Karl Marx ✆ A. Müller |
Claudio Valerio
Vettraino | E’ arduo analizzare ciò che “di vivo o di
morto” c’è nell’opera di Marx. Un’opera complessa e monumentale che ha
attraversato i secoli e le generazioni, rappresentando per il movimento operaio
internazionale la bussola organizzativa e strategica. Un filo rosso che dura
ancora oggi e che fa da movente a tentativi di ricostruzione di fantomatici
partiti del lavoro o fronti sociali di liberazione dalla servitù salariata.
Gruppi o gruppuscoli intellettuali si richiamano a lui; tentativi oggi in atto
per renderlo un “classico”, l’icona stessa di un passato che non deve tornare
(come se lo stesso Marx fosse responsabile diretto e non a sua volta vittima
strumentale dei disastrosi esperimenti di socialismo reale) e allo stesso tempo
di una probabile ricomposizione epistemologica di un presente che ci sfugge, di
un caos che ci attanaglia, di una crisi che mostra lati più oscuri della
globalizzazione neo-liberista.
Ed è
curioso come il Marx ufficializzato dall’establishment sia in sé duplice e
scisso. Il Marx “scienziato” dell’economia politica da rielaborare alle
luce delle inedite trasformazioni epocali che stiamo vivendo e il Marx
politico-rivoluzionario da gettare alle ortiche. Un’operazione ideologica,
quella di scindere Marx in due tronconi del tutto incomunicabili, che non tiene
assolutamente conto della dialettica che segna ed opera in tutto il suo
pensiero. Da buon hegeliano, per Marx era impensabile considerare la politica
senza
l’economia. L’universale senza l’individuale. La storia senza la natura.
l’economia. L’universale senza l’individuale. La storia senza la natura.
L’uomo senza il suo lavoro. Il denaro e la merce senza
profitto e il profitto a sua volta senza alienazione né sclerotica reificazione
di tutto ciò che di umano c’è al mondo. Ed ecco che la prima, grande
innovazione marxiana – in realtà derivata da Hegel e che Lukàcs rimarcò con
forza [1] – risiede nell’analisi totalizzante di una realtà
totalizzante, organica, non scindibile nelle sue parti, ma in cui le parti si
fanno totalità, sono il tutto che contribuiscono a determinare con le loro
interazioni reciproche [2].
La categoria di totalità storica concreta è il primo punto
da cui ripartire per ricostruire la pregnanza epistemologica del pensiero
marxiano. Non possiamo comprendere l’attuale crisi del sistema capitalistico
mondiale, senza riandare alle tesi, esposte da Marx con lucidità esemplare nei Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, in cui analizza i nessi dialettici che
legano indissolubilmente produzione-circolazione-distribuzione e consumo.
Infatti: “La produzione produce gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la
distribuzione li ripartisce secondo leggi sociali; lo scambio ridistribuisce il
già distribuito, secondo il bisogno individuale; nel consumo, infine, il
prodotto esce fuori da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto e
servitore del bisogno individuale e lo soddisfa nel godimento. In tal modo la
produzione si presenta come punto di partenza, il consumo come punto finale, la
distribuzione e lo scambio come il punto intermedio, il quale è a sua volta
duplice, in quanto la distribuzione è determinata come il momento che proviene
dalla società, e lo scambio come il momento che proviene dagli individui. Nella
produzione la persona si oggettivizza, nella persona l’oggetto si soggetti
vizza; nella distribuzione la società, sotto forma di disposizioni generali e
imperative, si assume la mediazione tra produzione e il consumo; nello scambio,
questi vengono mediati dalla determinatezza accidentale dell’individuo [3].”
Poco dopo Marx chiarifica ulteriormente questo ginepraio:
“La produzione è dunque immediatamente consumo, il consumo immediatamente
produzione. Ciascuno è immediatamente il suo contrario. Al tempo stesso,
tuttavia, tra i due si svolge un movimento di mediazione. La produzione media
il consumo, di cui crea il materiale e al quale senza di essa mancherebbe
l’oggetto. Ma il consumo media a sua volta la produzione, in quanto solo esso
procura ai prodotti il soggetto per il quale essi sono prodotti. Il prodotto
riceve il suo ultimo perfezionamento soltanto nel consumo [4].”
Ma dobbiamo stare attenti a non idealizzare questi momenti,
perché ciò ci impedirebbe di vedere che “il risultato al quale perveniamo non è
che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi
rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito
di un’unità [5]. Da tutto ciò risulta non solo la natura storicamente
dialettica della formazione economico-sociale capitalistica, ma la verifica
inconfutabile che, nell’era del capitalismo finanziario globale dominato da
trust transazionali, non esistono né possono esistere, crisi parziali [6]. Ogni crisi parziale di un settore parziale, investe
inevitabilmente, come la crisi del ’29 dimostrò, tutti i reparti e i settori
produttivi e con essi quelli bancari e finanziari che li sostenevano. Come non
esistono crisi di “rappresentanza politica” senza la relativa decostruzione di
un modo specifico di produzione, senza il declino del sistema economico a cui
fa riferimento. Un esempio di questo, fu il famoso biennio ‘90-‘91 (pari per i
riflessi geo-politici ad una terza guerra mondiale non combattuta), in cui alla
crisi e dissoluzione dell’Unione Sovietica e della politica dei blocchi,
corrispose conseguentemente la decostruzione progressiva ed
inevitabile di tutto un sistema di potere e di alleanze che aveva rappresentato
quella spartizione mondiale.
La realtà dunque è una totalità dialettica concreta come
avrebbe detto Karel Kosik [7], e come tale va studiata in profondità. Ciò ci permette
inoltre di prendere in prestito Marx, per criticare tutte le forme, più o meno
opportune, più o meno interessate, di apologia diretta o indiretta del modo di
produzione capitalistico e del neo-liberismo. E’ alquanto curioso evocare un
capitalismo buono distinto da uno cattivo. Gridare alle regole, a nuove e
razionali legislazioni che diano finalmente ordine ai mercati o ne controllino
gli effetti deleteri, ne frenino “politicamente” gli abusi e le aberrazioni è
la vera utopia, direbbe Marx, dei nostri tempi. La misura del livello mediocre
e anch’esso caotico ed irrazionale dei teorici della borghesia, dei cosiddetti
analisti del mercato: “Secondo loro – vedi ad es. J. S. Mill – la produzione, a
differenza della distribuzione, ecc., va rappresentata come inquadrata in leggi
di natura eterne ed indipendenti dalla storia, nella quale occasione poi,
rapporti borghesi vengono interpolati del tutto surrettiziamente come
incontestabili leggi di natura della società in abstracto [8].”
Le forze politiche nel sistema capitalista, e questo Marx lo
spiega chiaramente, non sono altro che espressioni di determinati interessi
economici e produttivi, finanziari e bancari. I parlamenti e i governi, sintesi
dialettica degli interessi medi dei poliedrici interessi delle varie frazioni
della borghesia. Le garanzie, evocate ricorrendo alla “salvezza” mistica delle
carte costituzionali (la vera rivoluzione sentenziava il PCI negli anni ’50 e
’60, sta nella sua piena ed oggettiva attuazione) non sono altro che la
certificazione ideale – che ha avuto, beninteso, una funzione materiale
decisiva nell’imporsi storico della borghesia – di un’eguaglianza reale solo
nel cielo astratto del diritto.
Un orizzonte solo apparentemente sgombro da nubi sotto il
quale la diseguaglianza reale degli uomini concreti vive e prospera
come non mai: “Ogni forma di produzione genera i suoi peculiari rapporti
giuridici, la sua peculiare forma di governo ecc. La rozzezza e la genericità
stanno proprio nel fatto di porre in una relazione reciproca accidentale cose
che sono connesse organicamente, di ridurle cioè ad una mera connessione nella
riflessione. Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna
si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi
dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto e che il
diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma, anche nel loro
“Stato di diritto” [9].”
E’ dunque tipico, asserisce Marx, di chi si pone al di là
delle necessità oggettive della lotta di classe, proiettandosi idealisticamente
al di là dell’orizzonte stesso della storia, abbaiare alla luna di una
politica [10], di un cretinismo parlamentare [11], come sterile palliativo alle contraddizioni strutturali
del modo di produzione capitalistico. Non solo la “politica” non può
rappresentare da sola la soluzione (dietro di essa ci vorrebbe la ricostruzione
di una soggettività operativa e di un’utopia concreta su cui riformulare un
vocabolario-linguaggio critico all’altezza dei tempi) ma è essa stessa una
parte non trascurabile del problema.
Totalità dunque ma totalità che ha bisogno di una concretezza,
di un ricorso alla materialità dell’esistenza e dell’essere sociale come
pilastro fondamentale. Ed è per questo che l’attualità teorico-pratica di Marx
risiede precisamente nella rivoluzione copernicana da lui, assieme ad Engels,
concepita e portava a termine. Una rivoluzione epistemologica radicale, una
rottura netta con l’idealismo tedesco che l’ha posta in essere [12], attraverso cui comprendere finalmente che la storia non va
studiata a partire dalle idee, dalle impressioni che vegetano nella pigra
coscienza degli uomini, nei loro luoghi comuni, nelle ideologie che ne
deformano la visione oggettiva dei processi reali che vivono quotidianamente.
Lo stesso Marx, nell’incipit dei Lineamenti, non lascia adito a dubbi:
“Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. Il punto di
partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in
società – e perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui [13].”
Occorre partire dai rapporti sociali attraverso cui gli
uomini storici producono e riproducono la ricchezza sociale, dalle forme e
strumenti produttivi utilizzati, dal livello medio di produttività di un paese,
dai dati materiali dell’esistenza. Solo così è possibile analizzare
scientificamente le caratteristiche e le trasformazioni oggettive di un
organismo sociale giunto a un determinato grado del suo sviluppo. E solo così è
possibile comprendere la nascita e il germogliare nelle masse ideologie e
psicologie, comportamenti individuali e collettivi, gli istinti religiosi, le
mode, i gusti e le paure inconsce. Il rapporto ovviamente è dialettico. La
struttura e la sovrastruttura, usando le espressioni di Marx ed Engels, si
condizionano a vicenda. Il lavoro determina la coscienza sociale e la coscienza
sociale determina, condiziona le forme della produzione e del lavoro. Spesso,
ed è storia dei nostri giorni, le forme politiche non riflettono
immediatamente, meccanicamente, le dinamiche economiche, le trasformazioni
produttive, la creazione di trust e mercati comunitari [14].
La realtà è irriducibile al pensiero. Non si esaurisce del
tutto e non si sottomette mai integralmente alle forme del pensiero e della
scienza che la imbrigliano in leggi di movimento, in oggettiva ma mai dogmatica
reiterabilità. La realtà è infinita e muta all’infinito, assumendo forme
talvolta imprevedibili, inspiegabili e misteriose. Ed è per questo motivo che
fare scienza della società è impresa ardua e titanica. Non è
assolutamente facile dare “ordine”, regolarità legislativa al caos. E’ molto
più semplice fare scienza di un fiore, di un insetto, di un fenomeno
fisico-atmosferico, piuttosto della macchina più complessa ed enigmatica che
esiste in natura; l’uomo.
Ma sta proprio qui l’attuale superiorità del metodo
marxiano, rispetto al vuoto formalismo delle categorie pure a-priori kantiane,
l’autocoscienza del Soggetto-Idea hegeliano e l’astrattezza naturalistica
dell’economia politica classica: “Agli occhi dei profeti del XVIII secolo,
sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo
del XVIII secolo – che è il prodotto , da un lato, della dissoluzione
delle forme sociali feudali, dall’altro, delle nuove forze produttive
sviluppatesi a partire dal XVI secolo – è presente come un ideale la cui
esistenza sarebbe appartenuta al passato. Non come un risultato storico, ma
come il punto di partenza della storia. Giacché come individuo conforme a
natura, o meglio conforme all’idea che essi si fanno della natura umana, esso
non è originato storicamente, ma è posto dalla natura stessa [15].”
L’obiettivo di Marx, portato avanti per tutta la sua vita, è
quello di costruire una metodologia epistemologica complessiva, totalizzante,
attraverso cui fare “scienza della storia” in quanto scienza
dell’organismo sociale in movimento dialettico con se stesso. Per dirla
con della Volpe [16], applicare il metodo fisico-naturale galileiano al moto
quotidiano della mondanità umana, per rintracciare nel suo divenire solo apparentemente caotico
e disorganico, fluttuante ed atomistico, le leggi oggettive del suo funzionamento.
Partire dall’osservazione del processo concreto, estrapolare-dedurre da esso
un’ipotesi concreta di lavoro e verificare tale ipotesi in relazione diretta
con la prassi oggettiva. Se ciò è vero, risulta altrettanto veritiera la
convinzione, incrollabile in Marx e Lenin, che sia solo il laboratorio della
storia, e non le pigre idee degli accademici, ha dimostrare la validità,
l’omogeneità ai fatti, al divenire dialettico della realtà, della teoria
marxiana. La comune di Parigi e la rivoluzione russa sono lì a
testimoniarlo [17].
In questa dimensione, le categorie marxiane di merce,
denaro, classe, mercato, valore, lavoro, stato, politica, e via discorrendo,
non sono semplici intuizioni geniali della mente di Marx ed Engels. Ma
viceversa, astrazioni scientifiche, impresse ed rielaborate nella coscienza di
Marx ed Engels dal movimento stesso della storia, successivamente dimostrate al
suo cospetto. La storia per Marx ed Engels non è un semplice dibattito tra
idee. Se fosse così, disse Marx, il comunismo scientifico avrebbe già “vinto”
da secoli. La storia è lo scontro oggettivo di forze politiche ed
economiche in lotta perenne tra loro per far valere i propri “diritti” [18]. Ed è in questo angusto crinale che la battaglia “comunista”
deve sapersi inserire e parlare ai soggetti interessati. Anche se il mito
sociologico della società “liquida”, della fine della storia, delle famose
“convergenze parallele” promosse dall’interclassismo, ci hanno da decenni
abituati e convinti del contrario. Già in Marx, secondo Lenin, vi era la precisa
convinzione che il comunismo non vincerà come un bel ideale da imporre
dall’alto al mondo intero. Non bisogna convincere le masse della
necessità storica del comunismo. Ma sarà la contraddizione principale del
sistema capitalistico tra una produzione sempre più socializzata (globale) ed
appropriazione del profitto (nelle mani di un centinaio di grandi trust
mondiali) sempre più individuale, assieme alle crisi sempre più acute e
violente, che porranno le condizioni per la presa di coscienza della
necessità del passaggio a una forma “superiore”, finalmente razionale e
razionalizzata di produzione sociale.
L’umanità ritornerà a sé infatti soltanto dopo essersi
alienata nel capitalismo, nella sua mercificazione alienante, come ente allo
stesso tempo naturale e sociale.
La scienza dialettica alle prese con il XXI secolo
Abbiamo dunque descritto un Marx scienziato ma di una scienza particolare: la scienza dialettica. Semplificando, possiamo asserire che in Marx operano contemporaneamente due forze. Una metodologica, facente capo all’epistemologia galileiana, esemplificata dal circolo concreto-astratto-concreto di della Volpe; l’altra invece riferita all’essenza rivoluzionaria e destrutturante della dialettica hegeliana.
La scienza dialettica alle prese con il XXI secolo
Abbiamo dunque descritto un Marx scienziato ma di una scienza particolare: la scienza dialettica. Semplificando, possiamo asserire che in Marx operano contemporaneamente due forze. Una metodologica, facente capo all’epistemologia galileiana, esemplificata dal circolo concreto-astratto-concreto di della Volpe; l’altra invece riferita all’essenza rivoluzionaria e destrutturante della dialettica hegeliana.
La sua forza, testimoniata dallo stesso Marx nel poscritto
alla seconda edizione de Il Capitale, risiede proprio nel concepire ogni
positività come negazione di se stessa, come antitesi della sua tesi,
costruzione della propria decostruzione, annullarsi del proprio esistere [19]. La superiorità della dialettica risiede nella sua
intima natura di creatività diveniente, metamorfosi trasformativa
incessante [20]. Negatività costruente in fieri. Ed è questa stessa
dialettica che fa vedere la merce in Marx come unità dialettica inscindibile di
valore d’uso e valore di scambio; del valore d’uso come valore di
scambio. Il lavoro astratto comelavoro concreto; il plusvalore e lo
sfruttamento salariato dovuto all’intensificazione della produttività del
lavoro e del dominio incontrollato su di esso del capitale mondiale, le
contraddizioni insanabili del modo di produzione capitalistico così come le sue
crisi cicliche sempre più virulente ed allargate a scala mondiale, la socializzazione globale
delle medesime condizioni di alienazione come elementi insuperabili entro cui
formulare, delineare ed organizzare il passaggio storico al comunismo [21].
Ciò detto, risulta evidente come siano le dinamiche
oggettive dello sviluppo capitalistico che pongono le condizioni economiche,
politiche e sociali del comunismo. Ma per Marx ed Engels ciò non basta. Non è
sufficiente credere nel messianesimo rivoluzionario, rischiando con ciò di
cadere nell’economicismo. Occorre una soggettività organizzata e radicata nel
territorio che sappia dare concretezza strategica, “gambe e teste” a immanente
necessità. Qui nasce il nucleo originario del leninismo, del partito bolscevico
e dell’utopia politica del Novecento.
Riassumendo: totalità, scienza e dialettica sono i tre
cardini del pensiero marxiano e della proposta politico-epistemologica,
dell’analisi critica della società capitalistica, attraverso definire l’utopia
progressiva di un “già non ancora” tutto da costruire. L’attualità di Marx
risiede nelle oggettive contraddizioni di un sistema – quello borghese – non
più in grado di dare risposte, idee, valori, ad un umanità sempre più attonita
e spaventata.
L’ineguale sviluppo del mercato mondiale, già analizzato dal
Lenin più di cento anni fa, che determina l’ascesa e il declino delle grandi
potenze e delle loro aree di influenza[22], l’affanno delle tradizionali
roccaforti del capitalismo occidentale a tutto vantaggio del BRIC, sono tutti
fattori che preconizzano una nuova spartizione e forse una nuova guerra
mondiale, rimarcando con forza l’analisi marxista delle relaz, così come la
necessità di dare nuovo slancio a quello che un tempo veniva chiamato
“internazionalismo proletario”, all’unione mondiale dei salariati come alternativa
concreta.
E’ una sfida inimmaginabile per mole ed impegno. Folle,
secondo chi, ritiene oggi impossibile soggettivamente e oggettivamente,
riattivare una prospettiva teorico-politica di questo genere. Così come fu
giudicato impensabile mutatis mutandis ai tempi della Prima
Internazionale inaugurata da Marx nel 1864 o la Terza ai tempi di Lenin 23]. Momenti in cui, va ricordato, le forze del lavoro non erano
così numerose e capillari (le odierne stime parlano di un miliardo e mezzo di
salariati nel mondo), né istruita, concentrata di megalopoli, né in grado di
comunicare telematicamente in ogni parte del globo, né tantomeno viaggiare,
scambiare idee, impressioni, esperienze come oggi.
Per concludere, possiamo affermare che non vi sia inattualità nel
pensiero e nelle opere che Marx ci ha lasciato. L’inattualità del pensiero di
Marx non risiede tanto, come abbiamo visto, nelle opere di Marx stesso. Forse
il suo unico limite, come ci ricorda Agnes Heller [24], è di essere stato un uomo dell’Ottocento (“colpa” che va
attribuita al fatto che Marx è nato ed è stato un uomo del suo tempo), di aver
cioè costruito un sistema teorico-politico basato sulla fiducia nelle sorti
magnifiche e progressive dell’umanità, di aver abbracciato con troppa sicurezza
e naturalezza il positivismo del suo tempo, ignorando temi che emergeranno solo
con il Novecento, come la psicologia e la questione ambientale.
Un limite, tuttavia, non imputabile a Marx. Come Hegel
arrestò la sua Fenomenologia ai tempi di Napoleone, perché questo era
il suo orizzonte storico determinato ed insuperabile, così Marx analizzò come
scienziato, non come mago né profeta, il suo mondo, la società capitalistica
che aveva di fronte, non potendo andare oltre né ricamare ricette per
l’avvenire. Anche se già ne I Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx
si sofferma sul tema ambientale, oggi diremmo ecologico. Descrisse il comunismo
come l’unica costellazione sociale in grado di riunificare organicamente l’uomo
alla natura dopo aver superato l’alienazione e la reificazione del capitalismo,
dopo aver finalmente pianificato razionalmente e diretto la produzione non al
profitto sfrenato ma ai veri e concreti bisogni umani. Finché la società sarà
retta dalla valorizzazione incessante del valore, del capitale come
accumulazione allargata su scala mondiale, finché la quantificazione vincerà
sulla qualificazione, finché perdurerà la reificazione umana, la
natura sarà sempre estranea e nemica dell’uomo. Solo nel comunismo, il lavoro
trasformerà armonicamente la natura e l’uomo si sentirà parte di essa come
specie, tornerà a sé come ente naturale generico. Sta anche qui, come
asserirono puntualmente due grandi teorici marxisti come Giuseppe
Prestipino [25] e Sebastiano Timpanaro [26], l’attualità del pensiero marxiano. Il comunismo è la vera e
concreta risoluzione del conflitto millenario tra uomo e natura. Tra produzione
ed ecologia, con buona pace delle tendenze oggi operanti che si richiamano a
Malthus (che Marx distrusse già nella metà dell’Ottocento) e alle usurate
teorie della decrescita e della sovrappopolazione.
Spunti, tracce ed indicazioni, che vanno certamente
rivisitate e rielaborate alla luce delle trasformazioni oggettive e della nuova
fase storica. Ma la loro presunta inattualità si annida perniciosamente nei
goffi tentativi portati avanti da opportunistici burocrati della penna, da
intellettuali da salotto, da accademici di “belle arti” che attraverso Marx
sperano di ritornare sulla cresta dell’onda e vendere magari qualche copia in
più, ingegnandosi nel rendere superata a tutti i costi la critica
rivoluzionaria di Marx, depotenziandone la valenza politica.
Un Marx “profeta muto” che va ben distinto dal suo essere,
ancor oggi, il principale rappresentante teorico e politico di un movimento che
come un fiume carsico riemerge inaspettatamente dalle gole di un pantheon
ideologico nichilistico ormai logoro, in grado di ispirare e dirigere chi
produce tutta la ricchezza mondiale (solo in Europa i lavoratori nell’industria
sono il 70% del totale degli occupati, altro che scomparsa delle tute blu),
alla piena coscienza di sé, della loro intrinseca forza [27].
Il secolo di Marx, il secolo che nel Manifesto del
Partito comunista datato 1848 descrive così bene assieme ad Engels (tanto
da essere scambiati per visionari), è il Ventunesimo secolo ed qui sotto i
nostri occhi. Il nostro dovere è quello di comprenderlo con le armi
teoriche, il metodo d’indagine scientifica che ci hanno lasciato in eredità per
travolgerne alla radice i rapporti di forza e non per ammirarne in silenzio,
assecondarne con timidi bisbigli il lento ed inesorabile declino, come ebbe
egregiamente a dire Mario Tronti, in un suo famoso saggio apparso cinquant’anni
orsono su “Società” (1961).
La scienza del capitalismo, la scienza del Capitale, è
possibile solo nella prospettiva della rivoluzione socialista. Scienza e storia
è un discorso che cade ancora tutto dentro la scienza: è la logica della
teoria. Ma c’è l’altro discorso: scienza e storia che cadono tutte dentro la
storia, che è la logica pratica. La prima presuppone un pensiero materialista,
la seconda una prassi sovversiva. Oggi, dire teoria pratica è poco. Bisogna
dire teoria scientifica e pratica rivoluzionaria. Perché c’è anche una teoria
eclettica e una pratica riformista. Quando si dice scienza e storia, si deve
poi dire anche: teoria e rivoluzione. In fondo, la prima scienza della storia è
la nostra teoria della rivoluzione. E’ nella logica del Capitale la rivoluzione
operaia [28].
Note
[1] Cfr. su questo G. Lukàcs, Storia e coscienza
di classe, Sugar, Milano 1967
[2] Cfr. su questo K. Marx, Lineamenti fondamentali per
la critica dell’economia politica, 2 vv., a cura di Enzo Grillo, Nuova
Italia, Firenze 1968.
[3] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica, a cura di Enzo Grillo, vol. I., Nuova Italia, 1968,
cit., p.12
[4] Ivi, cit., p.12
[5] Ivi, cit., p.25
[6] Il paradosso è che la crisi globale che stiamo vivendo,
in quanto “ridefinizione” strutturale delle capacità produttive dell’intero
complesso sociale (con il venir meno della centralità del Welfare Occidentale e
del lavoro come ricambio organico uomo-natura), dimostra come sia la dirigenza
borghese (istituzionale) che la classe operaia (mondo del lavoro), non siano
assolutamente “all’altezza” (omogenee, adeguate) al piano di ristrutturazione
del capitalismo mondiale. Dialetticamente, come elementi oggettivi del
processo, ne sono tuttavia estranei. Sembra, come riflesso ideologico, che il
capitale non sia altro che un meccanismo dinamico “autonomo” ed indipendente
dai suoi elementi basici, astratto dalle sue stesse contraddizioni immanenti,
dai rapporti di forza che esprime in quanto relazione sociale storicamente
determinata tra forze produttive e salario. Il vantaggio, è che la crisi pone
l’interdipendenza tra capitale e lavoro e la coscienza della lotta di classe,
come due fenomeni oggettivi ed ineluttabili, squarciando le pesanti nubi
ideologiche sulla loro dipartita.
[7] Karel Kosik, Dialettica della totalità concreta,
Bompiani Milano 1963
[8] Ivi, cit., p.9
[9] Ivi, cit., p. 11
[10]Un mediazione “istituzionale” ormai del tutto inutile,
dato che le forze borghesi stesse scendono direttamente “in campo” per
difendere i loro interessi nell’agone politico. Basti pensare alla lista
per Monti dei vari Montezemolo e co. Ma ciò non deve indurre a considerare lo
stato, il parlamento e il governo come entità anonime, astratte, ormai
condannate al declino e all’inutilità. Sarebbe un grossolano errore di
semplificazione meccanicistica, come tende a fare Grillo. Il fatto che le forme
del potere e della rappresentanza mutino, assumano ruoli e connotati diversi in
relazione alle diverse esigenze strategiche della borghesia mondiale (controllo
e gestione diretta del potere e della produzione e delle politiche fiscali e di
previdenza, ecc, già osservata da Nicos Poulantzas negli anni ’70 in Francia
durante il Neo-gollismo) non significa la loro abdicazione o il loro
progressivo esautoramento, preconizzando addirittura lo spazio per una
democrazia “diretta”, dal basso e orizzontale. La realtà e le stratificazioni
di classe, sociali e psicologiche sono molto complesse e difficili da scalfire.
[11] Sintomo per Marx di una vera e propria malattia. Quella
cioè di ipostatizzare feticisticamente l’attenzione solo sulle schermaglie
parlamentari, sulle correnti, sui personalismi dei vari leaders, come fossero
il centro del mondo, impendendosi di alzare lo sguardo sul mondo.
Sulle immani ed epocali trasformazioni (declino dell’atlantico ed ascesa del
pacifico) che abbiamo di fronte. Come se la complessità del mondo si riducesse
al pingue dibattito o alle “risse” da bar tra capi popolo (senza più popolo)
ormai traslate dai polverosi banchi del “palazzo” ai vari talk shows, senza
riuscire più a cogliere le forze materiali, i processi oggettivi globali, che
determinano lo sviluppo stesso della società e del modo di produzione
capitalistico. Vi è dunque un’astrazione determinata, direbbe della Volpe, che
tende a scindere la dialettica (spuria ed avulsa dalla storia) parlamentare dalla
dialettica oggettiva delle forze in campo che la pongono in essere. Un
feticismo (vedere il dito per non vedere la luna) tipico prodotto della
reificante alienazione della formazione economico-sociale capitalistica.
[12] Ed è per questo molto curiosa l’operazione portata
avanti da Fusaro nel descrivere un Marx “scienziato” idealistico. Due termini
che rappresentano un vero e proprio ossimoro. Dove vi è scienza, ovvero
elaborazione di un’astrazione determinata e verifica empirica di tale ipotesi a
diretto contatto con la prassi oggettiva, insomma “metodo galileiano” applicato
al mondano direbbe della Volpe, non può trovare spazio la dipendenza dell’essere
da un principio alieno extramondano a cui fa costante riferimento. Da un lato
la realtà è indipendente dal pensiero-coscienza, è irriducibile ad
esso e dall’altro è perniciosamente dipendente e legata –
religiosamente (in senso di religio) – ad un entità superiore, metafisica,
che la pone in essere come sua diretta emanazione terrena. L’idealismo, per
dirla con Colletti e Mario Dal Pra, non è altro che la certificazione della
limitatezza dell’essere, la sua non autonomia rispetto all’autocoscienza
spirituale dell’Idea. Ne L’ideologia tedesca infatti Marx ed Engels
compiono un vero e proprio “parricidio” nei confronti di tutta la tradizione
idealistico-filosofica occidentale e non solo tedesca. Con buona pace di
Roberto Finelli. Sta qui, la loro vera ed autentica rivoluzione copernicana.
Rimettere finalmente il mondo “sui piedi”. Partire dai dati reali dell’esistenza
e non dalle sue proiezioni ideali (invertite) nella mente degli uomini.
[13] Ivi, cit., p.7
[14] Vedere ad esempio la crisi di un Europa che da mercato
economico-finanziario comune, non riesce a farsi voce politica, estera,
militare comune. Al piano strutturale non corrisponde mai meccanicamente
il piano sovrastrutturale. Anzi, c’è sempre una spaccatura tra i due piani. E
il marxismo è proprio la scienza che colma e dimostra questo iato, ne dà
visione e coscienza totale. Marx ebbe a dire: “se la forma e la sostanza dei
fenomeni fossero tutt’uno non ci sarebbe bisogno di scienza.”
[15] Ivi, cit., pp. 4-5. Cfr. inoltre sui limiti ideologici
fondamentali dell’economia politica classica, le illuminanti pagine di Teorie
sul plusvalore, Editori riuniti, Roma 1993
[16] Cfr. Galvano della Volpe, Logica come scienza
storica, Roma, 1949
[17] Quelle poche volte che Marx parlò della società
comunista, lo faceva sempre con enorme imbarazzo, proprio perché, da
scienziato, non poteva fare previsioni su di un mondo ancora avvenire, da
costruire. E’ per questo che intitolò la sua opera più importante Il
capitale e non Il comunismo. Ma appena vide la comune di Parigi, l’opera
straordinaria della classe operaia parigina, le sue forme di autogestione e di
pianificazione collettiva della produzione, capì che era quella la forma
politica “compiuta” (per quei tempi) del dominio, di quella che chiamò “la
dittatura del proletariato”, il passaggio dal dominio dell’uomo sull’uomo alla
gestione razionale delle cose per i bisogni umani.
Sempre in riferimento all’epos della Comune, Engels ne L’Anti-duhring parlò
dell’estinzione della macchina statale, della sua burocrazia, dell’esercito
sostituito dalla milizia popolare, della politica come gestione di una lotta di
classe ormai superata con il superamento della divisione in classi della
società. Il primo germe insomma di società socialista. Un epos storico che
arrivò fino a Lenin e che riempì i capitoli più interessanti di Stato e
rivoluzione. Il filo rosso che lega la comune alla Rivoluzione russa sta
proprio in quella forma politica, in quel potere costituente (che non si esaurisce
mai nel suo potere costituito) che la comune di Parigi provò fosse possibile ed
attuabile. La comune non è altro che la verifica pratica, storicamente
determinata dal movimento reale, dalle oggettive contraddizioni capitalistiche
(la guerra franco-prussiana portò milioni di proletari sotto le armi,
rendendoli con ciò pericolose sostanze infiammabili, così come la prima guerra
mondiale sul fronte orientale), delle ipotesi scientifiche formulate da Marx ed
Engels molti decenni prima. Non vi è in loro una pura e semplice autocoscienza
di un fenomeno avulso dalla storia così come si affrettavano ad ipotizzare i
socialisti utopisti. Ma la necessità di partire dal’analisi della realtà e
ritornare ad essa dopo la verifica pratica della stessa. Ciò dimostra che il
marxismo definito da della Volpe come “galileismo morale” , astrazione
determinata, circolo C-A-C, risulta ancor oggi attuale, seppur alle volte
schiava di arrugginiti formalismi ed eccessive forzature ideologiche.
Estremizzazioni che vanno certamente rimosse in relazione alla fase attuale, ai
soggetti politici e alle forme di relazione oggi in campo.
[18] E’ lo stesso Marx, in alcuni suoi famosi passi, ad
asserire senza alcuna incertezza, che lo scontro tra lavoro e capitale, tra la
vendita della forza lavoro in cambio della sua remunerazione salariale, non sia
altro che uno scontro storico tra forze di “diritto” riconosciute e sancite
dalla legge. Il capitalista ha il diritto di comprare la merce forza-lavoro a
prezzo di mercato (in base alla zona in cui produce) e il lavoratore ha il
diritto (in base alla sua “libertà” dettata dallo stato di diritto e
dall’eguaglianza formale sancita dalla costituzione) di vendergliela o di
rifiutare, scegliendo un altro acquirente a lui più conveniente. Non vi è, in teoria,
nel cielo astratto (ma reale, effettivo) del diritto, nessuna costrizione. Sono
precisamente due soggetti giuridici, autonomi ed indipendenti, che si
confrontano nell’agone sociale, in quel rapporto di produzione sociale,
collettivo, storicamente determinato che è il capitalismo. Uno scontro
giuridico però, asserisce Marx, senza soluzione. O meglio, impossibilitato a
trovare una soluzione esclusivamente, prettamente giuridico-legislativa (il
ruolo di “garanzia” del sindacato è fondamentale ma fa quel che può, in
condizioni difficili). Addirittura Lenin criticò aspramente il ruolo di
mediazione legislativa del sindacato come utopica, riformistica risoluzione di
un conflitto tra capitale e lavoro all’interno dei rapporti di produzione
borghesi, solubile solo con la rivoluzione socialista e l’instaurazione della
dittatura del proletariato, la democrazia diretta dei soviet. Per Marx, a
parità di legittimità giuridica, di affermazione-annullamento reciproco dei
diritti, chi decide è la violenza (che può anche estrinsecarsi con l’arma del
diritto e della legge, non solo con la forza bruta delle repressione militare o
poliziesca). Il più forte (o chi si adatta meglio al mutare della situazione
parafrasando Darwin), il più organizzato, il suo influente (il più egemonico
direbbe Gramsci) vince e sottomette il suo avversario di classe. Detta a chi
perde le sue condizioni. In questo sta l’estremo realismo politico, il suo
totale distacco da ogni forma di moralismo di Marx. La storia, il diritto, la
politica, lo stato, la morale, è di chi vince, anche e soprattutto di chi
ricorre alla violenza.
[19] Cfr. K. Marx, Il Capitale, vol. 1, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1973.
[19] Cfr. K. Marx, Il Capitale, vol. 1, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1973.
[20] Una superiorità dinamica, basata sulla negazione
determinata di ogni positività, che non uccide, come asserì ossessivamente
della Volpe in Logica come scienza positiva, le identità concrete
(capitale-lavoro) annichilendole nel loro trapassare dialettico una nell’altra,
bollando l’influenza della logica dialettica e il ricorso al movimento dialettico
della realtà storica, come residui di “misticismo” hegeliano-eracliteo,
nell’aristotelismo kantiano di Marx. Anzi, le fonda ad un più alto piano di
consapevolezza logico-storica, aprendo con ciò la strada ad una sintesi
qualitativamente “superiore”, specificatamente all’Aufhebung comunista.
Ciò portò della Volpe e alcuni esponenti della sua scuola, incluso Colletti, a
sostituire per decenni alla contraddizione dialettica (A-NON A) il sillogismo
delle opposizioni reali (A-NON A =B). Solo agli inizi degli anni ’60, della
Volpe comprese “l’essenza” dialettica irriducibile del pensiero marxiano.
[21] Ed è per questo che il comunismo scientifico non era
pensabile nel medioevo, all’interno di una formazione economico-sociale non in
grado, concettualmente e materialmente, di elaborare una simile teoria. E
questo dimostra come la scienza, il pensiero, siano prodotti determinati di
determinate epoche storiche. O meglio, il pensiero del comunismo c’era già,
solo in forme ideali e primitive. Una sorta di “coscienza infelice” per dirla
con Hegel, non ancora pienamente e realmente cosciente di sé come progetto di
liberazione dell’umanità intera dalle catene della servitù salariata.
[22] Alcune zone crescono perché assicurano maggiori
percentuali di profitto e zone decrescono perché non riescono più ad
assicurare, per vari motivi, quelle quote di plusvalore tradizionalmente
acquisite. Marx dimostrò, già nel 1848, che il capitale è per sua natura
internazionale, il suo spazio vitale è il mondo; va dove ci sono le maggiori
percentuali di profitto al minor costo, riducendo se necessario la quota di
capitale variabile e concentrando-razionalizzando il capitale costante.
[23] Sfide che dobbiamo, a mio avviso, ancora oggi
comprendere nella loro piena e concreta portata storica, nei risultati
realmente e complessivamente conseguiti al di là delle loro forme fenomeniche.
Per parlare di inattualità, è il caso di riflettere sui numerosi tentativi di
associare i disastrosi esperimenti dei cosiddetti “socialismi reali” (in realtà
irrealizzati), dei vari capitalismi di stato spacciati per comunismo (URSS,
DDR, Albania, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, ecc), alle teorie di
Marx, Engels e Lenin. Un discorso vecchio ed usurato, che da trent’anni tenta
di screditare l’intera analisi politica e della teoria dello stato marxiana
(presente in Marx e in Lenin, con buona pace di Bobbio e Colletti); una
teorizzazione che andrebbe ripresa con forza, così come quella delle classi,
sostituita ideologicamente dalla sociologia del ceto e dalla condizione. E’
davvero inconcepibile che ci sia ancora gente convinta che in Albania, così
come nel blocco orientale, ci fosse il comunismo e che i suoi “profeti” fossero
Marx, Engels e Lenin. Ora, è evidente che quei regimi si rifacessero, inopinatamente,
alle teorie di Marx. Ma non possiamo né dobbiamo attribuire a Marx simili
responsabilità. Così come non possiamo né dobbiamo attribuire a taluni scritti
di Nietzche la nascita e l’origine del nazionalsocialismo. Ispirarsi o
strumentalizzare una teoria, fare di un uomo concreto un mito, un simulacro
muto che non può difendersi, solo per avere una copertura ideologica atta ai
propri scopi di dominio e oppressione, non significa renderlocorreo delle
malefatte compiute in suo nome. Occorre fare pulizia. Bisognerebbe fare una
discussione profonda e radicale su questo, per sgombrare il campo una volta per
tutte da queste costruzioni ideologiche costruite ad hoc.
[24] Agnes Heller, Per una teoria marxista del valore,
Editori Riuniti, Roma 1974
[25] Cfr. il suo densissimo libro Natura e società,
Editori Riuniti, Roma 1973.
[26] Cfr. le due sue opere principali Sul materialismo e
in particolare la raccolta di saggi ed articoli Il rosso e il verde, in
cui si concentra sul nesso inscindibile tra la lotta “rossa” per il comunismo
con la battaglia “verde” ecologista. L’una non può esistere senza l’altra.
L’una fonda il presupposto dell’altra.
[27] Lenin ebbe a dire che il proletariato mondiale sarebbe
una potenza tra le potenze se solo prendesse coscienza di esserlo e di
organizzarsi teoricamente e politicamente a tal fine.
[28] Mario Tronti, “La logica del Capitale”, Società, 1961