6/5/14

Verso una storia della critica del valore

Anselm Jappe  |  Nel 1991, cadde il Muro di Berlino e l'Unione Sovietica era sul punto di esalare l'ultimo respiro. L'euforia della vittoria si spandeva fra coloro che erano sempre stati, o almeno da qualche tempo, convinti che il libero mercato e la democrazia occidentale fosse l'ultima parola nella storia. Fra la sinistra radicale, inclusi coloro che non avevano mai nutrito alcuna illusione circa "il socialismo attualmente esistente", c'era molta costernazione. Era davvero impossibile superare il capitalismo? Era necessario limitarsi d'ora in poi a fare solo occasionali modeste riforme? In tale contesto, la comparsa di un libro scritto in tedesco, intitolato "Il crollo della modernizzazione: dalla caduta del socialismo da caserma alla crisi economica mondiale" (Kurz 1991) poteva non sembrare bizzarro. Non di meno, questo libro, pubblicato da una grande casa editrice, ebbe un sostanziale impatto su una recentemente "riunita" Germania. Fino ad allora, l'autore del libro, Robert Kurz (1943-2012), era conosciuto solo nei ristretti circoli marxisti per una sua piuttosto oscura rivista che di recente aveva cambiato il suo nome da "Marxistische Kritik" a "Krisis". Kurz sosteneva nel suo libro che, lungi dall'essere il segnale del trionfo finale del capitalismo occidentale, la caduta dell'Europa dell'Est era solo una tappa del crollo graduale dell'economia mondiale basata sulla merce, sul valore, sul lavoro astratto e sulla moneta.

Foto: Robert Kurz
Dopo due secoli, il modo di produzione capitalista aveva raggiunto i suoi limiti storici: la razionalizzazione della produzione, che prevede la sostituzione del lavoro umano con la tecnologia, mina le basi della produzione del valore, e quindi del plusvalore, il quale è l'unico obiettivo della produzione di merci. Tuttavia, niente, tranne il lavoro vivo, il lavoro che si richiede nell'atto della sua esecuzione, crea valore e plusvalore. L'URSS non è stata nient'altro che una variante della società di mercato mondiale. Era solo una forma di modernizzazione di recupero, come dire, la violenta introduzione dei meccanismi di base della produzione di valore in un paese arretrato che, diversamente, non sarebbe stato capace di diventare parte autonoma del mercato mondiale. Se l'Unione Sovietica non era "socialista", ciò non era dovuto alla dittatura di una classe burocratica, come aveva sostenuto la sinistra anti-stalinista. La vera ragione era che le categorie centrali del capitalismo - la merce, il valore, il lavoro, il denaro - non erano mai state abolite. Tutto ciò che era sempre stato sostenuto era che venivano "gestite" in modo migliore "a beneficio dei lavoratori". Ciò che era crollato non era una "alternativa" al sistema capitalista, ma piuttosto "l'anello debole" di questo sistema. Comunque, il meccanismo di cui i paesi "socialisti" erano stati vittime aveva trascinato anche i "vincitori" nella crisi. Il capitalismo occidentale era destinato ad entrare ben presto in una fase di grande scompiglio che lo avrebbe portato al crollo finale della società basata sul feticismo della merce. Qual era questo meccanismo? Era l'impossibilità a contenere la crescita delle forze produttive - in particolare l'enorme aumento di produttività derivato dalla microelettronica a partire dagli anni 1970 - dentro la camicia di forza della produzione di merce valore. Il valore, come forma sociale, non riconosce l'utilità effettiva delle merci. Esso considera solo la quantità di "lavoro astratto" che esse contengono, cioè la quantità di pura spesa dell'energia umana misurata in tempo. Questo primo libro scritto da Kurz (libro che, nei due anni successivi, sarebbe stato seguito da altri tre, fino ad un totale di una dozzina), conteneva di già una grande quantità di quello che avrebbe caratterizzato la critica del valore, in particolare come sarebbe stata espressa da Kurz. Per prima, una spietata critica di tutte le varianti del capitalismo, spesso espressa con genuina indignazione. E poi, una critica ugualmente spietata degli approcci convenzionali alla teoria anti-capitalista: lotta di classe, e proletariato come soggetto rivoluzionario; la difesa del lavoro e dei lavoratori; e la concettualizzazione del capitalismo visto essenzialmente come dominio da parte della "classe capitalista" che possiede i mezzi di produzione. Kurz riesamina severamente tutti questi concetti, certo non per concludere che sia impossibile sfuggire al capitalismo, ma piuttosto per mostrare che sono ancora insufficienti, "critiche immanenti" che mirano semplicemente a meglio distribuire e gestire le categorie di base del capitalismo, non ad abolirle. Il suo "Crollo della modernizzazione" contiene già questa miscela di rigorosa "critica categoriale" e di analisi dettagliata dei processi economici e sociali contemporanei. Vi si può egualmente leggere il disprezzo dell'autore per quasi tutte le forme di marxismo tradizionale e per altri approcci della sinistra radicale, per tutto il pensiero borghese, e perfino per una parte dello stesso lavoro di Marx. Solo la critica dell'economia politica, come è stata sviluppata da Marx, sarebbe sufficiente come fondamento teorico per la demolizione delle certezze della sinistra. Oltre a ciò, il lavoro di Kurz ha attirato molto interesse come risultato di questo suo brillante, vigoroso, e spesso polemico stile e per la sua propensione a descrizioni drastiche delle incombenti catastrofi che si trovano appena dietro l'angolo (e mentre questo lato "apocalittico" ha spesso giocato un ruolo decisivo nel suscitare l'attenzione del pubblico e dei media verso la critica del valore, esso ha anche ingenerato qualche equivoco). Quando la critica del valore arriva per la prima volta all'attenzione pubblica, e non può essere "incasellata" nelle forme consuete del pensiero critico (non è né marxista, né anarchica, né consiliarista, né situazionista, né ecologista, né democratica radicale, né della Scuola di Francoforte, ecc.), questo è dovuto al fatto che essa emerge ai margini degli spazi usuali del dibattito pubblico. Il primo numero di "Marxistische Kritik" viene auto-pubblicato nel 1987, a Norimberga (solo nel 1990, con il numero 8/9, la rivista si chiamerà Krisis e verrà pubblicata dal suo attuale editore). Dal dibattito interno, emerge il nucleo di un gruppo formato da Kurz, Peter Klein, Roswitha Scholtz, Ernst Lohoff and Norbert Trenkle. Nessuno di loro è accademico, giornalista o intellettuale di professione. Lo stesso Kurz continua a vivere lavorando di notte per un servizio di consegna di giornali. L'indipendenza ha il suo prezzo. Il gruppo Krisis non ha avuto quasi alcuna struttura formale ed ha funzionato per mezzo di circoli sociali concentrici: oltre la redazione della rivista (a lungo concentrata a Norimberga), c'era un circolo principale di collaboratori che si incontravano diverse volte l'anno, inoltre si tenevano conferenze tematiche aperte al pubblico, due volte l'anno. Il carattere non-istituzionale ed informale del gruppo permetteva differenti livelli di partecipazione che caratterizzano tuttora i giornali di lingua tedesca in linea con la critica del valore.

Le spaccature, gli scismi e le separazioni che hanno segnato Krisis fin dalla sua nascita sono stati il risultato della rapida radicalizzazione di un tale approccio iconoclasta. Ogni numero della rivista, soprattutto all'inizio, uccideva una "vacca sacra" della sinistra: la centralità del proletariato, la nozione stessa di "soggetto rivoluzionario", la lotta di classe e, alla fine, il lavoro stesso. Allo stesso tempo, emergeva una teoria della crisi che dichiarava che il capitalismo non sarebbe stato minato dall'opposizione da parte degli sfruttati, ma dalla propria necessità di creare valore, che la rivoluzione della microelettronica aveva trasceso. Sebbene la critica dell'economia politica di Marx rimanesse centrale - in un momento in cui anche la sinistra stava "seppellendo" Marx, proclamando tutti i giorni che la storia gli aveva dato torto - ci fu una rottura definitiva con quei marxisti che erano rimasti. Mentre per quest'ultimi, il capitalismo aveva ancora una lunga vita davanti, lunga per lo meno fino al punto in cui un qualche soggetto rivoluzionario non vi avesse messo una fine (se non il proletariato classico, uno dei suoi successori: i lavoratori potenziali, le popolazioni dei sud del mondo, le donne), Kurz ed i suoi compagni proclamavano che il capitalismo sarebbe crollato perché non poteva più produrre abbastanza valore. Comunque, non c'era alcuna garanzia che il crollo avrebbe portato ad una qualche sorta di emancipazione. Nessun gruppo sociale definito a partire dal suo ruolo nella produzione di valore, poteva essere considerato "in sé" oltre la logica capitalista e quindi come destinato necessariamente a superarla. Il punto di partenza della critica del valore presuppone quindi una rilettura dell'opera di Marx. Essa non pretende di ristabilire il "vero" Marx, ma mette parecchia enfasi nel distinguere fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico". Quest'ultimo può essere ritrovato in una parte piuttosto limitata della sua opera matura (in forma più concentrata nel primo capitolo del primo volume del Capitale). Qui egli esamina la forme di base del modo capitalista di produzione, cioè la merce, il valore, la moneta ed il lavoro astratto. In contrasto con gli economisti borghesi come Adam Smith, David Ricardo, e, implicitamente, con quasi tutti i successivi marxisti. Marx non tratta tali categorie come neutrali, naturali e trans-storici presupposti di tutta la vita sociale, dei quali si possa discutere solo la gestione, ma non la loro attuale esistenza. Al contrario, Marx li analizza (non senza esitazioni e contraddizioni, ad ogni modo) in quanto elementi unici alla società capitalista e, allo stesso tempo, in quanto categorie negative e distruttive. Ad un livello profondo, il capitalismo si distingue per il fatto che in esso la società è totalmente dominata da tali anonimi ed impersonali fattori. E' quello che Marx chiama "il feticismo della merce", il quale non è in alcun modo riducibile ad una semplice "mistificazione della realtà capitalista. In questa parte più innovativa del suo lavoro, Marx aveva determinato il meccanismo fondamentale del capitalismo in un'epoca in cui esso era ancora mescolato ad elementi pre-moderni. Nella più parte del lavoro di Marx, tuttavia, è l'aspetto "essoterico" che predomina. Là ci ha descritto, in maniera ancora insuperata, le forme storiche che la logica di base del capitalismo stava prendendo nel suo tempo. 

Così, per un lungo periodo storico, la necessità strutturale, per il valore, ad essere accumulato per mezzo dello "assorbimento" del lavoro vivo, prese la forma di un proletariato industriale che era estremamente sfruttato e a cui non venivano dati pieni diritti (quali il diritto di sciopero, o di votare), in un modo che rimaneva quasi feudale. Non di meno, la sostanza delle categorie sociali di base del capitalismo è cambiata considerevolmente nell'arco di due secoli. E' ovvio che Marx, il quale, nonostante tutto, rimaneva dentro i parametri del suo tempo, non riuscisse sempre a distinguere fra il nucleo del capitalismo e le sue forme storiche ed empiriche, come la "lotta di classe" fra la borghesia ed il proletariato. Più tardi, il marxismo - in pressoché tutte le sue varianti, incluse le più "eterodosse" - mise quasi immediatamente da parte la critica marxiana (è sempre importante distinguere fra "marxista" e "marxiano"!) del valore, della moneta, della merce e del lavoro, accettando tacitamente o esplicitamente la loro esistenza permanente. Non era solo questione di come queste categorie venivano distribuite. Piuttosto che mettere in discussione la merce valore come principio regolatore della produzione e della vita sociale, il movimento operaio ed i suoi teorici lottavano semplicemente per una sua più "giusta" produzione. Accettando il quadro della produzione capitalista, si preoccupavano essenzialmente di guadagnare migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici. A partire dagli ultimi decenni del 19° secolo, il marxismo divenne perciò, a parte per un po' di retorica, una teoria dell'effettiva integrazione del proletariato nella società del valore. Il movimento operaio stesso, spesso spingeva la logica pura del valore contro il punto di vista ristretto del padroni capitalisti, che erano ancora imbevuti di atteggiamenti ereditati dalle epoche precedenti ma che cominciavano a realizzare che salari più alti e diritti sindacali non fossero del tutto incompatibili con i profitti capitalisti - piuttosto il contrario, infatti. Le "conquiste" del movimento operaio non venivano "vinte" ad un capitale riluttante, ma piuttosto costituivano la sua più efficace forma di sviluppo. Questo è specialmente vero per il ramo socialdemocratico (occidentale) del movimento operaio. Dovunque una variante dei Leninisti prendesse il potere, come in Russia, e più tardi in altri paesi alla periferia del mercato mondiale, avvenne, semmai, una "modernizzazione di recupero". Lungi dall'abolire la merce, il lavoro astratto, il valore e la moneta, si finì per introdurli nei paesi agrari. La violenza totalitaria impiegata a tal fine, che scioccò le democrazie occidentali (che avrebbero poi usato l'opposizione a questa violenza per legittimare sé stesse), non era altro che una forma accelerata dell'accumulazione primitiva, portata a termine nel quadro di una violenza di Stato che era stata anche il fondamento del decollo del capitalismo occidentale, in particolare fra il 16° ed il 18° secolo. La differenza stava nel fatto che i paesi che arrivavano in ritardo sul mercato mondiale dovevano riprodurre questo processo molto più rapidamente, e farlo mantenendo un regime isolazionista. Diversamente, i paesi più "avanzati" avrebbero spazzato via velocemente le loro nascenti industrie per mezzo di merci più economiche. Altri "ritardatari", come la Germania, l'Italia ed il Giappone ricorsero a mezzi autoritari e statalisti per costruire infrastrutture e creare industrie che l'iniziativa privata non aveva potuto produrre in un sistema di competizione a livello di mercato mondiale. Lo Stato e il capitale privato, lungi dall'essere antagonisti, sono sempre stati poli complementari dello sviluppo capitalista, anche se le loro rispettive influenze sono cambiate secondo il periodo storico. Il capitale privato non combatte in alcun modo contro lo Stato, e neppure cerca sistematicamente di limitarlo. Il  culto del lavoro raggiunse il suo apogeo in queste società a "recupero di modernizzazione" (con il famoso Stakhanov). Lo statuto teorico del lavoro non sempre è molto chiaro in Marx. Non si può negare, comunque, che il lavoro pensato sotto forma del "lavoro astratto", il puro dispendio di energia, è una categoria negativa e "feticistica". E' lavoro astratto - o, per essere più precisi, il lato astratto delle forme specifiche di lavoro - e solo esso dà valore alla merce, e costituisce anche la "sostanza" del capitale. Capitale non è opposto di lavoro, ma è la sua forma accumulata. Lavoro vivente e lavoro morto non sono due entità antagoniste, ma piuttosto due differenti "stati di aggregazione" della stessa sostanza del lavoro. L'operaio in quanto tale non è fuori dalla società capitalista, ma ne rappresenta uno dei due poli. E' quindi possibile concludere, dall'analisi di Marx, che una "rivoluzione dei lavoratori contro il capitalismo" è un'impossibilità logica. Ci può solo essere una rivoluzione contro la soggezione della società, e degli individui, alla logica di valorizzazione e lavoro astratto.

Una critica del lavoro come questa è il risultato necessario della critica marxiana del lavoro astratto, che Marx considerava la sua più importante scoperta, anche se non ne apprezzava a pieno tutte le sue implicazioni. Di questa scoperta non rimane niente nel movimento operaio. Al contrario, il lavoro viene esaltato e la principale critica che si fa alla borghesia è che non lavori. La rivoluzione si limiterà allora a consegnare giuridicamente i mezzi di produzione ai lavoratori perché continuino, con il lavoro, a produrre valore, insieme al denaro, ecc., sebbene sotto il "controllo operaio". In alcuni paesi "arretrati" c'era solo una mentalità lavorativa rudimentale, poi è arrivato il "movimento operaio" e ha imposto "l'amore per il lavoro". "Il socialismo realmente esistente" era una variante della società mondiale di mercato con caratteristiche molto specifiche che gli derivavano dall'assenza di un mercato. In un primo momento, è stato capace di recuperare in un modo che probabilmente sarebbe stato impossibile attraverso il capitalismo privato. Comunque, in quanto autarchia, non poteva tenere il passo con l'ulteriore sviluppo delle forze di produzione, specialmente con la rivoluzione microelettronica degli anni 1970. Alla fine è crollato dal momento che non poteva più a lungo competere con la produttività occidentale, rivelando in tal modo che non era mai stata una "alternativa", per quanto abortiva, ma piuttosto un "ramo secco" del capitalismo mondiale. Nessun progetto di emancipazione può quindi essere basato sul lavoro, soprattutto perché il lavoro non ha mai coinciso come l'attività produttiva umana, o a quel "metabolismo con la natura" di Marc. Il lavoro, come forma sociale, è una "astrazione reale" che riduce tutti gli attori sociale ad espressioni quantitative di una sola sostanza sociale deprivata di qualsiasi contenuto che non sia la sua accumulazione. Dovunque la produzione non serve a soddisfare bisogni, ma solo a raggiungere l'obiettivo di trasformare 100 euro in 110 euro, e poi in 120, ecc., il processo può essere definito "tautologico". Non fa altro che ripetere sé stesso, ma su una scala sempre più grande, seguendo un cieco dinamismo che consuma energia umana e risorse naturali. La valorizzazione del valore viene imposta agli attori sociali, inclusi i capitalisti. Credere nell'esistenza di una grande cospirazione capitalista è solo un modo per rassicurare sé stessi. La verità è molto più tragica. Nessuno controlla questo meccanismo auto-referenziale che sacrifica il mondo concreto ad un'astrazione feticizzata che deve crescere incessantemente. Per la stessa ragione, tutte le critiche moraleggianti del capitalismo non servono a niente, anche se nessuno è obbligato ad amare i piccoli e grandi "ufficiali e sottufficiali del capitale"(Marx). I conflitti fra le classi sociali, e, soprattutto, il conflitto fra i possessori dei mezzi di produzione ed i venditori di forza lavoro, fra i detentori di capitale costante e i detentori di capitale variabile, fra il lavoro morto ed il lavoro vivente, gioca ovviamente una parte importante. Ad ogni modo, non sono essi l'essenza del capitalismo. Tutti questi fenomeni non sono altro che le concrete, visibile e variabili forme storiche secondo le quali ha luogo l'accumulazione senza fine del valore. Le lotte sociali classiche ruotano intorno alla distribuzione del plusvalore. L'esistenza del valore è già presupposta in quanto "bene" neutrale che deve essere suddiviso. La differenza capitale fra ricchezza concreta (che deve effettivamente essere suddivisa) e valore astratto non viene nemmeno presa in considerazione. Non è possibile abolire il valore senza abolire il lavoro che lo ha creato. E' questo il motivo per cui, contestare il capitalismo nel nome del lavoro non ha alcun senso. Avrebbe altrettanto poco senso opporre il buon lavoro concreto al cattivo lavoro astratto. Quando tutte le forme di lavoro cessano di essere ridotte a quello che hanno in comune - il dispendio di energia - non c'è più nessun lavoro "concreto" (tale categoria è, in sé stessa, un'astrazione). Ci saranno invece una molteplicità di attività con compiti specifici in mente, come del resto si soleva fare nelle società pre-capitalistiche, dove il termine "lavoro", in senso moderno, era sconosciuto. Questo oggi è anche più vero. Storicamente, il movimento operaio ha trovato qualche giustificazione nel fatto che il capitalismo, nella sua lunga fase espansiva, consentiva effettivamente una qualche redistribuzione, a volte con notevoli risultati per la classe lavoratrice. Anche se il superamento del capitalismo non è mai stato realmente nel loro orizzonte, alcune critiche "immanenti" potevano vantare di avere ottenuto alcuni importanti successi che potevano portare a credere che il capitalismo avrebbe potuto essere "addomesticato" in una "democrazia di mercato". Tuttavia, il progresso tecnologico, specialmente l'applicazione della microelettronica alla produzione, ha ridotto continuamente il ruolo del lavoro vivente. Alcune aziende possono ancora fare grandi profitti, ma il sistema nel suo complesso sta cominciando a perdere la sua "sostanza". Il capitalismo sta tagliando il ramo sul quale è seduto: la realizzazione del valore per mezzo dell'utilizzo del lavoro vivente. Ha corso questo rischio fin dalla Rivoluzione Industriale e dall'introduzione dei macchinari nella sua produzione. Per molto tempo, la diminuzione del valore (e quindi della porzione di plusvalore) contenuto in ciascuna merce è stata compensata (e sovracompensata) dall'espansione assoluta della produzione, riempendo il mondo di merci, con tutte le ripercussioni che questo ha comportato. Con la fine dell'era fordista, l'ultimo modello di accumulazione che implicava l'impiego di massa del lavoro vivente si è esaurito. Da allora, la tecnologia - che non crea valore - mette in atto l'essenza della produzione in quasi tutti i settori. La quantità assoluta di valore, e quindi di plusvalore, sta precipitosamente calando. Questo mette in crisi l'intera società basata sul valore, inclusi gli stessi lavoratori. Il problema principale del capitalismo non è più lo sfruttamento, ma piuttosto le masse crescenti di esseri umani "superflui": persone che non sono necessarie alla produzione e che non sono perciò in grado di consumare. Dopo il suo lungo perriodo di espansione, nel corso delle molte decadi passate, il capitalismo, nonostante la "globalizzazione", si sta attualmente restringendo. Le persone, le regioni e le comunità che sono in grado di prendere parte ai "normali" cicli di produzione e consumo, stanno diventando sempre più come "isole" in un mare crescente di reietti che non vale più neanche la pena di sfruttare. Inoltre, è del tutto inutile domandare "lavoro" perché non ce n'è nessun bisogno per la produzione e sarebbe assurdo costringere le persone a dei lavori senza senso come condizione preliminare per la loro sopravvivenza. Meglio sarebbe domandare che ciascuno abbia il diritto a vivere bene, senza aver cura del fatto che riesca, o non riesca, a vendere la sua forza lavoro che nessuno vuole più. 

Perché il sistema capitalistico non è ancora completamente crollato? Principalmente grazie alla "finanziarizzazione", vale a dire, la fuga nel "capitale fittizio" (Marx). Dopo che l'accumulazione reale è arrivata quasi a fermarsi - la decisione degli Stati Uniti di abbandonare, nel 1971, il gold standard per il dollaro, è stata una sorta di data simbolica per questo - il sempre maggiore ricorso al credito ha permesso di perpetuare un'accumulazione simulata (quest'atmosfera di simulazione - si potrebbe dire virtualizzazione - che si diffonde al resto della società e spiega la grande diffusione del cosiddetto approccio "post-moderno" in tutte le aree durante gli anni '80 e '90). Nel sistema creditizio, gli attesi profitti futuri - che non verranno mai realizzati - sono già stati consumati per tenere a galla l'economia. Com'è ben noto, il credito e le altre forme di denaro fittizio (come i valori azionari e i prezzi immobiliari) hanno raggiunto proporzioni astronomiche ed hanno foraggiato una gigantesca speculazione che potrebbe avere, come nel 2008, terribili ripercussioni sull'economia "reale". Comunque, lungi dall'essere la causa delle crisi capitaliste e della crescente povertà, la speculazione è servita a permettere di rinviare la grande crisi. Essa è causata dal fatto che, sebbene proliferino in quantità sempre maggiori, tutte le merci e i servizi addizionali rappresentano una quantità sempre più bassa di valore. Questo implica anche che una gran parte del denaro nella circolazione globale, è "fittizio" perché non rappresenta più il lavoro che viene speso per la "produttività". Tutte le misure per "rimettere in moto", prese dai governi dopo la crisi del 2008, sono quindi solo acrobazie contabili, per cui viene aggiunto un altro zero a dei numeri che sono già delle complete fantasie. Non ci può essere nessuna nuova prosperità capitalista dal momento che le tecnologie che hanno rimpiazzato il lavoro non possono essere eliminate dalla produzione capitalista. Altrettanto inutile sarebbe, aspettarsi dalla Cina o da qualsiasi altro "paese emergente", un salvataggio del capitalismo. I loro supposti successi economici sono in parte basati su una crescita nel costo delle materie prime ed in parte su un'esportazione unilaterale verso i paesi ricchi che durerà solo fino a quando questi stessi paesi riusciranno a rimandare a casa loro l'irruzione reale della crisi. Non è perciò questione di predire un qualche futuro crollo del capitalismo, ma si tratta di riconoscere che la crisi ha già avuto luogo e che andrà sempre peggio nonostante i recuperi a breve termine. E' una crisi che è lontana dall'essere solamente economica. Essa comporta tutta una serie di sconvolgimenti, dalle nuove forme di guerra fino agli effetti devastanti sulla psiche a livello individuale (Kurz descrive le sparatorie nelle scuole come una manifestazione particolarmente vivida della "pulsione di morte" nel cuore del capitalismo).

La critica del valore è dunque una critica radicale dell'intero capitalismo e non solo della sua fase neoliberale (anche se gli autori della critica del valore ne sono stati i più virulenti critici negli anni '90, mentre la sinistra sembrava o paralizzata o affascinata). E' impossibile ritornare al pieno impiego e alle politiche keynesiane, ai grandi interventi di Stato e al sistema di welfare di un tempo. Sono stati abbandonati perché l'intera dinamica capitalista era col fiato corto, e non a causa di una cospirazione guidata dagli economisti neoliberisti e dai capitalisti più avidi. Inoltre, un ritorno a tali politiche non sarebbe nemmeno auspicabile. Il capitalismo deve essere superato abolendo le sue fondamenta, non ritornando a forme apparentemente più tollerabili di schiavitù e di alienazione. 

La questione dell'emancipazione sociale poggia perciò su nuove basi. Volgendosi indietro, praticamente l'intero movimento operaio del passato, rivoluzionario o riformista, con i suoi teorici più o meno marxisti, si è dimostrato essere stato parte immanente di quel capitalismo contro cui proclamava di essere (questo nulla toglie a quello che i suoi membri sono stati capaci di fare, che era giusto e necessario). Il lavoro era il terreno comune sia del capitale che del sistema salariale. Ora le vecchie concezioni di emancipazione sono entrate in crisi, insieme al capitale, dimostrando così che la loro era sempre un caso di "rivalità tra fratelli". Infatti, la critica del valore è essa stessa parte del processo storico. Il suo emergere alla fine degli anni '80 non è dovuto all'arrivo di teorici che avevano finalmente "capito" tutto quello che i marxisti tradizionali non avevano capito fino a quel momento. Riflette, invece, la fine dell'espansione capitalista, e quindi la fine della possibilità di redistribuire la sua ricchezza (che, oltretutto, è spesso tossica) senza mettere in causa la natura del sistema stesso. La critica radicale marxiana del valore e del lavoro astratto, che, come la bella addormentata, è rimasta dormiente per più di un secolo, apparentemente di poca utilità a fronte delle lotte reali, si rivela adesso come la miglior spiegazione del declino della società delle merci. La critica del valore non era perciò un semplice caso di "progresso teoretico", che avrebbe potuto aver luogo in un altro contesto storico. Essa rappresenta invece il primo riconoscimento di profonda frattura storica. Le sue prime formulazioni erano segnati dallo stesso atto di rottura. Ostile nei confronti dell'eclettismo e del tipicamente soffocante scambio intellettuale accademico, rifiutando (a differenza di quasi tutte le varianti del marxismo) di iscriversi in una tradizione già esistente e di definire sé stessa in rapporto ad altri pensatori marxisti, la critica del valore aveva la ferma intenzione di partire quasi da zero, usando la critica dell'economia politica di Marx come sua sola arma. I suoi rapporti con altre forme di critica sociale sono quindi state segnate da polemiche reciproche e si sono spesso scontrati sia con l'ostilità che con il tentativo di ignorarla. Anche se la critica del valore non considera sé stessa come la semplice continuazione di tradizione teorica esistente, anche la più eretica, alcune radice storiche sono non di meno rilevabili. Le principali influenze sono il György Lukács di "Storia e Coscienza di Classe" e la Scuola di Francoforte, in particolare Theodor Adorno (ed ugualmente Alfred Sohn-Rethel, dal quale vengono presi concetti come "astrazione reale" e valori come "sintesi sociale"). Quanto alla teoria della crisi, Kurz riconosce che Rosa Luxemburg ed Henryk Grossman hanno quanto meno posto il problema, sebbene in modo insufficiente. Il saggio di Isaak Rubin sulla Teoria del Valore di Marx (1924/1928), riscoperto negli anni '70, ha fornito una serie di importanti idee alla fine della comprensione del valore. Nonostante ciò, questi stessi autori non sono mai stati feticizzati dalla critica del valore e sono stati, in un momento o nell'altro, soggetti ad una severa critica. In generale, la critica del valore non pretende essere una discussione di teorie altrui, ma piuttosto un analisi del passato e del presente del capitalismo, che qualche volta può essere analizzato esaminando altre teorie sullo stesso soggetto. Sebbene non abbia alcuna pretesa ad un tale titolo, c'è un approccio che potrebbe essere definito come "l'altro ramo" della critica del valore, ovvero quella di Moishe Postone (1993), professore di Storia dell'Università di Chicago. Postone ha studiato a Francoforte nei primi anni '70, in un ambiente che era ancora pesantemente segnato dall'influenza di Adorno. La sua opera maggiore viene pubblicata nei primi anni '90, circa nello stesso periodo in cui la teoria sviluppata dagli autori di Krisis stava raggiungendo la sua prima maturità e stava facendosi strada. Sebbene sia fuori dal mandato di questo articolo, la teoria di Postone merita un'introduzione, in modo altrettanto dettagliato  di quello riservato a Kurz e agli autori di lingua tedesca della critica del valore. Proponendo essenzialmente una ri-lettura dell'opera di Marx - una lettura che è una sfida continua al "marxismo tradizionale" - Postone si focalizza sul concetto di "lavoro astratto", oltre ad esaminarne i suoi fondamenti storici, come il "tempo astratto". Senza alcuna conoscenza reciproca, Postone e gli autori di Krisis sviluppano le loro idee allo stesso tempo e procedono sulle basi degli stessi assunti. Ci sono sorprendenti somiglianze, fra di loro, su un certo numero di punti. Tuttavia, la differenza principale è che Postone non ha una esplicita teoria della crisi. Egli non vede un limite storico all'accumulazione che derivi dalla "desustanzializzazione" del valore. Sfortunatamente, non c'è mai stato davvero un dialogo fra Postone e Kurz, che avrebbe forse potuto spiegare i diversi scopi e stili del loro rispettivo approccio. Altri approcci critici vicini alla critica del valore, attualmente non ce ne sono. Nei circoli di lingua francese, ci sono alcune convergenze con Guy Debord e con bordighisti quali Jacques Camatte ed autori che si ispirano a loro. Prevale la differenza, ad ogni modo, e non c'è stata una vera e propria influenza. Jean-Marie Vincent (1987/1991), uno dei primi accademici francesi ad interessarsi alla Scuola di Francoforte, ha sviluppato alcune idee occasionalmente parallele alla critica del valore. Comunque, come un certo numero di altri che sono emersi in anni recenti e che dichiarano di aderire alla critica del valore, anche lui non è interessato a rinunciare alla "lotta di classe" e alla ricerca di un soggetto che alla fine sconfiggerà il capitalismo. Alla possibilità di una crisi oggettiva, del resto, allude solo vagamente. Da un altra direzione, André Gorz ha fatto una mossa esplicita verso la critica del valore, nei suoi ultimi scritti, dopo aver già formulato intorno al 1980 una critica del lavoro e del valore. Più tardi, egli stesso ha ammesso che, avendo letto materiali sulla critica del valore, il suo pensiero sulla questione non partiva da zero.

Per 25 anni la critica del valore, almeno nella sua forma tedesca, è stata una teoria in continua evoluzione. Mentre una buona parte delle sue scoperte teoriche sono avvenute prima del 1993, ci sono stati alcuni importanti sviluppi successivi. Infatti, i teorici associati alla rivista Exit! oggi preferiscono parlare di "critica del valore-dissociazione" (Wert-Abspaltungskritik). La teoria della dissociazione venne introdotta  nel 1992 da Roswitha Scholtz. Essa riguarda la "dissociazione" o "separazione" che si trova alla base di ogni esistenza del valore come forma sociale feticistica. Il lavoro astratto, il creatore del valore, può esistere solo quando un'altra parte della riproduzione sociale viene effettuata da una forma non-merce che non è "lavoro". Riguarda in particolare quelle attività domestiche normalmente svolte dalle donne. Sia la sfera pubblica che quella privata sono ugualmente necessarie alla società capitalista, ma la sfera privata, domestica, appare come inferiore ed esterna alla società. Il fatto che queste attività non producano valore direttamente non significa che questa sfera sia "free" (libera, gratuita) o "non-reificata". Queste attività svolgono un ruolo ausiliario al lavoro astratto e ne portano il suo marchio. Concretamente, il "lavoratore" maschio non potrebbe creare valore senza una donna che si prende cura di lui, che cresca i figli, ecc. Il valore è quindi strutturalmente "maschile", anche se alcune producono valore e possono anche gestirne la produzione. Secondo la critica della dissociazione-valore, la società del valore e del lavoro è basata, storicamente e logicamente, su una logica di esclusione: una persona viene considerata un "soggetto" pieno solo una una volta che ha interiorizzato completamente la mentalità del lavoro ed i suoi corollari (auto-disciplina, razionalità, spietatezza ed insensibilità verso sé stesso e gli altri, competitività, ecc.) e si è liberato di qualsiasi altra cosa (questo è ciò che si intende per "dissociazione"). L'esclusione delle donne, dei non-bianchi, e degli altri soggetti "minoritari" non è quindi veramente antitetica al principio del valore, il quale dà un falso senso di universalità insieme alla promessa di poter eventualmente dare a chiunque lo status di "soggetto" capitalista. Tali esclusioni sociali sono stati costitutive fin dall'inizio, anche se le loro forme empiriche sono cambiate un bel po' dall'Epoca dell'Illuminismo. 

Infatti, la critica del valore radicalizza la "dialettica dell'illuminismo", vedendo in essa niente di più che l'epoca storica durante la quale le categorie capitaliste sono state definitivamente impiantate nelle menti delle persone. Mentre tutta la sinistra - e spesso lo stesso Marx - voleva realizzare, o "completare", l'essenza dell'Illuminismo che la borghesia aveva "tradito", la critica della dissociazione-valore vede proprio in questa sostanza la nascita del moderno soggetto che esiste solo per e attraverso la competizione capitalista. I filosofi illuministi - Kant più di tutti - hanno formulato le premesse del sessismo, del razzismo e dell'antisemitismo che caratterizzano la modernità, mentre allo stesso tempo presentavano queste cose come fossero le condizioni per la libertà. La "ragione", che l'illuminismo voleva che trionfasse, e che la sinistra ha sempre sostenuto, non è altro che "ragione sanguinosa", per Kurz, un'ideologia di sottomissione della vita nella sua interezza all'imperativo della valorizzazione, che ha portato alla distruzione del mondo. L'irrazionalismo (per esempio, il romanticismo, il vitalismo, l'esistenzialismo) rappresenta solo l'altra faccia della ragione capitalista e non è un'alternativa. Ha contribuito in egual misura alle catastrofi che hanno segnato l'intera storia del capitalismo. Con questo genere di analisi, la critica della dissociazione-valore sostiene di aver superato il suo approccio inizialmente "oggettivista". Le ideologie non sono una semplice "riflesso" della "realtà economica". Il valore costituisce una struttura feticista che non ha un lato "oggettivo" ed un lato "soggettivo". La difficoltà a vivere in una società dominata dal valore porta necessariamente alla creazione di ogni sorta di ideologia per cercare di spiegare la sofferenza causata da tale società e per consentire ai soggetti del lavoro di proiettare su altri le qualità che sono costretti a reprimere in sé stessi (per esempio, "pigrizia", "emozioni"). La critica del valore - sia nella sua versione tedesca che in quella di Postone - ha dedicato molta attenzione all'antisemitismo. Piuttosto che un riemergere di qualcosa di pre-moderno, essa vi ha visto un tentativo di dare un volto "pseudo-concreto" alla terribile, intoccabile astrazione che è il valore. Inoltre, è chiaro che questa concezione della società capitalista come essenzialmente feticistica, è molte miglia lontana dal "materialismo storico", con la sua distinzione fra "base" e "sovrastruttura". Pratiche sociali feticiste ed inconsce creano sia il soggettivo che l'oggettivo. Le accuse di "economicismo", anche se sono spesso corrette in rapporto al marxismo tradizionale, non possono essere applicate alla critica del valore. Inoltre, anche il valore stesso non è una struttura "totale". Esso è "totalitario", nel senso che aspira a trasformare ogni cosa in merce. Ma non ne sarà mai capace, dal momento che una simile società sarebbe completamente invivibile (non ci sarebbero più, per esempio, amicizia, amore, crescere figli, ecc.). La necessità del valore è quella di espandersi sempre più, distruggendo tutto il mondo concreto ad ogni livello, economico, ambientale, sociale e culturale. La critica del valore non solo prevede una crisi economica di dimensioni mai viste, ma anche la fine dell'intera "civilizzazione" (se così si può chiamare). Eppure, la vita umana non è stata sempre basata sul valore, sul denaro e sul lavoro, anche se sembra che questo tipo di feticismo sia esistito sempre e dovunque. Va sottolineato che queste categorie non solo "ontologiche" o trans-storiche. In contrasto con la maggior parte delle forme di marxismo, la critica del valore non è una teoria di tutta la storia, ma solo del capitalismo. Kurz afferma nel suo ultimo libro che non è possibile parlare del commercio, della moneta, o delle merci, nelle società pre-capitaliste. Quello che in esse sembra simile, ha funzioni profondamente diverse.

Ovviamente, rimane la questione su come uscire dal capitalismo. Si è spesso rimproverato alla critica del valore il suo rifiuto a cedere alle pressioni a venir fuori con azioni pratiche. Infatti, fin dall'inizio essa ha difeso la posizione per cui una simile autonomia è necessaria, in ordine a poter pensare quello che forse non è immediatamente realizzabile. L'impoverimento della riflessione sociale per tutto il XX secolo è stato anche il risultato della sua subordinazione alla pressione di una tale immediatezza pratica (partiti, sindacati, movimenti sociali). La critica del valore ha sempre considerato questa "falsa immediatezza" e questo "pseudo-attivismo", insieme alla contrapposizione fra la propria soggettività ed un'oggettività pensata come l'eterno ritorno dello stesso, come forme di critica puramente "immanenti". Allo stesso tempo, la critica del valore ha sempre rifiutato l'etichetta di "torre d'avorio".

La strada è lunga, da un'accademica contemplazione imparziale. Fin dall'inizio sono stati evidenziati i drammatici aspetti della crisi, cui ci ha portato la società della merce, e le sofferenze che questa comporta. Non è tanto questione di "sconfiggere" il capitalismo, quanto di impedire che il suo crollo, già in corso, finisca in barbarie e rovine. I movimenti sociali contro le sole banche sono senza dubbio una falsa risposta, dal momento che scambiano il sintomo per la causa. Fanno rivivere i vecchi stereotipi degli "onesti" lavoratori sfruttati dai "parassiti", e sono a rischio di degenerare nel populismo e nell'antisemitismo. In generale, il ricorso alla "politica" (in particolare allo Stato) è impossibile, dal momento che la fine dell'accumulazione, e quindi del denaro "reale", priva le pubbliche autorità di ogni mezzo di intervento. Per riuscire a trovare un'alternativa al capitalismo, è necessario prima mettere in discussione la natura della merce e del denaro, del lavoro e del valore, categorie che sembrano "teoriche", ma le cui conseguenze ultimamente determinano quello che noi facciamo quotidianamente.