◆ “Sarebbe
del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia
soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte,
questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi
avessero parte alcuna.” — Karl Marx, Lettera
a Ludwig Kugelmann, 17 aprile 1871
Andrea Girometti
La Comuna de París ✆ Lefman |
Marx e la politica. Sembrerebbe un binomio scontato. È in
effetti impensabile scindere il Marx “scienziato” – declinato in senso “forte”
come snodo di una pratica teorica che ha aperto alla conoscenza
scientifica il “Continente Storia” (Althusser 1977) – dal Marx “politico” (si
pensi solo al dirigente della I Internazionale) e quindi dalla stessa
dimensione politica intesa come “arena” in cui intervenire per mutare lo status
quo. Cos’altro sarebbe la lotta di classe se si limitasse ad una dimensione
meramente socio-economica senza diventare immediatamente politica?
Senza porsi il problema dei poteri e dei rapporti di potere e delle relative
configurazioni storicamente assunte? Senza intervenire nell’incontro/scontro di
forze che ripartiscono continuamente i confini di pubblico e privato? A ben
vedere equivarrebbe a pensare lo sfruttamento in termini meramente
contabili, dimenticando i rapporti di dipendenza in cui si articola,
la dimensione ideologica – mai sopprimibile – che li alimenta, la
necessità di (ri)produrre ed alimentare identità per quanto sempre contingenti
e dunque mai definitivamente date. Che il rapporto di Marx con la politica sia
stato lacunoso è un’ovvietà. Peraltro la natura dell’oggetto ci pare
costitutivamente inesauribile. Di certo pesa, in negativo, una lettura maggioritaria
– per quanto volgare non certo priva di ancoraggi, e successivamente letale per
un marxismo che si volle ortodosso – che ha ridotto la politica a mera
sovrastruttura. Un determinismo economico che nel tentativo di far luce nei
segreti (e mostruosi) laboratori della produzione – allora quasi esclusivamente
materiale –, avrebbe trascurato la dimensione politica, sia in termini
d’interrogazione sulla natura della macchina statale (e dunque sullo
Stato-nazione come luogo principe della politica moderna), sia
relativamente alla centralità delle dinamiche interstatali e le logiche di
dominio che le connotano e in tal senso sull’uso stesso del “mercato” da
parte degli attori statali come ha sottolineato Giovanni Arrighi soffermandosi
sugli errori marxiani (Arrighi 2010).