materia: ma altrettanto
chiaramente, come del resto vale per il suo lontano maestro spirituale
Gioacchino da Fiore, l’eroico frate italiano espose una concezione
filosofico-politica di matrice comunista, facente parte a pieno titolo della
“linea rossa” in campo filosofico.
Rousseau era un filosofo idealista, ma egualitario e
democratico; Fichte risulta addirittura un idealista soggettivo, ma allo stesso
tempo un pensatore almeno in parte vicino al socialismo utopistico, e a sua
volta anche il comunista Karl Liebknecht, ucciso dai militari e dalla
socialdemocrazia tedesca nel gennaio del 1919, si dichiarava idealista (“più
deciso di Fichte”) in campo filosofico: l’elenco potrebbe allungarsi a lungo.
Passando poi al campo del materialismo filosofico, David Hume, Hobbes e Holbach
risultavano spesso vicini a posizioni materialiste, ma animati in ogni caso da
una precisa scelta di campo classista, come del resto Nietzsche e le sue
posizioni aristocratiche e antisocialiste ben descritte da D. Losurdo nel suo
eccellente saggio “Nietzsche, il ribelle aristocratico”.
Pertanto il criterio essenziale per distinguere tra le due
tendenze in via di esame non consiste nella scelta filosofica tra materialismo
e idealismo o nell’appartenenza sociologica dei singoli pensatori alle classi
sociali dominanti, visto che anche Marx , Engels e Lenin non risultavano
sicuramente di famiglia operaia (o divenuti operai nel corso della loro vita);
ma viceversa nell’elaborazione di prospettive intellettuali corrispondenti agli
interessi politico-sociali delle classi dominanti o, in alternativa, a quelli
delle masse sfruttate (schiavi, servi della gleba, operai) e al processo di
costruzione di una società libera da sfruttamento e oppressione, senza
necessariamente (vedi Pitagora, Lucrezio, ecc.) scegliere prospettive
rivoluzionarie a favore del comunismo.
In secondo luogo, il campo di indagine di questo saggio è
stato volutamente limitato solo al processo bimillenario di sviluppo della
filosofia occidentale, non prendendo in esame la dialettica via via creatasi
tra tendenza classista e quella collettivistica all’interno della splendida e
sofisticata filosofia cinese, oppure di quella indiana, araba ed ebraica.
Se il lavoro in via di esposizione susciterà un minimo di
interesse e di dibattito, saremo sempre in tempo ad allargare il raggio
d’analisi a pensatori filosofi di matrice “meticcia”, quali ad esempio in Cina
un filosofo quali Mo-ti, o completamente “rossi”: come furono ad esempio sia il
geniale fondatore del taoismo, Lao-Tzu (il cui modello utopico “era il
collettivismo tribale primitivo”, secondo il grande storico marxista J.
Needham), oltre ai grandi filosofi K’ang Yu-Wei (1858-1927) e Mao Zedong, per
citare solo alcuni dei suoi esponenti principali.
Terzo chiarimento: la filosofia occidentale, almeno alle sue
origini, non risulta per sua natura o necessità divina destinata ad un
“corporazione” (Onfray) e a una “setta” che confischi “il sapere filosofico in
vista della sola riproduzione della propria casta professionale”, come ad
esempio sta avvenendo quasi ovunque nel mondo capitalistico avanzato, a partire
dal 1975/79. Parafrasando Gramsci, risulta invece che ciascun uomo risulta un
filosofo embrionale, anche se molto spesso egli non sa di esserlo, non produce
una propria filosofia particolare e riflette in modo solo sporadico e
occasionale sulla “vita” (Fung Yu-Lan) e sui suoi enigmi: immortalità
dell’anima, Dio, senso dell’esistenza, felicità, ecc.
L’uomo (cosiddetto) comune, normale e ordinario risulta in
possesso di grandi potenzialità anche nel campo della attività creativa, a
patto che egli si impegni continuamente verso di essa attraverso un progetto
mirato: secondo il neurobiologo Semir Zeki ogni uomo risulta creativo a modo
suo, come del resto sostenevano anche il grande Picasso e Fidel Castro. “Né
dovremmo limitarci a considerare l’arte, la musica e la letteratura le uniche
facoltà del mondo creativo. Perché la creatività vale anche per i bambini che
costruiscono castelli di sabbia, per chi perfeziona l’arte della conversazione,
per le capacità gestionali e per molte altre attività e azioni umane. Anzi, la
difficoltà è identificare azioni e attività dove l’elemento creativo sia
assente. La creatività e l’immaginazione sono dunque attributi di cui ogni
cervello è in vario grado miracolosamente dotato, e che in vario grado esprime
nelle sue attività. La creatività è, per così dire, la strategia del cervello
per supplire ai propri limiti”.
Serve solo un nuovo modo di filosofare, che è allo stesso
tempo molto antico e molto comunitario, anche se quasi dimenticato ai nostri
tempi.
“In che cosa consiste questo nuovo modo di filosofare? Un
modo assai antico… perché è quello dell’agorà e del foro. Esso definisce la
maniera antica di praticare una filosofia aperta destinata al passante
ordinario: Protagora lo scaricatore, Socrate lo scultore, Diogene l’assistente
banchiere, Pirrone il pittore, Aristippo l’insegnante sono dei veri filosofi –
creatori di visioni del mondo, autori di opere teoriche, vivono il loro
pensiero nel quotidiano e conducono una vita filosofica – non sono
professionisti della professione come i postmoderni.
Allo stesso modo non si rivolgono a specialisti destinati
all’insegnamento, o alla ricerca filosofica. Parlano al pescivendolo, al
carpentiere, al tessitore che si trova a passare di là e, a volte, si ferma,
ascolta, aderisce e si converte a un modo di esistenza specifico teso alla
creazione di sè come soggettività felice, in un modo dominato dalla
negatività”.
Anche a nostro avviso, per riprendere respiro e forza
propulsiva dopo la sua decadenza iniziata nel 1975/79, la filosofia deve
tornare ad essere un “commons” concreto e un “bene comune” che interessi
direttamente anche e soprattutto gli operai e lavoratori salariati, come aveva
già notato l’eroico comunista (e filosofo) G. Politzer nel 1935.
Utilizzando a tale scopo e traducendo in parole semplici e
concrete anche i migliori messaggi filosofici, più o meno elaborati, che sono
stati via via espressi nell’ultimo secolo dall’arte contemporanea: non solo dal
cinema, ma anche dalla pittura (si pensi solo alla geniale Guernica di Picasso)
e alla letteratura, come nel caso del libro “Se questo è un uomo” di Primo
Levi, e della raccolta di poesie “La vita non è sogno” di Salvatore Quasimodo,
per usare solo due dei tanti esempi a disposizione.
Anche attraverso il nuovo e creativo processo di simbiosi
tra filosofia e arte, a nostro avviso la filosofia può tornare a essere un
prezioso patrimonio collettivo, strettamente collegato alla riflessione
individuale e collettiva sull’esistenza umana (felicità, senso della vita,
morte e continuità della specie, ecc.: Epicuro, per fare solo un esempio),
sugli attuali rapporti sociali e politici e sulla dinamica di sviluppo della
scienza/tecnologia contemporanea: su quest’ultimo aspetto Lukacs aveva notato
del resto che già nel 1500 e in epoca rinascimentale, in seguito all’impetuoso
sviluppo delle scienze, naturali vennero spontaneamente e quasi senza
mediazione teorica “posti e risolti nelle scienze, spesso senza consapevolezza
filosofica, problemi dialettici” e tutta una serie di questioni strettamente
filosofiche.
Quarta precisazione. Il termine materialismo, nel libro in
via d’esposizione, verrà utilizzato solo per e nel suo significato filosofico,
come concezione del mondo fondata innanzitutto e principalmente sul primato
ontologico e temporale della materia sullo “spirito”, significato totalmente
diverso dal senso ordinario e dispregiativo assunto dal termine e divenuto di
regola sinonimo di crassa avidità, egoismo, brama esclusiva dei beni terreni,
assenza di ideali e altruismo, ecc.: sussiste tuttavia una seconda “radice” e
un secondo contenuto proprio di regola del materialismo in campo filosofico, e
cioè l’apprezzamento dei piaceri terreni e della stessa corporeità umana, in
una valutazione positiva che molto spesso i filosofi idealisti, a partire da
Platone, hanno invece negato con forza.
Concordiamo pertanto con Onfray almeno sulla necessità di
rivalutare radicalmente il “corpo umano e le passioni fisiche” (a partire dalla
fondamentale coppia cibo/erotismo), contestando radicalmente le diffuse
concezioni idealistiche (sul piano filosofico, non certo intese come amore
degli ideali e dell’altruismo) che esprimono “odio del corpo” accompagnato
all’esaltazione “dell’anima… e disprezzo per la carne sensuale”, proprio nel
campo della produzione di idee.
Ha notato Onfray, proprio riferendosi a tale vizio di
origine dell’idealismo filosofico, che “la scrittura della storia della
filosofia greca è platonica. Di più: la storiografia dominante nell’Occidente
liberale è platonica… Platone la fa dunque da padrone perché l’idealismo,
facendo prendere le lucciole mitologiche per lanterne filosofiche, permette di
giustificare il mondo così come è, e di invitare a distogliersi da quaggiù,
dalla vita, da questo mondo, dalla materia del reale, verso quelle finzioni
infantili a cui si riducono tutte le religioni: un cielo di idee pure che
sfugge al tempo, all’entropia, agli uomini, alla storia, un oltremondo popolato
da sogni screditati di una realtà superiore al reale, un’anima immateriale che
salva gli uomini dal peccato di incarnazione, la possibilità per l’homo
sapiens, che dedica scrupolosamente tutta la sua vita a morire mentre è ancora
vivo, di conoscere la felicità angelica di un destino post mortem – e altre
insulsaggini con cui si è costruita quella visione mitologica del mondo in cui
molti stanno ancora a marcire. Certo, Platone non è Descartes, il quale non è
Kant, ma questi tre, dividendosi venti secoli di mercato idealistico,
monopolizzano la filosofia, occupano ogni posto, e all’avversario non lasciano
nulla, neanche le briciole”.
Onfray ha in parte ragione su questo punto specifico, ma
sottovaluta un altro importante processo politico-intellettuale di “rimozione”
avvenuto rispetto alla dinamica bimillenaria di sviluppo della filosofia
occidentale, anche per responsabilità diretta di molti filosofi: e cioè che i
filosofi “rossi e sovversivi”, a partire dai pensatori cinici, sono stati il
più possibile messi in un angolo e quasi dimenticati dalle multiformi storie
della filosofia via via elaborate nell’area occidentale.
Solo sguardi fugaci, nel migliore dei casi, e molto più
spesso il silenzio hanno infatti circondato alcuni teorici interessanti e
collocati su posizioni antagoniste rispetto alle strutture socioproduttive
classiste del loro tempo, quali ad esempio:
- Pitagora, il geniale fondatore della dialettica e dell’idealismo filosofico in terra occidentale;
- Tertulliano, con il suo “tutto è comune tra noi, tranne le donne”;
- Marcione;
- Raterio da Verona
- Gioacchino da Fiore;
- Ruggero Bacone
- Fra Dolcino (non solo un eroico rivoluzionario comunista, ma anche un notevole pensatore);
- B. Rothman, il teorico degli anabattisti della Comune di Munster del 1534/1535;
- T. Campanella;
- J. Meslier, con il suo “testamento” ateo e comunista;
- Adam Weishaupt, filosofo panteista (oltre che fondatore della setta degli Illuminati di Baviera) e comunista.
Stando almeno alla grande maggioranza degli storici
occidentali, sembra quasi che il “filo rosso” in campo filosofico sia iniziato
con Rousseau, mentre invece esso “viene da molto lontano” (Gramsci) e si
svilupperà ulteriormente anche nei prossimi decenni. Certo, l’egemonia
culturale è rimasta all’interno della filosofia occidentale quasi sempre nelle
dure “mani” teoriche della tendenza filoclassista, ma importanti (seppur
diversissimi tra loro) pensatori quali Lucrezio e Marx, Marcione e Lenin,
Lukacs e Gioacchino da Fiore hanno via via permesso alla (variegata e
composita) linea collettivistica della filosofia occidentale di riprodursi
storicamente come una seria e consistente controtendenza egualitaria, in grado
di incidere realmente nel corso del processo di sviluppo bimillenario della
praxis teorica rivolta ad una indagine a tutto campo, allo stesso tempo
razionale e colma di “meraviglia”, rispetto agli enigmi e problemi più
importanti dell’esistenza umana.
Serve inoltre introdurre un utile precisazione, anti-eurocentrica,
rispetto ai primordi (quasi completamente rimossi) della filosofia universale:
sotto questo aspetto il punto più importante diventa il fatto che la filosofia
(intesa come analisi della realtà basata su esperienza/ragione capace di produrre
categorie teoriche di interpretazione/trasformazione della realtà) trovò il suo
punto di irradiazione in Cina e non nel mondo greco. Infatti la prima tesi
filosofica a noi conosciuta risale addirittura al nono secolo a.C. con la
teoria cinese dei “Cinque Elementi”, contenuta nella sezione “Il grande
progetto” del “Libro dei documenti storici”. Testo antichissimo, pertanto, nel
quale vengono menzionate e descritte le cinque forze attive che determinano
l’evoluzione e la struttura fondamentale dell’universo, acqua, fuoco, legno,
metallo e terra: un pentagono di forze materiali che combinate in modo mutevole
tra loro, determinano lo sviluppo dell’universo e del genere umano, e proprio
nella più tarda filosofia greca troveremo almeno due di esse (l’acqua per Talete,
il fuoco per Eraclito) come punti di elaborazione del pensiero razionale
occidentale sull’ontologia.
Sesto approfondimento: da dove nascono in ultima analisi le
questioni fondamentali e le “domande” tipicamente filosofiche?
Su questa tematica va notato come l’uomo sociale sia via via
diventato attraverso la sua stessa praxis sociale, a partire dal lavoro, un
animale che si pone collettivamente delle domande (su se stesso e sul mondo
circostante) di natura non-genetica e non-istintiva, tentando di fornire ad
esse delle risposte, giuste o sbagliato che esse si rivelino nella e attraverso
la pratica sociale, e si pose delle domande non-genetiche e per così dire
“artificiali” già dal momento in cui egli costruì, circa due milioni di anni
fa, i suoi primi strumenti in pietra attraverso l’uso di altri utensili,
creando l’avvio del processo tecnologico e del lavoro umano: un processo
fondamentale e un salto di qualità gigantesco rispetto alle altre specie
viventi che è stato parzialmente riflesso, in modo geniale anche se
misticheggiante, nella prima parte del film “2001. Odissea nello spazio” del
grande regista (e filosofo, a modo suo) Stanley Kubrik.
Due anni prima di Kubrik, G. Lukacs notò giustamente nel
1966 che “l’uomo primordiale, da cui prima ho preso le mosse, trova delle
pietre in qualche luogo. Una pietra può essere adatta a tagliare un ramo e
un'altra no e questo fatto – essere o non essere adatto – è un problema
assolutamente nuovo, che nella natura inorganica non esiste, perché quando una
pietra rotola giù da una montagna non è una questione di successo o di
fallimento se cade intera oppure si spacca in due o cento pezzi. Mentre dal
punto di vista della natura inorganica ciò è completamente indifferente, la
comparsa del lavoro (e anche di quello più semplice) fa sorgere il problema
dell’utile e dell’inutile, dell’adatto e dell’inadatto, un concetto di valore.
Quanto più si sviluppa il lavoro tanto più estese divengono le rappresentazioni
di valore implicate; e in modo tanto più sottile, e su di un più alto piano, si
pone il problema se una data cosa, in un processo che diventa sempre più
sociale e complesso, sia adatta oppure no per l’autoriproduzione dell’uomo.
Questo è il mio punto di vista sulla fonte ontologica di ciò
che noi chiamiamo valore. Dalla contrapposizione di valore e disvalore sorge
ora una categoria del tutto nuova, che si riferisce a ciò che nella vita
sociale è stata una vita significativa o senza significato”.
Dalla praxis sociale giunsero inoltre via via tutta una
serie di domande e risposte sull’inevitabilità della morte individuale, circa
100.000 anni fa, con le prime sepolture rituali e le prime domande/risposte
sull’esistenza presenza di spiriti benigni/maligni (con i sogni, anche sui
defunti); giunsero in seguito le domande e risposte sull’esistenza della prima
divinità, la “Dea Madre” del paleolitico di 30.000 anni orsono, oltre che sul
senso della vita e l’origine delle cose.
Grazie alla praxis sociale, in primo luogo lavorativa ma non
solo limitata ad essa, l’uomo sociale pertanto scoprì mano a mano la
“meraviglia” e lo stupore proto-filosofico di fronte al mondo e a sè stesso, a
sua volta il vero brodo di cultura primordiale, alla “Blade Runner”, per la
successiva genesi e il salto di qualità filosofico propriamente detto, da
Talete in poi.
Anche solo intesa genericamente, come ricerca della verità
con l’utilizzo dell’esperienza e/o della ragione, la filosofia greca delle
origini, sorse e si sviluppò come un grande processo di interrogazione e
autoriflessione, intessuta di meraviglia, sulla verità del mondo preso nella
sua globalità, trovando in forme diverse tale una prima chiave di risposte
nella particolare materia prima da cui tutto derivava ed era composto. Come ha
notato giustamente il filosofo sovietico A. Spirkin, “il pensiero filosofico si
è tradizionalmente distinto per il suo orientamento teso a comprendere le
fondamenta dell’esistenza entro i limiti dei nostri poteri mentali, i
meccanismi dell’attività cognitiva umana, l’essenza non solo dei fenomeni della
natura ma anche della vita sociale, dell’uomo e della cultura. Tutto ciò ha
avuto un grande significato sia pratico che teorico: è infatti essenziale per il
processo di comprensione del significato e degli obiettivi della vita”.
La protofilosofia può essere pertanto intesa in qualità di
domande sociali rispetto alle fondamenta dell’esistenza (naturale e umana) ed
ai temi importanti che la scienza non può/non può ancora risolvere. Secondo
Aristotele, “tutti gli uomini per natura desiderano conoscere” e sono curiosi:
e se “conoscere”, apprendere in effetti risulta un presupposto decisivo per
qualunque esistenza umana, come insegna ogni esperienza umana dell’Homo sapiens
fin dal processo (anche cognitivo, oltre che produttivo) di raccolta/caccia del
paleolitico, a maggior ragione diventa centrale “conoscere” (anche attraverso
l’opera dei filosofi veri e propri) una “risposta” veritiera alle domande
fondamentali dell’uomo, agli enigmi nascosti in quel particolare “monolito
nero” (Kubrik) costituito dall’universo.
Siamo pertanto in presenza di un bisogno sociale profondo,
anche se a volte rimosso, in una sorta di carsica “sete” di filosofia
all’interno del processo di sviluppo della coscienza collettiva umana che è
sorta con molti millenni di anticipo, rispetto alla teoria cinese dei “Cinque
Elementi” e a Talete. Come ha notato giustamente S. Hawkins, “la specie umana è
una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in
questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo
lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti
una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci
troviamo? Come si comporta l’universo? Quale è la natura della realtà? Che
origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior
parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma
quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo”.
Come minimo dal 100.000 a.C., il genere umano aveva sommato
alla dote (acquisita, e certo non-innata) dell’autocoscienza, alias della
capacità di riconoscersi in uno specchio/acqua, anche la coscienza della
propria mortalità, che lo portò sia ad elaborare i primi riti sepolcrali
(cospargendo i cadaveri con ocra rossa) sia a stabilire la prima relazione
“sacrale” con gli stessi defunti, considerati come ancora vivi perché,
argomento razionale e utilizzato dalle tribù primitive di cacciatori/raccoglitori
con cui l’uomo “civilizzato” è entrato in contatto negli ultimi due secoli,
essi apparivano a volte nei loro sogni: oltre a ciò, sorsero via via tra i clan
paleolitici i variegati miti cosmogonici sulla genesi dell’universo, diffusi sotto
vesti proteiforme in tutti i gruppi di cacciatori-raccoglitori delle varie arre
del globo terrestre.
Si trattò, sicuramente di concezioni del mondo mitiche
ovviamente ma che contenevano in embrione alcune delle “domande fondamentali”
della filosofia: siamo già in zona “Blade Runner” e molto vicino alle tematiche
affrontate nello splendido film di fantascienza di Ridley Scott.
La terz’ultima precisazione riguarda la definizione di
verità, categoria che sta alla base della pratica filosofica assieme alla “ragione”
e alle “questioni fondamentali”, agli enigmi/domande” via via sorte all’interno
del genere umano.
La “Verità” non è altro che il processo dialettico di
corrispondenza del pensiero umano (collettivo/individuale) rispetto alla realtà
e al suo processo di sviluppo, correlazione accertata principalmente attraverso
la praxis: corrispondenza con le “cose” che esiste/non esiste indipendentemente
dalla sua utilità (è vero che tutti noi uomini dobbiamo morire, ma questa
verità innegabile non ci è certo… utile di per sè), dalle credenze collettive
della maggioranza degli uomini (fino al 1600 la gran parte degli occidentali
credeva che fosse il Sole a girare attorno alla nostra Terra, ma il consenso
allora quasi unanime rispetto a tale visione/concezione non la rese certo una
verità) o dalla “coerenza” delle teorie errate e non-veritiere le teorie
tolemaiche sul Sole che gira attorno alla Terra risultavano infatti coerenti e
eleganti, ma completamente errate.
Da tale definizione di verità discendono alcune conseguenze
interessanti, anche e specialmente sul piano filosofico.
La verità non si decide a maggioranza/minoranza, né
tantomeno per il suo grado di utilità diretta, come aveva intuito il geniale
Eraclito più di due millenni fa: ne tantomeno la verità risulta “pluralista” e
dipendente dal contesto storico (Feyerabend), in modo tale che ogni interprete
di essa abbia ragione o almeno nell’ambito della propria formazione e
condizioni culturali.
In secondo luogo la “corrispondenza” in via d’esame risulta
il frutto ed il sottoprodotto della praxis (multiforme) umana, rappresentando
uno dei risultati della (multiforme) attività umana: per dirla con il notevole
filosofo Mao Zedong, le “idee giuste”/verità non cadono certo dal cielo.
In terza battuta, il fatto che la verità significhi un
processo di corrispondenza con il reale del nostro pensiero indica allo stesso
tempo che il “reale” non siamo solo noi umani, che esiste una realtà autonoma
ed esterna al nostro pensiero e che essa non viene assolutamente creata, generata
e riprodotta dalla nostra coscienza umana, individuale e collettiva, o dalla
nostra stessa pratica.
Infine la verità risulta un elemento riproducibile da altre
specie intelligenti: l’uomo infatti produce “Verità” solo se trova criteri che
superino il soggettivismo e che siano riproducibili anche da un’altra (per ora
ipotetica) specie intelligente e capace di produrre strumenti, seppur forse con
altri organi sensoriali e/o criteri di valore.
I raggi ultravioletti e gli ultrasuoni, ad esempio,
rappresentano realtà oggettive indiscutibili ma non percepibili dai sensi degli
uomini: tuttavia la nostra specie ha creato tutta una serie di strumenti mater
con cui conosciamo la loro esistenza e che potrebbero essere ricreati,
riformati e riprodotti da un’altra specie intelligente, preferibilmente più
altruista della nostra.
Risulta anche utile un accenno fugace alla questione della
dialettica costante tra permanenza e trasformazione delle questioni
filosofiche, che attraversa tutta la storia della filosofia occidentale.
Le “questioni fondamentali” della filosofia occidentale non
furono delineate interamente già dagli inizi e con Talete, venendo invece poste
e fatte risaltare via via dai vari filosofi greci attraverso il lungo processo,
a volte tortuoso, della dinamica di trasformazione/ampliamento della filosofia:
ma, allo stesso tempo, con Platone e Aristotele ormai le “domande fondamentali”
dell’analisi filosofica risultavano quasi tutte presentate ed elaborate, con
l’eccezione della questione dell’esistenza/inesistenza del mondo esterno
all’uomo (ci penseranno Cartesio e Calderon de la Barca, 1900 anni dopo).
Pertanto si è sviluppato, dal 300 a.C. e dall’opera di Aristotele, anche un
simultaneo processo di conservazione e continuità all’interno di una parte importante
del processo di produzione della filosofia, per cui dopo Platone/Aristotele “le
questioni erano sempre le stesse” (Engels): che struttura ha il mondo? Esiste
dio (le divinità)? Come fa l’uomo a pensare? Qual è il suo ruolo e posizione
nell’universo? Da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo? E non solo le
domande, ma anche le principali “risposte”, nelle loro linee fondamentali,
rimasero in gran parte simili a partire dal 400/300 a.C. Ad esempio Engels fece
giustamente notare che la lotta antica fra materialismo e idealismo, poli
dialettici in quel periodo incarnati principalmente da Platone e
Democrito/Epicuro, era continuata seppur sotto forma e livelli di elaborazione
diversi anche durante l’epoca tardo-medievale, per arrivare poi all’Ottocento
in cui operarono Marx ed il suo compagno di lotta e, in seguito, ai nostri
tempi.
Non tutte le “questioni fondamentali” (e risposte
fondamentali…) della filosofia, tuttavia, hanno subito un tale processo di
conservazione e di “eterna” giovinezza: almeno due di esse sono state risolte
definitivamente dallo sviluppo scientifico, e cioè il problema “dell’archè” e
del rapporto mente/corpo.
Attraverso la scoperta degli atomi prima, degli
elettroni/protoni/neutroni in seguito, e dei quark negli ultimi decenni, la scienza
moderna ha risolto proprio il problema del “mattone fondamentale”
dell’universo, che aveva tanto tormentato i filosofi occidentali da Talete fino
a Eraclito e Democrito, dando ragione, una volta per sempre, a Leucippo,
Democrito e gli altri esponenti (materialisti) che teorizzavano in modo geniale
l’esistenza degli atomi, fin da quasi tre millenni fa: sorte analoga ha avuto
anche la questione della relazione tra pensiero e corpo, dato che il
progressivo sviluppo della scienza neurobiologica ha dimostrato ormai senza
alcuna possibilità ogni dubbio (ragionevole) sul fatto che il pensiero umano
sia il prodotto dell’attività del cervello umano e dei suoi magnifici,
innumerevoli neuroni e sinapsi, come sostenevano (correttamente) la scuola
materialista in campo filosofico fin dai primi secoli a.C., anche in modo
embrionale e primitivo.
Anche la dialettica tra scienza e filosofia si è via via
trasformata e a vantaggio ovviamente della prima, visti gli eccezionali ritmi
di accumulazione di conoscenza raggiunti dal complesso scienza/tecnologia,
dall’inizio del Seicento e dai tempi di Galileo fino all’inizio del terzo
millennio.
La filosofia, come si è già notato attraverso il suo
processo di definizione per via “negativa”, agisce e opera ormai solo nei
(grandi) spazi di riflessione su cui la scienza non può agire o non agisce
ancora con successo, nei quali quest’ultima non può produrre (oppure non
produce ancora…) conoscenza consolidate e sicure, seppur sempre suscettibili di
un processo ulteriore di approfondimento e di arricchimento sul piano
teorico-pratico, attraverso il criterio principale di verità: la praxis umana e
la derivata, difficile “comprensione” (per via razionale e attraverso
l’esperienza, mediante il metodo filosofico e/o scientifico) “di questa attività
pratica” (Marx).
Fin dal 1845, Marx giustamente notò nella seconda delle sue
geniali Tesi su Feuerbach che “la questione se al pensiero umano appartenga una
verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell’attività
pratica come l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il
carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un
pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”.
E all’ottava tesi, il grande filosofo-rivoluzionario tedesco
ribadì che “la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che
sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella
attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica”.
In alcuni campi del pensiero/pratica umana, la riflessione
filosofica rimane ancora oggi lo strumento principale per risolvere “gli
enigmi” e le “questioni fondamentali” che assillano l’uomo, ma in altri settori
ha già ceduto lo scettro e l’egemonia alla pratica scientifica…
Infine va espressa una definizione precisa di idealismo e
materialismo, sempre in campo filosofico.
Il primo utilizzo del termine “idealismo” all’interno
dell’elaborazione teorica è dovuto al filosofo (idealista) W. Leibnitz, che lo
impiegò già dalla fine del Seicento per definire e inquadrare la concezione del
mondo elaborata da Platone, basata sul primato delle “idee” nella genesi e
riproduzione del mondo reale: prima dei cavalli reali e concreti, per Platone
veniva infatti l’idea della “cavallinità”, come giustamente gli rimproverò il
lucido filosofo (cinico) Antistene.
Per tutte le variegate tendenze idealiste, la realtà che
percepiamo come uomini viene generata e fondata sull’“idea”, intesa volta per
volta come pensiero, o dio, o idee iperuraniche, o spirito assoluto, mentre
esse negano alla radice, in modo esplicito o implicito, che l’essere, il mondo,
le realtà esistano innanzitutto e dal principio come realtà materiale; una
variante dell’idealismo, l’idealismo soggettivistico (Berkeley, Fichte, ecc.),
ritiene inoltre che gli oggetti del mondo diversi dall’uomo non sussistano
realmente al di fuori del pensiero umano. Infatti per il più grande filosofo
idealista-soggettivo, W. Fichte, tutta la filosofia precedente a lui, Kant
compreso, risultò “dogmatica”, in quanto aveva creduto nella teoria
dell’esistenza di una cosa in sè, di un mondo, di una realtà di per sè stante e
capace di riprodursi indipendente dal soggetto umano: invece le “cose” e il
mondo naturale non esistono per Fichte senza il pensiero/attività dell’uomo,
non esiste una “cosa in se” indipendentemente dal pensiero e praxis umana. Nel
suo scritto del 1797, “Prima introduzione della “Dottrina della scienza”,
Fichte distinse l’idealismo dal “dogmatismo/materialismo”, rilevando che per la
filosofia idealista “il principio del dogmatico, la cosa in sé, non è nulla. La
cosa in sé diventa una chimera bella e buona; non c’è più ragione
d’ammetterla”. […]
Per l’idealismo soggettivista, la “cosa in sé” e l’esistenza
delle cose (Sole, altre stelle, galassie, ecc.) indipendentemente
dall’uomo/pensiero umano costituiscono solo “una chimera bella e buona”, mentre
per il materialismo invece siamo in presenza di una verità confermata dalla
pratica: ad esempio la stessa pratica scientifica umana dimostra che il Sole,
le altre stelle e le circa 140 miliardi di galassie finora scoperte
nell’Universo esistevano ben prima dell’uomo, ed esisteranno anche in un futuro
ipotetico contraddistinto dall’estinzione dell’uomo. Almeno dai tempi di
Copernico, proprio la praxis scientifica si è spesso rivelata sul piano
filosofico… anti-antropocentrica: la Terra non risulta infatti al centro del
sistema solare, ecc.
Effettuate queste doverose premesse e precisazioni, si può
finalmente immergersi nel vasto oceano della filosofia occidentale e, più
precisamente, nella sua sezione che si interessa alla sfera politico-sociale:
sacrificando in gran parte, per ovvie ragioni di spazio, il processo di analisi
sulla produzione ontologica-logica via via effettuate dai diversi pensatori,
oltre che riducendo al minimo la contestualizzazione storica della loro opera e
pensiero teorico.
Su di essa basta rilevare che la filosofia occidentale, da
Talete fino ai primi due decenni del nostro terzo millennio, si è sviluppata in
un ambiente socioproduttivo (e politico-sociale) contraddistinto purtroppo
dall’egemonia salda della “linea nera” e dei rapporti sociali di produzione
classisti, che si possono distinguere in:
- schiavistici (sesto secolo a.C./quinto secolo d.C.), dominati prima nell’area greca e poi in quella mediterraneo-europea;
- feudali: egemone nell’Europa centro-occidentale dal sesto secolo d.C. (con la forma di transizione del colonato) fino al tredicesimo secolo;
- nella coesistenza in Europa di rapporti di produzione protocapitalistici e semifeudali, dal 1300 fino al 1700;
- capitalistici: modo di produzione sociale divenuto egemone all’interno dell’Inghilterra a partire dal 1588/1649, e il cui dominio si è esteso via via al resto del mondo occidentale (America e Oceania comprese) nel corso degli ultimi quattro secoli.
Riflettendo a modo suo i conflitti sociopolitici
sviluppatisi in questi millenni, anche alla filosofia, apparentemente astratta
e pacifica, si è rivelata spesso aspra lotta e scontro feroce tra tendenze
opposte, in conflitto irreconciliabile: già Platone aveva parlato della lotta
incessante tra “gli Amici delle Forme” e “gli Amici della Terra”, e cioè tra
idealisti e materialisti, mentre a sua volta il calmo e pacifico Kant aveva
descritto la galassia filosofica come una specie particolare di “Kampfplatz”,
un terreno di lotta e scontri più o meno corretti. Di questa galassia, il
segmento politico-filosofico risulta a nostro avviso quello più appassionante,
anche grazie al salto di qualità epocale apportato ad esso dal marxismo,
dall’unica filosofia che sia riuscita ad assumere, dopo il 1917/45, un respiro
universale e una dimensione planetaria, dal Venezuela fino alla Cina.
Concetti teorici e categorie filosofiche quali il realismo
gnoseologico basato sulla pratica, il collegamento epocale tra materialismo e
dialettica, la polarità inscindibile di opposti e di tendenze contrastanti, la
praxis trasformatrice e intesa anche come criteri principale di verità, i salti
di qualità, la perenne trasformazione dei fenomeni e – a determinate condizioni
– il loro mutamento in un processo opposto, le contraddizioni principali e
secondarie, l’interconnessione e collegamento universale tra tutti i
processi/cose rappresentano solo alcuni dei “tesori” e dei contributi via via
forniti al patrimonio comune della filosofia dal marxismo, che ha saputo
inventare negli ultimi decenni anche una sorta di “ponte” e di anello di
congiunzione tra la cultura occidentale e quella orientale, in special modo
cinese e taoista.
Il materialismo dialettico si è già mostrato almeno in parte
come una concreta filosofia della praxis: del resto già nel 1894 G. V.
Plekhanov aveva sottolineato che il pensiero, “la ragione umana non potrebbe
essere il demiurgo della storia poiché ne è essa stessa il prodotto. Ma una
volta apparso, questo prodotto non deve, ne per sua natura non può, inchinarsi
di fronte alla realtà che la storia gli assegna: esso si sforza necessariamente
di ricrearla a propria immagine, di farla più ragionevole… Il materialismo
dialettico è una filosofia dell’azione”.
Ma passiamo all’oggetto principale di questo libro, partendo
dalla matrice originale delle tre tendenze alternative operanti da più di due
millenni nell’ambito della praxis filosofica occidentale.
Prefazione del nuovo libro di Roberto Sidoli, Daniele Burgio
e Lorenzo Leoni intitolato “Pitagora, Marx e i filosofi rossi” di prossima
pubblicazione